Il tennis secondo Matteo:
tra saggio, romanzo, diario e almanacco

“Vite brevi di tennisti eminenti” di Matteo Codignola

di / 16 aprile 2019

Copertina di Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola

Ho smesso di seguire il tennis il giorno in cui Gustavo Kuerten ha deciso di appendere la racchetta al chiodo. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi giocare: Roland Garros 1997. Sulla terra rossa di Parigi, Guga si aggiudicò da numero 66 del mondo – e appena ventunenne – il torneo più prestigioso del circuito al pari di Wimbledon. Credo che a farmi innamorare di Kuerten sia stata la sua flemma, l’aria perennemente rilassata e non molto sveglia, il cesto di capelli biondiccio, da fattone, la propensione alla sfiga e agli infortuni. Se fosse stato un calciatore brasiliano, certamente lo avrei odiato, ma da tennista era tutta un’altra storia, perché all’epoca si iniziava già a stravedere per Federer – Mister Perfezione, il compagno che in classe non ti fa mai copiare – mentre erano da tempo sulla cresta dell’onda l’insulso Sampras, con la sua faccia da commedia sentimentale americana, l’accidioso Tim Henman (detto “Timbledon” per… non aver mai vinto a casa propria?), l’insopportabile Hewitt e Andy Roddick, lui ideale protagonista per un “American Pie”. A salvarsi, soltanto la follia di Safin, Agassi e Ivanišević.

Se non ho mai conosciuto altri fan sfegatati di Kuerten, se il suo addio è passato tutto sommato in sordina, è perché Guga ha rappresentato tutto il contrario della retorica tanto cara agli appassionati di tennis e delle altre discipline, la stessa retorica che ha fatto le fortune dell’ormai onnipresente storytelling legato al mondo sportivo.

In questa retorica, Matteo Codignola sguazza con sapienza tra le storie di Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018). Dal baule di foto e aneddoti, volti e ricordi, l’autore riesce a estrarre una manciata di vicende di “tennisti eminenti” – come li chiama lui parafrasando Aubrey – davvero straordinarie. Come ci ricorda il Nostro, la difficoltà, in un’operazione di questo genere, è che «il gioco in sé non si lascia quasi raccontare», perché il tennis «si sottrae alla parole» (pag. 23).

E allora ecco che a innescare la narrazione, che spazia continuamente dalla digressione personale alla storia dello sport, è il ritrovamento in un mercatino di alcuni vecchi scatti che immortalano tennisti del passato nel vivo dell’azione. Si parte, per esempio, da Vic Seixas – sorridente nel suo tartan con racchetta sotto braccio – per passare poi a Van Alen e alla sua riforma del gioco.

In certi casi, i capitoli finiscono per risultare dispersivi, e il passaggio da una vicenda all’altra non sembra beneficiare dell’opportuna fluidità, risentendo, forse, di un gioco d’incastri che l’autore ha dovuto attuare in fase di stesura per far quadrare il proprio progetto di libro.

Con il procedere della lettura, il continuo passaggio di testimone e la sovrabbondanza di materiale finiscono per costringere i ritratti in due categorie di cui la letteratura sportiva ha ormai fatto largo abuso: quella del tennista “genio e sregolatezza” e quella del “maniaco della disciplina”.

A questi, si aggiungono, di tanto in tanto, alcuni scivoloni che non rendono merito a una narrazione complessivamente brillante. Un paio di esempi? Limitiamoci a una divagazione filosofica sul suono della palla (l’odore della carta no?) e a un aneddoto sul perfezionismo della casa editrice Adelphi (nuova questa!):

«Senza suono il tennis non esiste, in questo Torben ha sempre avuto ragione. Come andrà una partita si capisce dai palleggi di riscaldamento, dall’eco dei primi colpi, che cambia ogni giorno, o anche a ogni ora a seconda di un numero fastidiosamente alto di fattori; per capire se una volée sarà veramente corta, angolata, non raggiungibile dall’avversario, non serve guardare, basta il meraviglioso suono grattato delle corde, che si ottiene solo con una certa angolazione del piatto, e solo se quest’ultimo incontra la pallina nella frazione di secondo giusta; chi sia in campo, e come stia andando il match, lo si capisce anche solo avvicinandosi allo stadio, perché il tennis di ogni giocatore ha un suono inconfondibile» (pag. 42).

«Dovendo aspettare di essere ricevuto, passeggiavo avanti e indietro, e a forza di sfiorare la coppia, un brandello di conversazione alla volta ho capito a proposito di cosa uno dei due – quello alto – cercasse di rassicurare più o meno invano l’altro: no, insisteva, a pagina 368 delle Considerazioni di un impolitico – che di pagine ne conta 624 – non c’era assolutamente una riga larga» (pag. 18).

Ciononostante, così come spesso avviene quando si parla di “sport delle origini”, il lawn tennis raccontato da Codignola riporta alla luce episodi affascinanti e una stagione nella quale passione, dilettantismo e imprevisti di vario genere, tramutarono le prime generazioni di atleti in una sottospecie di carrozzone in costante movimento.

Tra le tante storie – memorabile il ritratto di Gottfried von Cramm, l’elegante gentiluomo che si esibì in una metaforica pernacchia a un certo Goebbels – ve ne è una che rimbalza ripetutamente tra i capitoli del libro, e che meriterebbe un romanzo o un saggio a parte. Il tennis, così come lo conosciamo adesso, è stato infatti per lunghi decenni una disciplina dilettantistica.

Paradossalmente, in uno degli sport più aristocratici che siano stati brevettati dall’essere umano, i soldi che circolavano non erano tantissimi, ci si contentava, tutt’al più, di un letto e della possibilità di viaggiare, come testimonia Dick Savitt in un’intervista del 1951: «La tournée in Europa mi è piaciuta molto, ho visto un sacco di posti senza cacciae un soldo. Non guadagniamo nulla, ma siamo spesati di tutto» (pag. 216).

Un’affermazione che probabilmente avrà fatto tenerezza a Jack Kramer, ex tennista e abilissimo impresario, inventore del tennis professionistico, un universo parallelo per instancabili globetrotter, “un piccolo inferno quotidiano” nel quale gli stessi atleti si potevano affrontare anche centinaia di volte nello stesso anno.

«Era un tennis solipsistico, notturno, anche cupo. Narcisistico, ossessionante, e sotto anche demoniaco. Si giocava per e contro se stessi in una galleria di specchi scuri, tentando di spostare il limite sempre più avanti» (pag. 238).

«Per un dilettante diventare professionista non era un processo indolore. Equivaleva a cambiare sport, passando da una stagione che aveva quattro picchi […] a una programmazione che prevedeva solo pause di spostamento; e da una legione di avversari quasi inesistenti per tutti i primi turni a una sola nemesi, fortissima» (pag. 232).

Pancho Gonzales, Tony Trabert, Lew Hoad, Ken Rosewall, Rod Laver. Furono moltissimi i campioni a cedere alle lusinghe più o meno aggressive di Kramer, che inseguiva i migliori del mondo «per i cinque continenti, suonando il campanello a ore indecorose, un contratto estremamente redditizio (per entrambi) in una mano, l’altra a introdurre il suo avvocato, con la copia da restituire firmata nella borsa» (pag. 98).

Ve li immaginereste, oggi, Djokovic e Nadal, accanirsi in una partita della durata di mesi, mentre il resto del circuito è impegnato a Wimbledon per disputarsi la coppa (e il rimborso spese del viaggio)? Forse no, e infatti, nel 1968, proprio Kramer fu uno degli artefici della fusione dei due mondi, dando vita a una versione del tennis più simile a quella dell’era contemporanea.

Questa è soltanto una delle molte – forse troppe – storie chiamate in causa dalle “vite eminenti” di Codignola. Per scoprire il resto, si rimanda alla lettura di quest’opera a cavalcioni tra saggio, romanzo, diario e almanacco.

Completa il libro una bibliografia essenziale nella quale viene finalmente citato Gianni Clerici, il cronista che, insieme all’uomo dei numeri Rino Tommasi, ha saputo raccontare il tennis meglio di chiunque altro in Italia. Per leggerezza, dovizia di particolari e autoironia, questo libro ricorda per certi versi le loro interminabili telecronache da Flushing Meadows o dal Centre Court, divenute ormai leggenda. Raccontare uno sport che sfugge alle parole, dopotutto, non è impresa affatto semplice.

 

(Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti, Adelphi, 2018, pp. 290, euro 22, articolo di Martin Hofer)
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LA CRITICA

Un po’ saggio, un altro po’ romanzo, un pizzico almanacco. L’operazione nostalgia di Matteo Codignola riporta alla luce una stagione tennistica mitologica e, di riflesso, diventa occasione per raccontare la passione e le piccole ossessioni di un malato della racchetta.

VOTO

6/10

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