La peste dentro di noi
Su “La peste” di Albert Camus
di Gaia Mutone / 16 marzo 2020
Quando più di settant’anni fa scrisse La peste (Bompiani, 2019), Albert Camus aveva in mente la guerra, il male oscuro che torna a ondate nella storia dell’uomo esigendo ogni volta il suo tributo. Aveva però in mente anche la rivolta, la risposta di chi di fronte alla crudeltà, ai vari “è sempre stato così”, “allora così si viveva e si ragionava”, ha il coraggio di prendere posizione, rimanere coerente con i propri ideali e agire nel mondo animato da un umanesimo davvero concreto.
Di rivolta Camus parlò molto nel corso di tutta la sua attività di uomo di cultura e anche La peste, che si colloca appunto nel suo ciclo della rivolta, ne porta i segni racchiudendo in una metafora la battaglia contro il male in tutte le sue forme: in primis quelle che alimentano il conformismo e i tornaconti personali a scapito dell’apertura solidale verso il prossimo.
Pubblicato nel 1947 con grande successo di lettori e di critica, La peste è ancora oggi un romanzo vivissimo che non ha bisogno di contingenze particolari per parlare al lettore perché, come fa la grande letteratura, riesce a raccontare l’uomo nel suo agire scomposto e contraddittorio tra istinto e razionalità. Questo racconto, necessario e terribile al tempo stesso, si unisce in Camus alla riflessione filosofica sulla parola e sul pensiero intesi come strumenti di conoscenza e di sopravvivenza in mezzo al caos.
Ma veniamo alla storia. Siamo nel 194* a Orano, una prefettura francese sulla costa algerina in cui si ama, si lavora, si fanno affari e la sera si esce a giocare alle carte le fortune accumulate durante il giorno. Una «città assolutamente moderna» in cui ci si annoia e «gli uomini e le donne si divorano in fretta oppure si impegnano in una lunga abitudine a due».
Dopo un’improvvisa invasione di topi, le persone iniziano a morire tra atroci sofferenze. Il trentacinquenne dottor Bernard Rieux, «un uomo stanco del mondo in cui viveva ma con un debole per i suoi simili», è il primo a dare un nome al flagello che si sta scatenando. Incredibilmente, al di fuori da ogni logica apparente, si tratta infatti di peste, una malattia che la sensibilità comune assocerebbe a lontani periodi della storia in cui si moriva in massa e non certo a epoche moderne frutto di tanti progressi.
Proprio lo scetticismo diventa il primo nemico contro cui combattere perché nessuno, neanche il comitato medico che si costituisce quando i morti aumentano, sembra voler prendere atto della situazione. È il destino dei flagelli, ci dice Camus: visto che non sono a misura di uomo, si pensa siano irreali o comunque dei brutti sogni fino a quando poi non ci piombano addosso, come le guerre o, appunto, le epidemie. Sembrano delle astrazioni fino a quando qualcuno non le chiama con le parole giuste («quando la chiamarono con il suo nome, la peste riguardò tutti»).
Rieux è colui che spezza l’omertà e ha il coraggio di pronunciare quelle parole. È un atto di rivolta che sgorga dalla conoscenza e dal linguaggio. A questo atto segue la ricerca di senso e di motivazione: cosa fare in una situazione che riguarda tutti e in cui è necessario lottare? Per il dottore la risposta è concreta, e lo è anche per Camus. che infatti la introduce così, con un rumore che sa di operosità, di “fare con le mani”: «Da un’officina poco lontano giungeva lo stridio breve e ripetuto di una sega meccanica. Rieux trasalì. Ecco dov’era la certezza, nel lavoro di tutti i giorni. Il resto era appeso a fili e movimenti insignificanti, su cui era inutile soffermarsi. L’essenziale era fare bene il proprio lavoro».
Fare il proprio lavoro, fare la propria parte. L’antidoto contro il male è restare lucidi, aggrapparsi a ciò che si conosce, cercare altre risposte nel caso quelle vecchie non bastino o si rivelino insufficienti e inefficaci. Guardarsi intorno, guardare gli altri. Aprirsi per non subire, prendere tutte le precauzioni per non farsi cogliere impreparati.
Rieux incontra umanità diverse nel corso della sua lotta tra le corsie, mentre incide bubboni, sperimenta sieri e vede morire bambini. Ognuna è emblematica di un modo di reagire. C’è il giornalista Raymond Rambert che trovatosi in trappola quando vengono chiuse le porte della città e inizia l’isolamento cercherà di scappare in tutti i modi per tornare dalla propria amata. Una figura che per il riscatto tardivo venne accostata a Sartre, ex amico ormai rivale di Camus, e che nel romanzo mette in discussione l’operato di Rieux con un discorso sulla ricerca della felicità opposta all’astrazione, dimensione in cui secondo lui indulge il medico.
«Lei vive nell’astrazione», gli dice Rambert, per questo non concepisce chi vuole scappare. Sì, gli risponde il dottore, nella tragedia c’è una parte di astrazione, ma quando l’astrazione inizia a uccidere bisogna occuparsene e occuparsene non è la scelta più facile. «Erano astrazione quelle giornate passate all’ospedale dove la peste infieriva portando a cinquecento la cifra media di vittime settimanali?». No, anche perché l’uomo, come obietterà in seguito il dottore, non è un’idea. È concretezza, amore, desiderio ma anche onestà, e onestà vuol dire (di nuovo) fare il proprio lavoro per lottare contro la peste e, in senso più ampio, contro il male.
All’opposto c’è Cottard, che dopo un tentativo di suicidio andato male trova un nuovo equilibrio diventando un rentier, uno che campa della rendita accumulata con affari poco chiari e con i beni venduti al mercato nero. Emblema di tutti quelli che il flagello non lo combattono ma lo sfruttano a proprio favore. Troviamo poi Joseph Grand, un impiegato comunale che mentre tenta di scrivere il suo primo romanzo si impegna nelle squadre di volontari organizzate da Rieux. Stessa cosa fa Jean Tarrou, anche lui uno straniero a Orano. Uno straniero che però, al contrario di Rambert, diventa testimone annotando sui suoi taccuini la cronaca dell’epidemia.
A lui è affidata un’altra riflessione chiave del romanzo, la spiegazione di una vera e propria visione filosofica che chiude il cerchio unendo tragedia, lotta, speranza, pensiero e linguaggio e che illumina il sentiero su cui gli uomini giusti si muovono in ogni epoca storica. «So per certo che ciascuno la porta in sé, la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, in un attimo di distrazione, di respirare in faccia a un altro e di passargli l’infezione. […] L’uomo giusto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che si distrae il meno possibile».
E allora, ci invita Camus, sforziamoci di non distrarci e di fare ognuno la nostra parte. Iniziando magari dalle parole, dal linguaggio chiaro e trasparente. Per mettere all’angolo il flagello e raccontare davvero il mondo. Soprattutto in tempi bui.
(Albert Camus, La peste, Bompiani, 2019, trad. di Yasmina Mélaouah, 336 pp., euro 13, articolo di Gaia Mutone)
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