“Malacrianza” di Giovanni Greco

di / 2 maggio 2012

Un senso di malessere che prende allo stomaco e che sale a ogni pagina, e la voglia. La voglia di andare a stanare i fatti nel punto in cui tutto si inceppa, la luce si spegne e viene svelato lo scandalo di una verità indicibile e inascoltabile. È lì che si annida la violenza, intrisa della smemoratezza di qualsiasi dignità umana. Storie di un’infanzia tradita e senza diritti che si intrecciano confondendo volti, volti innocenti, volti violati, che non hanno più lacrime da versare, volti violenti, spudorati, affamati, volti perduti per i quali il domani non è diverso da ieri.
Malacrianza, romanzo d’esordio dell’attore, regista teatrale, poeta e ora anche narratore Giovanni Greco, Premio Calvino 2011 e finalista al Premio Strega 2012, non è una lettura rilassante. Fa di tutto per mettere a disagio il lettore. E lo fa assumendo, nella prima parte, una prospettiva distaccata e priva di pietismo con la terza persona; nella parte centrale quella interna dei piccoli protagonisti, utilizzando la prima persona, per poi passare al tu nell’ultima parte: «Hai ricordato il futuro, per un attimo. Il bruco che si ricorda della farfalla. E poi hai dimenticato il futuro perché quello che non si ricorda è quello che si è». Il futuro è l’inevitabile destino di morte. Dimenticare qualcosa che non è ancora accaduto è indispensabile per poter vivere anche una vita piena di sbagli. «Che cosa stai facendo?» è la domanda ossessiva che ritorna in corsivo in quasi tutte le storie, atto di accusa di un mondo adulto che con le sue regole dispensa solo divieti.
Mala creanza è la cattiva educazione, ma criança in portoghese è la creatura, il bambino che ha finito per assumere l’accezione dispregiativa di “bambino di strada”, “bambino cattivo”. La creanza è nel dialetto napoletano pure lo scarto, il rimasuglio di cibo lasciato nel piatto dal bambino inappetente, che il genitore impone di finire. Si va così dalle ripicche domestiche alle violenze più atroci come lingue tagliate, elettroshock, poliziotti brasiliani che uccidono il piccolo delinquente all’ordine di «Acaba com a crianza», «Finisci la creatura». Questo caleidoscopio di significati attraversa tutta la complessa architettura costruita dall’autore. Frammenti di vite che si rincorrono, si spezzano e si ricongiungono, sfumando identità e confondendo il lettore, inducendolo a dubitare sulle sue stesse capacità di distinguere i vari personaggi. In fondo il protagonista di queste storie è uno solo, un unico corpicino dolente, immagine universale di un’infanzia maltrattata, calpestata, mutilata e venduta.
Malacrianza è un viaggio allucinante in un inferno dantesco geograficamente sconfinato che abbraccia tutta la terra, dalle favelas sudamericane alle fogne dei paesi dell’est, dal nostro meridione al Medio Oriente. Inutile affidarsi alla ragione. Non c’è niente di ragionevole, né Greco dà al lettore il conforto di un Virgilio. Si dice di una realtà che è solo violenza, prevaricazione, annientamento, paura, fame e povertà. Un’atmosfera dickensiana aggiornata drammaticamente all’oggi. A differenza del grande cantore dei bassifondi londinesi qui non c’è redenzione, non c’è riscatto come anche in grandi scrittori come Dostoevskij o Victor Hugo. Malacrianza è erede di un delitto senza castigo come Il processo di Kafka. I bambini sono vittime di soprusi ma non sanno il perché né si autocommiserano. Non conoscono il male tanto da confonderlo in un bisticcio linguistico con l’immagine ben più rassicurante del mare: «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal mare… per anni aveva pregato così, di liberazioni dal mare: vedeva le onde, le barche, ci metteva delle nuvole e del vento per spaventarsi un po’ di più, perché a lui in realtà il mare piaceva, qualche lampo e qualche tuono per rendere tutto più minaccioso, ma proprio non capiva perché tra le tante cose importanti da chiedere a dio ci dovesse stare pure la liberazione dal mare – lui nuotava bene e tutti quelli che conosceva, pure, e si divertiva al mare».
Sono proprio tali storpiature linguistiche e grammaticali a sdrammatizzare le scene più efferate. Questi bambini in fondo conservano l’innocenza proverbiale della loro età. Non c’è però salvezza. Anche l’anjo de guarda, quando c’è, non è che uno dei tanti sfruttatori di questa infanzia tradita.

(Giovanni Greco, Malacrianza, Nutrimenti 2012, p. 268, euro 18)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio