“Underwater Sunshine” dei Counting Crows
di Simone Schezzini / 29 settembre 2012
«Ogni giorno viene creata tanta buona musica, ma molte persone non hanno la possibilità di sentirne la maggior parte», (Adam Duritz, frontman dei Counting Crows).
Dopo Saturday Nights and Sundays Mornings del 2008, forse la loro migliore opera dai tempi del celebrato debutto di August and Everything After del 1993, torna sulla scena discografica la band californiana dei Counting Crows (da quella live non se ne è mai andata, continuando in questi anni a esibirsi in ogni parte degli Stati Uniti). Lo fa scegliendo di pubblicare un album di cover come primo lavoro per un’etichetta indipendente (Duritz e soci hanno infatti abbandonato la Geffen, già casa discografica di Nirvana e Guns N’Roses ).
Le canzoni scelte appartengono a vecchie e nuove band, spaziano dai primi anni ’60 fino al 2012: alcune già pubblicate per delle major, altre per indies, altre ancora semplicemente sono state suonate, in passato, solo perché potessero ascoltarle degli amici. Si tratta di una scelta ben precisa afferma Duritz: «Qualcosa che avremmo sempre voluto fare senza mai averne il tempo. Non c’è stata strategia nello scegliere le cover. È musica che amiamo. Ho chiesto agli altri di portare delle canzoni. Le abbiamo provate e alcune sono venute male, altre subito bene». Come benissimo erano venute del resto anche “Big Yellow Taxi” di Joni Mitchell e “Friend of the Devil” dei Grateful Dead pubblicate entrambe nella raccolta Films about Ghosts del 2004. Pur essendo uno stimatissimo autore di testi, Duritz si diverte spesso infatti a rendere omaggio alla musica degli artisti che più ama. E sebbene la grandezza della band risieda soprattutto nella profondità e tristezza dei suoi testi («Ho passato venti anni a mettermi a nudo, mettendo in piazza la mia vita e mettendo sempre le mie budella nel piatto») e nelle musiche di volta in volta struggenti, spensierate, arrabbiate create dai suoi compagni di viaggio Vickrey, Immergluck, Ghillingham e Bryson, il gruppo, anche quando si cimenta in brani altrui, ha la capacità di farli propri, di impossessarsene rendendoli in tutto e per tutto “very Counting Crows”.
E questo non poteva non accadere anche in Underwater Sunshine (or What We Did on Our Summer Vacation) se non altro perché alcune canzoni (“Mercy”, “Four White Stallions” e “Jumping Jesus”) in realtà, sono delle “auto-cover” in quanto fanno parte del repertorio di band (Tender Mercies e Sordid Humor) nelle quali hanno militato o militano tuttora alcuni dei membri del gruppo. In generale, comunque, nel disco ci sono brani e artisti poco noti (Romany Rye, Coby Brown, Firport Convention, Dawes, per citarne alcuni) e anche laddove ci si trovi dinanzi a grandi nomi (Bob Dylan, Byrds e Gram Parsons) sono state scelte canzoni semisconosciute, come spiega Duritz in un’intervista: «Poiché la tendenza nel far cover è sempre quella di rendere omaggio a gemme poco conosciute». Operazione assolutamente riuscita. Si tratta infatti di un bel disco, allegro, ben suonato, di quelli che se ti trovi in auto ti viene voglia di iniziare un lungo viaggio fin quando non echeggiano le ultime note. E questo grazie al feeling che si respira fra i ragazzi, appiccicati (per usare le stesse parole del cantante), in un piccolo studio suonando live insieme, per poco più di una settimana, la musica che più amano. In tutto e per tutto un tipico e grande album dei Counting Crows.
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