“Il nostro uomo sul campo” di Robert Perišić
di Ruzica Babic / 18 dicembre 2012
«Semplicemente il tempo scade. E ci siamo ripromessi tante cose. Siamo impazienti. Nervosi. Accelerati. Le pubblicità di come dovrebbe essere la nostra vita ci vengono buttate in faccia come un drappo rosso in questa corrida convulsa. Annaspiamo. Prendiamo una nuova rincorsa. Beviamo la Red Bull che ci mette le ali. Siamo una generazione così».
Robert Perišić è indubbiamente una delle voci più chiare e importanti apparse sulla scena letteraria croata negli ultimi vent’anni. Ideatore della rivista letteraria Godine nove, critico e giornalista per diverse riviste croate, oltre che sceneggiatore, Perišić inizia scrivendo poesie, per passare poi alla narrativa; alcuni suoi racconti inizialmente vengono pubblicati su varie riviste, e nel 1999 esce la sua prima raccolta: Možeš pljunuti onog tko te bude pitao za nas (Puoi sputare a chi ti chiederà di noi). Nel 2007 pubblica Il nostro uomo sul campo, romanzo acclamato dalla critica, che gli vale il premio Jutarnji list.
Si potrebbe parlare di un romanzo impegnato, perché l’autore ha applicato uno sguardo critico su tutta una serie di problemi sociali comuni ai paesi in transizione. Tale approccio, del resto, rispecchia un impegno più ampio di Perišić, che cattura nella sua scrittura i movimenti sociali, anche quelli quotidiani, impercettibili, e politici “sul campo”. Il romanzo è però allo stesso tempo la storia personale di un individuo la cui vita viene pian piano destrutturata, disintegrata.
La guerra – un motivo di cui, a quanto pare, gli scrittori croati, come anche molti registi, non riescono proprio a liberarsi – nel romanzo di Perišić funge soltanto da cornice. Non si tratta però della guerra in ex Jugoslavia, ma di una guerra lontana e piuttosto astratta per i lettori croati: quella in Iraq.
Il protagonista, Tin, ex studente di economia, un rockettaro sulla soglia dei trent’anni, nel quale si potrebbe riconoscere tutta una generazione che visse i turbulenti anni ’80 in ex Jugoslavia, lavora come redattore della rivista Objektiv, un ambiente costellato di giornalisti opportunisti, una modella fallita, un imbroglione ambizioso, in cui Tin non si trova a suo agio e la cui ideologia non condivide. Pure continuando a sentirsi un disadattato, si costruisce pian piano una quotidianità a Zagabria.Quando un giorno gli si presenta il cugino Boris, ex studente di arabo e reduce dalla guerra in cerca di un lavoro, Tin decide di proporgli un posto come inviato dall’Iraq, pur rendendosi conto che il suo vissuto ha lasciato segni indelebili in Boris: «Il volto flemmatico, poche parole, lo sguardo perso».
Sin dalle prime pagine del romanzo, la quotidianità di Tin, che scorre tra le giornate in redazione, la vita che condivide con la ragazza Sanja, attrice, e con il suo miglior amico, ex darkettone, Markatović, si alterna con dei reportage che Tin riceve da Boris via email, ritenuti da una grossa fetta della critica croata la parte più riuscita del romanzo.
Le mail del cugino però sono inutili per il giornale, e per renderle accettabili dal suo capo Tin le edita, nascondendo che l’autore è un suo parente: piuttosto che dei veri reportage di guerra, si tratta di confuse cronache, psichedeliche riflessioni caotiche che riportano notizie dei bombardamenti in Iraq, e si confondono spesso con le reminiscenze dell’esperienza bellica dello stesso Boris. Dopo che Tin ha cercato invano di convincerlo a tornare, un giorno i suoi reportage smettono di arrivare. Tartassato dalle chiamate della zia preoccupata per il figlio, e poi dal suo capo che viene a scoprire la verità, Tin dovrà affrontare la nuova situazione e il lettore assisterà a un lento ma inesorabile disintegrarsi dei punti saldi nella vita del protagonista, che trova eco anche nel cambio della sintassi, del registo e dello stile del testo.
Perišić, adottando una scrittura concisa, umoristica, fatta di frasi brevi e a tratti ironiche ma anche amare e pungenti, cattura il peggio dei fenomeni della quotidianità croata, fa i conti con una società che subisce ancora i danni morali della guerra ma che ha tanta voglia di trovare un equilibrio e andare avanti sulle proprie gambe. Scrive di un paese comandato fortemente dai media e dai vecchi e nuovi modi di pensare – ugualmente pericolosi e poco coerenti –, un paese popolato da gente senza scrupoli e ideali, da persone che riescono a costruirsi una carriera in fretta, sventolando nuove bandiere e nascondendo vecchie tessere di partito. Un paese che ce la farebbe comunque, perché di teste nuove e critiche ce ne sono, se solo non fosse bloccato in un mare di stereotipi e guidato da persone poco carismatiche e disoneste.
La nuova generazione, alla quale appartiene anche l’autore, è amareggiatae ironica, schiacciata dalle innumerevoli possibilità di scelta, ma riesce comunque a trovare nella realtà attuale una fonte di ispirazione, e di ribellione costruttiva, che lascia il posto a un barlume di speranza.
(Robert Perišić, Il nostro uomo sul campo, trad. di Elvira Mujcic, Zandonai, 2012, pp. 339, euro 16)
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