Fiancheggiatore
di Antonio Antonelli / 16 febbraio 2013
Avv. Alberto T.
Studio Legale H&W
324 Avenue Luoise
Bruxelles
Ricordi Alessandro e Nicoletta? Dopo la maturità sono andati a vivere insieme, e hanno avuto una bambina, Agazia, che adesso ha cinque anni. Ci si vedeva ogni tanto, da loro, di sera, con Franchetti, Sebastiano, Biggi, Laura, e altri compagni che forse non hai neppure conosciuto. Si discuteva animatamente, delle storture del capitalismo, e dell’Italia, un paese iniquo, corrotto, tenuto sotto scacco dalla strategia della tensione che non esita a sparare nel mucchio, vedi piazza Fontana e treno Italicus, solo per citare gli episodi più clamorosi. Ce ne andavamo a notte inoltrata, attenti a non svegliare Agazia.
Poi Ale e Nico si sono lasciati, e le riunioni cessarono,e non solo a causa loro.
Era successo che, d’improvviso, come fiorite dal niente, avevano preso a circolare parole d’ordine quali: «Questo stato non merita niente», «Nuova resistenza», e simili, dapprima accennate, poi sussurrate, infine pronunciate esplicitamente.
Fu allora che ci accorgemmo che, quasi a nostra insaputa, le nostre disquisizioni teoriche e la realtà si erano incamminate a grandi passi le une verso l’altra, e adesso le separava solo il sottile crinale del passaggio alla clandestinità e alla lotta armata. Quel confine correva ormai a ridosso delle nostre giornate, delle nostre esistenze, ed esigeva una scelta: se oltrepassarlo o no. Eravamo giunti sull’orlo di decisioni laceranti, senza ritorno, che ciascuno doveva affrontare da solo, nessuna discussione collettiva poteva aiutarlo.
Il problema, con un Pci risucchiato al centro a far da ruota di scorta alla Dc inseguendo la chimera del compromesso storico, era se dover ammettere che l’unico modo per cambiare lo status quo fosse l’insurrezione violenta, oppure esistessero margini di praticabilità del sentiero della democrazia parlamentare, con tutte le sue pecche e lentezze: insomma, la scelta fondamentale che s’imponeva era se stare ideologicamente (e non solo) con lo Stato o con le Brigate Rosse o con nessuno dei due, il che, oltre la sua apparente neutralità, costituiva già di per sé una scelta contro lo Stato.
Incombeva la stagione della conta, come l’aveva definita qualcuno, e, se ti si affacciava alla memoria, dovevi ricacciare il ricordo di quando, ragazzi, ci distribuivamo tra due squadrette che si sarebbero affrontate, a calcio o a rubabandiera: s’annunciava il momento in cui il credo e la militanza che ci avevano uniti per anni non sarebbero bastati a tenerci ancora insieme, e alcuni di noi avrebbero fatalmente voltato le spalle agli altri, non certo per schierarsi in formazioni contrapposte in un gioco.
A quel tornante volevamo sottrarci, tutti, per tentare di conservare il ricordo dell’amicizia, almeno quello, nei tempi che ci si paravano davanti e che già sapevamo inevitabilmente avari, da qualunque parte della barricata li avessimo vissuti.
E perciò non restava che prevenirla la cruna dell’ago dell’io di qua e tu di là, separarci finché eravamo in tempo, prima che certe differenze ancora vaghe che si respiravano nel gruppo si cristallizzassero in nette linee divisorie, almeno così ci saremmo risparmiati il cruccio di guardare da vicino la cruda realtà che stava irrompendo.
Caro Alberto, perdona questo incipit aggressivo, d’impeto.
Ho lasciato trascorrere più di due mesi e mezzo per rispondere ai tuoi auguri di natale, ogni giorno non era quello giusto, forse lo sarebbe stato l’indomani, finché ho compreso che la mia era nient’altro che una tattica dilatoria, un tergiversare per rimuovere la gran fatica psicologica di confrontarmi con quanto mi accingevo a raccontarti. Sono passati, volati, dieci anni da quel torrido luglio ’67 della maturità, quando, dopo un intero liceo culo e camicia, come ci sfottevano a scuola, ci dividemmo sul Pci: tu, continuista, favorevole a restare, io e altri compagni propensi a respirare aria nuova, i fermenti che si respiravano all’esterno, in quella movimentata area di sinistra che non trovava voce nel partito. Dieci anni di silenzio. E ora, il piacere di ritrovarti, le congratulazioni per il successo professionale conseguito – promettente giovane avvocato in uno studio internazionale (io, se può interessarti, faccio il supplente di italiano nelle scuole medie). Insomma la scaletta di una lettera ordinata come comanderebbe la buona creanza epistolare, hanno ceduto il campo a ciò che mi strappava dentro, e ho buttato giù di getto queste righe, cercando di narrarti per sommi capi quanto avvenuto nel gruppo, il suo disgregarsi al cospetto di scelte ideologiche e politiche radicali.
Nel ’68 predicavamo l’immaginazione al potere, era uno degli slogan più gettonati, mutuati dal maggio francese. Ma il potere non rinuncia facilmente alle leve di comando. E nella migrazione verso la realtà l’immaginazione si è impigliata alla frontiera del terrorismo, segnata da troppe lapidi.
I nostri sogni di cambiare il mondo con una incruenta, sorridente rivoluzione sono degenerati nell’incubo giornaliero che viviamo, in questo cupo bollettino di morte stilato con diligente dedizione da alcuni che allora ci affiancarono nelle proteste studentesche e nelle assemblee all’aperto, a Piazza della Minerva e a Valle Giulia. Una scia di sangue e di lutti, di donne in vestaglia piegate sui mariti ammazzati sotto casa mentre andavano al lavoro.
Operai, magistrati, impiegati, forze dell’ordine dei gradi più bassi. Molti di loro emigrati al nord in cerca di una vita migliore che stavano duramente conquistando. Tutte persone che, in teoria, dovevano essere in cima ai pensieri di coloro che li hanno uccisi.
Credo sarà impossibile organizzare la rimpatriata a cui tieni, la prossima estate, quando tornerai per le vacanze: per mancanza di materiale umano, visto che con i compagni di un tempo non ho più contatti, e alcuni di loro si sono resi latitanti; e soprattutto perché non esistono le condizioni, lo stato d’animo, per una serata in pizzeria, come ai tempi del liceo. Ti abbraccio. Paolo
Roma, 15 marzo 1978
P.S.: Dovevo solo chiuderla, questa lettera, e spedirla l’indomani. E l’indomani invece è accaduto quel che sappiamo, il sequestro di Moro. Sul momento, s’era diffusa la voce che fosse stato ucciso o gravemente ferito, durante le fasi concitate del rapimento. Solo dopo un po’ si è appreso che era illeso.
L’audacia inaudita dell’attacco al cuore dello Stato; l’immagine crudele dei corpi dei cinque agenti di scorta, trucidati, pietosamente coperti coi lenzuoli; la voce del giornalista televisivo spezzata dall’emozione; il paese smarrito, incredulo, inghiottito in un precipizio di buio: giovedì 16 marzo ’78 è una di quelle date che la storia strappa dal monotono susseguirsi di un calendario, per scolpirle nella memoria individuale e collettiva.
Certo, Br e lotta armata esistevano anche prima. Ma il 16 marzo hanno fatto irruzione nelle nostre coscienze, costringono molti di noi a misurarsi con i propri silenzi e l’omertà, la comprensione, quando non l’indulgenza, verso i compagni che sbagliano, ai quali spesso ci accomuna lo stesso album di famiglia.
Io nella lotta armata non sono entrato. Ma non ne ho mai preso chiaramente le distanze, ne sono stato un fiancheggiatore morale, e questo ha segnato la mia gioventù, pubblica e privata.
24 marzo 1978
* * *
Qualche giorno dopo, una scarna notizia in cronaca riferiva della morte di Paolo G., insegnante trentenne, suicidatosi con il gas del motore all’interno della propria utilitaria, parcheggiata in periferia. Le ragioni del tragico gesto non erano chiarite.
Prima di salire a bordo dell’auto Paolo imbucò la lettera per Alberto, che pochi anni fa, nel riordinare le carte di studio, l’ha ritrovata e donata a una biblioteca di storia contemporanea.
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