“Il lungo addio” di Raymond Chandler
di Alfonso Santagata / 23 febbraio 2013
Che differenza c’è tra un libro, o un film, noir e uno poliziesco? Per rispondere a questa domanda può essere utile leggere Il lungo addio, romanzo dello scrittore americano Raymond Chandler pubblicato nel 1953. Il protagonista è l’ispettore privato Philip Marlowe, presente anche in altri sette romanzi dello scrittore nato a Chicago, più un racconto e un romanzo incompleto.
Una sera, per caso, Philip Marlowe si imbatte in Terry Lennox, completamente ubriaco fuori da un locale. Terry è sposato con Sylvia Potter, figlia del ricchissimo Harlan. Quello tra i due non è un matrimonio d’amore. Lui è soprattutto una facciata per nascondere i numerosi amanti della moglie. Fino a quando Sylvia viene uccisa e Terry fugge in Messico, grazie anche all’aiuto di Marlowe. Ma quella oltre confine non è certo una vacanza per Terry che infatti viene trovato morto con accanto una lettera in cui confessa l’omicidio della moglie. Passano pochi giorni e Philip Marlowe viene ingaggiato per risolvere un caso di sparizione: un famoso scrittore, Roger Wade, con il vizio del bere che gli provoca scatti di violenza, sono diversi giorni che non torna a casa dalla bellissima moglie Eileen. Si scoprirà che i due casi non sono altro che la doppia faccia di una stessa luna.
Per introdurre il personaggio di Marlowe, e rispondere in parte alla domanda iniziale, bastano poche parole pronunciate dallo stesse detective: «Sono un lupo solitario, non ho moglie, sto arrivando alla quarantina e non sono ricco. Mi hanno messo dentro più di una volta. Mi piacciono i liquori, le donne e il gioco degli schacchi e alcune altre cose. I poliziotti non mi hanno eccessivamente in simpatia […]. Una volta o l’altra mi faranno la pele in qualche vicolo scuro […]. Nessun uomo o nessuna donna se ne dispereranno».
Il genere poliziesco è nella maggior parte dei casi una detective-story dove un investigatore privato o un federale cerca di risolvere un caso. La ricerca del colpevole è parallela a una ricerca dentro se stesso. Si tratta di libri, o film, dove la soluzione del caso ha comunque un’importanza tale da far passare in secondo piano tutti gli altri sviluppi della storia, a partire da quelli emotivi e psicologici.
Dopo la seconda guerra mondiale si diffonde il genere noir che approfondisce la ricerca esistenziale del protagonista. E le risposte che i personaggi trovano alle loro domande sono cupe, negative. Il detective è solo. Si sente solo. Frequenta un brutto giro di amicizie e i bassifondi cittadini. Le ambientazioni sono notturne, la donna diventa una dark-lady. Il mondo è tutto sbagliato. Poliziotti maneschi. Il matrimonio che è solo una facciata per coprire violenze e ninfomanie. I soldi sono unti come il potere e la grande industria. L’uomo si sente come gettato nel mondo, ha perso l’essere e quel che gli rimane è l’esistenza. Nel noir la risoluzione del caso perde di importanza rispetto al giallo, in favore dello sviluppo esistenziale del racconto.
Il poliziesco classico con la risoluzione del crimine è consolatore, riporta le cose a un perfetto stato iniziale. I buoni hanno vinto. I cattivi sono in prigione. Nel noir anche quando il colpevole muore o è assicurato alla giustizia, il lettore è portato a riflettere su quanto la società sia inquinata. E su quanto sia labile la differenza tra buoni e cattivi.
Come spiega Philip Marlowe «Gli uomini politici sono disonesti […]. Il delitto non è una malattia, è un sintomo. I poliziotti sono come il medico che ti prescrive un’aspirina quando sei affetto da un tumore al cervello, a parte il fatto che i poliziotti te lo curerebbero col mangaello […]. La malavita organizzata non è altro che l’aspetto più sudicio del potere d’acquisto del dollaro». E quando un poliziotto gli domanda qual è l’aspetto più pulito, Marlowe risponde: «Non l’ho mai visto».
(Raymond Chandler, Il lungo addio, trad. di Bruno Oddera, Feltrinelli, 2010, pp.313, euro 8)
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