Questione di razza
di Davide Bevilacqua / 4 aprile 2013
Era vedova da tanti anni la signora Canegazzi e da quando il marito era morto girava sempre con un cagnoletto appresso, sua ultima consolazione. Senza non la potevi proprio pensare, come non potevi pensarla senza i capelli tinti gonfi di lacca a criniera di leone o gli ombretti brillantinati color cielo azzurro a primavera o al rossetto rossiccio slavato e sempre sbaffato. Era una signora molto chiacchierona, come di solito le persone sole, specie quando sono costrette a cibarsi ore e ore di televisione davanti a quella lì che c’ha la voce da uomo e che è comprensiva e bonaria con tutto e tutti che nemmeno il più santo dei santi. Adesso era qualche giorno che la signora aveva cominciato a girare per la strada con il cagnoletto nuovo che quello che c’aveva prima erano un paio di mesi che era morto: «Porello, j’ha stirato le zampe», rispondeva se le chiedevi che fine aveva fatto.
Più che un cane però, questo nuovo, pareva un topo per quanto era piccolo; e a dire il vero del topo c’aveva il pelo, che era cortissimo e liscio quasi da sembrare pelato, ma invece che grigio era nero brillante. In più era pure secco: gli si contavano tutte le costole e aveva gli occhi a palla che gli uscivano fuori dalle orbite. Sembrava che lo avessero sfoderato come si fa con i cuscini, lavato la pelle a 90 gradi in lavatrice, e che quando erano andati a rivestirlo non gli entrava più per via che gli si era ritirata. La cosa più impressionante però era la coda: lunga e tozza che di dietro al culo gli andava a penzoloni. Diceva la signora che questa era una vera e propria bestia rara che ce ne stavano poche al mondo perché l’avevano appena inventato dopo una selezione durata non si sa quanti anni, una roba da far impallidire pure un nazista. Era per questo che il suo cagnoletto era venuto fuori dieci volte più furbo di una volpe, veloce come un ghepardo e con l’occhio di lince che vedeva una pulce a trecento metri. Non solo, perché per andare incontro alle esigenze di spazio della vita moderna, oppure alle signore che se lo vogliono comodamente portare nella borsetta senza farsi venire la scoliosi, lo avevano fatto che pesava nemmeno un chilo. Insomma, era questione di razza, niente a che spartire, con tutto il rispetto, coi bastardacci di prima, pace all’anima loro.
Quando passava per la strada con quel coso dietro tutti si fermavano a guardarlo. Così quel cagnoletto, tra la gente del circondario, era diventato famoso che nemmeno i personaggi della televisione. I ragazzini andavano pure a suonargli a casa, alla signora, mica al cane, per vederlo e accarezzarlo. Era capitato addirittura che qualcuno gli aveva portato un qualche pupazzetto come giocattolo, di quelli che si muovono a batteria, per farlo divertire a corrergli dietro, ma lui li aveva sbranati tutti, talmente era selvaggio. Ad avvicinarlo non ce la facevi mica e se solo ci provavi cominciava a guardarti storto da lontano. Subito dopo arricciava il muso per mostrarti i denti e immobile come una statua di cera cominciava a ringhiare con un respiro profondo e lungo che pure se era piccolo ti metteva proprio paura.
Il fattaccio avvenne un giorno in cui la signora andò a trovare i suoi amici Pennacchioni. Era la prima volta da quando aveva il cane nuovo che andava a fargli visita e non era nemmeno entrata nella casa che già il cane si era precipitato a esplorare tutte le stanze. Prima le aveva guardate sommariamente una a una e poi, con incedere guardingo ma deciso, si era messo a esplorarle a fondo, infilandosi in tutti gli anfratti che trovava. Per un po’ i padroni di casa lo avevano seguito dicendo scherzosamente: «Fai pure come se fossi a casa tua», poi lo avevano lasciato tranquillamente a curiosare. Passato del tempo e non vedendolo più girare impegnato, i presenti si cominciarono a chiedere dove fosse finito. La signora provò a chiamarlo, ma all’appello pareva non aver proprio voglia di rispondere. Il signor Pennacchioni allora cominciò ad aggirarsi per la casa tirando fuori tutto il suo repertorio di versi e formule di richiamo per gli animali, dal «micio micio», pure se era un cane, al «qui bello», sorvolando solo sul «pio pio», ma del cane nemmeno l’ombra; fino a che, da dietro la porta socchiusa del ripostiglio, non sentì venire un sottilissimo mugugno. Spalancata la porta e guardato sotto uno scaffale si trovò di fronte a un’amara scoperta: il cane era rimasto attaccato alla colla topicida che i signori Pennacchioni usavano da sempre per combattere i topi. L’adesivo era stato spalmato su di una tavoletta di legno e il cane, poveraccio, era rimasto incollato tutto di un fianco fino all’orecchio compreso. Non appena la signora vide la sua bestiola immobile su quel pezzo di legno che sembrava un trofeo impagliato cominciò a piangere che pareva una fontana. Per staccarlo di lì sopra ci volle la mano di Dio e un bel paio di orecchi perché più il cane guaiva da una parte più la signora strillava dall’altra.
Per un mesetto almeno si portò dietro i segni del pelo strappato e quando per strada la gente le chiedeva che cosa avesse fatto, rispondeva: «Ma che non ce lo sapete che i cani de razza so’ difettosi!»
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