“Testa di cane” di Jean Dutourd
di Sara Pietrafesa / 15 aprile 2013
Edmond Du Chaillu ha una testa di cane. Per il resto, la sua vita è piuttosto normale, a tratti anche fortunata. Certo di angherie ne subisce, nemmeno troppe però. Certo le persone fanno fatica ad accettarlo, ma non più di tanto in fondo. Edmond Du Chaillu ha la testa di uno spaniel e il corpo di un uomo e, sebbene con qualche intoppo, questo non gli impedisce di studiare, lavorare, andare a letto con belle donne borghesi, discutere di affari e politica fumando sigari, assumere domestici e finanche comprarsi un cane.
La storia comincia con lo sgomento di Madame e Monsieur Du Chaillu che hanno appena dato alla luce un neonato con una testa di cucciolo dai peli bianchi e gialli. L’infanzia e l’adolescenza del protagonista sono regolari, per quanto possibile, e costellate dai tentativi dei genitori di estirpare dal loro erede ogni presunto sintomo della sua natura animalesca. Dopo l’imbarazzo e l’aggressività iniziali, Edmond riesce addirittura a integrarsi tra i suoi compagni di scuola e anche durante il servizio militare dà prova di sapersela cavare. Successivamente, l’uomo-spaniel riesce a conseguire ben due lauree. Trovare lavoro è più complicato poiché quasi tutti gli impieghi degni dei titoli di Du Chaillu prevedono un assiduo quanto problematico contatto con il pubblico. Riesce anche in quello, fino a raggiungere la ricchezza. S’innamora di una donna volgare e ingrata e poi si strugge per un cane (a cui dà un nome da uomo) che non ricambia il suo affetto. Incontra donne perverse, si circonda di cani quando crede che solo loro possano colmare la sua solitudine. Per poi scacciarli, quando trova il vero amore, Anne, che lo crede un principe azzurro. Ed è con Anne che tutti i nodi vengono al pettine e Edmond potrà avvicinarsi alla sua vera natura, qualunque essa sia.
Ecco, come spesso accade nella letteratura come nella vita, il peggior nemico di Edmond è Edmond stesso. Tutte le esperienze della sua esistenza sono segnate dall’atroce condizione della sua incompletezza come essere umano, della sua doppia natura: «Un groviglio di oscillazioni sempre più ampie tra il cane e l’uomo».
Testa di cane è un romanzo che gioca sui temi del doppio, della ragione contro l’istinto, della solitudine, della diversità, della metamorfosi. Argomenti che hanno avuto padri illustri come Ovidio, che Edmond legge con passione («la disinvoltura con la quale Ovidio si muoveva in un universo contro natura lo irretiva»).
Jean Dutourd racconta questa storia grottesca con leggerezza, la affida a un narratore che sa tutto e svela tutto. Se il suo essere didascalico fosse stato marcatamente didascalico, se il suo essere ironico fosse stato anche un po’ più cinico, sarebbe stato perfetto. Invece il racconto scorre via, piacevole ma inefficace. L’incantesimo dello straniamento non si compie del tutto e alla fine si resta con un vago senso d’indifferenza.
Il romanzo, del 1950, è comunque l’opera di un grande autore (tra l’altro incredibilmente prolifico). Costruito ad arte, segue una solida e semplice struttura che culmina in un finale che, se non completamente inaspettato, almeno è il degno apice di un climax. Le scelte linguistiche sono sempre calzanti, per lo più spassose, misurate. Una misura che rende Testa di cane un gioiellino ma, purtroppo, allo stesso tempo lo appiattisce e gli toglie quel guizzo in più che avrebbe potuto avere.
(Jean Dutourd, Testa di cane, trad. di Chiara Manfrinato, Isbn edizioni, 2013, pp. 140, euro 12)
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