“Nove storie storiche” di Cesare De Marchi
di Mario Massimo / 14 maggio 2013
C’è un’ambiguità nel termine italiano storia, che designa tanto la “narrazione” a diverso grado di sfrenatezza inventiva, quanto il racconto, sulla base di dati laboriosamente ricostruiti su dei documenti, di “fatti” che si sa, comunque, effettivamente accaduti (non succede altrettanto nelle lingue germaniche: in inglese, story non è la stessa cosa di history, come in tedesco Erzählung è altro da Geschichte).
Sopra questa ambivalenza semantica gioca il titolo dell’ultima raccolta di racconti di Cesare De Marchi, Nove storie storiche (Il Saggiatore, 2013). Perché, certo, di narrazioni si tratta: tutte ugualmente “inventate”, con la più fine, letteraria auscultazione dei moti intimi di chi vi è coinvolto e, più ancora, con la cristallina nitidezza del tocco descrittivo, la pregnanza poetica di metafore (per non dirne che una, «un pesante volo di uccelli bruni» i sassi degli insorti) e aggettivazione. Eppure, quest’invenzione di vicende umane, di una quasi programmatica quotidianità (c’è, ad esempio, iterato in più racconti, un preciso gesto fisiologico nettamente “basso”, per quanto vitale…), è sempre inquadrata sullo sfondo dell’altra storia, quella, come si usa dire, con la maiuscola, la Geschichte.
Il lettore così passa dalla fallita congiura dei Fieschi (1547), al bombardamento voluto da un imperialistico Lugi XIV (1684), all’insurrezione antiaustriaca del piuttosto scolorito, storicamente, Balilla (1746), e ancora all’ambiente dei patrioti italiani intorno al 1827, a un meno connotato anno dell’emigrazione ottocentesca verso l’Argentina, all’anno di Caporetto, e, con decrescente determinazione cronologica, ad anni fra il ’40 e il ’50, a quelli “di piombo”, e, in ultimo, a quello “di Mani Pulite” (posto che si debba parlare di un unico anno, per questa costante del recente Zeitgeist italiota…). Va detto anche che praticamente tutti i racconti rimandano, con accorti agganci onomastici, benché senza intenerimenti di nostalgia, al luogo geografico di nascita di De Marchi stesso, da anni, per altro, vivente a Stoccarda, e cioè Genova.
Quello che le nove vicende costruite da De Marchi hanno in comune, in questo approccio, sempre tangenziale, sbieco, alla “grande Storia”, è però – tranne, forse, per la quinta, il cui giovane protagonista si attesta in un suo darwiniano puntiglio di struggle for life – il tema, invero molto novecentesco, della sconfitta, della frustrazione: dalla congiura della prima storia, fallita banalmente, per uno scivolare dell’eroe e affogare, gravato dall’armatura, nel fango (anche se con il virtuosistico scarto narrativo che ne venga informato, sì, il lettore, dalla nota in fondo al volume, ma non lo straniato protagonista del racconto: svegliato da clamori e incendi del colpo di stato, non farà che tornarsene a letto, a dormire), fino alla mancata ammissione di un volontario al carnaio della Grande Guerra, alla fideistica attesa di marxiane palingenesi nel giovane dalla borghesissima erre moscia che prova vanamente a vendere qualche copia di Lotta operaia, ma sprofonda poi nella morbidezza del rimpianto per una quasi proustiana colazione assaggiata insieme a nonna Nene, da bambino; e così all’apparatcik dell’ultima storia, il quale, colto dai carabinieri con ancora la mazzetta fra le mani, non riesce, per disfarsene, ad altro che a intasare il water…
Pagine, dunque, di maliosa, appagante letteratura; ma anche, come così di frequente in De Marchi, di un agrume (Par., XII, 117) morale, non scevro di pigmentazioni sarcastiche, e di un disincantato affondo di bisturi alle radici di uno scacco che non è semplicemente quello di poche dramatis personae.
(Cesare De Marchi, Nove storie storiche, Il Saggiatore, 2013, pp. 169, euro 13)
Comments