“A viso coperto”: a tu per tu con Riccardo Gazzaniga
di Simone Schezzini / 15 giugno 2013
Riccardo Gazzaniga, genovese, trentasei anni, è Sovrintendente della Polizia di Stato. Lavora nella sua città, dove si occupa prevalentemente di ordine pubblico, oltre ad essere delegato Silp e Cgil e responsabile di una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume e poliziotto che salvò molti ebrei durante la seconda guerra mondiale. Sin dall’età di diciotto anni si è cimentato nella scrittura di piccoli racconti thriller, horror e gialli. Passione che, pian piano, lo ha portato a vivere una sorta di vita parallela a quella del celerino: quella dello scrittore. E chissà se con l’uscita a marzo scorso del suo primo romanzo, A viso coperto (Einaudi, 2013) – già vincitore nel 2012 del Premio Calvino –, questa seconda vita non riesca persino a prendere il sopravvento. Soprattutto tenendo conto dell’ottima accoglienza avuta da parte sia della critica che dei lettori.
Per il suo esordio, Gazzaniga ha scelto, a mio avviso con grande intuito ma anche con molto coraggio, di far incontrare le sue due vite parallele creando un romanzo in cui si intrecciano le storie di celerini e ultrà in una fredda settimana genovese. Una storia densa di azione, gran ritmo, ma anche di sentimenti e scelte difficili.
Cerchiamo allora, con quest’intervista, di scoprire qualcosa di più su questo giovane scrittore poliziotto e sul suo fortunato esordio letterario.
Innanzitutto complimenti. A viso coperto non sembra proprio il romanzo di uno scrittore agli esordi, pare piuttosto uscito da una penna navigata. Del resto, hai alle spalle già molti anni di scrittura, anche se fatti finora solo di piccoli racconti, soprattutto gialli. Ti è tornata utile questa esperienza al momento di scrivere una storia lunga?
Credo di sì. Scrivere tanti racconti horror e thriller mi ha fatto imparare qualcosa sui meccanismi della suspense e la gestione delle informazioni date al lettore. Si può mettere suspense e tensione ovunque, anche senza cadaveri o apparizioni soprannaturali. Inoltre l’abitudine alla lunghezza del racconto mi ha spinto a lavorare su paragrafi brevi. Questa scelta ha conquistato i lettori oltre le mie aspettative. Tante mail che mi arrivano mi dicono che questa brevità spingeva a continuare la lettura, ora dopo ora, senza riuscire a staccarsi dal libro. Per un autore è la più grande gioia possibile.
Si può dire che nel tuo romanzo racconti un po’ la storia della tua vita. La vicenda si svolge tutta in pochi giorni e descrive la vita di celerini e ultrà a Genova, i loro scontri, i loro dubbi e le difficoltà delle persone che stanno loro vicine. Quanto c’è di te, di Riccardo in questo romanzo? Il celerino Nicola, uno dei protagonisti, sembra essere un tuo alter ego, anche lui vorrebbe scrivere un romanzo sul suo lavoro.
Nicola prova a scrivere un saggio, in verità, e questa è un’idea che per qualche tempo ho accarezzato, ma presto mi sono reso conto di non avere le competenze sociologiche per farlo e nemmeno l’entusiasmo, perché un saggio non avrebbe raccontato con la necessaria vitalità il clima degli scontri. Un romanzo, invece mi sembrava anche più vivo e reale dei fatti stessi. Mi serviva a spiegare le dinamiche emotive dei personaggi, le loro ragioni, cosa li spingeva alle loro scelte e ai loro errori.
A un certo punto della storia un celerino, Fabio, racconta che spesso gli capita di fare un sogno. Cittadini qualsiasi, non ultrà, ma lavoratori, casalinghe e studenti marciano infuriati verso il Parlamento. I poliziotti si trovano in tenuta antisommossa e un dirigente ordina loro di caricare la folla sebbene nessuno lanci alcun oggetto. Allora Fabio si toglie il casco, lascia cadere lo scudo, getta il manganello e altri colleghi lo imitano, lasciando scoperta la porta del Palazzo. La gente applaude e abbraccia i poliziotti. A te è mai capitato di pensare qualcosa di simile? Di volerti schierare dalla parte dei cittadini comuni invece di difendere i palazzi del potere?
Questo pensiero di Fabio rispecchia quel dubbio che il poliziotto può avvertire di fronte a recriminazioni che sente come più legittime di altre da parte dei manifestanti che ha di fronte. Ma lo stesso poliziotto deve superare le sue opinioni personali, nella certezza di servire la maggioranza dei cittadini e porre in essere la volontà di quella maggioranza.
Se i poliziotti agissero diversamente sarebbe grave e si metterebbe a rischio l’essenza stessa della democrazia. È logico che l’uomo dietro la divisa ha una sua idea, una sua opinione. E può accadere che lo stesso poliziotto o il carabiniere abbia magari una vita, dei sogni e delle speranze molto più simili al manifestante o al tifoso di fronte a lui, che non al politico che gestisce la cosa pubblica: questo era il pensiero del mio personaggio.
Nel romanzo, più volte, alcuni ultrà affermano che si comportano in questo modo, usano la violenza perché ormai lo stadio è rimasta l’unica zona franca in una società inquadrata e ordinata. Anzi, decidono di aumentare il livello dello scontro proprio perché anche negli stadi, con le nuove leggi, sta venendo meno quella libertà che finora era garantita. Il contesto storico attuale è molto difficile, con una crisi economica e sociale fortissima, soprattutto fra i giovani ci sono molta disillusone e povertà. Pensi che potremmo vedere nei prossimi mesi una recrudescenza delle violenze negli stadi? Potrebbero prendere il posto dei conflitti nelle strade come avveniva negli anni ’70?
Gli stadi sono oggi decisamente più “tranquilli” di anni fa. In qualche modo lo Stato sta vincendo la sua battaglia per limitare la violenza calcistica, nonostante difficoltà e anche taluni errori. Ma vi sono stati e vi sono casi, in alcune città, in cui i gruppi ultrà hanno preso posizioni politiche. Non tanto nel senso di schierarsi a destra o a sinistra – passaggio questo già compiuto – ma nel rivendicare diritti o avanzare richieste specifiche e universali.
Se una tifoseria chiede, per esempio, numeri identificativi sui caschi dei poliziotti, questo è già un passo politico. Viene portata avanti una linea precisa di rivendicazione, intendo.
Non possiamo dimenticarci che in taluni stati europei, come la Jugoslavia per esempio o anche i paesi del nord Africa l’anno scorso, il tifo calcistico ha avuto un ruolo centrale nell’innesco di rivolte di piazza e persino di conflitti bellici. Nello stesso G8 del 2001 il numero di ultrà presenti era altissimo, ben più di quanto non si sappia.
Ridurre il mondo ultrà a un mero fenomeno di violenza domenicale sarebbe una semplificazione. Per questo non è un’assurdità pensare che la violenza di piazza possa sfogare negli stadi o, ancora di più, che lo stadio possa essere il viatico a formazioni attive poi anche all’esterno, con rivendicazioni che diventano politiche.
Per tornare al libro, c’è una precisa volontà stilistica dietro la scelta di suddividerlo in molti piccoli capitoli (a volte si esauriscono anche in una o due pagine) o piuttosto è un’esigenza dettata dal ritmo della storia e dalle molte storie che si intrecciano?
Come ho detto, credo nasca dalla mia esperienza coi racconti, e anche dalla difficoltà a gestire così tanti personaggi. Utilizzare capitoli suddivisi chiaramente mi ha permesso di gestire la narrazione in modo quasi filmico, come se impugnassi una telecamera che di volta in volta si concentrava su uno degli attori.
Questa tua ultima affermazione mi conferma un’impressione che già avevo avuto man mano che la lettura del romanzo andava avanti: sia le scelte narrative (in particolare dialoghi brevi e cambio repentino della scene) sia le vicende narrate mi sembrano perfette per portare sullo schermo la tua storia. Ti piacerebbe se questo libro potesse diventare un film?
Mi piacerebbe moltissimo e non è escluso che non succeda. Diciamo che ci spero, per adesso.
Hai già in mente un’idea per un nuovo libro? In A viso coperto ci sono così tanti personaggi che, seppure a volte appena tratteggiati, hanno ciascuno un profilo già ben delineato. Non appena finito di leggere, ho subito pensato che sarebbe interessante vedere cosa riserva la vita a molti di loro. Mi vengono in mente, per esempio, i due ragazzini appena entrati nel mondo degli ultrà, oppure la storia tra il celerino Gianluca e la ragazza ribelle Elisa. Hai pensato a un possibile seguito?
In verità la storia di uno dei due giovani ultrà aveva un ulteriore passaggio, che ho tolto, un po’ perché avevo dei dubbi sui fatti accaduti dopo la fine del romanzo e non sapevo se togliessero forza alla narrazione, un po’ per evitare di cadere nello scontato e nel già visto.
In verità oggi non riesco a pensare a un altro romanzo che continui le loro vicende, perché mi rendo conto che penso a una sorta di ripetizione di quanto già scritto. Io scrivo per divertirmi, innanzitutto, e temo che continuando con questa storia avrei meno stimoli.
Forse potrei pensare a uno spin-off per uno o due soli personaggi, evitando la massa attuale di punti di vista che ho mosso in A viso coperto.
Al momento sto pensando a un’altra storia, lontana dalla Polizia. Ma è presto per pensare al secondo romanzo. Mi voglio godere il mio esordio, ancora per un po’!
(Riccardo Gazzaniga, A viso coperto, Einaudi, 2013, pp. 544, euro 19)
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