For the sake of Bethel Woods dei Midlake

Fu uno shock la notizia che Tim Smith avrebbe lasciato i Midlake. Era il 2012, loro uscivano da un ottimo album come The Courage of  Others e a un certo punto sapere che quella voce non sarebbe più stata la voce dei Midlake mi destabilizzò. Tim Smith era ed è uno degli autori e uno dei cantanti più sottovalutati degli anni 2000 e non era ancora tempo di lasciare i Midlake.

Ci fu quindi un brevissimo rimpasto e come se non fosse successo nulla, Eric Pulido, fino ad allora chitarrista e seconda voce, prese le redini del gruppo.  Il materiale che stavano producendo viene buttato via. Altra vita. Si rifà tutto daccapo, nessun problema.

Esce un anno dopo Antiphon e sembra passata un’era geologica. Pensare che solo nel 2010 facevano parte di quella splendida confessione di John Grant che prende il nome di Queen of Denmark.

Il desiderio di capire che forma avrebbero preso i Midlake senza Tim Smith era enorme, ma per forza di cose avrei voluto non succedesse mai (i Joy Division senza Ian Curtis hanno cambiato proprio tutto, no?) e allora niente esce questa cosa corale, maestosa, massimalista che è i Midlake ma non è i Midlake e che si chiama, appunto, Antiphon.  La voce di Tim Smith ha delle venature che quella di Eric Pulido non ha e non avrà mai, per quanto oggi possa sforzarsi. Ma è proprio l’approccio alla musica che cambia, che ne fa altro.

Quello che era un mix RadioheadJethro Tull e che si manifesta in tutta la sua espressività nel capolavoro The Trials of Van Occupanther, si trasforma semplicemente in qualche altra cosa. Come se ci fosse stata una normalizzazione su un alt rock con tendenze prog che solo in apparenza faceva da seguito ideale di The Trials. Non era solo la voce, ma anche la scrittura.  Alcuni spunti erano importanti, per esempio “Provider“, ma nulla arriva ai livelli di “You Never Arrived“.

Da quel momento a oggi sono passati nove anni. In nove anni possono aver pensato pure di tirare fuori una roba glitch con una voce tipo David Coverdale.

Chiaramente le cose sono più semplici, perché For the Sake of Bethel Woods è un tentativo più o meno dichiarato di tornare a certe atmosfere di Trials of Van Occupanther, questa volta per davvero. Ripercorrere qualcosa di già vissuto, assecondare un certo mood. Basta ascoltare il primo pezzo, ascoltare il suo incedere, il rapporto basso-batteria e la prima cosa che viene in mente è “Roscoe“, probabilmente il brano più rappresentativo dei Midlake-Smith, e abbiamo quindi le coordinate di quello che ci aspetta lungo il resto dell’album.

Tutto For the Sake of Bethel Woods cerca di venire fuori come il Trials of Van Occupanther dei Midlake-Pulido e in parte ci riesce con pezzi importanti come “Exile“,  “Feast of Carrion” (dove la voce di Pulido brilla come mai fatto prima) o  con il trasformismo di “Glistening“, ma alla fine, come il suo predecessore, finisce per essere incostante (c’è uno spunto alla Sufjan Stevens, “Noble“, che sembra buttato lì ed è uno dei limiti di questo album) e perdersi un po’ nella ricerca di qualcosa che non sembra essere più chiara (figlia dei fantasmi di Smith), senza avere quella capacità di Trials of Van Occupanther di mantenere un’attenzione e un’ispirazione costante.

Ma, e suona paradossale (sarà la nostalgia), riesce comunque nel suo intento di dare una certa dimensione ai Midlake, di ridare sarebbe più opportuno dire, provando a correggere il tiro, cercando di spostarsi su un discorso di autoconservazione – tendenzialmente meno fantasioso -, o quantomento idealmente autoconservatore per ciò che i Midlake rappresentano. Cercando di avere un suono folk ma che possa suonare folk come potrebbero fare i Radiohead se facessero folk nel prossimo album, con ballate malinconiche sulla scia del già citato John Grant pre-synth, la band texana scrive un album che può dare inizio a una nuova fase.

La sensazione è, infatti, che questa che emerge da For the Sake of Bethel Woods sia la dimensione dei Midlake:  Smith, Pulido o chi per loro.

Copertina di Trama d'infanzia di Wolf

Uno sguardo al passato per indagare il presente

Restare senza parola o vivere in terza persona? Impossibile la prima cosa, inquietante l’altra. Nutrirsi di una sinistra estraneità da sé stessi senza la memoria di ciò che abbiamo fatto, di ciò che è accaduto, senza la memoria di noi?

Qualcosa spinge in direzione opposta una donna tedesca della DDR, classe 1929, che dopo quarant’anni ritorna nella propria città natale, un tempo nel Terzo Reich e ora in Polonia, abbandonata alla fine della guerra di fronte all’avanzata dell’Armata rossa e mai più rivista. Il viaggio più volte rimandato nei luoghi sommersi dell’infanzia incalza la protagonista di questo romanzo in un tentativo di verifica della memoria. La quale, inerme di fronte all’assalto dei dettagli che proliferano negli occhi e nella mente, fornisce stupefacenti minuzie sui suoi anni giovanili vissuti all’ombra della croce uncinata. Ne risulta una fitta trama narrativa in cui, accanto a quello realmente intrapreso in Polonia, si intrecciano due viaggi figurati: il primo a ritroso nel tempo, nei ricordi di colei che narra i propri anni hitleriani, il secondo nel presente della protagonista, oramai una scrittrice nota, riformata dall’esperienza socialista, mentre redige il proprio manoscritto autobiografico negli anni Settanta. Passato e presente dunque si fronteggiano, e la guerra e la coercizione diventano il riflesso della funesta tendenza della storia a ripetersi. Lo dimostrano i continui rimandi di Wolf al presente della scrittura, dal conflitto israelo-palestinese all’aggressione Usa in Vietnam, dalle esecuzioni del golpe militare in Cile ai sogni inquietanti in cui uomini senza volto irrompono costringendola a scrivere cose gradite al partito. Episodi che, certo, non relativizzano e indeboliscono il passato tedesco, ma stigmatizzano un unicum di violenza le cui propaggini toccano ancora l’oggi.

Trama d’infanzia viene pubblicato nel 1976 nella DDR e si configura subito, nonostante il Muro di Berlino, come “il romanzo tedesco” che parla alle due Germanie, un testo che permette a molti lettori di ritrovarsi nelle situazioni descritte e attuare un confronto individuale e un dialogo con i propri figli. Ma la Christa bambina – costretta, come tanti, a farsi nazista – appare talmente estranea, altro da sé, alla Christa adulta – oramai una delle voci più autorevoli della DDR – da scegliere per lei un altro nome: Nelly. Riflette la scrittrice:

«Perché è difficile ammettere che quella bambina – tre anni, indifesa, sola – è per te irraggiungibile. Non solo quarant’anni ti separano da lei; non solo ti è d’impedimento l’inattendibilità della tua memoria, che lavora isolando spezzoni e il cui compito è: dimenticare! Falsificare! La bambina è stata abbandonata anche da te. Innanzitutto dagli altri, certo. Poi però anche da quell’adulta che ne è sgusciata fuori, riuscendo a farle via via tutto ciò che gli adulti fanno ai bambini: se l’è lasciata alle spalle, l’ha spinta da parte, l’ha dimenticata, rimossa, ripudiata, rimodellata, falsificata, viziata e trascurata, se n’è vergognata e ne è andata fiera, l’ha amata in modo sbagliato, e in modo sbagliato l’ha odiata. Adesso, benché sia impossibile, vuole conoscerla».

A ben guardare, ci sono tante Nelly – tre – quanti sono i viaggi intrapresi dalla protagonista: la Nelly narrante usa la seconda persona singolare per rivolgersi alla Nelly scrittrice, che redige il testo e ricorda la sua infanzia, mentre utilizza la terza persona singolare quando parla della Nelly bambina, a conferma di un “io” diviso, prima e dopo la guerra. Solo così, prendendo le distanze da quella che è stata, l’autrice prova a ottenere con la parola scritta l’unificazione del proprio “io”. Refertando l’autoesilio di Bachtin necessario all’autoanalisi e rispondendo finalmente alla domanda di Neruda su quando la farfalla si deciderà a leggere ciò che è scritto sulle proprie ali, il proprio ieri, mentre è in volo. Date queste premesse, la nuova edizione 2021 di Edizioni e/o, nella solida traduzione di Anita Raja, proposta a dieci anni dalla scomparsa di Christa Wolf, è un’occasione dunque preziosa per indagare un testo chiave, meno noto al pubblico italiano rispetto a Cassandra o Medea: qui la centralità del passato, che per Wolf occorre sempre ripensare, si interseca con le riflessioni sulla propria esperienza di membro partecipe della DDR.

Wolf da sempre reagisce con la scrittura a situazioni di disagio e di inquietudine. A provocarle non è solo la sensazione di aver vissuto, da bambina, in un’altra Germania, ma anche l’esperienza adulta di un antifascismo obbligatorio, richiesto come prerequisito, che ormai è automatico, scontato, e poi il diffondersi di bande xenofobe e razziste, che conservano le foto dei nonni in uniforme nazista come eroi. Quella della scrittrice è un’energica presa di posizione contro l’estetica promossa dalla DDR: un superamento del passato che vede i nazisti e i loro eredi sempre negli altri, quelli della Germania Ovest, ignorando che il consenso di massa ottenuto da Hitler non si limitò a una sola parte del paese. Il contesto è quello di un presente ideologizzato e paralizzato in cui risuonano accenti da anni Trenta, caratterizzato dalla preoccupazione per il futuro, dalla sensazione di procedere su un sottilissimo strato di ghiaccio, dalla paura che una qualsiasi grave crisi possa far precipitare nuovamente l’umanità nella barbarie. Sono, questi, i molti fiumi carsici all’origine di Trama d’infanzia. E che, a ben guardare, attraversano il nostro presente.

L’opera di Christa Wolf si è assunta molto spesso il compito di individuare e discutere le problematiche del proprio paese per migliorarlo dall’interno, in un dialogo sempre aperto tra scrittori e lettori. Ne è un esempio Il cielo diviso del 1963, un testo ambientato nell’estate del 1961 nel quale, ancora prima che il Muro divida e orienti psicologicamente verso due ideologie opposte i membri di uno o dell’altro sistema, la spaccatura attraversa la giovane coppia tedesco-orientale protagonista del romanzo: l’insegnante Rita, come Wolf, sceglie il socialismo della DDR dove tutto è «calore e intimità», mentre il chimico Manfred, come molti connazionali, fugge a Berlino Ovest, dove spera di potersi realizzare professionalmente. I lettori di allora potevano ritrovare nelle vicende raccontate molti episodi vissuti, ma anche una cronaca onesta, che non celava asperità e dissonanze, sia del socialismo reale che del reale socialismo, quello vissuto quotidianamente a est del Muro, minato, oleografia a parte, da burocrazia di partito e dogmatismo scolastico.

ll romanzo successivo, Riflessioni su Christa T. del 1968, è il racconto attraverso lettere, diari e tentativi letterari della parabola esistenziale di un’amica di Wolf prematuramente scomparsa; molti avranno ritrovato in quella storia marginale la propria difficoltà di dire “io” nel piatto conformismo ideologizzato di una creatura problematica, che Wolf non esiterebbe a definire singolare, nel duplice senso di “limitato”, ma anche di “atipico”. Christa T. infatti non si sente solo limitata dal sistema DDR di fronte al quale naufragherà, prima con un lento morire interiore e poi nel letto di un ospedale, ma marca la sua atipicità, di cui il testo fornisce ricchi esempi, con la propria condotta. La diagnosi ufficiale è leucemia, ma in realtà Christa T. soffre di DDR. Il suo corpo si fa sismografo delle cesure che segnano il blocco sovietico tra gli anni Cinquanta e Sessanta: deperisce infatti nel giugno 1953, durante la rivolta degli operai edili di Berlino Est, e si aggrava nel 1956, durante i moti ungheresi, entrambi schiacciati dall’Armata rossa; sono queste repressioni che determinano un primo sussulto di fede negli intellettuali come Wolf. Se poi si aggiunge che il testo esce in pieno 1968, quando sono ancora percepibili l’azzeramento della vita culturale della DDR dopo l’XI plenum del partito unico e il soffocamento della Primavera di Praga – questa volta anche con il supporto delle milizie della DDR, fatto che incrina ulteriormente la fiducia nell’apparato –, è chiaro che scrivere significa riesaminare le proprie convinzioni non sul socialismo quanto sulle terre destinate ad accoglierlo.

Tornando a Trama d’infanzia, Wolf si impegna a rivivere il proprio passato, attraverso la sua famiglia, come si sfogliano le pagine di un vecchio album fotografico. Mette sé stessa al centro della riflessione, non reprime i ricordi ma ce li consegna nello stesso disordine con cui vengono catturati, conferendo al racconto una struttura polifonica di rara complessità. Accanto alle sue manifestazioni più violente e appariscenti, riaffiorano – qui sta l’originalità del testo – interi spaccati della quotidianità del nazismo osservati attraverso la condotta interiore del singolo. Il romanzo fotografa un popolo di spettatori, presenti ma altrove, che, tra paralisi della curiosità e servilismo, sono complementari alla dittatura, cancellano chi sono stati e affermeranno in seguito di non ricordare più nulla. Ci troviamo di fronte a pagine che Wolf verga dopo profonda riflessione e che, in bocca alla scrittrice più in vista della DDR, rivelano un certo coraggio: nel libro compaiono per la prima volta in letteratura dettagli sulle incursioni, nelle case dei profughi terrorizzati, dei soldati sovietici che ne violentano le donne, e si torna a parlare di “fuggiaschi” e non di “evacuati” per chi come Nelly deve arrestare il proprio tempo interiore e dire a sé stessa: «Ci rivedremo a Filippi». Un magma narrativo che vede il singolo lacerato, anche dopo il nazismo, da un collettivo dispotico e occhiuto, e una scrittrice che – il richiamo a Ingeborg Bachmann è fortissimo – ha la mano bruciata ma non si sottrae a descrivere la natura del fuoco, sfiorando l’utopia di una libertà interiore.

«Ti immagini: la sincerità non come un isolato stato di forza, ma come obiettivo, come processo con possibilità di avvicinamento, a piccoli passi, a un terreno ancora sconosciuto da cui sarebbe nuovamente possibile parlare in modo nuovo e oggi ancora inconcepibile, con facilità e libertà, apertamente e lucidamente, di ciò che è; quindi anche di ciò che è stato. Dove perderesti l’abitudine devastante di non dire esattamente quello che pensi, di non pensare esattamente quello che senti e realmente intendi. E di non credere a te stessa, nemmeno per le cose che hai visto. Dove le pseudo-azioni, gli pseudo-discorsi che ti minano diverrebbero superflui e al loro posto subentrerebbe lo sforzo di essere esatti».

 

(Christa Wolf, Trama d’infanzia, trad. di Anita Raja, Edizioni e/o, 2021, 528 pp., euro 13.90, articolo di Claudio Musso)

Narratore e narrazione

Tanto negli studi narratologici di matrice strutturalista, ampliamente radicati nella teoria letteraria italiana, quanto in quelli di indirizzo «postclassico» (su cui si è diffusamente espresso Stefano Ballerio) ricopre una posizione di notevole interesse la figura del narratore, analizzata sia nella sua funzione testuale sia nei suoi rapporti con l’autore ‒ reale o implicito – come illustrato da Paolo Giovannetti (Il racconto, Carocci, 2012).

L’aspetto della voce narrante, che concorre al processo di costruzione del personaggio, è stato protagonista di una progressiva evoluzione tecnico-stilistica culminante, nel corso della storia letteraria, in differenti tendenze della narrativa moderna e postmoderna.

Alle categorie tradizionali di narratori verisimili (il celeberrimo eterodiegetico dei Promessi Sposi e l’autodiegetico Marcel della Recherche) si è così venuta affiancando una voce inattendibile: un narratore di prima persona cioè non solo direttamente coinvolto nella storia, ma anche pronto a proporne al lettore una propria versione falsata tramite processi di alterazione, distorsione od omissione dei fatti.

 

Lo sconcerto del narratore inaffidabile nella narrativa breve

 

Il caso contemporaneo più eloquente è costituito dai racconti di Vladislav Otrošenko, significativamente intitolati Testimonianze inattendibili (Voland, 1997). Nelle righe di queste storie si cela infatti una rete di segnali linguistici, lapsus e allusioni che conduce al colpo di scena conclusivo, in ciascuno dei testi strutturato sul radicale capovolgimento della premessa incipitaria.

Mario Caramitti, curatore del volume italiano, chiarisce il meccanismo stilistico-narrativo di questo tipo di prosa (M. Caramitti, Postfazione, pp. 119-124):

«Basta interrompere bruscamente il corso dei vostri pensieri e lasciar spazio a un qualsiasi concetto, purché assurdo, inverosimile, paradossale, in tutto casuale e arbitrario, assolutamente il primo che vi passi per la testa. Poi vi sforzerete […] di giustificare a tutti i costi quello che avete affermato, cercando tortuose connessioni logiche col contesto interrotto, costruendo fantasiosi castelli di prove e intorbidando più che potete le acque».

Dalle finzioni, e relativi svelamenti, attorno a cui s’avvita l’intreccio di ogni racconto non dipendono soltanto gli elementi della cornice narrativa (in primo luogo le categorie di tempo e spazio), ma i personaggi medesimi, le cui azioni procedono di pari passo con le distorsioni della realtà di cui essi si risolvono essere vittime. I protagonisti delle vicende, infatti, vivono insieme al lettore quell’inganno che, dapprima alterandone le azioni, finisce con il deformarne le coscienze e, di conseguenza, snaturarne le identità. Gli esiti di questo processo, soltanto in apparenza puramente stilistico, consistono o nello smarrimento esistenziale, prerogativa di molte voci otto-novecentesche (come si vede, nient’affatto che esclusivamente europee) e iconograficamente descritto dalla «vertigine» di S. Kierkegaard ne Il concetto dell’angoscia (1844), o in alternativa nella resa nichilista. Nel racconto che apre la raccolta, (Il congedo dell’archivista, pp. 5-36) infatti si ammonisce: «Tutto è possibile. Tutto è mutevole. Non esiste nessun ordine eterno nell’universo».

 

Lo stravolgimento programmatico nei romanzi con narratore inattendibile

 

Tale impianto narrativo può confarsi a opere letterarie di vario tipo, caratterizzando tanto racconti più o meno brevi quanto testi in prosa ben più ampi, come veri e propri romanzi. Il caso più celebre è rappresentato dal personaggio-narratore del professor Humbert in Lolita (1955), la cui voce narrante risulta tutt’altro che accessoria e anzi, perfettamente strutturale alla storia della celebre ninfetta, appunto mediata dalla prospettiva del professore di letteratura. Questi, imputato, racconta infatti in prima persona la vicenda quando già si è conclusa, mescolando ai fatti osservazioni personali che, qua e là spacciate per ricordi o valutazioni imparziali, mirano invece a rabbonire i giurati durante le sedute a porte chiuse del processo (V. Nabokov, Lolita, Adelphi, 1996, pp. 17; 382):

«Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i serafini […]. Guardate questo intrico di spine. […] Incominciai, cinquantasei giorni fa, a scrivere Lolita, prima in osservazione nel reparto psicopatici e poi in questa clausura ben riscaldata, seppur tombale».

Humbert-narratore infatti non mente affinché la propria immagine risulti esemplare, ma per scagionare le proprie azioni verso Dolores, apostrofata con il vezzeggiativo di Lolita: egli ammette la propria ossessione per lei, ma la giustifica, riportandola alla morte della ragazzina amata da bambino, Annabel, così da sublimarla apertamente in un’esperienza infantile traslata, a causa del traumatico lutto, in età adulta. Analogamente, egli dichiara apertamente i terribili progetti accarezzati con il pensiero per avere Lo tutta per sé (dopo aver sposato la madre, Charlotte, da cui egli era a pigione, ucciderla per diventare a tutti gli effetti l’unico tutore legalmente responsabile di Lolita), salvo poi dichiarare di averli puntualmente respinti in blocco (pp. 93, 113):

«Io non progettavo di sposare la povera Charlotte per poi eliminarla in un modo volgare, […] come metterle cinque compresse di bicloruro di mercurio nello sherry preprandiale o qualcosa del genere; ma devo riconoscere che un pensiero famacopeico, delicatamente affine, tintinnò nel mio cervello sonoro e offuscato. […] Semplice, no? Ma pensate un po’, ragazzi… proprio non ce l’ho fatta!»

Oggetto dell’alterazione attuata dal narratore dunque non è la storia tout-court, ma il rapporto che va via via instaurandosi tra Humbert medesimo e Lolita. Scopo di quest’operazione consiste nell’invertire i piani di realtà e finzione nella storia e, conseguentemente, i ruoli di preda e persecutore nei personaggi: all’immagine di un’orfana ostaggio di un uomo che si finge suo padre e dal quale lei desidera fuggire a ogni costo il narratore sostituisce man mano l’idea di un «micidiale diavoletto» (p. 27) le cui tacite profferte egli stesso non riesce a fuggire.

Il meccanismo è talmente riuscito che nel linguaggio comune il ricorso al termine lolita si è cristallizzato in forma antifrastica, indicando una «ragazza adolescente di aspetto provocante che suscita desideri anche in uomini maturi», come attestato nel Dizionario della lingua italiana.

A testimoniare la natura polivalente del narratore inaffidabile, al cui uso si confanno strutture testuali tra loro anche molto differenti, un ultimo esempio, un libro ben distante per intreccio e contenuti dalle opere di Otrošenko e di Nabokov: Follia (Adelphi, 1998) di Patrick McGrath, dove il personaggio-narratore, lo psichiatra Peter Cleave, riferisce a posteriori della tormentata relazione extraconiugale tra il proprio paziente uxoricida Edgar e la moglie di un collega medico, Stella. In questo caso la falsificazione dei fatti non investe tanto il rapporto tra i due (anzi analizzato assumendo le idiosincratiche e patologiche inclinazioni di ciascuno) quanto piuttosto la natura dell’interesse nutrito da Peter medesimo per la donna, nella cui valutazione psichiatrica egli, mosso da ragioni tutt’altro che professionali, commette una serie di fatali errori ‒ tra i quali spicca il rifiuto di farle incontrare Edgar durante il ballo dell’istituto dove, nell’ultima parte del romanzo, entrambi i pazienti si trovano ricoverati e dove, per l’appunto, lo psichiatra presta servizio. Nel corso del romanzo le sue decisioni, lungi dal connotarsi come parte di un progetto terapeutico, si rivelano frutto di un desiderio personale che ostacola il suo giudizio: l’inattendibilità del narratore coincide così con il camuffamento da lui operato nelle premesse narrative della storia. Gli arguti indizi sparsi nel testo per segnalare questa operazione narrativa hanno talmente contribuito all’ambiguità del personaggio narrante che nell’adattamento cinematografico Asylum gli viene attribuita un’intenzionalità machiavellica probabilmente estranea al personaggio originale.

È chiaro come da una voce inattendibile, motore di svariate riflessioni in opere assai diverse per contenuto, intreccio e persino genere letterario, derivi un’architettura narrativa in cui ricorrono perlopiù gli stessi stratagemmi stilistico-formali che appaiono ben sintetizzati dalla denuncia del dottor S. nella Prefazione all’autobiografia di Zeno Cosini (I. Svevo, La coscienza di Zeno, Giunti, 1993, p. 13): «Se il mio paziente sapesse quante cose potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!».

 

 

 

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Nel testo, la riproduzione di un dettaglio di P. Paoletti, Esopo racconta le favole (Villa de’ Manzoni, 1937); una locandina dell’adattamento cinematografico di Lolita (Stanley Kubrick, 1962). In copertina: P. McGrath, Follia (Adelphi, 1998).

Poster del film Red

Una realtà tutta nuova

Lo storico studio di animazione di proprietà della Disney, Pixar,  ha cambiato qualcosa nel modo in cui concepisce i propri film negli ultimi anni. Red, l’ultimo titolo distribuito l’11 marzo 2022, conferma questa nuova direzione.

La differenza non riguarda solo la scelta di proporre il film direttamente in streaming per gli abbonati di Disney +. Era già accaduto con Luca la scorsa estate, un altro film che aveva mandato segnali di cambiamento. Il nuovo corso dello studio sembra andare sempre di più verso storie che si avvicinano a temi del mondo reale. Magia e fantasia non mancano, ma diventano elementi di contorno con un chiaro valore simbolico.

Red parte in modo evidente dalle vicende personali della regista Domee Shi, trentaquattrenne canadese di origine cinese. La protagonista è la tredicenne Mei, una normale adolescente della Toronto del 2002 alle prese con le tradizioni della sua famiglia proveniente dalla Cina, il suo gruppo di amiche e la passione per la boy band 4* Town.

La vita esemplare di Mei a base di ottimi voti e lavori nel tempio di famiglia cambia quando una mattina si sveglia nei peli e nelle zampe di gigantesco panda rosso. Una metamorfosi quasi kafkiana, ma reversibile. Il panda infatti viene fuori in base alle emozioni che Mei prova: più sono forti e maggiori le possibilità che si trasformi. I genitori non si mostrano particolarmente turbati dalla trasformazione. Quello che la ragazza ancora non sa è che si tratta di una maledizione di famiglia che conoscono bene, così come conoscono il rituale per annullarla. Mei, però, scopre ben presto come sfruttare il panda a proprio vantaggio.

Red è chiaramente un racconto allegorico delle trasformazioni dell’adolescenza. La regista Domee Shi è tornata ai temi che già aveva affrontato nel 2018 con il suo primo cortometraggio animato, Bao, che le aveva portato un Oscar. Anche lì c’era un cambiamento che sconvolgeva una famiglia.

Nella storia di Pixar non sono mai mancati i temi e le riflessioni adulte e complesse. Basta guardare alla filmografia degli ultimi 10 anni per trovare titoli stratificati come il recente Soul – che affrontava addirittura morte e anima – o il capolavoro Inside Out.

E se già Inside Out era una rappresentazione simbolica delle trasformazioni interiori della crescita, Red si concentra invece su aspetti più visibili e immediati rappresentati con dovizia di particolari. Anche il contesto di riferimento è molto più realistico che in altre occasioni. C’è una Toronto multietnica, ci sono le passioni delle ragazzine come le boy band e il Tamagotchi, ci sono le feste sotto la supervisione degli adulti. Ci sono i primi turbamenti ormonali e le mestruazioni. C’è un mondo in cui è possibile riconoscere il reale.

Red, per questi motivi, è diverso da Luca o da Onward, usciti tra il 2020 e 2021. Anche in questi film si affrontano temi profondi come l’accoglienza del diverso e l’elaborazione del lutto, ma il contesto è evidentemente fantastico. Qui, invece, la magia è solo un elemento di contorno.

La trama stessa è agganciata a temi completamente ordinari e già visti. Viene infatti in mente un film come Voglia di vincere, teen movie del 1985 con Michael J. Fox liceale imbranato che si scopre licantropo e diventa la persona più popolare della scuola. Mei, in sostanza, vive la stessa esperienza, ma al femminile.

Il merito principale di Red non è tanto quindi la storia – piuttosto ordinaria e prevedibile – o il modo in cui vengono affrontati i consueti sviluppi narrativi previsti dalle regole dello storytelling Pixar. A rendere diverso il film di Domee Shi è la capacità e il coraggio di portare la realtà dell’adolescenza nel racconto, mascherandola appena con la metafora. Un modo nuovo e coraggioso di rivolgersi al pubblico.

(Red, di Domee Shi, 2022, animazione, 99’)

Copertina di Notti insonni di Hardwick

Elevare a scrittura le notti

La memoria, la dimensione privata della storia, è materia viva per i letterati. Approcciarsi alle pagine di Notti insonni (Blackie Edizioni, 2021) significa sfogliare un diario senza date i cui riferimenti spaziotemporali sono solo talvolta deducibili; ma la materia vissuta e l’emozione provata quando gli avvenimenti accadevano viene restituita senza filtro dalla penna di Elizabeth Hardwick che alza al livello di letteratura colta il bello per il bello e le sue sensazioni.

Non è semplice entrare nelle fibre delle pagine, nel solco delle parole che tracciano una narrazione per immagini, perché Hardwick decide di trattare il suo vissuto con un livello potentemente poetico. Questo libro è come un plico di fotografie uscite da un rullino in cui non tutti e trentasei gli scatti sono riferibili allo stesso viaggio, alla stessa cerimonia, allo stesso periodo. La voce del narratore è di chi quelle foto le ha fatte e le spiega restituendo la dimensione emotiva di quegli sguardi, di alcuni incontri, di certi salotti, senza nascondere la sorpresa per l’inattesa foto successiva che trasforma la storia di quel rullino e conduce altrove il lettore.

Partendo dal Kentucky, dove è stata una giovane donna in una famiglia numerosa, la memoria di Elizabeth Hardwick passa attraverso i luoghi che ha abitato, le stanze, le case, le città, i paesi, i climi; un percorso perfettamente sintetizzato dall’autrice quando dice: «Tutto mi è arrivato, e tutto mi è stato tolto, perché mi sono sempre spostata da un posto all’altro». Ma il ricordo passa anche attraverso le persone, i volti, le storie che Elizabeth ha incontrato negli anni, per le quali si è appassionata e ha provato compassione, nel senso più filologico del termine. Le storie che racconta diventano la sua, lei se ne fa carico e lascia loro ampio spazio nella sua biografia. Notti insonni è una biografia costruita attraverso il collage di altre biografie, che in un gioco di sottoinsiemi definiscono l’oggetto principale.

Queste storie sono innanzitutto, ma non solo, storie di donne, e storie di uomini che amano le donne. Alcune emergono da un sostrato inquietante, quasi disperato, «dalla terribile confusione di un mondo distorto». Come quella della giovane Juanita, che si prostituisce senza averne necessità, figlia amatissima ma indifferente, che si lascia consumare da una malattia venerea. O come il dottor Z., raccontato attraverso il suo rapporto con l’amore e attraverso i suoi amori, le sue donne, perché «alcuni uomini si definiscono tramite le donne, anche se tendono a credere che sia il contrario».

La lingua di Hardwick, complice anche l’eccellente traduzione di Claudia Durastanti, è tutto in questo libro, parla, gorgheggia, risuona e racconta. Le parole si susseguono rotolando sulle pagine, evocano, cantano, disegnano, creano senza la necessità del significato. Questo è un libro estetico e denso, composto da una lingua abbondante, generosa, che si produce in trittici di aggettivi, nomi e verbi, per identificare al meglio un oggetto volubile quale è la vita umana, la vita dell’autrice. Le donne di Hardwick sono doloranti, abbattute, sole, a volte povere, sporche e maltrattate, ma conservano una dignità che sta nella scelta libera della propria sofferenza. Una dignità verginale, solitaria, che sta nel rifiuto dell’uomo come salvatore.

La grandissima capacità visiva e l’impatto emotivo dei ricordi costringono ad arrendersi e a vivere la narrazione come degli scampoli sconnessi, tenuti insieme da un filo sgargiante, che è quello della capacità evocativa della memoria e della scrittura, che collaborano. «Mi dedicherò a un lavoro di memoria trasformata e persino distorta e condurrò questa vita, la mia vita di oggi», dichiara Hardwick nella prima pagina del libro. Ma in fondo la capacità letteraria enorme che l’autrice dimostra in queste pagine è di riuscire a restituire la realtà, privata nelle sue connessioni, di una notte insonne. Nel buio di una notte la narrativa potenzia i collegamenti dei pensieri associativi, che avrebbero una logica posticcia e artificiosa se dovesse essere spiegata, ed è in questo che si manifesta la dimensione privata del vissuto.

La narrazione prende il respiro necessario per raccontare e portare alla luce la catena di ricordi legati a un’esperienza, a un luogo, a una persona. Sembra un flusso di coscienza trascinato dalla memoria e spontaneo, ma in realtà è una racconto curato, revisionato, limato e perfezionato con attenzione ai dettagli. Dettagli come gli indonesiani magri e senza lavoro di Amsterdam che ritornano all’inizio e alla fine della parte ottava.

Sullo sfondo le questioni politiche e sociali, il lavoro dell’autrice come critica letteraria, i salotti, le città, gli ambienti colti si mescolano con le persone, definendole ed esaltandone il carattere: in poche pagine i protagonisti cambiano, e il lettore si affeziona a nuovi, temporanei ma totalizzanti personaggi, che alla fine scompaiono, per lasciare posto ad altri. «Il tormento delle relazioni personali. Niente di nuovo, se non nel travestimento, e nella fuga sulle ali degli aggettivi. Dolce essere trafitti dalle croci alla fine dei paragrafi».

Hardwick coglie in poche parole, in frasi brevi ma indimenticabili, la complessità, la specificità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti umani. Così qualunque artista, o anche solo chi abbia provato nella sua vita a scrivere, suonare, disegnare o recitare si ritrova nell’illuminazione che «l’invidia non è il vizio dell’intellettuale paralizzato. Come fa l’invidia a prendere la mente in ostaggio, quando la noia la anticipa sempre, in avanti sul tempo, lì pronta? La noia per i risultati di quelli che stanno sempre a lavorare e produrre». Chiunque abbia passato una notte insonne si ritrova nel «dramma indescrivibile e totalizzante dell’assenza di sonno»; chiunque ha abitato sa che «ogni casa è un santuario»; e avanti così tra frasi che sembrano scritte apposta per chi le legge, e lo sono, perché sono scritte apposta da chi scrive.

Notti insonni è un racconto delle vite e degli amori altrui, e del grande amore di Hardwick, mai però nominato esplicitamente. È un’analisi del sentimento nelle sue forme più umane e incarnate, nelle sue manifestazioni attraverso l’uomo, la donna e le loro storie, le loro vite. Un trattato tenuto insieme da una memoria scostante, poetica e letteraria. È soprattutto una celebrazione di questi sentimenti, fragili e pieni di contraddizioni. Perché «comunque mi piace essere compresa da quelli di cui mi importa».

 

(Elizabeth Hardwick, Notti insonni, trad. di Claudia Durastanti, Blackie Edizioni, 2021, 176 pp., euro 19, articolo di Anita Fallani e Elisabetta Sangiorgio)

Moltitude di Stromae

Febbraio 2014, Sanremo, teatro Ariston. C’è questo ragazzo belga super ospite della finale che sta cantando un suo pezzo, “Formidable“.  Si chiama Stromae e pare bravo.  Forse qualcosa di più di bravo. Quello che fa lì sopra non è solo cantare.  L’uso che fa del corpo è qualcosa che ha a che fare con il teatro. Con le performance. È solo, ma sembrano tantissimi. Ma allo stesso tempo quello che trasmette è una solitudine inconsolabile.

Passano otto anni. Cambia tutto.  Cambia il mondo, cambia il suo mondo. Studi televisivi francesi, TV1. Alla domanda della giornalista su cosa l’avesse aiutato a superare la solitudine, Stromae risponde cantando. Lo fa senza soluzione di continuità. Come non potesse essere diversamente. Lo fa mantenendo la compostezza tipica dei telegionalisti. Parte un pianoforte in sottofondo. Non ci sono  balletti, telecamere impazzite nello studio, luci sparate. La canzone parla di suicidio, “L’enfer“. Stromae-giornalista parla di suicidio come fosse routine da telegiornale delle 20.

Due performance diametralmente opposte, ma che in fondo sono la stessa cosa.

Tra un fatto e l’altro, tra Sanremo e  TV1, tra Recine Carée e Moltitude, questo il nome del suo ultimo lavoro, sono passati nove anni. Nove anni difficili per Stromae: la malaria, le reazioni alla cura, la depressione. Questione nota e dolorosa.

Ma Stromae torna, e Stromae gioca sempre molto con l’immagine. La vive in maniera profonda, centrale. Lo sdoppiarsi, il triplicarsi, il quadruplicarsi, l’essere altro, soprattutto altro da sé. Non essere sé, perché essere sé è un paradosso. In fin dei conti non significa nulla. Nel discorso artistico l’immagine è punto focale (tanto intesa come sovraesposizione tanto come sottrazione totale), e per quello che rappresenta Stromae, non può non essere fondante per la sua poetica. Moltitudine è una delle parole che più si avvicina a ciò che Stromae è. A ciò che Stromae sono.

Moltitude, comunque, non è come Recine Carée, ancora meno come l’esordio Cheese. Da un punto di vista testuale abbiamo sempre un artista diretto, disperato, poetico: la sua capacità di mettere le mani nel torbido, nello sporco, lì dove spesso è meglio far finta di nulla, trasformandolo, è materia che prende nuova vita tra le sue mani. Nobilita senza troppi giri di parole cacca, pipì e pannolini per cantare di come l’essere padre lo abbia salvato in “C’est que de bonheure”. Ne esce un racconto di redenzione privo di moralismi o semplificazioni ed è in questa sensibilità che vive parte della cifra artistica di Stromae. Ed è sempre questa la linea che tiene durante l’album: che sia il punto di vista del figlio di una sex worker o  di un misogino, non c’è mai retorica del sensazionalismo come vettore morale.

Musicalmente ce la ricordiamo invece l’eurodance di Recine Carée. Di come colpisse diretto alla pancia. Qui troviamo poco “Ave Cesaria” o “humain à l’eau“. I brani appartengono a un discorso più ampio rispetto al singolo. È necessario partecipare all’insieme.  Bisogna ragionare di più e lasciare da parte l’istinto. Se in passato non era evidente questa necessità, ora lo è per e serve a metabolizzare l’ipercreatività afro beat, europop, trip-pop, hip-hop, l’erhu cinese, raeggaeton, caribeña. Tutto questo e il suo contrario. Stromae scrive un grande album mainstream.

Perché Stromae, infatti, è l’esempio di come il mainstream possa non essere tossico, possa non puntare necessariamente all’omologazione, possa non avere una spinta verso il basso per irretire la moltitudine della fruizione. Poter costruire un mainstream sano e non figlio dell’ordinamento dell’algoritmo  – quantomeno non farne il perno -, per cui rispettare sempre e comunque certe regole di scrittura, senza dover necessariamente scendere a patti col diavolo, è il grande insegnamento che già oggi Stromae lascia in eredità alla musica: esistono altri modi. Quantomeno esiste la possibilità di mettere in discussione le logiche di un sistema che sembra sempre sul punto di esplodere in una bolla, ma che alla fine riesce sempre a rimanere in vita.

Stromae è un fenomeno, è eccezione, e una figura fondamentale di questi anni. L’augurio è quello di non dover aspettare altri nove anni per un suo album.

 

Copertina di Niente di vero di Raimo

Tra muri e soffitti

«Mio fratello muore tante volte al mese». Di rado si leggono incipit che racchiudono in sé già l’intera essenza del romanzo, ed è questo il caso di Niente di vero (Einaudi, 2022), il nuovo romanzo di Veronica Raimo. È un’avvertenza per il lettore: in questo libro si muore e si rinasce tante volte a pagina.

Seguendo le linee di un memoir, Raimo ripercorre la sua vita dall’infanzia a oggi. Non lo fa cronologicamente ma attraverso balzi e tematiche in un andirivieni di tempi e relazioni – familiari, sentimentali, letterarie. L’ordine non è casuale, poiché il grosso del libro indaga la sua famiglia, che fin troppo facilmente potremmo definire disfunzionale ma che in sé ha soprattutto qualcosa di distopico. A partire dalla madre, Francesca, donna ansiosa, capace come un’agente della Stasi di trovare la figlia a casa di un’amica, senza che lei le avesse detto dove si trovava. Eppure qualcuno attonito, durante la festa, avvisa che «c’è Francesca al telefono», tanto da farlo diventare un tormentone, visto che da quel momento lei e le sue amiche useranno quella frase come un codice segreto per sviare situazioni scomode.

Non è da meno il padre, uomo ossessivo, che con il suo «Siamo al paradosso», alla Pazzaglia, racchiude e chiude in un cul de sac la gran parte dei discorsi. O il fratello, il genio della famiglia, che davanti a richieste d’aiuto di Veronica, o anche a semplici chiarimenti, cita parabole evangeliche o oscuri passaggi letterari.

In questa distopia la protagonista si adegua, cerca di emergere o tenta almeno un’appropriazione del sé. Operazione nient’affatto semplice. Così sono ironia e umorismo a prendere il sopravvento e a caratterizzare il registro e la voce narrativa. Del resto, come salvarsi dalla madre che, seppur onnipresente e iperprotettiva, finisce per non riconoscere fisicamente la figlia tanto da scambiarla con emerite sconosciute in strada? O come eludere l’ossessività del padre che disinfetta qualsiasi cosa con Scottex e alcol sempre a portata di mano? O come confrontarsi col fratello scrittore di successo che appena viene a sapere che Veronica sta scrivendo un romanzo sulla loro famiglia, l’avvisa che anche lui sta facendo altrettanto?

Niente di vero è un libro feroce, che mentre spinge il lettore a una risata, poco dopo lo prende per mano e con lui salta in un crepaccio di cui non si vede il fondo. In certi momenti è un romanzo asfittico, che toglie l’aria, con il soffitto che incombe, con i tanti muri che il padre adora costruire per trasformare il loro appartamento di sessanta metri quadri in uno con più stanze di Versailles, e che Veronica Raimo riproduce attraverso i corridoi delle sue narrazioni.

Quello che manca, forse, sono proprio i muri perimetrali di quell’appartamento, si resta spesso sospesi nel vuoto e in quel labirinto non si trova la via d’uscita, la porta che conduca fuori. Forse questo diventa il limite del romanzo. Ci si aspetta che a un certo punto la protagonista riesca a tirar su quei muri esterni e magari sfondi il soffitto per saltare fuori, alla luce. Invece non accade mai e si resta sul bordo, come lei ferma su una scogliera, dato che non sa nuotare – per colpa dell’ansia della madre e dei «e se poi anneghi?» del padre: meglio restare a casa, ad annoiarsi e a leggere libri.

Tuttavia la sapienza e la scrittura di Veronica Raimo leniscono e attenuano questa mancanza, questo salto che non arriva, che qualche volta rischia di lasciarla sul palco da stand-up comedian, nelle vesti di una fantastica signora Maisel italiana e di posticcia formazione cattolica. (Tra le scene più belle c’è proprio quella in cui il fratello si converte al cattolicesimo e si fa battezzare, al che la protagonista non vuole essere da meno e si battezza anche lei. Ma non ha idea del perché lo stia facendo, né tantomeno di cosa implichi la fede, salvo rendersi conto di essersi presa una cotta per il prete.)

Poi, mentre si progredisce nella lettura, subentra un interrogativo: perché quel titolo? Cosa c’è di vero o di non vero? Raimo lo svela tra una scena e l’altra. Lo spiega nel frangente in cui è alle prese con la ricerca del suo tempo e del suo passato, del fattore psicologico e di quello fisiologico, in poche parole è immersa nella memoria bergsoniana. È qui che si interroga sul limite tra fiction e realtà. Un quesito che oggi dilaga, mentre siamo alle prese con una sfilza infinita di romanzi memoir e/o autobiografici e/o autofiction.

Veronica Raimo non si sottrae, prova a fare ordine, visto che «la maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo». È allora che la scrittrice/scrittore bluffa, come la stessa Veronica faceva da bambina con suo fratello quando giocavano a dadi, in un gioco quantistico del lancio senza alcun tipo di competizione, una semplice constatazione dei numeri che uscivano, in cui lei sentiva comunque il bisogno di barare. Del resto «le velleità di solito servono a ingannare se stessi, mentre io volevo ingannare gli altri».
L’inganno è riuscito quasi del tutto. Resta il soffitto a fare da barriera, a non permettere del tutto di spiccare il volo.

 

(Veronica Raimo, Niente di vero, Einaudi, 2022, 176 pp., euro 18, articolo di Fernando Coratelli)

 

Poster di Winter on Fire

I 93 giorni di Maidan 

La guerra in Ucraina sta occupando con insistenza i nostri pensieri da circa due settimane. Rispolverare un documentario Netflix del 2015, Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom, può aiutarci a capire meglio le origini del conflitto. Fa male scoprire che il grido pacifico di giovani, donne, bambini e cittadini comuni abbia innescato tensioni, guerriglia urbana, pestaggi, morti e feriti. Tutto per difendere e conquistare la libertà e la dignità umana.

Questo è l’asse portante delle manifestazioni passate alla storia come “Euromaidan”, dall’hashtag diffuso sui social per darsi appuntamento dal 21 novembre 2013 al 23 febbraio 2014 nel centro di Kiev. Lo scopo: opporsi pacificamente alla decisione del parlamento di non sottoscrivere più gli accordi di libero scambio con l’Unione Europea. Per questo lo slogan unisce il sogno del popolo ucraino di avvicinarsi con sicurezza all’UE (euro-) con il nome di una piazza (-maidan), intitolata all’indipendenza del paese. La Russia, però, è un’osservatrice silenziosa, gioca d’astuzia col presidente di allora, Viktor Fedorovyč Janukovyč: lo ammalia portandolo dalla sua parte e allontanando l’Ucraina dal sogno europeo.

Quando fugge di nascosto, dopo la battaglia più irrazionale e sanguinosa contro la piazza scatenatasi tra il 18 e il 20 febbraio 2014, quella perpetrata dalle berkut (unità speciali antisommossa, poi sciolte a seguito delle proteste), si rifugia proprio tra le braccia dell’amico Putin. È a questo punto che si innesca una spirale di guerra silenziosa, che vede le forze russe occupare la Crimea, annessa nel marzo 2014 alla Federazione Russa dopo un referendum non riconosciuto dall’Unione Europea, dalla Nato e dalla maggioranza dei paesi ONU, e correre in soccorso dei separatisti in Ucraina meridionale. Nonostante la firma successiva dell’accordo con l’UE, dopo la fuga e l’impeachment di Janukovyč, la Russia non ha distolto il proprio sguardo: ha continuato a diramare con pazienza la trama della violenza, fino ai tragici fatti dello scorso febbraio.

Oggi più che mai, il racconto di quanto accadde nel centro di Kiev, tra Piazza Indipendenza e il Monastero di San Michele, mette i brividi. Quelle immagini, girate dalla squadra di cineasti del regista Evgeny Afineevsky, ricordano con atroce realismo l’Ucraina di oggi: la violenza ingiusta e i morti innocenti. Perché una protesta nata in nome della pace si trasformò in una carneficina durissima e senza scrupoli: 125 morti, 65 dispersi e 1890 feriti. Eppure, dopo tutta la crudeltà realissima e sconcertante documentata dalle telecamere, la speranza non sembra essere ancora svanita del tutto.

«Musulmani, ebrei, cristiani di varie chiese, buddisti e persone che non avevano un credo definito si sono trattati tutti con rispetto», tentando di dimostrare alla Russia che «nessuno mette in ginocchio una persona libera». In realtà, tutto quel dolore ancora non si è esaurito: c’è stata una vittoria apparente dell’Ucraina, una finta tregua sottovalutata da molti, che ora si sta scatenando con tutta la sua crudeltà.

Chi non ha un abbonamento Netflix ma desidera comunque guardare Winter On Fire può trovare il documentario integrale sul canale YouTube ufficiale di Netflix.

(Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom, di Evgeny Afineevsky, 2015, documentario, 97’)

Copertina di SociAbility

I social network e la nostra capacità di stare al mondo

«E brindo a chi è come me, al bar della rabbia».
(Mannarino)

 

 

«Mi piace scrivere nei bar», esordisce il giornalista Francesco Oggiano nell’introduzione di SociAbility. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo (Piemme, 2022).

Quello del bar è un tema che ritorna in tutti coloro – Oggiano come molti altri – che sono affettuosamente legati a una dimensione di aggregazione casuale e generalista, di ciarla spontanea e un po’ naif su argomenti che vanno dal pettegolezzo alla politica internazionale, dalla sociologia spiccia all’economia nazionale. Un’immagine che inevitabilmente richiama quella del social network, dove la cosiddetta chiacchiera da bar la fa ancora da padrona. Eppure, nonostante i “buongiornissimi” con le immagini kitsch di tazzine di caffè, dell’ambiente alla buona del bar è rimasto molto poco, mentre decidere di accedere al proprio feed di Facebook, Twitter, Instagram, oggi, ha invece qualcosa più in comune con l’ingresso in un’arena. E non importa che tu sia il migliore dei gladiatori, uno schiavo, la vittima designata o semplicemente parte del pubblico: quel che è certo è che un po’ dell’equivalente social del sangue anche oggi scorrerà.

Si è definitivamente compiuto il passaggio da quello che Oggiano chiama appointment internet, cioè un ambiente usato prevalentemente per comunicare coi propri amici, la preistoria dei social network, al performance internet, cioè questa specie di palcoscenico sul quale ciascuno di noi – che abbia cento follower o centomila – tiene molto a dare la migliore versione di sé. Prendendo parte, molto spesso, alla polemica del giorno e contribuendo al proprio processo di posizionamento.

E non vale soltanto per i singoli, ma anche per i brand, siano essi colossi dai profitti milionari che esibiscono bandierine arcobaleno e strombazzano la loro inclusività oppure influencer che usano «più che la loro immagine per combattere battaglie, le battaglie per definire la propria immagine», o ancora politici spregiudicati il cui flusso ininterrotto di fake news e idiozie non lascia neanche il tempo per ventiquattr’ore di dovuta ignominia.

Di chi è la colpa?, verrebbe da chiedersi assecondando questa tendenza a puntare il dito, a dividere tutto in buono e cattivo. La verità è che è pressoché impossibile dirlo.

L’unico buon servizio che ciascuno di noi può rendere a se stesso, e alla società in cui vive, è abbracciare la complessità del reale e provare a portarla sempre con sé, soprattutto sulle piattaforme che della nostra indignazione fanno moneta corrente.

In una ricostruzione intelligente e vivace della storia non già dei social network, ma del loro uso performativo, Francesco Oggiano mette insieme una serie di elementi preziosi che possono aiutarci a decodificare le tendenze polarizzanti del dibattito pubblico, che sta assumendo via via forme sempre più grottesche e vagamente inquietanti per le ricadute sulla vita cosiddetta reale.

Il mantra onnipresente del “non si può più dire niente” e lo spaventoso abuso del termine “cancel culture” (che pure avrebbe anche un senso, in alcuni casi) è qualcosa su cui siamo moralmente obbligati a interrogarci in maniera costante, sottoponendoci a test periodici e circostanziati.

Siamo in grado di riconoscere quelle che Oggiano chiama «fuck news», ovvero le notizie che ci fanno prontamente indignare? E siamo capaci di trattenere quella vocina che vuole a tutti i costi dire la sua, spesso soffermandosi al titolo, allo strillo o a una prima sommaria ricostruzione della vicenda? E se invece, dopo esserci magari anche opportunamente documentati, diamo retta all’altra vocina che ci dice che è meglio lasciar stare – ma chi te lo fa fare poi di metterti a litigare! –, stiamo forse subendo una forma di (auto)censura che a lungo andare inibirà le nostre capacità critiche?

E se nell’antichità c’erano capri espiatori e pharmakon usati per emendare i peccati collettivi, processi sommari e gogne pubbliche, oggi non assistiamo forse a un ricorso storico della tragedia che – come da adagio marxiano – si ripete in farsa, quando professori universitari o dirigenti d’azienda sono costretti ad accorati messaggi di scuse, se non alle dimissioni, in seguito a un’affermazione infelice, o quando artisti famosi incontrano la fine della loro carriera per un’accusa di molestie ben prima del giudizio di un tribunale?

E se la cancel culture, perlomeno in Italia, è un concetto cavalcato innegabilmente da populisti beceri o reazionari in opposizione a forme più inclusive di espressione, è pur vero che una generazione di quelli che Oggiano chiama “illiberali di sinistra” si sta rivelando sempre più intransigente – con modi e tempi che ricalcano troppo quelli dei presunti avversari – verso chi magari ha soltanto bisogno di più tempo (e più complessità) per accettare alcune nuove istanze e abbandonare retaggi di un passato ancora molto, troppo presente.

Tra i risultati possiamo annoverare un caso come quello, recentissimo, in cui – in un delicato frangente storico – uno stimato scrittore e grande esperto di lingua e letteratura russa come Paolo Nori si vede “sospendere” e poi riproporre, ma con qualche modifica, un seminario su Dostoevskij all’Università di Milano Bicocca, e per evitare “ogni forma di polemica” si passa più tempo a litigare o a schierarsi sui social che a farsi delle domande su quanto i vertici del sistema culturale italiano siano sempre più spesso in mano a un’imbarazzante accozzaglia di grotteschi burocrati. Per non parlare del tempo che avremmo tutti ottimamente potuto impiegare leggendo L’idiota e Delitto e castigo.

Che i social network, soprattutto per un personaggio pubblico, non possano essere un luogo dove parlare senza filtri proprio come al bar, questo ormai è evidente a chiunque; eppure il nostro anelito a un mondo nel quale ciascuno possa esprimere la propria opinione, per quanto in disaccordo con la maggioranza o anche francamente scorretta, in piena libertà, dovrebbe farci dubitare di chiunque pretenda di ergersi a giudice.

Oggiano, che del mare digitale è navigatore ormai esperto (speravamo di non dover mai utilizzare il sintagma digital journalism in questo articolo ma, a voler essere corretti, è esattamente ciò di cui si occupa) e fa parte del team di Will Media, popolare progetto di giornalismo e divulgazione economico-politica pensato per essere fruito su Instagram, mette insieme una sua ricetta per provare a migliorare il futuro dei social, dell’attivismo, dei brand, della politica, ma soprattutto il futuro del nostro essere umani.

In sintesi, dobbiamo tenere sempre ben presenti tre elementi: le fonti («Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro»), il senso critico («Quando ti sembra troppo bello per essere vero, non è vero») e il contesto.

Non sarà sempre divertente come una colazione con gli amici del bar, ma è indispensabile come un caffè per restare svegli.

 

(Francesco Oggiano, SociAbility. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo, Piemme, 2022, pp. 208, 11,90 euro. Articolo di Giulia Marziali)

Copertina di Orientamento di Orozco

Il quotidiano trionfo dell’assurdo

C’è una donna in un grosso supermercato di un centro commerciale. Il suo obiettivo è il reparto dei biscotti, verso cui si trascina spinta da una pulsione quasi erotica. Peccato però che il megastore sia strapieno, sebbene sia notte (sebbene il suo desiderio sia travolgente), e che la corsia dei biscotti sia occupata da altre persone: prima una giovane coppia, attraente ma fastidiosa, poi un’altra donna, molto simile alla protagonista, quasi un suo doppio – o forse un suo giudice. L’assenza di privacy turba, e anzi de-sacralizza quel momento, e alla smania si sostituisce così la vergogna, accompagnata dalla disperazione. In “Storie di fame”, uno tra i racconti più riusciti dello scrittore statunitense Daniel Orozco, il momento dell’acquisto dei biscotti è un autentico rito, e il supermercato il suo tempio: l’ordinarietà più spicciola (quella del vizio superfluo, del consumo solitario, della bramosia a buon mercato) nella società tardo capitalista diviene il momento clou della giornata; il suo momento metafisico addirittura, o almeno quello che più si avvicina all’idea del sacro.

Nell’episodio di “Storie di fame” appena raccontato è proprio il non-senso ad acquistare il senso massimo: tutto può ritagliarsi narrativamente un ruolo, e un pacco di biscotti è un centro gravitazionale più che plausibile per una short story (e forse anche per un romanzo), un oggetto del desiderio di tale intensità da poter risolvere o distruggere un personaggio. È proprio in questa intercapedine tra senso e non-senso, necessario e superfluo – parlando in termini letterari, tra realistico e assurdo –, che si muove una certo tipo di letteratura contemporanea: si pensi ai supermercati di Don DeLillo in Rumore bianco, o al David Foster Wallace di Verso Occidente l’impero dirige il suo corso. Se però in DeLillo si percepiva un sentimento di sorpresa, di profezia (quello di una letteratura che anticipava il mondo, e non viceversa), e in Wallace, dietro l’ironia, una nostalgia triste verso qualcosa di irrimediabilmente perduto, nei racconti di Daniel Orozco a dominare la scena è un grottesco ormai normalizzato, un esaurimento nervoso eletto a condizione standard dell’umanità.

I racconti che Orozco ha raccolto in Orientamento – pubblicato negli Usa nel 2011 e in Italia da Racconti edizioni dieci anni dopo – d’altronde si svolgono quasi sempre in ambito lavorativo: il posto di lavoro, e in particolare l’ufficio, è infatti – in parallelo e ancor più del supermercato – il vero tempio della contemporaneità. È in ufficio che di solito si diramano in tutta la loro incoerenza le questioni “superflue ma decisive” nella vita delle persone, e che si colgono appieno le contraddizioni di una società insieme individualistica e massificata. Le storie di Orozco raccontano appunto il quotidiano trionfo dell’assurdo, e in fin dei conti si potrebbero definire “realistiche”, se intendiamo per realtà questo coacervo di finzione pubblicitaria, produttività a tutti i costi e mero istinto di sopravvivenza. Si tratta forse di un “nuovo quotidiano”, come se quello che un tempo avremmo chiamato postmoderno fosse slittato infine nel genere realistico. Tanto è vero che in quarta di copertina si fa riferimento non solo a Kafka (oracolo massimo degli incubi burocratici tipici del lavoro dei nostri tempi), ma anche a Raymond Carver, quasi che l’unico minimalismo possibile oggi fosse un lucido rendiconto del caos.

I dieci anni passati dal momento della prima pubblicazione di Orientamento rendono la normalizzazione dell’assurdo descritta da Orozco ancora più evidente, soprattutto nel mondo del lavoro: non è un caso che in piena pandemia sia scoppiata la cosiddetta Great Resignation, fenomeno sociale per cui un importante numero di lavoratori ha abbandonato il proprio impiego negli Stati Uniti – con riflessi anche in Italia. Secondo il New York Times, solo ad agosto 2021 4,3 milioni di americani hanno lasciato il lavoro. Le cause sono quelle che sociologi e filosofi analizzano già da anni: paghe basse, stress, sindrome da burnout. E sicuramente il Covid. La pandemia infatti ha funzionato da acceleratore di questi processi e anche da lente, mostrando palesemente quanto gli incubi che la letteratura e il cinema avevano immaginato fossero reali già da molto – troppo – tempo. I racconti “da ufficio” di Orozco si posizionano simbolicamente proprio nell’attimo precedente alla Great Resignation, quello della realizzazione, e in altre parsole dell’esasperazione, o della sconfitta.

Un racconto come “Orientamento” – che dà il titolo alla raccolta – sembra, più che un incubo, un paradossale resoconto. Il tema è quello del primo giorno di lavoro di un neoassunto; la voce narrante quella di un suo collega che gli spiega il “modo corretto” di comportarsi in ufficio, in un misto di orrore burocratico («Questo è il tuo Indice dei Codici Numerici degli Analisti dei Protocolli. E questo il tuo Manuale alla Procedura per il Protocollo dei Formulari»), idiosincrasie dei colleghi («John LaFountaine non è pericoloso, le sue scorribande nel territorio proibito del bagno femminile niente più che una fregola innocua»), informazioni grottesche e minacciose («Quella lì è la postazione di Kevin Howard. Lui è un serial killer. Quello che chiamano lo Sgozzatore della Moquette, responsabile di diverse mutilazioni in citta»). Leggendo le assurdità propinate al protagonista di “Orientamento” si percepisce un sottile – ma gravoso – senso di familiarità (una sorta di versione aggiornata del perturbante freudiano). Incredulità, minaccia, e poi familiarità, divertimento, addirittura conforto, sono tutte emozioni che il lettore sperimenta leggendo questo (magistrale) racconto. Orozco potrebbe configurarsi allora come discepolo di Kafka, dei suoi labirintici corridoi e delle sue metafore vuote: in Kafka però l’individuo (anche l’individuo eletto come K.) si annullava nella moltitudine, si abbandonava a una Legge misteriosa ma ineludibile; qui invece tutti i personaggi hanno una personale versione della Legge – e cioè qualcosa da raccontare, qualcosa per cui stare male. L’ufficio di Orozco è un coacervo di grida di uomini soli, incapaci di comunicare.

La cosa che a un lettore giovane verrebbe più semplice associare a un racconto come “Orientamento” probabilmente è la serie tv The Office (in origine un remake della omonima serie inglese di Ricky Gervais), che racconta le vicissitudini degli impiegati di un ufficio di un’azienda cartiera della Pennsylvania. The Office è in primis una serie divertente, ma ha anche un’anima impegnata: la sua è una critica al sistema lavorativo americano attraverso l’espediente dell’esagerazione grottesca di dinamiche reali (un metodo molto simile, appunto, a quello di Orozco). Negli ultimi anni una nuova fascia di spettatori entrati da poco nel mondo del lavoro si è approcciata alla sit-com (andata in onda tra il 2005 e il 2013), che si è subito configurata come un ritratto agrodolce di situazioni che la generazione del precariato si trova a vivere quotidianamente. In The Office il lavoro è a metà tra l’incubo e il gioco, le mansioni sono noiose e le direttive incomprensibili, i diritti dei lavoratori spesso calpestati, e insomma – anche se tutto è dannatamente divertente – l’alienazione è massima. La sigla della serie tv è un ironico inno al superfluo, con evidenziatori, fotocopiatrici, calcolatrici e tritacarte che prendono la scena, riproducendo quel senso del non-senso di cui si parlava prima (a proposito dei biscotti). Quelle innescate da The Office sono in definitiva delle risate stranianti: sembra impossibile che il mondo del lavoro sia davvero così, ma al contempo è innegabile che realtà e fiction si assomiglino molto.

Tornando però a Orozco, al tema dell’ufficio come teatro dell’assurdo va associato un altro dei racconti meglio riusciti di Orientamento. Il titolo è di per sé emblematico: “Racconti interinali”. Si tratta di una storia divisa in tre capitoli, dedicati ai tre lavori svolti da una donna, Clarissa Snow, in un dato periodo della sua vita (tutti e tre procurati da un’agenzia interinale). All’inizio Clarissa è una centralinista dell’Ufficio Risorse Umane in un ospedale, poi la redattrice di un misterioso Rapporto Segreto per il vicepresidente in un’agenzia di assicurazioni, infine un’impiegata nella Cancelleria Municipale. Quella di Clarissa pare quasi un’avventura picaresca, una migrazione disperata tra diversi lavori, uno più inutile e frustrante dell’altro – eccetto l’ultimo, forse, dove la donna sembra aver trovato un certo equilibrio, anche se temporaneo. Leggendo il racconto si ha l’impressione che le avventure di Clarissa – il passaggio cioè tra varie occupazioni – possano proseguire all’infinito, in una condizione di transitorietà perenne. Clarissa, poi, fin dal primo impiego scopre che lavorare spesso significa confrontarsi con le sconfitte, proprie ma anche degli altri: è il grande tema di questa short story, e forse dell’intera raccolta. In un panorama di mortificazione, competizione, imbroglio, il rapporto con l’altro allora appare svilito, anche nei momenti che dovrebbero essere di comunanza: per esempio quando in ospedale la donna riceve continue chiamate di persone che la implorano per un impiego in ospedale, non sapendo che è lei stessa la prima a trovarsi in una situazione analoga.

In questo caos di voci, a mancare è proprio il dialogo. Foster Wallace l’aveva già mostrato chiaramente: a volte non sembra proprio esserci rimedio alla solitudine, e il rapporto con gli altri appare mercificato, relegato a consumo o a prevaricazione. Così è per il protagonista di “Vado a correre ogni giorno”, la cui esistenza diviene un inferno quando al lavoro i suoi colleghi vengono a sapere che è ancora vergine. A quel punto a “salvarlo” sembra essere la corsa; lui però ne fa un’ossessione privata, incondivisibile, piuttosto che una compensazione. La sua è una chiara scelta di solitudine, di distacco dagli altri: confrontarsi col punto di vista “sociopatico” d’altronde è un buon modo per orientarsi tra i racconti di Orozco; da questa particolare visuale, l’intreccio tra mostruosità e quotidianità del mondo del lavoro è lampante. Nel racconto “Il ponte” il protagonista, soprannominato Bimbo, è un imbianchino che, mentre lavora su un ponte, assiste al suicidio di una donna che si getta di sotto. Questa, nella sua caduta, gli passa vicino, praticamente lo sfiora. Sì, è scioccante, gli spiegheranno i colleghi, ma alla fine è una cosa che capita spesso. È una cosa normale. Loro li chiamano i “saltatori”, e ne tengono anche il conto. La sua donna è la 995esima.

Ma allora, verrebbe da chiedersi, questa sfilza di precari, neoassunti, lavoratori alienati e apatici descritti da Orozco, come dovremmo definirli? Sono eroi dei nostri tempi oppure falliti? La loro è sicuramente una vita “eroica”, tra difficoltà varie e ricerca del lavoro o di uno scopo o di un divertimento. Eppure è evidente che il loro eroismo assume sempre i connotati di una paradossale sconfitta. A sorprendere, di questa sconfitta, è però la poeticità, che è sì brutta, guasta, nevrotica, ma comunque autentica. Forse solo abbandonandosi al ritmo esasperante (che poi è un non-ritmo) della vita contemporanea, solo perdendo e accettando di perdere, si può avvistare la parvenza di un senso; questo sembra ammettere Daniel Orozco: il suo è un libro profondamente pessimista, che in fin dei conti non contempla un superamento del fallimento. Eppure uno spiraglio esiste, forse; un senso di “fratellanza interinale” da trovare da qualche parte, anche in luoghi inaspettati. Sul finale di “Racconti interinali”, così Orozco descrive il ritorno a casa di Clarissa Snow, in autobus:

«Sull’autobus si sentiva immersa nel mondo, sentiva la sua pressione e le sue spinte e i suoi urti, il suo peso morto che le scorreva accanto e intorno e addosso. Perché era questo che amava più di ogni altra cosa – il semplice tocco di qualcun altro, casuale e intimo ed essenziale. Perché nessuno è mai solo su un autobus. […] E lei ondeggiava beata addosso ai suoi fratelli pendolari, e chiudeva gli occhi di fronte al lampeggio della luce sulle finestre tutt’intorno».

 

(Daniel Orozco, Orientamento, Racconti edizioni, 2021, trad. di Emanuele Giammarco, 192 pp., euro 16, articolo di Claudio Bello)

Space Cowboy di Tommaso Paradiso

Tommaso Paradiso ha fatto uscire un album solista e la cosa era piuttosto scontata. Se non da Fuoricampo, dove la retomania era ancora declinata a un’idea alt-pop, sicuramente da Completamente sold out, dove le scelte erano state fatte ed erano chiare. Possono esserci tutti i motivi possibili dietro una scelta del genere, ma la questione di base è una: Tommaso Paradiso è sempre stato una cosa a parte rispetto ai Thegiornalisti. Troppo più grande del gruppo, troppo più carismatico, troppo indipendente.

Quindi la separazione, la fine di un’era, che poi alla fine suona più come un semplice cambio di nome. Esce Space Cowboy, anticipato da diversi singoli-video in cui Paradiso indossa un cappello da cowboy e suona la chitarra. Cambiando qualcosina, mettendoci in mezzo il mito del ranch, rientra nell’immaginario a cui ci ha abituato, vascorossismo o ligabuismo, maschi soli alle prese con la solitudine, fatalismo e finta autocommiserazione.

C’è qualcosa che mi ronza in testa ogni volta che esce qualcosa di nuovo con la voce di Paradiso: non riesco a non fare un confronto con quello che faceva uscire agli esordi. Piuttosto scontato, ma inevitabile. Da Vol.1 sono passati undici anni. Ipotizzando di non conoscere  nulla della discografia Thegiornalisti, se dovessimo dire “queste due cose sono uscite dalla testa dello stesso gruppo?”, o meglio, “dello stesso autore”, la risposta molto probabilmente sarebbe no.

Ora, non è che Vol.1 sia uno degli album alt-rock di inzio anni’10 da ascoltare assolutamente, album seminale o chissà cosa. Anzi, continua ad essere piuttosto trascurabile.  Non siamo costretti, sostanzialmente, a sopravvalutarlo per giustificare quello che Tommaso Paradiso è diventato e che oramai rappresenta.

Però quel suono che finiva per forza dalle parti di Brooklyn nei primi 2000 (sì, gli Strokes) e che portava in sé qualcosa da dandy alla Baustelle, meritava attenzione.  La base su cui costruire un’altra carriera?  Forse. O forse doveva andare così. Ci appelliamo al fatalismo alla Paradiso.

Quello che è successo dopo, probabilmente da metà Fuoricampo in poi, ha i suoi motivi: i social, l’avvento dei Cani prima, l’avvento di Calcutta poi, l’itpop, il confine tra indie e mainstream sempre meno chiaro fino a scomparire sotto i colpi dei trapper.

Tommaso Paradiso piace allo star system (da Pardo a Mara Venier), è quello pescato dai bassifondi dell’Indie, belloccio, dandy. Un dandy innocuo – stesso essere innocuo, ora, rappresentato anche da Achille Lauro, e non è un caso che ci siano delle grosse somiglianze tra i due, per quanto possa non sembrare così. Tommaso Paradiso può inoltre parlarti della Lazio o della crisi ucraina con la stessa convinzione. A un mondo che in apparenza deve svecchiare, un personaggio del genere fa comodo: guardate che non siamo grigi come pensate, eh, sappiamo quello che succede/succedeva lì sotto.

Ma Tommaso Paradiso non è un corpo esterno, non è un estraneo. È lo status quo, la vocazione all’autoconservazione di un sistema bloccato. O perlomeno le sue ambizioni combaciano con il sistema di cui oramai è rappresentante. La raffigurazione di un sistema che per ringiovanire cambia due o tre cose e si mantiene sempre allo stesso modo.

Tommy Paradiso, comunque, compie la sua metamorfosi, toglie i panni di Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti e diventa finalmente il solo e unico Tommaso Paradiso, e oggi alla grande prova, quella dell’album, in un mondo  in cui il disco può benissimo essere un’appendice, ci conferma di essere uno stranissimo e per questo normalissimo caso italiano.

Non cambia nulla rispetto al passato. Al suo passato recente. Perché nulla doveva e poteva cambiare. Tommaso Paradiso dà quello che ci si aspetta da lui. Precisamente quello. Il mare che ci aspetta e una ragazza che ci sta. I suoi wohooo. Anni ’80, gli anni’80 immaginati da Tommaso Paradiso.  Non solo attraverso le sonorità. Anche attraverso riferimenti specifici di un certo tipo di anni ’80 nel cinema (il cargo battente bandiera liberiana di Borotalco, per esempio). La linea tracciata è sempre quella che arriva da Completamente sold out. Vasco Rossi, Venditti, De Gregori (partono i primi accordi di “Magari no” ed è veramente difficile non cantare Sole sul tetto dei palazzi in costruzione). Ma ci sono anche gli anni ’90 e in modo evidente Gianluca Grignani. Tutto il repertorio di Tommaso Paradiso, tutto già sentito, tutto già immaginato.

Space Cowboy conferma l’enorme capacità di semplificare di un artista che sembra stia svernando nel momento in cui di fatto inizia la sua carriera. Di semplificare il dolore. La fine. L’inizio. Le scelte. Gli errori. Di parlarne in maniera superficiale. Di trattare ogni cose in maniera blanda. Non accettandone la complessità, rendendola una cosa monodimensionale. I testi a forma di post di Facebook. Di nuovo. È un enorme manifesto della sua poetica, dei suoi diari.

Fa anche una strana simpatia il suo credere tantissimo a ciò che dice, cercando invece di mascherarsi da uno che non prende le cose sul serio, in balia di queste lunghissime strade alla Vasco Rossi – sempre la solita metafora, il solito spirito -, questa solitudine banale, la sigaretta in bocca e via.

Risulta difficile prendere sul serio quello che scrive. Come lo canta. L’effetto, questa malinconia-retorica, il più delle volte finisce per avere un risvolto comico: sono uno space cowboy, detto con quell’enfasi, dopo cinque canzoni enfasi/cuori spazzati/macomunqueiosonotommasoparadiso, fa ridere. Ti scappa da ridere.

Difficile trovare qualcosa che possa funzionare. O meglio. Potenzialmente funziona tutto, perché tutto è incastrato alla perfezione nel grande universo di Tommaso Paradiso. Nel mondo dove pure il fumo delle sigarette è di plastica.

È ovvio che non potesse mancare all’appello il compagno di avventure, Franco126,  con cui duetta in “Amico Vero“, e la sensazione è sempre quella del video di “Stanza singola“: loro che dicono cose sulla vita, sulla fine delle storie, si fanno un giro in un posto bellissimo (in questo caso il Lungotevere), guardano da qualche parte in avanti. Una birra, le sigarette. Ma alla fine dei conti sono stati pure bene da soli. Il tutto al rallentatore, che dovrebbe rappresentare un certo tempo interiore che viaggia a velocità diversa rispetto all’esterno, dove tutto sta sempre per crollare, ma poi non crolla mai. Space Cowboy è quel video, e quel video è Space Cowboy.

Lo è perché Tommaso Paradiso è una parodia di Tommaso Paradiso.  Non ci si aspetta più granché da lui da un punto di vista artistico. Usciranno i sui singoli e magari sarà il super ospite di uno dei prossimi Sanremo. E andrà bene così. Nel mondo di Tommaso Paradiso, alla fine, nel cielo c’è sempre un sole splendente.  Sarà solo un po’ strano ripensare a “Siamo tutti marziani”, tra qualche mese, riascoltando l’ennesima canzone di Tommaso Paradiso che esce dalle casse di uno stabilimento balneare.

 

Dialogo Gaspari Fingerle

La vocazione che ci siamo scelte

Riprendono le nostre conversazioni tra scrittori e scrittrici, e questa volta ospitiamo Maddalena Fingerle e Ilaria Gaspari. La prima ha esordito lo scorso anno con il romanzo Lingua madre (Italo Svevo, 2021), che ha collezionato diversi premi, tra cui il Premio Calvino (quando era ancora inedito), il Premio Flaiano under 35, il Premio Comisso under 35 e il Premio Megamark. La seconda ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo Etica dell’acquario (Voland), nel 2018 Ragioni e sentimenti (Sonzogno); per Einaudi ha pubblicato nel 2019 Lezioni di felicità, già tradotto in diverse lingue, e nel 2021 Vita segreta delle emozioni.

Una conversazione che spazia tra affinità, emozioni e promesse mantenute, e che ci permette di conoscere meglio due tra le più interessanti giovani scrittrici del panorama letterario italiano.

 

Ilaria Gaspari: Cara Maddalena, non so da dove cominciare. Ci sono talmente tante cose di cui vorrei parlare con te! Forse comincerei da una che abbiamo notato tutte e due, leggendoci l’un l’altra: l’affinità. Di solito si aggiunge sempre “elettiva”, ma non so mica se siano elettive. Siamo cresciute lontane e solo la serendipità ci ha fatte inciampare nelle parole dell’altra, quando, come piante spontanee, le nostre personali parole già si erano sviluppate. Tu poi hai questa marcia in più rispetto a me: il tedesco, che io ho studiato inutilmente, cocciutamente, e poi ho dimenticato. Ma le cose in cui ci somigliamo, tanto che a volte leggendo il tuo Lingua Madre avevo la sensazione di essere dentro la mia testa (giuro! anche se so che può sembrare esagerato), credo che siano in particolare due: l’ansia e la ricerca continua (di cosa? magari lo scopriamo parlandone, certo è un modo per perdere continuamente l’equilibrio, per non fermarsi mai, per illudersi, forse, di non potersi fermare). Che forse è una conseguenza dell’ansia. Pensi che c’entrino con la vocazione che ci siamo scelte (perché alla fin fine penso che anche le vocazioni si scelgano)?

 

Maddalena Fingerle: Cara Ilaria, cominci dall’unica cosa dalla quale si può cominciare, secondo me: l’affinità ansiosa. Che poi è legata al riso, ne sono certa, e anche all’autoironia. Io per esempio mi faccio ridere, quando prima di un esame o di una conferenza mi scrivo i giorni mancanti sul calendario e sotto gli effetti della valeriana faccio un piano di ciò che secondo me posso e non posso fare, saltando pasti e trascurando amicizie, ma poi mi perdo a rispondere alle mail o a scrivere e so che dovrò recuperare il tempo (che ovviamente calcolo con un cronometro che mi mette ancora più ansia) e programmo di farlo in macchina, il problema è che poi mi sento in colpa perché non è bello lavorare mentre mio marito guida e se solo non avessi l’ansia potrei guidare io, ma allora non recupererei niente. Eppure non ce la faccio a non rispondere alle mail (o leggere racconti o chiacchierare con la collega) e allora decido di saltare il caffè, ovviamente decaffeinato, e giuro di tirare pacco alla telefonata delle 16:30, riesco a fare tutto, mi ripeto, non ce la farò mai, mi rispondo, ma alla fine ora delle 16:30 ho finito ciò che dovevo finire e mi tocca scrivere alla telefonata delle 16:30 guarda, perdonami, ma ho calcolato male i tempi, possiamo sentirci. L’ansia però non fa solo ridere, io le sono estremamente grata perché mi obbliga a occuparmi di questioni che altrimenti mai e poi mai vorrei affrontare, mi avvisa dei limiti che altrimenti non sentirei o mi convincerei di non sentire. Per me è un termometro molto utile. Mi è successo anche leggendo Vita segreta delle emozioni: ero arrivata al capitolo sull’ansia e mi è partita l’ansia, e fa già ridere così. Ma non solo, perché se poi vado a guardare perché mi è venuta l’ansia arrivo al nodo delle questioni.

E sì, anche secondo me le vocazioni si scelgono; la ricerca continua e l’ossessione aiutano a cercare le parole per dire le cose e alla fine la scrittura è pure questo. Forse c’è anche un altro aspetto: dietro alla ricerca di una voce credo si nasconda (almeno nel mio caso) il desiderio di placare l’ansia, di farsi cullare, di farsi raccontare storie; e la scrittura, come l’ansia, non dovrebbe mai fare sconti, infatti capisco che ho qualcosa da dire quando me ne vergogno e sento un peso sul petto, cioè: quando provo ansia.

 

Maddalena Fingerle

 

IG: Uh, il peso sul petto! Lo conosco bene. C’è stato un periodo, ed è durato anche un bel po’, più o meno gli ultimi due anni di università, in cui il peso sul petto me lo sentivo sempre, fisso, come se qualcuno mi avesse inchiodato un’incudine allo sterno. Non riuscivo a respirare profondamente, cercavo di sospirare ma era come se l’aria non andasse giù. Oggi credo di sapere cosa mi provocasse quel sintomo; all’epoca, essendo un po’ tragica, ero convinta che fosse il segno di un infarto imminente. Certo, imminente per due anni… tormentavo una povera dottoressa da cui continuamente andavo a farmi visitare. Lei mi disse chiaro e tondo che era solo ansia, non c’era altro, ero sana come un pesce ma ansiosa. Insomma a un certo punto decisi, proprio quando mancava un mese alla fine della Normale, alla fine della vita in collegio e di una serie di privilegi di cui per pigrizia non mi ero avvalsa, di andare a bussare allo sportello dell’assistenza psicologica. A cui avevo diritto di accedere, mi pare, per un massimo di tre sedute. Le concentrai, per forza di cose, tutte in quell’ultimo mese che mi separava dal momento di uscire dall’acquario, come fra me chiamavo la scuola, il collegio e tutto il resto. Era probabilmente quello a terrorizzarmi – stava per finire una fase così importante della mia vita, una fase felice e infelice in un suo modo struggente, esagerato, tormentato com’ero a vent’anni (ma mi sa che lo siamo un po’ tutti, quando possiamo permetterci il lusso di esagerare un po’), e io, insomma, non ero pronta. Non ero pronta a niente. Trovai una dottoressa adorabile, la ricordo ancora con un affetto immenso anche se lei si sarà completamente scordata di me, del resto ci siamo viste tre volte. Insomma, parlando con lei successe una cosa. Cominciai a chiedermi, a dire il vero cominciò lei, cosa mi bloccasse il respiro. Venne fuori che erano delle parole… avevo scritto tantissimo fino all’adolescenza, inventando storie di cui riempivo quaderni. Poi avevo smesso, anche se al tempo del liceo, con uno spirito imprenditoriale che purtroppo poi ho perso, capitava che scrivessi temi su commissione, perché la facilità di penna sapevo di averla – ero convinta, però, che non bastasse, che fosse un bluff, ed è una convinzione che a dirla tutta non mi abbandona neanche adesso. Ma parlando con la dottoressa, mi ero resa conto che non potevo lasciare che questa paura, di non essere all’altezza, di non essere abbastanza brava, mi paralizzasse. Ho iniziato a scrivere allora, prima erano impressioni, momenti che fermavo, e poi, pochi mesi dopo, la primissima versione del libro che sarebbe stato il mio esordio, Etica dell’acquario. Ho iniziato a scrivere per aggirare la paralisi del respiro, diciamo che ho iniziato per via dell’ansia. E tu?

 

MF: Bellissimo, bellissimo! Sai, sto pensando: non sono all’altezza di dire niente, dopo queste tue parole – e in fondo è un pensiero, o una sensazione, che se non altro si inserisce bene nel contesto. Io non saprei dirti quando ho cominciato a scrivere e perché. So che c’era molta inconsapevolezza e pure un po’ di incoscienza nel modo in cui lo facevo. Sentivo quando avevo qualcosa da scrivere e mi dedicavo ossessivamente a quello usando giorni di ferie. Scrivevo in vasca da bagno e sul letto, trascurando tutto ciò che pensavo di poter trascurare: sparivo per giorni, mesi, non avevo tempo per cucinare o uscire o fare qualsiasi altra cosa che non fosse scrivere e lavarmi. Andavo avanti a Coca-Cola. A volte, mentre scrivevo in vasca, mangiavo patatine fritte. Il mio esordio, Lingua madre, l’ho scritto così. Poi, subito dopo l’editing, mi sono accorta che sapevo cosa facevo nella scrittura, ma a livello psicologico non ne avevo la più pallida idea. Era come se avessi riempito uno spazio immaginato di cose mie e non mie ma non fossi in grado di gestirle, di capirle. Non avevo il controllo e questa cosa mi innervosiva. Lo capii quando Dario De Cristofaro, editor e curatore della collana INCURSIONI, mi fece una domanda, era la sua primissima domanda per me: Maddalena, cosa c’è di te nel romanzo? Io pensai di abbandonare tutto, credevo fosse una domanda idiota, che non avesse alcuna importanza, mi irrigidii, mi e gli raccontavo che non mi identificavo con il testo, che in parte era vero, ma mi infastidii così tanto perché in realtà non conoscevo la risposta, a quella domanda. E invece era fondamentale saperlo. Lo era per me, e forse pure per lui, perché dovevamo lavorarci e per farlo dovevo fidarmi. Poi fu un lavoro divertentissimo e sono così grata per la cura e l’attenzione, anche umana, che ho trovato alla Italo Svevo. Una volta finito il lavoro sul testo mi sentii sola e vuota e confusa, ciò che andava messo a posto a livello testuale era a posto, ma il resto? Nella stanza c’erano solo cose mie, ormai. Cercai un terapeuta e, a proposito di ansia legata alle parole e al modo di dirle, lo scelsi anche in base all’accento.

 

IG: Mi sembra un ottimo criterio, questo dell’accento! Comunque, dai, almeno tu ti lavi nei periodi in cui scrivi… scherzo! In realtà non scherzo affatto, io purtroppo coltivo quest’arte dell’abbrutimento per cui quando sono nel vivo di una cosa scivolo sempre nel look studentessa sotto esame, capelli non troppo puliti nel mollettone in un nodo informe in cima alla testa, felpa Fruit of the Loom, calzerotti-scaldamuscolo, hai presente? Ecco. E devo confessarti che è una cosa che mi piace tantissimo, mi fa sentire un gusto per l’annullamento che mi delizia, e poi mi sembra tutta una specie di grande promessa di felicità – la promessa che arriverà il giorno in cui l’abbrutimento finisce e mi tiro a lucido e mi metto il vestito più bello che ho anche solo per andare a comprare le mele e mi sento come se avessi buttato la vecchia me e fossi nuova di zecca, non so come dirlo. Ovviamente è una sensazione che dura al massimo una mezza giornata, poi subentra l’horror vacui e addio. A ben pensarci, credo di essere una procrastinatrice così ostinata per ritardare il momento delizioso della liberazione, perché so che quel momento è il preambolo della nuova crisi ansiosa, dell’ansia del vuoto. Tu ce l’hai? Ma, in ogni caso: sapessi come ti capisco. Se qualcuno avesse fatto a me la domanda che ti ha fatto Dario De Cristofaro, mi chiedo – non me l’ha mai fatta nessuno – cos’avrei detto? Forse avrei dovuto dire la verità, che in ogni cosa che scrivo c’è comunque troppo di mio. Solo che, anche per me, sono cose mie che prendono delle vie contorte e indipendenti dalla volontà che posso avere, di mostrarmi e di nascondermi. In fondo per me scrivere somiglia a un gioco di seduzione che finisce sempre male, nel senso che non so mai calcolarne le conseguenze e alla fine mi pento e mi dico che devo imparare a non promettere quello che non so mantenere. Non so se mi spiego… è strano, è un pensiero, e anche un sentire, tutto tortuoso. Di certo c’è che mentre sto scrivendo, se sto scrivendo una cosa mia (nel senso che non lo faccio perché ho un contratto, che non lo faccio perché “devo” scrivere in quanto obbligo lavorativo vincolato a date di consegna e anticipi, ma lo faccio perché davvero devo, ovvero: dovrei fare qualcos’altro per lavoro e invece non posso perché se non mi siedo e non entro dentro la cosa che mi importa scrivere, anzi che mi urge scrivere, non trovo pace e non combino niente), io sto benissimo. Sto come dovrei stare, non sento niente, né sete né fame né sonno, né tantomeno il telefono. Non sento il mondo. Ovviamente è una condizione insostenibile per lunghi periodi, e innaturale. Ma quanto l’adoro! E anche per me è collegata alla Coca-Cola. Quando ho scritto il mio libro più sfortunato finora (quello che ha avuto meno lettori, intendo, per questo dico sfortunato, anche se è pur vero che per i lettori che ha avuto, forse perché sono così pochi e probabilmente li conosco tutti J, sono grata di averlo scritto), Ragioni e sentimenti, un libro a cui voglio tutto sommato bene ma che per traversie legate a un cambiamento di collana ho dovuto trasfigurare in pochissimo tempo passando da una prima versione seria a una seconda umoristica, io mi sono trovata in un’impasse. Potevo trasformarlo poco a poco, invece ho deciso di buttare la prima stesura, che magari sarà riscoperta postuma, e di rifarlo daccapo. Avevo meno di tre settimane per riscrivere un libro intero. Ce l’ho fatta grazie alla Coca-Cola che bevevo nel bicchiere del Martini, te lo consiglio vivamente, valorizza a meraviglia le bollicine. Invece Vita segreta delle emozioni, per finirlo, visto che la routine domestica del lungo lockdown invernale 2021 mi impediva di isolarmi nel mio stato ascetico preferito perché c’era sempre una lavapiatti da svuotare, mi ha spinta a un passo demenziale ma per me salvifico (infatti penso che lo rifarò): mi sono presa una stanza in albergo per 24 ore, a 300 metri da casa mia. Sono arrivata con una valigia di libri e un pacco da 6 lattine di Coca-Cola (quelle grandi). Non ho dormito, non ho mangiato, mi sono accuratamente finta forestiera alla reception perché altrimenti era troppo imbarazzante… ho scritto come una pazza, in ventiquattro ore praticamente è venuto fuori quello che normalmente avrei scritto in dieci giorni. Certo, poi la mattina dopo ero da buttare e mi sono anche rotta un mignolo del piede appena tornata a casa. Ma rifarei tutto!

 

Ilaria Gaspari

 

MF: Be’, ferma, mi lavo, sì, questo sempre e comunque, ma non mi impedisce mica di coltivare l’arte dell’imbruttimento (che poi, scusami, eh: chi l’ha detto che sia davvero quello l’imbruttimento e non il momento del vestito migliore?). Il mio consiste in una tuta grigia o un pigiama improbabile, capelli raccolti alla stracazzo tipo cipolla in testa tenuta con un elastico leopardato, occhiali (quelli da combattimento, perché poi ci sono anche quelli da lavoro) e le immancabili pantofole rosa e a forma di unicorno che fanno un rumore orrido quando struscio i piedi per casa. L’ansia del vuoto mi manca, il vuoto in generale mi è sempre piaciuto, anche quello fisico, nello spazio. Ma ne ho tante altre, eh.

Mi fa paura anche solo la parola: procrastinare. Mi toglie l’aria, e mi fa sentire male. Non credo però di procrastinare per davvero, è solo che spesso mi convinco di farlo. Se mi arriva una mail la sera, per esempio, quando ho già deciso che magari non farò più niente, perché sono cotta e non avrebbe senso, oppure ho altro lavoro da smaltire, rimando alla mattina dopo. Non credo sia vera procrastinazione, eppure la vivo male, puntualmente mi capita di sognare la persona a cui devo inviare la mail, di svegliarmi di notte e di pensare alla risposta. A volte rispondo (nel migliore dei casi la sera, nel peggiore di notte) dicendo grazie, ho ricevuto la mail, ti rispondo domani, che alla fine è del tutto inutile, e pure un po’ ridicolo. Ma soprattutto: la Coca-Cola, con la caffeina? Perché non so tu, ma io il caffè, quello vero, non lo bevo da anni, ma poi sono capace di bermi litri di Coca-Cola in fase di scrittura e lamentarmi dell’ansia. Però c’era un periodo in cui mangiavo i Pocket Coffee decaffeinati.

 

IG: Sto ridendo, perché mi sa che abbiamo concetti molto diversi di procrastinazione. Io se dovessi sognare le persone alle cui mail non sono riuscita a rispondere entro la giornata – e non per cattiveria, ma perché proprio fisicamente non ho avuto tempo, e giuro che non è un’esagerazione – probabilmente dovrei dormire 18-20 ore al giorno, per dare spazio a tutte e tutti, e poi quindi mi resterebbe ancora meno tempo per vivere, e per rispondere alle mail. Probabilmente questo è dovuto anche al fatto che ormai da anni sono in una sorta di tour permanente – di questo pure dovremmo parlare, del fatto che alle autrici e agli autori si chiede di fare una quantità di presentazioni, incontri, conferenze, tale che sicuramente diventa un’esperienza bella e avventurosa, ma risulta un po’ difficile capire quando questi poveracci, che poi saremmo noi, io almeno, possano scrivere. Ma questa è materia per un’altra chiacchierata, e nel frattempo spero di esaudire il mio sogno più sfrenato, la fantasticheria a cui indulgo sempre più spesso perché davvero non ce la faccio più a gestire tutto, perché ho bisogno di riprendermi almeno qualche scampolo di tempo: un segretario. Ecco, io se ti dovessi dire qual è il mio desiderio più forte in questo momento, è poter avere del tempo da perdere. Tempo in cui nessuno sappia dove sono, cosa faccio, e magari è perché non sto facendo niente. Sarebbe un lusso inconcepibile, lo so; ma continuo a credere, finché qualcuno non mi dimostrerà incontrovertibilmente che sbaglio, che sia la cosa più necessaria alla scrittura, ma pure alla lettura. Un tempo libero alla greca, pura scholè, in cui non devi dimostrare niente, ottenere niente, fare niente. In cui puoi dimenticarti di te, e lasciarti attraversare dal tuo respiro, che nel mio caso, mi sa, è un respiro di parole, un respiro che parla, e per questo si era bloccato quando non lo lasciavo dire, per questo ora torna a bloccarsi ogni volta che le mie parole restano in superficie, il che succede molto più spesso di quanto vorrei.

 

MF: Ma vedi che la paura del vuoto non è paura, alla fine? Anche io rido (in realtà sorrido), perché non credo che la tua sia procrastinazione, semplicemente hai troppo da fare! Io sono ancora molto all’inizio e per me le presentazioni sono un’ottima scusa per non trovare il tempo per scrivere (e quindi non avere fretta) – lo sono anche il lavoro, la revisione della tesi di dottorato in vista della pubblicazione, l’uscita della traduzione tedesca del romanzo. Mi sembra che mi faccia bene adesso non avere il tempo per scrivere perché ho bisogno di crescere, la mia scrittura ne ha bisogno, e pure i personaggi, le idee. E poi a un certo punto le presentazioni finiranno, no? E allora arriverà il momento in cui ci sarà il tempo per riprendere la scrittura, e se non sarà così vada per lə segretariə!

 

(Ilaria Gaspari, Vita segreta delle emozioni, Einaudi, 2021, 184 pp., euro 13,50 | Maddalena Fingerle, Lingua madre, Italo Svevo, 2021, 200 pp., euro 17)

 

La foto di Maddalena Fingerle è stata realizzata da Julia Mayer.