[Best 2016] Gli Album

Il 2016 per molti aspetti non ci mancherà. Eppure, non è stato tutto da buttare. La redazione di InMusica di Flanerí ha ripercorso questi dodici mesi scegliendo le dieci novità musicali più riuscite dell’anno. Tra i grandi ritorni hanno spiccato sicuramente i Radiohead di Thom Yorke e l’attesissimo nuovo lavoro di Justin Vernon, in arte Bon Iver. Sul fronte opposto, i lunghi addii di Leonard Cohen e David Bowie hanno segnato in maniera potentissima questo annus horribilis dell’arte. Emergono tra tutti anche le certezze Nick Cave e Brian Eno, stelle polari nel cielo degli astri nascenti (come Keaton Henson e Angel Olsen) o ri-nascenti (uno tra tutti la trasformazione di Antony Hegarty in Anonhi).

 

Radiohead , A Moon Shaped Pool– Anticipato prima dal video inquietante di “Burn the Witch” e subito dopo da quello onirico girato da Anderson di “Daydreaming”, il nono album dei cinque di Oxford conferma la band guidata da Thom Yorke come pietra miliare della musica pop\rock. Ancora oggi, dopo più di vent’anni di carriera, lo sguardo dei Radiohead è rivolto verso il futuro.

Bon Iver, 22, A million – Justin Vernon attua un’operazione che riesce solo ai grandi: quella di destrutturarsi, dimenticando cosa fosse stato fino a quel momento, reimmaginandosi in qualcosa di completamente nuovo mantenendo ben saldi e riconoscibili alcuni pilastri della propria poetica. Con 22, A million, l’oramai ex boscaiolo del Wisconsin, fa centro in tutto e apre la strada a una carriera musicale che potrebbe lasciare un’impronta importante nella storia della musica.

Leonard Cohen, You Want It Darker – Essere attuali e innovativi nel corso di quasi un secolo è un’impresa impossibile. O così pensavamo tutti prima dell’uscita due anni fa di Popular Problems (fenomenale tredicesimo lavoro del colosso canadese), e poi del caso musicale You Want It Darker. Il canto del cigno di Leonard è il degno coronamento di una carriera e il sincero congedo di un uomo dalla sensibilità inarrivabile.

David Bowie, Blackstar– L’occhio visionario del duca bianco aveva saputo prevedere e cantare la morte attraverso la sua leggendaria lente da avanguardista sul mondo e sulle sue contraddizioni. Cosa c’è di più contraddittorio del cantare una morte annunciata con tanta lucidità artistica? Blackstar è l’emblema del coraggio caleidoscopico di un uomo – di quasi settant’ anni – ostinatamente libero fino al suo ultimo giorno.

Nick Cave and The Bad Seed, Skeleton Tree – Il disco in parte già esisteva. La sua forma oscura e il tormento, le immagini torve. Poi la tragedia e Nick Cave ha perso suo figlio e il nero di Skeleton Tree è diventato assoluto. L’ultimo album del Re Inchiostro è un lavoro sulla sofferenza, la disperazione, il dolore (a prescindere dal lutto personale) e ancora una volta Warren Ellis dipinge foschi scenari sonori dove Cave si staglia con la sua voce. Poi c’è “I Need You” e tutto il resto è silenzio.

Angel Olsen, My Woman – Nell’ anno dei compimenti e delle maturazione, non resta indietro la cantautrice statunitense già al suo terzo album. Dopo aver percorso le strade del folk rock e dell’alternative country, la Olsen crea un album impregnato di garage rock ammorbidito dalle ormai imprescindibili sonorità indie. Promossa a pieni voti.

Brian Eno, The Ship – Vi ricordate la maestosità di Music for Airports, la geniale intuizione del compositore ambient Brian Eno? La mistica del non-luogo torna come unica fede artistica nel suo ultimo concept album The Ship, uscito in Inghilterra ad aprile. Dall’anelito celeste ai fondali oceanici, la poetica dell’ex Roxy Music irrompe ancora una volta con tutta la sua potenza evocativa.

Anohni, Hoplessness – Se c’è una cosa che piace a Anthony Hegarty è cambiare. Sesso, nome, direzione. Ed è verso nuovi lidi che Anohni ci porta con il suo travolgente synth pop, in netta rottura con le tendenze baroque dei suoi Anthony and the Johnson. Se il cambiamento è progresso, ben venga la nuova creatura del britannico che negli ultimi anni ha saputo ispirare anche Franco Battiato.

Keaton Henson, Kindly Now– Reduce dall’ ultimo lavoro esclusivamente strumentale, il compositore inglese autore della struggente “Sweetheart, What Have You Done to Us” torna sugli scaffali con un album che rispecchia in pieno il suo stile intimista e sentimentalmente ispirato. In questo album c’è tutta l’anima di Henson sciolta in narrazioni che miscelano melodie al pianoforte con ammiccamenti al rock più puro. Ascoltare Kindly Now è come innamorarsi di notte a Berlino all’uscita di un club.

Nicolas Jaar, Sirens – L’impronta elettronica ha ormai da anni conquistato con successo anche i lidi americani. Un esempio è Nicolas Jaar, che non solo abbraccia il filone, ma lo interpreta così bene da distinguersi dal mucchio – ormai selvaggio. Idm e new wave danzano insieme in 41 minuti di incorporea esperienza attraverso un tormentato passato autobiografico.

[Best 2016] I film

Siamo arrivati al consueto appuntamento di fine anno con la classifica dei migliori film usciti nelle sale italiane nel corso del 2016. Un anno di cinema che ha rivelato una nuova onda di autori italiani in grado di portare il pubblico in sala. Come al solito, non c’è una gerarchia tra i titoli indicati così come non c’è la pretesa di provare a includere e giudicare tutto il cinema arrivato in Italia lo scorso anno.

Il figlio di Saul di László Nemes: «Pur rimanendo nell’ambito della finzione, Il figlio di Saul, l’opera prima del regista ungherese László Nemes, è la testimonianza cinematografica più autentica mai realizzata della vita di un campo di sterminio nazista. Un film che riesce a far capire più di qualsiasi altro cosa sia stato l’orrore».

Il caso Spotlight di Tom McCarthy: «Ci sono due aggettivi molto abusati quando si fanno recensioni cinematografiche. Sono “solido” e “classico”. Il caso Spotlight sembra fatto apposta per entrare in queste definizioni, nel modo migliore e più elegante possibile».

Il libro della giungla di Jon Favreau: «La Disney continua a trasformare i suoi classici in live action. Con Il libro della giungla raggiunge un livello di perfezione tecnica finora mai visto e riesce a conservare lo spirito del cartoon aggiornandolo e rendendolo più maturo e moderno».

Il club e Neruda di Pablo Larraín: di Il club avevamo scritto che era la «conferma di tutto il talento del regista e della sua capacità di andare oltre la divisione tra forma e sostanza». Neruda, uscito nelle sale italiane lo scorso ottobre, ha mostrato un aspetto ulteriore del talento di Larraín nella capacità di coniugare biografia e onirismo, scrittura e visione. E pare che Jackie, il biopic su Jacqueline Kennedy con Natalie Portman in arrivo a febbraio, sia ancora meglio.

Anomalisa di Charlie Kaufman e Duke Johnson: in molti hanno lodato il film di Kaufman per la sua scena di sesso ritenuta tra le più autentiche della storia del cinema, nonostante si tratti di un film in animazione stop-motion. A noi aveva colpito – molto – la capacità di raccontare la solitudine umana in una forma completamente inaspettata.

Revenant – Redivivo di Alejandro G. Iñárritu: il motivo principale per cui inseriamo questo film in classifica è che ha portato finalmente l’Oscar a Leonardo Di Caprio. A parte questo, Revenant è stato realizzato in condizioni estreme, e più che confermare il valore assoluto di Iñárritu come regista e sceneggiatore, consacra una volta di più il direttore della fotografia Emanuel Lubezki come uno dei più grandi di tutti i tempi.

Lo chiamavano Jeeg Robot, Perfetti sconosciuti, Veloce come il vento, La pazza gioia: i primi sei mesi del 2016 hanno dimostrato ancora una volta che il cinema italiano sta bene e ha ancora voglia di dire qualcosa di interessante. Se il 2015 era stato l’anno degli autori, con il tridente MorettiSorrentinoGarrone, l’anno che sta finendo ha rivelato nomi nuovi e ne ha confermati altri. Gabriele Mainetti e Matteo Rovere hanno fatto vedere quanto le nuove generazioni di registi siano in grado di assorbire la lezione del cinema statunitense contemporaneo e adattarla ai limiti produttivi del made in Italy. Paolo Genovese e Virzì hanno ricordato a tutti l’importanza degli interpreti e della sceneggiatura. Il risultato è stato un ottimo riscontro in termini di pubblico e il consenso quasi unanime della critica. La seconda metà del 2016 sembrava confermare l’andamento con l’ottimo Indivisibili di Edoardo De Angelis, ma l’incanto si è spezzato in fretta. Non ci sono state altre sorprese, in mezzo a tante delusioni da parte del cinema d’autore (Bellocchio, Kim Rossi Stuart, Ivano De Matteo) e di vecchi campioni del botteghino (Che vuoi che sia di Edoardo Leo). Addirittura i cinepanettoni stanno facendo fatica a portare pubblico in sala, probabilmente per colpa di una moltiplicazione di proposte che ha pochi precedenti.

Il 2017 potrebbe raddrizzare la rotta con il ritorno della banda dei ricercatori di Sydney Sibilia con il seguito di Smetto quando voglio, e a quel punto staremo a vedere. Quello che è certo finora è che la scelta miope, ottusa e sostanzialmente suicida dei vertici del cinema italiano di scegliere il documentario Fuocoammare di Francesco Rosi come candidato italiano all’Oscar per il film straniero ha impedito all’Italia di provare a puntare al premio simbolicamente più importante con un film che rappresentasse davvero il momento del nostro cinema.

“Dove la storia finisce”
di Alessandro Piperno

Il nuovo romanzo di Alessandro Piperno, Dove la storia finisce (Mondadori, 2016), ha l’ambizione di voler ritrarre l’odierna fisionomia della società ebraica a Roma. E ci riesce prendendo spunto dal ritorno in patria dopo 16 anni di Matteo Zevi, scappato in California per sfuggire ai suoi debiti. Di ritorno in città, tutti, chi con maggior entusiasmo chi meno, devono fare i conti con la sua presenza: la seconda moglie Federica (da perfetto sciupafemmine, il poligamo Matteo ha intrattenuto ben tre relazioni!) che sembra l’unica eccitata per il suo arrivo, la figlia avuta da lei, Martina, in bilico tra i problemi con il marito Lorenzo e la passione bruciante e ossessiva per un’altra persona, e Giorgio, il figlio che Matteo ha avuto dalla prima moglie e che non sembra accogliere bene il ritorno del padre, tanto da evitarlo in ogni modo, nonostante la moglie Sara e l’amico del padre Tati lo spronino ad aprirsi e a dimenticare le sofferenze passate.

Dove la storia finisce è una grande rappresentazione realistica in cui ogni personaggio recita il proprio ruolo con dignità, in cui si possono cogliere diversi “tipi umani”: da chi cerca di salvare almeno le apparenze, come Federica – che col padre e la figlia sembra fingere di mantenere il pugno duro nei confronti di Matteo – e Martina – che tenta di celare i suoi interessi extramatrimoniali –, a chi dell’arrivismo fa la propria marca di distinzione, come Giorgio – che concentra le sue energie in un fortunatissimo progetto di ristorazione, l’“Orient Express” – o la famiglia altolocata di Lorenzo – la quale si fa in quattro per organizzare un party esclusivo nella sua residenza estiva a Sabaudia cui partecipi la gente più “in” della capitale.

Una nota dolente spesso sottolineata è la mancata aderenza ai dettami della religione ebraica da parte di coloro che la professano: Piperno registra nella sua storia una generale diminuzione del senso del sacro negli ebrei romani, che sembra riassumersi nella figura di Giorgio. Sprezzante nei confronti del credo dei padri, dimentico di quanto tramandato per generazioni, inizialmente non si preoccupa affatto di rispettare le regole della sua religione. E solo la nascita del figlio Noah potrà in qualche modo smussare il suo atteggiamento chiuso e refrattario a qualsiasi esperienza religiosa, facendogli riscoprire l’importanza di certi riti, quale ad esempio la circoncisione.

Il tutto è poi trasposto in una Roma al limite tra «bellezza» e «squallore», sin dall’inizio, quando Matteo esce dal Raccordo sul taxi che dall’aeroporto lo conduce in città. È la Roma che sfoggia la sua decadenza in mezzo ai rifiuti, e il suo fulgore in mezzo alle vestigia storiche. Una dicotomia che sembra insanabile, in cui il vecchio e il nuovo che colorano la città convivono con la noncuranza di chi la vive e abita.

Il romanzo si conclude in una maniera inaspettata, che lascia senza fiato il lettore, incredulo, che fino all’ultimo spera che quello che è successo non sia vero. Un finale che segna la fine della storia, proprio laddove riprende la Storia.

 

(Alessandro Piperno, Dove la storia finisce, Mondadori, 2016, pp. 288, euro 20)

“Lo Schiaccianoci”,
regia di Mario Piazza

Il 22 e il 23 dicembre al Teatro Quirino torna Lo Schiaccianoci con la partecipazione speciale di André de la Roche. Le musiche di Čajkovskij sono un leit-motiv che ci ricorda la nostra infanzia, incredibilmente semplici e ricche di variazioni. Il “Trepak”, o “Danza russa”, il “Valzer dei fiori”, la “Danza della Fata Confetto”, bastano poche note per farci tornare alla mente i funghi, le fate e le orchidee che danzano nel cartone animato Walt Disney Fantasia. Eppure Lo Schiaccianoci rielaborato nelle coreografie da Mario Piazza e nella stesura drammaturgica da Riccardo Reim riesce a trasportare in un sogno a occhi aperti. Inquietudine, meraviglia, ironia, comicità sono gli ingredienti della trasposizione del Balletto di Roma. Eliminati i fronzoli e le lucine natalizie, emerge uno spettacolo pulito ma non sobrio, sensazionale ma non eccessivo, sensuale senza risultare sboccato.

Non ci sono pacchetti sgargianti, coccarde o alberi di Natale, gli elementi di scena sono ridotti all’osso: degli schermi proiettano contenuti-video che vogliono essere immagine dell’alienazione attuale. Nell’“Overture” Clara e Fritz litigano per il controllo del telecomando, lo tirano a sè come un tesoro ambito, non una bambola nè un soldatino bensì un nuovo giocattolo infernale che accomuna nel genere e insieme divide mentre la televisione ospita bombe e fumogeni, flash di disastri che passano indistintamente. La violenza non ha un nome ma ha colori alletanti, di un pop baluginante che lascia indifferenti o intriga sadicamente, senza cenni di resistenza nè scalpore: la guerra è farina quotidiana. I bambini non hanno diritto alla loro infanzia, vengono catapultati fin da subito in una realtà che ha perso sia bussola che punti cardinali.

Qualcosa che ha il sapore di unattrazione, non ancora del tutto esplicita, aleggia tra Clara e Fritz, i dispetti delluno si compensano con le vanità dellaltra in un gioco che stigmatizza le regole del mondo adulto. Questa versione del famoso balletto vuole significare un viaggio, il percorso dalladolescenza alletà adulta, nella psicologia che si incarna nei gesti e nelle azioni, nelle instabili costruzioni della mente. Clara è una bambina cresciuta in fretta, gioca con il suo tutù da ballerina con malizia estremamente provocatoria. Larrivo di Drosselmeyer, stravagante figura stregonesca che, come un burattinaio, muove le sue bambole meccaniche con gesti intimidatori e plateali, sconvolge Clara e la trascina in un vortice di sensazioni conturbanti: è il dono dello Schiaccianoci a scatenare il nonsense emotivo. Lo scontro con i meccanismi segreti e ambigui del desiderio porterà la ragazza in un crescendo di consapevolezze e di verità relative al proprio essere. Lo Schiaccianoci risulta essere la chiave, la metafora incarnata del paradosso: il sogno e la realtà hanno una matrice comune.

André de la Roche, nel doppio ruolo di Fata Confetto e Schiaccianoci, è un danzatore di origine corso-vietnamita (adozione americana) lanciato giovanissimo da Bob Fosse nel ruolo solista di Dancing. Più che nel ruolo dello Schiaccianoci, la sua bravura e la sua verve espressiva emergono nel ruolo della Fata Confetto: trasformatasi dall’aggrazziata figura del balletto russo in un dispettoso bambolone dalla veste rosa schocking in gomma piuma, abbondante décolletè, una piramide di roselline finte come copricapo e tacchi stile Luigi XIV.

Nonostante la sagace interpretazione di de la Roche il pubblico potrebbe sentirsi smarrito e confuso, non essendo i personaggi chiaramente definiti e la storia completamente rivisitata: nel secondo atto non è lo Schiaccianoci a trasformarsi in Principe bensì lo stesso Fritz che guida Clara in un incantevole passo a due, senza troppi arabesque, sinceramente toccante in un’atmosfera da chiaro di luna.

Un plauso a parte va alla bellezza minimale dei costumi e delle scene di Giuseppina Maurizi. I body realizzati dalla Sartoria Farani di Roma aderiscono alla pelle come un guanto, in un effetto elegante di quasi-nudo che svela i movimenti e sprigiona il linguaggio dei corpi tonici, liberando i ballerini da ogni impedimento e dalle stratificazioni accessorie. La scenografia è stata realizzata inoltre con la collaborazione della Facoltà di Architettura della Sapienza.

Va infine ricordato che Lo Schiaccianoci non solo festeggia una ricorrenza speciale ma è solo il primo di un ciclo di appuntamenti dedicati alla danza, dalla classica alla contemporanea, dall’acrobatica al circo comico musicale che daranno al Quirino una veste ancora più sfaccettata.

 

Lo Schiaccianoci

Balletto di Roma
con la partecipazione straordinaria di André De La Roche
nel ruolo di Fata Confetto / Schiaccianoci

regia e coreografia Mario Piazza
musica di Petr Il’ic Cajkovskij
libretto ed elaborazione drammaturgica Riccardo Reim
maitre de ballet e ass.te alle coreografie Ludovic Party
scene e costumi Giuseppina Maurizi
light designer Emanuele De Maria
video realizzati da Tiziana Amicuzzi, Emanuela Bonella, Raffaella Bonsignore
costumi realizzati da Sartoria Farani di Roma
scene realizzate da Opera Scene Europa s.r.l

Roma, Teatro Quirino – 22/23 dicembre

“Passion, Pain & Damon Slayin'”
di Kid Cudi

L’8 aprile del 2009 esce la quinta puntata della tredicesima stagione di South Park, Fishstick. Jimmy, anche se Cartman poi se ne approprierà con il suo classico modo odioso di relazionarsi al mondo, inventa questa battuta («Ti piacciono i bastoncini di pesce? Sì. Ti piace metterli in bocca? Sì. E cosa sei allora, un pesce gay?») che, un po’ alla volta, diventa un tormentone di cui si parla ovunque, per strada come in televisione. C’è solo una persona in tutto il mondo che non riesce a capirla: Kanye West. Disperato, cerca in tutti i modi di far capire che non fa ridere perché a lui non fa ridere, giustificandosi ripetendo in continuazione di essere un genio. Oggi, sette anni dopo, un suo pupillo, Kid Cudi, scrive il suo terzo album, Passion, Pain & Damon Slayin’.

Nel 2008 Kanye West usciva con l’album 808s & Heartbreak , che fece parlare molto di sé soprattutto per l’utilizzo massiccio dell’auto tune – mezzo che veniva precedentemente associato a Cher, ma che da lui in poi è stato sdoganato –, e molto del personaggio sopra le righe Kanye West. Nella puntata di South Park, forse, si voleva rimarcare una certa distanza, l’incomprensibilità di come quello che produceva musicalmente Kanye West dava vita a quello che era Kanye West, su come il mondo lo percepiva e come lui si auto percepiva, con un ego da Re Mida, che andava a creare attorno a lui un’aura di infallibilità da semidio che gli dava effettivamente un’aura di infallibilità da semi dio – poi la relazione con Kim Kardashian ha enfatizzato ancora di più tutto, rendendolo ancora di più, se possibile, un iper fenomeno mediatico. Ma è indubbio che comunque Kanye West (Jay-Z e Beyoncé in maniera diversa) abbia dato al mondo generico del rap e dell’hip hop (facendosi pop) la possibilità in qualche modo di innalzarsi, sradicandosi dai ghetti incorruttibili di Tu Pac, permettendo di essere capito e apprezzato da critica (Pitchfork su tutti) e musicisti con origini musicali diverse (in primis Thom Yorke), andando a sviluppare una contaminazione tra hip hop, pop e musica elettronica che sta influenzando la produzione musicale di oggi.

Parallelamente, un paio di anni prima, Thom Yorke produceva il suo primo album solista, mischiando pop ed elettronica – in maniera completamente diversa rispetto a quelli che superficialmente vengono ritenuti gli album elettronici dei Radiohead, Kid A e Amnesiac – con The Eraser. Ecco, The Eraser può essere il momento in cui un personaggio musicale influente abbia iniziato ad avvicinare a livello globale questi due generi. E il suo atteggiamento si faceva, negli anni, sempre più interessato e vicino al mondo ibrido dell’hip hop-elettronico (ricordiamo le collaborazioni con Flying Lotus, artista che tra elettronica e hip hop fa convivere una pulsione jazz dominante, e le loro storiche serate Dj set a Los Angeles; con i Modeselektor nel brano “White Flash”, dall’album Happy Birthday!, e successivamente nei brani “Shiprweck”, “This” e “All Buttons in”; con Burial e Four Tet, entrambi fondamentali in questo discorso, soprattutto il primo con quello che può essere il totem dell’elettronica suburbana, Untrue). Questo ha fatto sì che proprio una certa inclinazione verso quel mondo fosse visto dall’altra parte del mondo come qualcosa che si-poteva-fare, che si-doveva-fare.

Il mondo dell’hip hop, dell’elettronica e del pop/rock trovavano un ulteriore punto di svolta nella collaborazione tra i Modeselektor e Apparat nel 2009, con il progetto Moderat e il primo album Moderat. Con loro l’elettonica e l’hip hop duri dei Modeselektor si mischiavano all’attitudine pop di Apparat. Qui, passando per James Blake e la sua diramazione soul – necessario questo passaggio –, (ma anche per situazioni meno felici come The Boxer di Kere Okereke, leader dei Bloc Party che nel 2010 ha dato vita a un album che avrebbe voluto essere un intreccio tra indie pop e hip hop, ma con risultati più che scadenti), e per l’ultimo di Bon Iver, 22, a Million, che sancisce in modo definitivo la contaminazione di questi generi (e anche solo il cambio di abbigliamento di Justin Vernon non fa che testimoniarlo, passando dai camicioni a quadri ai cappellini e le giacche hip hop), si è arrivati al fatto che oggi, l’ultimo lavoro di Kenye West, The Life of Pablo, o di Beyoncé, Lemonade, o di sua sorella Solange, A Seat at the Table, siano per la maggior parte della critica tra i migliori dischi dell’anno in assoluto.

Ed è in questo contesto che si sviluppa Passion, Pain & Damon Slayin’ di Kid Cudi. Staccandosi in maniera nella dal precedente, Speedin’ Bullet 2 Heaven, dai toni cantautorati, quest’ultimo lavoro è un disco enciclopedico di diciannove brani, pieno di collaborazioni (Andre Benjamin in “By Design” e “The Guide”; Willow in “Rose Garden”; Travis Scott in “Baptized in Fire”; Pharell Williams in “Flight at First Sight/Advanced” e “Surfin’”) e di riferimenti ai mondi di cui è stato detto prima, con picchi altissimi, brani di enorme classe dove emerge un talento purissimo (“Rose Garden” su tutti) e cadute vertiginose, e brani che potrebbero trovare una propria dimensione esclusivamente come colonna sonora dei riscaldamenti delle partite di basket (“Flight at the First Sight/Advanced”).

In Passion, Pain & Damon Slayin’ sono appunto molti i riferimenti a Moderat (“Swim in the Light” non sembra la riproposizione di “A New Error”?), ma anche a Caribou (“By Design”, nel suo incedere, sembra essere preso direttamente da Swim), a Thom Yorke (“Dance 4 Eternity” ha quell’aria di disperazione urbana di Tomorow’s Modern Boxes), Flying Lotus (“Does It” è parente stretta di Cosmogramma), sviluppati in un universo che è quello tirato su negli anni da Kanye West.

Pare dunque che un certo mondo musicale stia prendendo questa direzione, trasformandosi e trovandosi in questo essere ancora poco definito e definibile. Ci vorrà, infatti, un ulteriore salto in avanti rispetto all’ultimo lavoro di Bon Iver. Siamo di fronte a un momento fondamentale della musica pop e della musica hip hop, delle possibili declinazioni, del cambiamento della loro grammatica. Un crocevia che darà vita a un prima e a un dopo: il tutto suggellato dal bene placido della critica.

Ed è vero, allora, come ha detto quest’anno Roger Daltrey, che il rock è morto e che esiste solo l’hip hop?

 (Passion, Pain & Damon Slayin’, Kid Cudi, alternative hip hop)

“Terminus Radioso”
di Antoine Volodine

Per poterne parlare, è necessario premettere che Terminus Radioso di Antoine Volodine (66thand2nd, 2016) è uno di quei libri ai quali è impossibile rimanere indifferenti:
1) Lo si ama.
2) Lo si odia.
Senza possibilità di scarto tra l’una o l’altra opzione.

Fondatore del “post-esotismo”, Antoine Volodine (uno dei tanti eteronimi usati dall’autore) immagina il crollo di una Seconda Unione Sovietica devastata dal disastro nucleare, e un kolchoz radioattivo – Terminus radioso – in cui la vita è scandita attorno all’appetito di una pila atomica profondissima che collega il kolchoz alle viscere della terra. L’innesco della storia è rappresentato dalla fuga di tre soldati, i quali, per scampare all’avanzata delle truppe capitaliste, decidono di addentrarsi nella steppa sconfinata, nella taiga e nella foresta, nello spazio di morte riconquistato dalla natura sotto le sembianze di piante mutanti e desolazione. Proprio il luogo dove sorge Terminus radioso.

La distopia-provocazione di Volodine non si limita a inscenare l’estinzione scegliendo di ispirarsi alle suggestioni dell’Unione Sovietica, simbolo chiarissimo di un sistema di valori sconfitto e sorpassato dalla Storia. Questa scelta infatti, lascia intuire l’intenzione dell’autore di concentrarsi su tutto ciò che viene dopo: dopo la guerra, dopo il crollo delle sovrastrutture politiche, dopo l’esplosione, dopo la caduta degli ideali, dopo la vita.

Nelle 500 e più pagine di Terminus radioso, nelle quali si addensa il materiale narrativo più disparato, si ha la sensazione che in fondo il punto sia sempre lo stesso: la solitudine dell’Uomo dopo tutte queste cose, o, meglio ancora, al di là di tutte queste cose.

I personaggi di Terminus Radioso compiono grandi viaggi – fisici, mentali e temporali – che sono il modo che hanno per affermare la propria identità dopo che ogni certezza è venuta meno. Vagano tra la natura e nei ricordi perché il loro stesso essere vivi passa da quelle azioni. Sono alla ricerca di un senso ma gli strumenti che hanno a disposizione per maturarlo sono scomparsi, e per questo il passato e la sfera del ricordo, in questo libro, si mescolano alla realtà, creando un tempo nuovo, dalle coordinate sconosciute.

La narrazione alterna percorsi ritmici diversi, talvolta opposti, il monologo ha il sopravvento sul dialogo, il ricordo e la meta-narrazione (quella ridondante e confusa di Soloviei, per esempio) si succedono ai diversi punti di vista che finiscono a volte per mescolarsi mimeticamente, e al lirismo, che ha qualcosa di inedito e sa farsi largo tra i nomi impossibili della vegetazione – «Lanacagne, doroglosse, lovushche del ciabattino, solivine del teppista, solivine odorose» – anch’essa post-atomica.

Il romanzo procede attraverso le «istantanee romanzesche», i narrat di cui Volodine stesso è l’inventore: «cortocircuiti» narrativi o occasioni dall’impianto meticcio sempre a cavallo tra il ricordo e la realtà del presente. Nonostante tutti questi aspetti però, Terminus Radioso sembra comunque costruito per mettere da parte l’elitarismo narrativo, procedendo attraverso una prosa che è in grado di modulare gli eccessi della trama e di accompagnare chi legge nella traiettoria bislacca disegnata dai suoi personaggi. La progressione dei ritmi e degli stili ricorda il susseguirsi di allegro e di adagio che si ha in musica classica, quando il pezzo finale ci pare composto da molti pezzi diversi, che ascoltati singolarmente, non avrebbero nulla a che fare tra loro. Una sinfonia di cui può godere anche chi non sa leggere la musica o chi non conosce le idee di colui che l’ha composta. Per questo, sia che si condivida la fortissima vocazione teorica sulla quale Volodine costruisce i propri romanzi, sia che si rimanga scettici di fronte ai suoi dogmi, in ogni caso, non si può rimanere impassibili di fronte al post-esotismo come fenomeno, per lo meno per la sua rarità nel panorama editoriale al quale siamo abituati, con la volontà dell’autore di sottrarsi alle logiche della narrazione convenzionale e a quell’ altro post, il (post) moderno, nel quale tanti contemporanei si trovano ancora impantanati.

Antoine Volodine ci dimostra che è possibile costruire forme nuove decostruendo, ripartire da un grado zero che, secondo la sua visione, è prima di tutto distruzione del nostro passato storico, immaginifico e narrativo.

 

(Antoine Volodine, Terminus radioso, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2016, pp. 544, euro 20)
Poster italiano di Il GGG su Flanerí

“Il GGG – Il Grande Gigante Gentile”
di Steven Spielberg

Uno dei registi della fantasia per eccellenza incontra uno dei più importanti scrittori per bambini di tutti i tempi. Steven Spielberg porta al cinema Il GGG – Il Grande Gigante Gentile, il romanzo di Roald Dahl che già nel 1989 era stato trasformato in un film di animazione

C’è una specie di legame profondo che unisce Spielberg al romanzo. Quando nel 1982 usciva nelle sale la sua prima favola cinematografica, E.T., Il GGG arrivava nelle librerie. Sembra normale, quindi, che quasi trentacinque anni i due si siano incontrati sul grande schermo.

Sophie è un’orfana che vive a Londra in un istituto. Una notte viene rapita da un gigante che la porta nel suo mondo, la terra dei giganti è pieno di cannibali spietati e giganteschi. La creatura che ha rapito Sophie, però, è diversa. È vegetariano, e gentile. Il suo lavoro è quello di catturare i sogni per portarli nelle notti delle persone. Sophie e il GGG, il grande gigante gentile, come vuole essere chiamato, diventano presto amici. Quando gli altri giganti si accorgono della presenza della bambina iniziano a preparare un piano per arrivare a Londra e portare via altri ragazzini. Sophie e il GGG decidono allora di chiedere aiuto alla regina di Inghilterra.

Lo scorso anno, Il ponte delle spie aveva confermato ancora una volta la doppia natura del cinema di Spielberg. Da una parte c’è il cinema della Storia, delle storie vere che hanno attraversato – soprattutto – il XX secolo e dei loro protagonisti. Basta pensare a Schindler’s List, a Munich, o a Salvate il soldato Ryan, solo per dirne alcuni. Dall’altra c’è il cinema delle storie, quello del grande intrattenimento in cui la fantascienza fornisce spesso lo spunto di partenza così come, più in generale, tutto ciò che può essere definito fantastico. Se c’è bisogno di fare dei titoli diremo Incontri ravvicinati del terzo tipo e la saga di Indiana Jones.

Nel cinema delle storie, Spielberg ha guardato spesso ai bambini come interlocutori principali dei suoi film, ma mai come con Il GGG aveva fatto un film che avesse tutte le caratteristiche del titolo per l’infanzia. Ha un valore simbolico che E.T. e il romanzo di Dahl condividano l’anno di uscita. Nella sua prima favola cinematografica, Spielberg aveva iniziato ad affrontare alcune tematiche che poi avrebbe ripreso – anche con toni molto diversi – nei film successivi. La diversità come risorsa, il coraggio dei più piccoli e dei più deboli, sono due tra le colonne portanti di tutto il cinema spielberghiano. Roald Dahl, di suo, ha fatto del tema della diversità un autentico manifesto in tutti i suoi romanzi. Il messaggio principale dell’opera di Dahl, che filtra anche da Il GGG, è che bisogna trovare la forza di resistere anche nei momenti peggiori, perché la felicità può arrivare in ogni momento.

Sophie e il “suo” gigante sono due emarginati. Lei orfana, lui preso di mira dagli altri giganti perché vegetariano e più piccolo della media. Proprio lì, nel loro essere diversi dagli altri, si incontrano e si riconoscono, e trovano insieme la forza per alzare la testa.

Dopo la presentazione fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, Il GGG è stato un sostanziale fallimento al botteghino statunitense, con incassi che si sono fermati a 55 milioni di dollari a fronte di un budget di produzione stimato intorno ai 140. Si può pensare che la distribuzione a luglio – il mese più forte per il mercato cinematografico nordamericano – non abbia aiutato. La natura fiabesca del film di Spielberg sembra chiamare una distribuzione in periodo natalizio come quella scelta per il mercato italiano.

Nel bilancio complessivo del cinema di Spielberg c’è da evidenziare come l’impianto favolistica non sia mai stato sinonimo di grandi successi, con la notevole eccezione di E.T.. Se si pensa a Hook del 1991, che rifondava la storia di Peter Pan, o a Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno del 2011, vengono in mente incassi modesti e recensioni contrastanti.

Il GGG unisce la favola a un impianto tecnico di eccellenza in cui spicca il lavoro in motion capture di Mark Rylance, già premio Oscar lo scorso anno come non protagonista per Il ponte delle spie. Quindici anni dopo la prima apparizione del Gollum di Andy Serkis nella saga di Il signore degli anelli, l’interpretazione di Rylance riapre il dibattito sulle nuove frontiere della recitazione. Spielberg ha imparato molto dalla lunga ricerca sulla computer grafica fatta dal suo amico Robert Zemeckis negli ultimi vent’anni ed è riuscito a sposare la tecnologia con la purezza del racconto. A mancare è un livello ulteriore, quello in grado di far essere Il GGG non solo un film per l’infanzia. Qualcosa che lo avvicini a E.T., o a un qualsiasi film Pixar, per intenderci. Invece bisogna accontentarsi di una favola di grande potenza visiva, in cui si ride anche per peti e botte ai testicoli, e forse può bastare così.

(Il GGG – Il Grande Gigante Gentile, di Steven Spielberg, 2016, fantastico, 118’)

“La vegetariana”
di Han Kang

Un nome asiatico, l’infraintendibile grafica Adelphi, una foto di petali bianchi con al centro due accenni di sangue. Un fiore schiuso al dolore possibile, così labile e già violato. E poi prevedibilmente il titolo, che allude a se stesso e si trascende. Si presenta in questo modo, con una deflorante immagine di Araki, La vegetariana (Adelphi, 2016), primo romanzo tradotto in Italia della scrittrice e poetessa sudcoreana Han Kang, vincitrice dell’International Man Booker Prize. Una storia che, appunto, sboccia in copertina per impollinarsi altrove.

Protagonista è la giovane Yeong-hye, una donna almeno inizialmente intrisa d’ordinario, senza guizzi né fondali, praticamente inappuntabile per un liscio incasellamento familiare. «La personalità passiva di quella donna in cui non intravedevo né freschezza né fascino, e nemmeno una particolare raffinatezza, faceva perfettamente al caso mio». Così la incornicia il marito.

Tutto sarebbe destinato all’ovvietà, immolato senza intoppi alla quiete rituale di una coppia manualistica. Soprattutto in Corea. Lui che lavora e trova pronto. Lei che cucina e non si oppone. Peccato che esistano i sogni a sparecchiare la tavola. E Yeong-hye si sveglia diversa, dopo una notte unta di carne, che rampolla come un fiotto dalle labbra, che si appende ai vestiti, che perseguita i suoi passi di foresta. «Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda e rossa, l’ho sentita premere contro le gengive e il palato». Il suo consumo si fa delittuoso, si tinge di un orrido che la costringe alla rinuncia.

Yeong-hye sfolla il frigo da tutte le tracce di selvaggina e rivoluziona i suoi pasti, mentre il marito la guarda sgomento, impotente davanti a quella nuova creatura che mangia riso e aria, sempre più magra, sempre più assente. È sua la voce narrante di questa prima parte, il maschile egoismo appollaiato sul copione quotidiano, che lascia accadere l’oltraggio, che permette al suocero di torturare sua figlia, schiacciandole sui denti dei bocconi morti. E quindi mortali.

Ma Yeong- hye non è solo questo. L’inquietudine fuori programma che scompone la stasi di un matrimonio. La sua carne, quel costume di muscoli e ossa così blando per chi l’ha sposata, per qualcun altro è fonte di appetito, ansia di possesso. Suo cognato, il secondo punto di osservazione della vicenda raccontato stavolta in terza persona, desidera quelle viscere dentro le sue. La macchia mongolica della donna, la schiena marchiata, sono al centro di un’ossessione erotico-artistica: «A paragone di sua moglie la si sarebbe potuta definire brutta, ma per lui irradiava energia, come un albero cresciuto nel deserto, spoglio e solitario».

È talmente pressante il suo istinto da galvanizzarne l’ispirazione. Yeong-hye viene coinvolta in un progetto creativo estremo, una performance di video-arte. Il suo corpo dipinto di fiori dorati assieme a un altro con cui mimare un amplesso. Lei non reagisce, smette i suoi anonimi panni e si lascia decorare. Perché è quello che vuole. Perché il vortice è già partito e quella vita che ha scelto di farsi vegetariana non saprà arrestarsi a questo traguardo. La meta finale è oltre lo stomaco, oltre i cordoni che inghiottono.

Yeong-hye vuole elevarsi dalla sua fame. Vuole farsi vegetale. Quella linfa che il cognato scorge in lei è il sintomo di un abbandono del regno animale. Quell’essere è già altrove, è capovolto verso il cielo, con braccia di radici e un esilissimo fusto in cerca di luce. Ed è In-hye, sua sorella, a raccoglierne il canto finale, l’atto di congedo, irremovibile e folle, dal mondo di uomini e doveri e pelle e ingestioni che non fa più per lei.

La vegetariana si chiude con la sua prospettiva, quella di una donna attiva e impeccabile. «Come figlia, come sorella maggiore, come moglie, come madre, come proprietaria di negozio, perfino come passeggera in metropolitana nel più breve dei tragitti, aveva sempre fatto del suo meglio. Grazie alla pura inerzia di un’esistenza vissuta a quel modo sarebbe stata capace di avere la meglio su qualsiasi cosa, persino sul tempo». Ma In-hye è anche lei spettatrice imbelle.

Del tradimento del marito con sua sorella, della voragine erosiva che mastica Yeong-hye fino a lasciarne molliche, fino a indurla a capire che non è solo pazzia quella che avvampa il rimasuglio del suo involucro. Yeong-hye le sta solo chiedendo di essere più libera. Di appartenere al vento. Un richiamo primordiale che anche lei non vuole più combattere.

Con una lingua elegante, signora e padrona di ogni atmosfera, duttile e sapiente nel virare verso ogni punto di vista, Han Kang disegna una spirale a cui è difficile sottrarsi. L’attraversamento della soglia, per chiunque, può passare per un giorno tra gli altri, abbracciare il salto senza rete di conforto. E senza odore di ritorno.

 

(Han Kang, La vegetariana, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2016, pp. 177, euro 18)

“Storia umana della matematica”
di Chiara Valerio

Chissà perché in via Biancamano hanno pensato di intitolarlo Storia umana della matematica (Einaudi, 2016). Forse per attrarre l’attenzione del frequentatore di librerie verso l’umanizzazione – nel senso del renderla più semplice, accessibile – di una materia che nell’immaginario collettivo è sinonimo di difficoltà e insidie, di sforzo colossale riuscibile a pochi disciplinatissimi individui, o ad ancor meno numerosi, ma fortunati, geni. Chissà chi in casa Einaudi ha convinto qualcun altro che con un titolo del genere si sarebbe subito tesa una cima fra lettore e testo, fra logaritmi e il conforto di poterli capire. Ebbene, ci sono riusciti.

Solo che hanno sbagliato libro. Sì, perché questa storia umana della matematica appare in realtà più la storia di un incontro con la matematica, il racconto di una ragazzina che scopre, frequenta, conosce una disciplina accompagnandosi a lei negli anni; ci cresce insieme, amandola e contrastandola, provando a piegarla e approdando a compromessi. È la storia di una relazione fra una donna e una materia.

Chiara Valerio è abile nel padroneggiare la narrazione facendola procedere per piani giustapposti, introducendoci con numerosi aneddoti nell’intimità della sua famiglia che – ça va sans dire – gioca un ruolo fondamentale nelle scelte di studio dell’autrice. Coinvolge poi sette personaggi che hanno fatto la storia della matematica, o la storia in generale, come il giovane Mauro Picone, che con i suoi calcoli ha permesso all’artiglieria italiana di condurre la guerra di montagna contro l’Austria-Ungheria. Di questi studiosi (che in realtà sono anche di più di sette) vengono raccontati i sentieri biografici e professionali e si finisce col comprendere l’angolatura da cui la Valerio li ha guardati.

Si configura così una Storia personale della matematica. Nulla di inopportuno, ma per l’appunto, un altro libro. Sfogliare le prime pagine vuol dire essere da subito invitati a porsi criticamente al cospetto di quanto imparato alle scuole elementari: «Tutto quello di cui Euclide parla, non esiste», o ancora «per dimostrare il teorema di Pitagora serve più immaginazione che a riportare in vita i morti, perché quelli, almeno una volta, ci sono stati». Solo che della geometria Euclidea abbiamo bisogno in vita, e questo basta a rendere la sua pratica indispensabile; ma perché non un altro tipo di geometria? Perché è più comoda, è la risposta; la più semplice, che si «accorda sufficientemente con le proprietà dei solidi naturali».

Storia umana della matematica è un libro che sa anche commuovere e spaventare. Commuove, quando matematica e fisica si intrecciano come si intreccia il legame dell’autrice con il padre; universo minuto in cui ci si addentra con la debita tenerezza: una giovane matematica e un padre fisico, l’una studiosa di una materia che nel volume viene definita umana; l’altro innamorato di una disciplina che per l’autrice è sentimentale. E però la dimostrazione di questo sentimento è possibile solo con l’ausilio della letteratura e dell’«amor che move il sole». Ma spaventa, si diceva, e lo fa davvero quando ci si trova di fronte a un Alan Turing non più eroe antinazista e felice interprete del codice Enigma, bensì uomo su cui pesa un sospetto apocalittico, ovvero che egli, se ne avesse avuta la possibilità, avrebbe potuto «sostituire sé stesso e gli esseri umani con le macchine». È il capitolo dedicato a Norbert Wiener, matematico e cibernetico, che qui a Turing viene contrapposto: se per quest’ultimo la maggiore preoccupazione era far sì che le macchine pensassero, per Wiener il principale scopo era che «gli uomini pensassero bene a che uso fare delle macchine».

Non solo vicende di uomini, ma anche di numeri. Del resto è pur sempre un libro sulla matematica. Quelli chiamati in causa sono numeri che figurano certamente in almeno un aneddoto della storia famigliare di molti di noi (di nuovo scienza e intimità): sono le 90 sfere delle estrazioni del lotto, raccontate di nuovo mediante una contrapposizione, quella cioè con le 37 caselle della roulette. È il tratto più letterario del libro fra Dostoevskij e Matilde Serao, un godibile raffronto fra l’ebbrezza del panno verde stampato con cifre rosse e nere e la mera speranza di sopravvivenza che suscita un terno su Napoli e tutte.

 

(Chiara Valerio, Storia umana della matematica, Einaudi, 2016, pp. 176, euro 18)
Poster italiano di Rogue One A Star Wars Story su Flanerí

“Rogue One: A Star Wars Story”
di Gareth Edwards

Le ribellioni si basano sulla speranza. Su una nuova speranza, nel caso della saga di Guerre stellari. Rogue One, il primo film dell’universo fantastico inventato da George Lucas fuori dalla trama principale, il secondo dell’epoca Disney, spiega da dove è nata quella speranza in grado di guidare la Ribellione nella trilogia canonica.

Tutta la trama di questo nuovo film, che si va a collocare temporalmente prima di Episodio IV: una nuova speranza (quello che in Italia era uscito inizialmente come Guerre stellari nel 1977), era contenuta nell’iconica didascalia a scorrimento che accompagnava l’inizio della rivoluzione cinematografica targata Lucas. Si faceva riferimento a un gruppo di ribelli che attacca una base segreta dell’Impero e ruba i piani tecnici di un’arma segreta.

Rogue One parte da lì. Galen Erso, un ingegnere stanco di essere sfruttato dalle forze imperiali, è scappato con la sua famiglia in un pianeta sperduto. Quando l’Impero lo trova e lo porta via, sua figlia Jyn, ancora bambina, rimane da sola nascosta in un bunker. Verrà cresciuta da Saw Gerrera, un estremista della ribellione. Anni dopo, Jyn viene reclutata dall’Alleanza Ribelle per tornare in contatto con suo padre. Da qualche parte sta progettando un’arma segreta di inaudita potenza per l’Impero e solo lei può fermarlo.

È A Star Wars Story, una storia di Guerre Stellari, come spiega il sottotitolo, una storia che si svolge nella galassia lontana lontana ma rimane al di fuori del canone narrativo delle tre trilogie (che grosso modo è identificabile con la famiglia Skywalker e con la Forza). Dopo l’acquisto della Lucasfilm, la Disney ha deciso di sfruttare al massimo il potenziale di Star Wars e tirare fuori quanti più film possibile. L’intuizione fondamentale è stata quella di andare a recuperare soprattutto la trilogia classica (gli episodi dal IV al VI), la più amata dal pubblico, e puntare su un mix di nostalgia e innovazione. L’anno scorso, Episodio VII – Il risveglio della Forza aveva soddisfatto quasi tutti. J.J. Abrams era riuscito a lavare via il ricordo della terribile seconda trilogia (quella da episodio I a III) rinnovando il marchio e allo stesso tempo affidandosi più che mai ai personaggi classici, da Han Solo a Luke Skywalker. Le – poche – critiche arrivate si erano concentrate soprattutto sull’eccessiva vicinanza al capostipite. Episodio VII, in pratica, per alcuni era solo un remake di Episodio IV.

In attesa di far proseguire la saga principale con l’ottavo episodio, Rogue One arriva con un carico di libertà narrativa di cui i film di Star Wars non avevano mai goduto prima. Affidando la regia a Gareth Edwars (ha diretto bene l’ultimo Godzilla), la Disney ha voluto insistere sull’idea di discontinuità all’interno della galassia di Guerre stellari. «Siamo diversi, ma uguali agli altri», direbbe Nanni Moretti. Edwards, quindi, ha continuato a puntare sull’effetto nostalgia ma a funzionare molto di più in questo primo spin-off sono le novità che segnano la differenza rispetto agli standard della saga.

Non c’è più la didascalia a scorrimento che ha sempre introdotto i film, non c’è John Williams a comporre la colonna sonora, non c’è la Forza al centro di tutto. C’è la guerra, come Lucas non l’aveva mai mostrata, c’è un’indeterminatezza tra bene e male mai così marcata, c’è una specie di realismo che riesce quasi a collegare Rogue One al contemporaneo.

Jyn guida il suo piccolo gruppo di ribelli in una galassia schiacciata dall’Impero che pattuglia le strade con i carri armati. Sembrano forze di occupazione in un qualsiasi fronte del mondo reale. I ribelli combattono per la libertà con ogni mezzo, anche commettendo crimini che loro per primi definiscono insopportabili. È la causa, a richiederlo. Non ci sono eroi classici, ci sono personaggi combattuti, pronti a uccidere a sangue freddo. In tempo di guerra non c’è spazio per i valori.

In questo film a metà tra prequel e film autonomo sono molto più importanti le sfumature rispetto al manicheismo della saga principale. Non ci sono il lato oscuro e il lato chiaro, non c’è l’assolutismo del bene e del male. I ribelli di Rogue One si muovono nello spazio grigio tra la luce e l’ombra, fanno quello che devono fare, a ogni costo.

La fedeltà al canone, comunque, rimane nel tema portante del rapporto col padre. Jyn è legata a Galen così come in tutti i sette film di Star Wars i vari protagonisti sono alla ricerca di una figura paterna (Anakin con Obi Wan e l’Imperatore, Luke con Obi Wan e Darth Vader, Kylo Ren con Han Solo e il Leader Supremo Snoke, o Rey con Han Solo e probabilmente con Luke).

Troppo sbilanciato in una prima parte di costruzione che si sofferma eccessivamente sulle parole, Rogue One mostra tutto il suo potenziale nella parte finale che lascia campo aperto all’azione e allo sviluppo dei personaggi attraverso i fatti. C’è da capire dove sia più evidente la mano di Edwards e dove invece sia intervenuto Tony Gilroy, anche sceneggiatore del film, chiamato dalla Disney a rigirare alcune scene a pochi mesi dall’arrivo in sala. Si tratta, però, di dettagli. Rogue One è soprattutto un grande film di intrattenimento che riesce a dare una linfa nuova a una saga immortale inserendosi con uno slancio nuovo all’interno della continuità. Non mancano le strizzatine d’occhio ai fan più accaniti, ma questo è un film tutto nuovo, perfettamente autonomo.

(Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards, 2016, fantascienza, 133’)

“Un Amore”
dei Marcello e il mio amico Tommaso

C’è un ragazzo alto, con gli occhiali e delle cuffie. È in discoteca, luci stroboscopiche. Ragazzi che ballano, ridono con i cocktail in mano e lui, Marcello Newman, completamente inespressivo canta rivolto verso la telecamera “Blues Balneare”, singolo tratto dal disco Nudità. Questa stessa sensazione di profondo disagio e alienazione – trovarsi soli in un mondo altro rispetto al proprio con cui non poter e non voler spartire nulla – rimane centrale anche nell’ultimo Lp dei Marcello e il mio amico Tommaso, Un Amore.

Ci sono degli aspetti in questo lavoro – non da un punto di vista strumentale – che possono ricordare la wave italiana (soprattutto fiorentina) anni ’80. Uno di questi è la voce. C’è una disperazione di fondo nel cantato sgraziato di Marcello Newman che può rimandare ai Diaframma in primis, ma anche a una certa tragicità alla Pelù di Desaparecido. L’insieme interpretazione del cantato e scrittura dei testi ne fa uscire un qualcosa di molto interessante, dove sembra che Federico Fiumani abbia scritto e interpretato i propri testi dopo esser stato a uno corso tenuto da Francesco Bianconi e dal suo assistente Niccolò Contessa su come scrivere i testi. E in un periodo in cui in Italia si sta prendendo chiaramente un’altra direzione (vedi l’ultimo caso Pop X), i Marcello e il mio amico Tommaso risultano un fenomeno quantomeno singolare.

Con Un Amore, i Marcello e il mio amico Tommaso, scelgono di intraprendere un discorso musicale diverso da quello attuale italiano, che non è un cantautorato (o nuovo cantautorato) puro sulla scia dei vari Dimartino o Colapesce e di conseguenza Calcutta, o una rivisitazione nostalgia alla Thegiornalisti, o una deformazione del disimpegno di Battisti  stile Pop X, ma un indie rock, sporco, che ha tra i vari riferimenti possibili il contesto dei Los Campesinos! (soprattutto gli ultimi, quelli di No Blues), alcuni spunti ritmici alla Interpol e un fare corale alla Arcade Fire, il tutto sviluppato attraverso un atteggiamento punk – la brevità dei testi lo testimoniano. Un lavoro da band vero e proprio.

E se nell’approccio canoro lo stigma è quello di Federico Fiumani, nella vocazione poetica il punto di riferimento sono i Baustelle. L’autocommiserazione del sé che fluttua in una zona grigia in cui comunque potersi rispecchiare e crogiolarsi (“Non è il top”: «Il vino di merda ti rende migliore / Ma non mi va»); l’attesa che sia qualcosa al di fuori della propria volontà a cambiare la propria vita e i propri orizzonti (“La luna”: «Nuvola portami via da qua / Ad Amsterdam o al cinema». Una rivisitazione del concetto di commistione tra sacro e profano – uno spunto interessante può essere ritrovato nelle liriche di “Il Nulla” dei Baustelle: «Tu vai per mostre e città / Festival bar / Sai di caffè di Parigi e stai sul porto di Amsterdam / Mi dici che ti emoziona il tramonto/ E io ti chiedo se ce l’hai/ Per caso in tasca un chewingum»); l’incapacità strutturale di essere e poter essere qualcosa di meglio per la persona che si ama ( “2009 (un sogno)”: «Ed è dal 2009 che aspetto questo momento/Procurarti un orgasmo»). Ne esce fuori un io inadeguato e superficiale. Un io che attinge da quello di Bianconi, passando per quello di Contessa, che viene ulteriormente estremizzato portandolo a una sorta di collasso. E in questa descrizione, Marcello e il mio amico Tommaso, allargando il tutto in una dimensione generazionale e poi umana, disegnano uno scenario inquietante dai tratti distopici.

Un Amore racconta in maniera veemente il minimalismo della vita, andando a toccare con accuratezza snodi fondamentali del rapporto tra gli individui in un lavoro che ha da dire molto e da cui è possibile trarre degli spunti di riflessione. Non piegandosi a mode, i Marcello e il mio amico Tommaso si distaccano da certi clichè e raccontano una parte di mondo senza strizzare l’occhio a nessuno.

(Un Amore, Marcello e il mio amico Tommaso, indie pop-rock)

“Un bene al mondo”
di Andrea Bajani

Il dolore non ha consistenza, né peso o misura. Eppure il dolore ferisce. Può mordere, graffiare o dare zampate. Oppure può essere fatto della stessa sostanza sfuggente degli esseri fragili, incerti, condannati a essere creature poetiche ma irrilevanti nel mondo e a difendersi costantemente dagli attacchi altrui. È quest’ultimo dolore la personificazione dell’inaccessibile mondo interiore del bambino del nuovo libro di Andrea Bajani, Un bene al mondo (Einaudi, 2016).

Si tratta di una favola, ma di una favola profondamente letteraria, tutt’altro che melensa e artefatta. Bajani cuce una trama dal sapore universale con al centro i due protagonisti: un bambino con il suo docile dolore e la «bambina sottile» con il suo dolore spelacchiato. Il tono è onirico e rarefatto, i luoghi archetipici ma i contenuti sono tutt’altro che banali e innocenti. Lo scrittore romano ha qui travestito da fiaba un’allegoria della dolorosa condizione umana di impronta leopardiana.

Anche il mondo evocato da Bajani, quel piccolo paese che è un po’ figura di tutti i paesi del mondo, con la piazza, la strada, il bosco, la ferrovia che taglia in due questo microcosmo e al confine un cimitero, è piuttosto consueto, convenzionale e niente affatto straordinario o fantastico. Ma la magia delle favole è quella di trasformare persino il più comune degli oggetti in qualcosa di eccezionale, unico e irripetibile.

Di questo mondo Maria Cerri, nella copertina di Un bene al mondo, ha cercato di restituirne non tanto la realtà quanto piuttosto l’immagine mentale così come potrebbe formarsi nel bambino. Il disegno se da una parte perde in esattezza ne guadagna in bellezza e creatività. Ecco che allora tutto è riportato a forme semplici e geometriche. C’è una casa che è un cubo. E le case sono centrali nei romanzi di Bajani: Ogni promessa si apriva proprio con la descrizione di una casa che una donna, Sara, ha appena deciso di abbandonare, lasciando «i buchi dei mobili che aveva portato via. Erano come nicchie scavate ciascuna da un’esplosione. Ogni stanza aveva i suoi vuoti, i mobili di Sara che fino a poco prima stavano lì, schiacciati contro il muro in mezzo ai miei».

In Un bene al mondo la sofferenza è rappresentata dalla figura di questo bambino con il suo dolore che tiene al guinzaglio proprio come fosse un cagnolino mite e fedele, sensibile come il suo padrone allo sguardo vuoto della madre che ha perso il suo di dolore e agli eccessi d’ira del padre. Nella famiglia del bambino c’è infatti il dolore del padre raffigurato come una bestia feroce che risponde a un codice di violenza di cui il piccolo è prigioniero. Per la maggior parte del tempo è lui a doversi curare di tenere a bada questo dolore feroce e aggressivo.

Al di là dei binari c’è invece il dolore triste e spelacchiato della «bambina sottile» che però raramente porta con sé: «Quel dolore lasciato a casa era il loro segreto, e il bambino sapeva che un segreto condiviso trasforma un incontro in una cosa importante».

Il bambino cammina per i boschi per non pensare a tutte quelle cose che lo rendono triste. Costeggia i binari della ferrovia e sa a memoria tutti gli orari dei treni, immaginando un giorno di poter partire e non tornare più. Scrive delle lettere senza spedirle, a cui consegna tutte le parole non dette, i sentimenti celati, i momenti mancati. La «bambina sottile» è l’unica a prendersi cura del dolore del bambino ma anche lei nasconde una segreta sofferenza.

Il racconto di Bajani è il racconto di come sopravvivere all’infanzia e al tempo bloccato dell’illusione: «Il tempo era soltanto una ripetizione di gesti. Anche se moltiplicato per giorni o per anni, il vuoto era rimasto lo stesso».

L’atmosfera claustrofobica è la stessa della Trilogia della città di K. di Agotha Kristof, mentre la costruzione della trama tendente all’assurdo è accostabile al filone della narrativa fantastica italiana da Calvino a Tabucchi.

A un certo punto della narrazione l’andamento mitico della fiaba viene smentito dal tempo che ricomincia a scorrere. Passano giorni, mesi, anni. Il bambino non è più un bambino ma «un uomo alto un metro e novanta» che cammina da solo per le strade di una città «con in tasca la misura dell’amore che la bambina gli aveva lasciato».

Con una prosa luminosa, ipnotica nel ritmo e seducente nella parola, mossa da una sotterranea vena emotiva, Andrea Bajani mostra come l’esistenza umana sia plasmata dalla sofferenza. Tutti quanti aspettiamo di vivere la vera vita proprio come il bambino.

 

(Andrea Bajani, Un bene al mondo, Einaudi, 2016, pp. 138, euro 16,50)