Poster italiano di Miss Peregrine di Tim Burton su Flaneri

“Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali”
di Tim Burton

Dopo Big Eyes, il biopic ispirato alla vera storia della pittrice Margaret Keane, Tim Burton torna al genere fantasy con Miss Peregrine – La Casa dei ragazzi speciali, tratto dall’omonimo romanzo di Ransom Riggs del 2011. Il regista di Edward Mani di Forbice e Alice in Wonderland porta sul grande schermo le avventure di un outsider adolescente, il giovane Jacob Portman, interpretato dal diciannovenne Asa Butterfield, già nel film di fantascienza Ender’s Game e nel commovente dramma sull’Olocausto Il Bambino con il pigiama a righe.

Non è un più un fanciullo Jacob, un timido ragazzo di periferia che lavora part-time in un supermercato della Florida. Un giorno riceve una chiamata di soccorso da suo nonno, Abraham “Abe” Portman, un ebreo polacco fuggito dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Jacob si precipita da lui per capire cosa sia successo, ma lo ritrova misteriosamente senza occhi e in agonia. Dopo la tragica morte, il giovane decide di seguire le ultime parole del nonno e parte per una piccola isola del Galles alla ricerca di un gruppo di orfani dal talento speciale che vive nella residenza di Miss Peregrine. Jacob tornerà a credere alle storie dei bambini che Abe gli raccontava prima di andare a letto e che, crescendo, pensava fossero solo frutto dell’immaginazione del nonno.

Tim Burton prova a costruire questa piccola opera di formazione insinuando nello spettatore la giusta dose di dubbio sulle costrizioni imposte dall’alto per condurlo alla riflessione sulla tolleranza del diverso, il tutto attraverso un rovesciamento del classico punto di vista. I bambini “speciali”, che come spettri di guerra si aggirano in una casa “tenuta in vita” dalla magia della loro guardiana (Eva Green), sembrano un incrocio tra gli X-Men e i protagonisti di quel Freaks risalente all’era pre-code di Hollywood. Sono proprio questi “mutanti” che non abusano mai dei loro poteri a riconoscere la presenza del “normale” Jacob e ad accettarlo durante una sequenza vagamente ispirata alla tavolata del film di Tod Browning. Il mondo da cui il giovane proviene è infatti per loro totalmente sconosciuto perché gli orfani sono intrappolati nel loop temporale che Miss Peregrine ha creato per proteggerli e che li costringe a rivivere per sempre lo stesso giorno, il 3 settembre 1943.

Se nella prima parte del film il regista di Big Fish riesce sapientemente a coniugare suspense e mistero con il coraggio e la voglia di riscatto di un ragazzo deciso a scoprire la verità e il mondo che lo circonda, in quella finale Burton perde palesemente il controllo. L’abuso di computer grafica e l’incessante susseguirsi di deus ex machina premiano l’azione a scapito della considerazione più profonda, arrivando persino a tediare lo spettatore, costretto a barcamenarsi tra paradossi temporali, spiegazioni didascaliche ed epifanie adolescenziali mal sviluppate. Non bastano i dialoghi ironici di un Samuel L. Jackson decisamente a suo agio nel ruolo del cattivo di turno per risollevare le sorti di una pellicola il cui punto più alto è solo quello raggiunto da Emma Bloom, la bambina “speciale” in grado di volare.

(Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali, di Tim Burton, 2016, avventura, 127’)

Copertina di Cleopatra va in prigione su Flanerí

“Cleopatra va in prigione”
di Claudia Durastanti

Dopo due romanzi americani, Claudia Durastanti si trasferisce in Italia con Cleopatra va in prigione, pubblicato lo scorso settembre da minimum fax. Nata a Brooklyn, cresciuta in Italia, residente a Londra, Claudia Durastanti ha pubblicato nel 2010 Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra e nel 2013 A Chloe, per le ragioni sbagliate, entrambi con Marsilio.

Erano romanzi americani di ambientazione e di stile. Cleopatra va in prigione parte da premesse completamente diverse. Siamo a Roma, precisamente a Roma Est, per quella specificità geografica – e non solo – che negli ultimi anni è diventata necessaria per far capire di che Roma si sta parlando (Pasolini, ma anche Caligari, Lo chiamavano Jeeg Robot o i The Pills). Caterina ha trent’anni e un fidanzato, Aurelio, che va a trovare ogni giovedì in carcere a Rebibbia. Lo hanno arrestato con l’accusa di gestire una rete di spaccio e prostituzione nel night che aveva aperto con il socio Mario. Mario è scappato in Sud America e Aurelio è rimasto lì, a rodersi in carcere, convinto che qualcuno lo abbia incastrato. Caterina lo aspetta, ma nel frattempo ha iniziato a frequentare il poliziotto che lo ha messo dentro. E non sa cosa succederà quando Aurelio tornerà libero.

È una storia cruda ed essenziale, quella di Cleopatra va in prigione, fatta di personaggi e ambienti, di realtà e di vita che se non sono veri sono quanto meno verosimili.

Dopo la coralità dei primi romanzi, Durastanti è passata alla singolarità del punto di vista, anche se sdoppiato in una terza e prima persona che si alternano con i capitoli e senza una reale logica. Dopo la ricerca linguistica di Chloe, in Cleopatra c’è spazio solo per la semplicità.

Tutto passa attraverso Caterina, il suo corpo è il termometro del mondo intorno a lei. Perché Caterina, cresciuta come ballerina classica, conosce ogni suo muscolo e ogni reazione. A Caterina piace essere desiderata, si mette la gonna corta per andare a trovare Aurelio, anche se lui non può vederla, sotto il tavolo dei colloqui. Le piace sentire lo sguardo degli uomini addosso, quando cammina per strada come quando la necessità l’aveva portata a ballare nel night del suo ragazzo.

È attraverso Caterina che accade ogni cosa. Con una scrittura vicina all’essenziale, Durastanti ricostruisce i fatti che hanno portato al carcere un po’ alla volta, rivelandoli al lettore mano a mano che si avvicina il momento opposto della libertà. Tra una visita a Rebibbia e una giornata di lavoro nell’albergo sulla Tiburtina in cui è segretaria e factotum, Caterina riempie i suoi giorni senza capire cosa fare di se stessa una volta che Aurelio sarà libero, e lei con lui. Il legame che unisce i due ragazzi è una cosa che va al di là della ragione, «non si può chiamare amore. È una cosa che è sempre esistita». Stanno insieme da quando sono ragazzini, sono cresciuti insieme, sono destinati a essere insieme, nonostante le botte di Aurelio, nonostante il carcere, nonostante tutto.

Nessuno dei due è diplomato. Vivono in quella Roma periferica in cui si convive con la criminalità, piccola o grande che sia, in cui chiedono il pizzo «in bomber di camoscio sopra la polo». Il poliziotto arriva a turbare un equilibrio, forse, a creare un triangolo scaleno in cui Caterina occupa tutti i vertici.

Senza mai cercare la sensazione nel lettore, Claudia Durastanti ha (ri)creato un mondo chiuso nelle poco più di 120 pagine del suo romanzo. Non ci sono sentimenti o emozioni, sulla carta. C’è la storia di Caterina in tutta la sua quotidiana crudeltà, nella periferia vicina al degrado, nei lavori senza futuro, nelle persone che tirano cocaina per stirare i panni. E in mezzo a tutta questa umanità in rovina, Caterina si muove con la grazia della ballerina che è stata, senza perdere mai l’equilibrio.

(Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, minimum fax, 2016, pp. 129, euro 15)

“Istanbul Istanbul”
di Burham Sönmez

Prima di essere una storia Istanbul Istanbul di Burham Sönmez (Nottetempo, 2016) è un atto d’amore verso una città. Questa è una premessa doverosa, perché colloca il libro dentro una dimensione precisa e imprime alle pagine un colore particolare. Allo stesso tempo è un atto di dolore compiuto a distanza, da una prospettiva spaziale (l’autore vive per lunga parte dell’anno a Cambridge) e temporale, poiché si parla di una città che non c’è più e in cui tuttavia balugina ancora qualcosa.

La cornice narrativa è semplice: quattro uomini si trovano rinchiusi nella stessa cella sotterranea; non si conoscono, ma sono tutti incarcerati per essersi opposti al governo. Il più giovane, Demirtay, è uno studente, poi c’è il Dottore, che di Demirtay potrebbe essere il padre, Küheylan, il vecchio dalla barba lunga, e Kamo il barbiere, la cui età sembra oscillare tra quella dei primi due. In questo modo sottoterra è ricomposta una piccola società, seppur di stampo tutto maschile (nel romanzo si incontra un solo personaggio femminile, Zinê Sevda, che tuttavia dipende dagli altri quattro ed è collocato a un livello di poco inferiore) una società che affannosamente respira e soffre e in cui ognuno si può riconoscere. Rinchiusi tutto il giorno nella cella – salvo i momenti in cui le guardie li conducono all’esterno per le torture – ai quattro personaggi non resta che parlare, o meglio raccontare, poiché, sembra dirci Sönmez, da una situazione di chiusura e isolamento le storie ricominciano. Storie di vita vissuta, storie riportate, storie inventate o immaginate; quel che si impara leggendo questo libro è che non conta davvero conoscere l’origine dei racconti, conta il modo in cui essi riempiono l’aria e tengono in vita i prigionieri. Il fil rouge che li lega è la città simbolo che dà titolo al romanzo, poiché «ogni storia gira intorno a Istanbul» e «Istanbul» dice uno dei narratori, «non è una parte di qualcosa, è il tutto in cui i vari pezzi si mettono insieme».

Istanbul Istanbul è suddiviso in dieci parti che corrispondo a dieci giorni di prigionia. Ogni parte ha come narratore uno dei quattro protagonisti, che a turno prendono la parola. Ricorda, a livello strutturale, la cornice del Decamerone, che non a caso è citato dal vecchio Küheylan. E, in fondo, sempre con la peste si ha a che fare.

Il tratto più singolare, o meglio, l’elemento strutturale della storia, è lo specchio, poiché ogni aspetto è raccontato da due prospettive, quella concreta e il suo riflesso – lo stesso titolo ripetuto, a ben pensarci, va in questa direzione. Lontane dall’assomigliarsi, però, queste due facce sono sempre in contrasto, l’una l’opposto dell’altra. Così in Istanbul Istanbul compaiono due città, quella che affiora in superficie, apparentemente viva e dinamica (ma anche il luogo in cui avvengono gli arresti) e quella sotterranea, buia e immobile, dove i protagonisti sono torturati. Questo fa di Istanbul la città «che aveva appreso la realtà dalla natura, ma poi aveva creato le menzogne», e a una simile contrapposizione si lega bene l’idea che emerge a proposito del tempo, che presenta anch’esso due volti. La temporalità, aspetto centrale del romanzo, assume in modo inconsueto una dimensione verticale. C’è il passato, che si riflette nella gloriosa storia del paese, nell’incanto che si svela ancora in molti angoli della città in superficie, nelle sue storie meravigliose, onorate e tramandate di generazione in generazione. E poi c’è il presente che fa a pugni con tutto questo, e a cui pertanto si cerca di non pensare. Lo si relega lontano, in un luogo buio e non visibile, che rispecchia, non a caso, la prigione sotterranea in cui sono rinchiusi i protagonisti. «Sentivamo la mancanza del passato oppure sognavamo il domani. Cercavamo di non considerare il presente», afferma Demirtay lo studente. «A volte raccontavamo storie del passato e a volte del futuro. Per quanto riguardava il presente, pensavamo che fosse un ponte […] avevamo paura che quel ponte si rompesse e che potessimo cadere nel vuoto». Qual è la vera faccia di Istanbul? Quella in superficie o quella sotterranea? La realtà del passato o quella del presente? «La città e il tempo erano la stessa cosa», eppure i cittadini della città di sopra non si curano dei prigionieri.

In una delle tante storie narrate si legge che il tempo di Istanbul è come un uccello, che «vola e vola nel passato. Quando arriva nel presente ferma le ali. Rimane sospeso nel vento. […] Piano piano si libra nel vuoto».

L’ultimo gioco di specchi riguarda il rapporto tra realtà e immaginazione. Trasportati dalle storie, vero e proprio soffio vitale, capita che i protagonisti si ritrovino a banchettare, a sorseggiare raki, a osservare i tramonti pieni della città. Sono sottoterra, sì, e sotto tortura, ma ancora capaci di pensarsi altrove. Così il vecchio Küheylan si presenta offrendo ai compagni sigarette immaginarie, eppure non è pazzo, sta soltanto insegnando agli altri l’incanto e la forza persuasiva dell’illusione.

Istanbul Istanbul di Sönmez è un libro prezioso, di quelli che restano. Parla dell’oscuro presente turco ma lo fa portandosi sulle spalle il bagaglio antico delle narrazioni orali. Sarà che sopra la cella fredda della prigione – sopra le teste dei quattro protagonisti – c’è sempre una città che cammina. Eppure vale anche il contrario, a seconda che si guardi l’immagine o il suo riflesso.

È un atto d’amore, si diceva. E allo stesso tempo un atto di dolore.

 

(Burham Sönmez, Istanbul Istanbul, trad. di Anna Valerio, Nottetempo, 2016, pp. 320, euro 17)

“L’uomo dal fiore in bocca… e non solo”,
regia di Gabriele Lavia

In L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, Gabriele Lavia ipnotizza con la sua capacità attoriale e la sua forza registica. Dilata il testo pirandelliano, l’atto unico più breve scritto dal drammaturgo, convoglia nel dialogo tra l’uomo dal fiore in bocca (Gabriele Lavia) e il Pacifico Avventore (Michele Demaria) qualcosa che attiene fermamente alla vita: il banale (inezie, pacchetti e pacchettini), la ripetitiva insistenza di azioni e luoghi comuni, anche la bellezza inafferrabile dell’infinitamente grande partorito dal pensiero di una piccolezza infinita. Una riflessione che può scaturire da uno sguardo al cielo e agli astri, comodamente seduti nella «loggetta» domestica.

In L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, Lavia porta la voce di Schopenhauer, la sua filosofia sosteneva l’essere come volontà di annullamento. L’uomo si distingue così in quanto animale metafisico, consapevole dell’avvento della morte. «Perché devo vivere se poi devo morire?» ripete l’uomo dal fiore in bocca in uno spasmo pulsionale quanto mai lontano dalla retorica. Destinato a morire entro pochi mesi a causa di un epitelioma tumorale sotto il baffo, quasi un neo o un fiore, passa il suo tempo nella stazione dei treni immaginando la bellezza delle destinazioni e cercando di rubare con l’intuito la vita degli altri. Questo non gli arreca piacere né sollievo ma gli dà la possibilità di calarsi in altre esistenze per congelare momentaneamente la propria.

Quando il sipario del Teatro Quirino si apre, lo spettatore è subito catapultato nel cuore di una piccola stazione di paese, un tuono seguito da un lampo e dallo scroscio forte della pioggia. La scenografia magistrale è stata curata dal Teatro della Pergola di Firenze.

Il Pacifico Avventore entra in scena carico «come un mulo» di pacchi regalo coloratissimi, dalle carte sgargianti e ben infiocchettati, due per dita. Ha appena perso il treno e si imbatte in un ‘uomo un po` strano’ con cui arriva a confidarsi e condividere l’attesa. L’attesa del prossimo treno o di un senso da dare a ciò che sfugge alla comprensione? La quotidianità, il proprio essere uomo, il gioco di ruoli, il rapporto complicato con l’altro genere, la donna: l’uomo dal fiore in bocca ha la risposta a ogni interrogativo, anche non esplicitato, quasi il tutto si esaurisse in un raffronto personale con la realtà.

La donna, che vediamo come una sagoma dietro al vetro che separa gli uomini dai binari, è la vera ossessione che incombe dietro agli affanni dell’uomo buono e dell’uomo saggio. La moglie, o «Il Moglie» che regola gli spostamenti, dà commissioni, detta l’umore del Pacifico Avventore. La malattia mortale che l’uomo desidera per sé. La dolcezza a cui non si può rinunciare fa sì che il simbolo del sesso femminile sia incarnato da un frutto: l’albicocca delicata, spaccata a metà e spremuta, una battuta velata e irriverentemente maliziosa.

Ricorrente il battito mortifero, la presenza soffocante della morte che «si attacca addosso» e che sarebbe bello potersi togliere, vicendevolmente tra sconosciuti, come un innocuo insetto, una mosca posatasi sugli abiti. Si crea quindi un’assonanza ambigua tra figura femminile, desiderata come la cosa più bella eppure vista come una voluttà nociva, sempre con il coltello dalla parte della manica, e la morte, temuta e più volte invocata, mostro da esorcizzare: un’ombra misteriosa che cala repentinamente e non lascia scampo alle prede.

 

L’uomo dal fiore in bocca… e non solo

di Luigi Pirandello
regia: Gabriele Lavia
con: Gabriele Lavia, Michele Demaria, Barbara Alesse
scene: Alessandro Camera
costumi: Elena Bianchini
musiche: Giordano Corapi
luci: Michelangelo Vitullo
regista assistente: Simone Faloppa

Roma – Teatro Quirino, dal 6 Dicembre al 17 Dicembre 2016

“A Divorce Before Marriage” degli Iliketrains

Gli Iliketrains sono senza dubbio uno dei gruppi più sottovalutati degli ultimi tempi. È molto raro, infatti, quando si parla di produzione musicale, inglese e non, degli ultimi dieci anni, sentir parlare di loro. Nonostante questo, Matt Hopkins e Ben Lankester decidono di girare un film sui quattro di Leeds, sulla loro vita sul palco e quella in privato, fatta di lavori, uffici, computer, questione burocratiche, famiglia. A Divorce Before Marriage è la colonna sonora, scritta interamente dagli Iliketrains.

Nel 2006 uscì un Ep, Progress-Reform, passato quasi sottotraccia (in questo lavoro, tra le altre cose, è presente uno dei brani migliori in assoluto degli ultimi dieci anni, “Terranova”, in cui viene narrata, anche attraverso un bellissimo video, la tragica vicenda della spedizione verso il Polo Sud capitanata da Robert Falcon Scott e finita tragicamente con la morte di tutta la compagnia), ma che fu un momento indubbiamente importante per quel filone eterogeneo che è il post rock. Gli Iliketrains riuscirono a mischiare con risultati eccellenti l’aspetto etereo e allo stesso tempo dirompente del post rock alla concretezza della canzone pop, con i suoi schemi e i suoi continui rimandi a se stessa. Era un mix di una forza notevole; la capacità di inserire code strumentali, i classici climax che caratterizzano e caratterizzano il post rock di origine americana, in architetture musicali ben definite e visibili. In quegli anni, sicuramente a livelli più alti, gli unici che proponevano un discorso di questo tipo erano senza dubbio i Sigur Rós, che venivano fuori dal trittico Ágætis Byrjun, Untitled e Takk… con risultati ancora ben impressi nella coscienza musicale contemporanea. In quegli anni, infatti, una parte del post rock – da quello che era con i Bark Psychosis o gli Stereolab nei primi anni ’90 – stava prendendo una direzione che sapeva un po’ di omologazione – anche con contaminazioni metal, i Russian Circle o i Pellican – nonostante i tanti lavori importanti che ne uscirono fuori (gli Explosions in The Sky con The Earth is Not a Cold Dead Place).

Gli Iliketrains quindi erano una sorta di novità, un’alternativa reale. In più quella voce baritonale, asciutta, mai sopra le righe, incuriosiva. Come se Leonard Cohen si fosse divertito a cantare nei Sigur Rós cresciuti accanto alle industrie e non ai geyser.

Il discorso venne ampliato ed estremizzato l’anno successivo, con il cupo Eleagies to Lesson Learnt, in cui l’approccio fu sempre quello che fa perno nella commistione tra post rock e pop, ma questa volta con cadenzare che sfiorava spesso il doom (esempio lampante “We All Fall Down”, che sembra proprio un pezzo definibile come doom-pop: la grandezza degli Iliketrains di arrivare lentamente, aggiungendo elementi un po’ alla volta, attraverso una sofferenza che si fa vera istante dopo istante, alla chiusura dove Dave Martin canta il liberatorio «We All Fall Down»). Tempi dilatati fino allo sfinimento, brani duri da metabolizzare, la voce che si trascina assecondando tutto l’apparato strumentale alle spalle.

I due album successivi, He Who Saw the Deep e The Shallows, spiazzano. Album in tutto e per tutto pop. Ma non siamo a una svendita, a una sorta di prostituzione musicale. Gli Iliketrains capiscono che ciò che sono può essere declinato anche in altre maniera, senza dover diventare per forza macchiette di se stessi.
Da tenere a mente che nel 2007 usciva Boxer dei The National, e probabilmente questo è stato uno dei motivi per cui gli Iliketrains hanno scelto di costruirsi un’altra immagine addosso. Si nota una certa familiarità, infatti, tra il modo di entrare nelle canzoni da parte di Dave Martin e di Matt Berninger (“The Turning of the Bones” su tutti) e tra le due ritmiche – il basso e la batteria in He Who Saw the Deep, per esempio in “Where We Where Kings”, o ancora di più in “A Father’s Son” –, aspetti che ci fanno capire che qualcosa stava cambiando per i quattro di Leeds.

È chiaro, esiste anche una motivazione di stampo economica, non ci sono dubbi. Probabilmente questi ultimi due album sono maggiormente fruibili per il pubblico, molto più immediati e superficialmente godibili. Ma ciò che ne esce sono due lavori di fattura pregevolissima (si pensi anche all’atmosfera stile club alla Tv On The Radio in “Mnemosyne” o alla freschezza simil R.E.M. di Out Of Time di “The Hive”).

A Divorce Before Marriage arriva quest’anno e, pur discostandosi nell’approccio da tutto ciò che lo ha preceduto, può essere inteso come una summa di quello che ha portato la band di Leeds a oggi e un omaggio a quel filone post-rock capitanato dagli Explosions in the Sky con cui ancora non avevano fatto i conti, filtrato dal fatto che, alla fine, si parla comunque della colonna sonora di un film.

Nonostante sia palese l’influenza del gruppo del Texas in questo lavoro, gli Iliketrains emergono con prepotenza. La chitarre sono le chitarre degli Iliketrains, la ritmica è quella degli Iliketrains, le sospensioni e i cambi di tempo sono quelli degli Iliketrains.

In A Divorce Before Marriage troviamo, appunto, gli Explosions in The Sky (“Bethesda”, “Tennyson”), tracce dei God Is An Astronaut (“X”), un inaspettato sperimentalismo alla Philip Glass (“Elbe”), i Sigur Rós (“Lock 19”, “Aire”), l’incorporeità di Eluvium (“Ilkey Moor”). Ma ci troviamo, soprattutto, gli Iliketrains.

(A Divorce Before Marriage, Iliketrains, Post-Rock/Soundtrack)

La fuga di Billy Micklehurst

In inverno, diceva sempre Billy Micklehurst, quando le notti erano lunghe e scure e ti svegliavi prima che facesse chiaro con i capelli congelati attaccati al bavero, quando i ricoveri e i dormitori erano stipati di gente – o quando, semplicemente, non eri dell’umore giusto per la compagnia dei vivi – era allora che Billy, con la sua blusa strappata, le scarpe senza lacci e le spalle ricurve per proteggersi dal vento, avrebbe affrontato la lunga marcia dal mondo degli inferi tra Deansgate e il fiume, compresi i bunker di cemento di Hulme e la splendida decadenza di Moss Side, e avrebbe superato ogni sorta di pericolo lungo la strada, finché non avesse trovato il santuario a cui anelava nella grande necropoli del Southern Cemetery.
C’erano oltre un milione di tombe al Southern Cemetery, diceva Billy. Sapeva che era così perché lui stesso aveva contato ogni singola lapide – tutte, giurava – e al chiaro di luna aveva letto i nomi e gli epitaffi su più di qualcuna. Inoltre – e quella rivelazione Billy la accompagnava con uno sguardo dietro di sé, oltre le spalle ricurve, quasi volesse escludere la presenza indesiderata di spie e ficcanaso – affermava di conoscere le anime terrene di alcuni di quei defunti poeticamente commemorati. Rifiutava di rivelare le identità di questi morti – a chiunque, persino a me – perché, diceva Billy, avevano affidato a lui delle piccole ma preziose parti della propria anima e avrebbe tradito quella fiducia se avesse divulgato l’identità di quegli spiriti che lo avevano eletto come loro guardiano e salvatore in questo mondo.
Billy andava al cimitero perché gli sfiatatoi del forno crematorio rilasciavano calore per tutta la notte, e se dormivi sopra il condotto potevi raggomitolarti al caldo, come il pane abbrustolito. Vedete, Billy diceva che i cadaveri in fiamme non erano come la legna da ardere o il carbone. No, i corpi cremati erano come una specie di centrale nucleare. Anche quando le ceneri erano fredde emanavano un calore invisibile che non potevi percepire con le mani, ma che ti riscaldava le ossa fino al midollo. Erano le anime, sapete, che lottavano per abbandonare la Terra. A quel punto, come se vedessero gli spiriti stessi danzar loro davanti in quel preciso momento, gli occhi di Billy sarebbero schizzati fuori dalle orbite con un terrore puro, vero. Un terrore che non avrei mai più rivisto. Poiché, spiegava, alcuni degli spiriti non se ne andavano mai. Erano intrappolati per l’eternità al Southern Cemetery. E più tardi, verso l’alba, quando il tepore degli sfiatatoi sarebbe svanito, i loro spettri avrebbero destato Billy dal sonno e lo avrebbero tormentato con la loro angoscia.
Gli spettri erano reali, giurava davanti a Dio. Poteva vederli con la nitidezza con cui vedeva me. Ed erano di vera carne e sangue, non evanescenti come nei film. Erano di ogni taglia ed età – dalle anziane signore avvizzite che erano morte in solitudine ai giovanotti forti e robusti i cui corpi erano stati dilaniati dalle macchine, persino un piccolo moccioso deturpato dal vaiolo. Venivano da ogni tempo, oltretutto – freschi della settimana precedente, o provenienti da cento e più anni prima. Billy avrebbe alzato gli occhi al cielo, le orbite colme di pietà reverenziale, agitando le mani come ali spezzate. Perché la cosa più terribile di tutte era che nessuno di loro sapeva il motivo per cui erano stati lasciati indietro. Non erano persone cattive – e ce n’erano parecchie sotterrate lì fuori, c’era da credere a Billy; persone che avevano combinato ogni genere di atrocità. Ma come può un piccolo moccioso essere cattivo? No, in definitiva erano solo persone che non sapevano perché non potessero andarsene via, né perché, tra tutti i vivi, ci fosse solo Billy Micklehurst in piedi nel buio a testimoniare la loro sofferenza.
Beh, dovete sapere che facevano affidamento su Billy Micklehurst affinché lui li liberasse tutti. E l’origine del tormento di Billy era questa: non sapeva come fare.
A guardarlo, Billy poteva allontanarsi di una decina d’anni da ciascun lato dei cinquanta. Decenni trascorsi per strada, e innumerevoli litri di Mann’s scura, punch allo Yates e alcool denaturato gli avevano trasformato le ossa, la pelle e gli organi interni in un rottame indistruttibile. Il suo viso faceva impressione per via di occhi e denti. Gli occhi riuscivano a essere allo stesso tempo infossati e sporgenti di ferocia e, mentre la mascella inferiore vantava una schiera completa di zanne ingiallite, la gengiva superiore, devastata dallo scorbuto, poteva schierarne solo due – un canino e un incisivo – che dondolavano pericolosamente e si piantavano nelle labbra quando chiudeva la bocca. Malgrado ciò, era un compagno abbastanza elegante, a modo suo: i capelli erano ancora neri come il petrolio e sempre tirati all’indietro in una matassa unta che lasciava scoperta l’ampia fronte disseminata di cicatrici. Di solito indossava una blusa – grigia, a doppiopetto – e un leggero gessato ricoperto di macchie multicolore di dubbia provenienza. Le scarpe erano allacciate di rado, le stringhe si strappavano sempre e costavano una fortuna; e in estate – molti anni prima che questa abitudine diventasse popolare tra i modaioli – spesso si presentava scalzo, mettendo in bella mostra piedi candidi come una toilette cinese e decorati con fragili fili blu. Le camicie tendevano al logoro e al sudicio, ma erano immancabilmente illuminate da un foulard di seta scarlatta con un orlo sfrangiato d’oro che indossava a mo’ di cravatta intorno alla gola.
Diceva – in molte occasioni, e sempre con un certo orgoglio – che il foulard gli era stato donato nel millenovecentosessantatré da un’aristocratica del Leicestershire che affermava di essere andata a letto con David Niven, l’attore, durante la guerra.
La prima volta che incontrai Billy, nel luglio del 1976, era appollaiato come una gargolla su una panchina del sagrato di Sant’Anna, i gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate, intento a rimuginare fissando le mattonelle levigate dal tempo ai suoi piedi e, di tanto in tanto, alzando gli occhi per deridere i passanti che provenivano dal vicolo di King Street. Io avevo diciassette anni e cercavo un posto per consumare la cena, e pensavo che il piccolo sagrato fosse una cornice esotica. Mi era passato per la mente di non sedermi accanto alla gargolla e di trovare un altro posticino per mangiare, ma dato che l’idea mi sembrava sia scortese che vigliacca mi accomodai sulla panchina a mezzo metro dall’uomo. A quel punto – in quel luogo sacro, aduso com’ero alle imposizioni, positive e negative, del cattolicesimo – il sacchetto di carta che tenevo in mano, contenente un tramezzino al pomodoro e formaggio e un po’ di patatine al pepe e all’aceto, d’improvviso mi parve uno strumento di tortura. L’uomo doveva essere affamato. Puzzava come se fosse affamato. Eppure, allo stesso tempo, non volevo ferire il suo orgoglio, dicendogli, di fatto: «Tieni, prenditi il mio sandwich, povera vecchia canaglia». Così non aprii il sacchetto. Mentre sedevo fissando il vuoto, riflettendo su quell’inaspettato dilemma morale, la gargolla – gomiti sulle ginocchia e mani intrecciate – ruotò lentamente il capo e mi guardò.
Io lo guardai di rimando, dritto in quegli occhi infossati eppure sporgenti che avevano contemplato un universo che non avrei mai conosciuto. Non mi venne in mente nulla da dire. Era l’incarnazione della vita vissuta; io invece non avevo fatto altro che andare a scuola e sostenere esami. Lo guardai e basta.
Disse: «Sono Billy Micklehurst. E non me ne frega un cazzo».
Sollevai il sacchetto di carta come fosse un’offerta a un idolo pagano e dissi: «Ti andrebbe un sandwich?»
Billy scrutò dubbioso il sacchetto e disse, riferendosi al tramezzino all’interno: «Cosa c’è dentro?»
«Formaggio e pomodoro» dissi. «Ho anche delle patatine, se ti piacciono. Pepe e aceto».
«Forza, allora».
Gli porsi il tramezzino e Billy lo prese. Quando gli offrii le patatine, scosse la testa.
«Le patatine mi danno aria».
Divorò il tramezzino con enormi morsi che gli lasciarono tra le gengive delle striscioline di crosta che si ricacciò in bocca con il dorso della mano, proclamando, con lieti ringraziamenti a Cristo, quanto fosse buono un sandwich. In pochi secondi il panino era andato e mi parve che, avendo trovato l’eterno riposo all’interno della pancia di Billy, poteva anche essersi trattato del più straordinario sandwich mai preparato. Billy tirò fuori un fazzoletto sporco e si ripulì il mento da burro, semi di pomodoro e saliva. Con uno svolazzo degno d’un mago, scosse via i frammenti di cibo dal fazzoletto e se lo rimise nel taschino.
«Dio ti benedica, Pel di Carota» disse Billy. Con la mano fece un gesto che sembrava sottendere il mondo intero. «Sono dappertutto» mi avvertì. «Non lasciare che ti mettano addosso le loro mani insanguinate».
«Di chi stai parlando?» dissi.
«Di quelli che cercheranno di trascinarti giù, e di tantissime altre cose che è meglio non vengano menzionate» disse Billy. Aggiunse: «Puoi credermi sulla parola» poi si alzò dalla panchina e se ne andò.
Quell’estate mi parve di imbattermi in Billy in continuazione. Alcune volte era coinvolto in feroci discussioni con un logoro capannello dei suoi commilitoni; agitava le braccia, sventolava i pugni in aria e si girava a sputare nel fango con disgusto. In un’occasione, proprio nella piazza di Sant’Anna, lo vidi che ballava il valzer – con un’eleganza e un’armonia di forme sorprendenti – su e giù per il marciapiede fuori da Sherrat & Hughes, una lattina di Hofmeister in entrambe le mani e un ghigno beato stampato sul viso. Un’altra volta lo trovai in piedi, rigido e ammutolito, all’uscita della stazione Victoria. Gli sorrisi e lo salutai e gli chiesi come andasse, ma Billy mi fissò senza riconoscermi, quasi fossi una creatura proveniente da una lontana galassia. Il mattino seguente, invece, mi salutò dalla panchina sul sagrato come un vecchio amico, e mi offrì un sorso di qualcosa che sapeva di candeggina, senza il benché minimo ricordo del nostro incontro del giorno precedente.
Talvolta passeggiavo con lui nel quartiere di Ancoats e mi mostrava le fabbriche e i magazzini sventrati, luoghi dove un uomo privo di alcun legame poteva costruirsi un rifugio. Ogni tanto, la domenica, andavo con lui all’Eucaristia organizzata dall’associazione St. Vincent de Paul in una chiesa abbandonata delle zone bombardate a est del fiume Erwell, dove dozzine di uomini come Billy, e anche una manciata di donne, si radunavano per ascoltare le letture del Vangelo e ricevere la comunione al fine di saldare il debito per il tè caldo e i sandwich che facevano seguito all’ultimo “Amen”. Sapete, Billy diceva che Manchester era «una buona città per i vagabondi». Una buona città; o, almeno, una molto migliore di altre. Di tanto in tanto, Billy se ne andava a sud per intere settimane, «per questioni di una certa importanza che è meglio lasciar sottaciute, ora che sono state risolte»; ma ritornava sempre, perché Manchester era la sua città, una città buona. Perché, diceva sempre Billy, a Manchester erano morbidi anche i poliziotti.
E fu così che dalla mia immaginazione, e grazie ai racconti di Billy e alle esplorazioni in sua compagnia, sorse un’altra città, più concreta e vivida di quella che credevo di conoscere: una città oscura. Una città di reietti che riluceva d’una maestosità guasta: un’architettura della sconfitta di gran lunga più monumentale del brulicante triangolo di negozi e uffici accatastati tra le stazioni ferroviarie e inconsapevolmente lambito dalla grandiosità del suo passato. La città oscura di Billy era un’epopea il cui scopo, la cui elaborazione e costruzione, era molto al di sopra delle possibilità – o dei sogni – degli uomini moderni ed era stata edificata da una razza come non se ne sarebbero viste più: colossi di mattoni rossi enormi e anneriti dove generazioni dimenticate e anonime avevano sgobbato una vita intera; stucchevoli e decadenti aristocratici fiorentini che si vantavano di ricchezze dissolte da tempo con austera vanità; vento e fumo che spazzavano pontili eretti con pietre così grosse che avrebbero potuto decorare le tombe dei faraoni egizi; templi deserti consacrati all’assicurazione dei beni e allo scambio, allo stoccaggio delle merci e alla produzione, allo sfruttamento e all’ingordigia; canali sommersi dalle scorie, inceneritori arrugginiti, pulegge saldate dal tempo alle proprie catene; la silente geometria delle arcate ferroviarie, pavimenti che i piedi non avrebbero più calcato; la Ragged School in Sharp Street con il suo cartello rosso e sbiadito; le ciminiere snelle e incredibilmente alte che non avrebbero più vomitato fumo. E tutto ciò era vuoto, sconfitto, fatiscente, superfluo e disprezzato – da tutti eccetto che da Billy, il cui cuore si struggeva per quella bellezza. Billy sapeva che, proprio come lui, la gloria di questa città oscura sarebbe presto morta e sarebbe stata sepolta.

Era inverno, un rigido febbraio, e non vedevo Billy da mesi, quando una sera mi imbattei in lui a Shudehill. Era arruffato, la barba incolta, scalzo sebbene la notte fosse gelida, tremante dalla testa agli alluci mentre si aggrappava a un lampione in una pozza di luce gialla e pianto. Vide che mi avvicinavo e agitò la mano libera in un richiamo disperato.
«Pel di Carota» urlò Billy. «Pel di Carota! Il gioco è finito per Billy! Il mondo è finito! Mi braccano!»
Si bloccò e sibilò, e dalle labbra gli colò della saliva.
«Mi sono addosso!»
Lo portai al Turk’s Head e gli offrii whiskey e birra; i tremori di Billy diminuirono, ma non l’angoscia e il terrore nei suoi occhi. Fissava il fondo del bicchiere, un uomo assediato dai demoni in un mondo che solo lui poteva vedere, e che abitava da solo.
«Ti dirò» disse Billy «non me la faranno fare franca. Non questa volta. Questa volta capitolerò, è la verità. Ricorda le mie parole».
Le lacrime gli inumidirono di nuovo gli occhi, e Billy si asciugò il viso con il foulard di seta scarlatta, il cui orlo sfrangiato d’oro era grigio di sporco. Sembrava distrutto dalla confusione e dalla sofferenza.
«Nessuno può fare niente» sussurrò, come se anche lui che credeva ai fantasmi riuscisse a stento a credere in quello. «Proprio niente».
In quel momento avevo solo una vaga idea di cosa l’alcool potesse fare al cervello, né alcuna concezione del cieco orrore della psicosi. Non sapevo che la mente di Billy era l’equivalente neurologico del fatiscente scenario in cui dimorava. Le strade della sua memoria e le sue allucinate percezioni erano sventrate e decrepite in maniera casuale, bombardate e bruciate, avvolte nell’oscurità, cosparse di macerie e infestate di ratti affamati. Il contenuto della sua scatola cranica era assimilabile alle tessere sparpagliate di un puzzle – imbevute d’alcool, infiammate dalle avversità, funestate dalla malnutrizione e dalla malattia – assemblate e riassemblate con mano malferma sotto forma di immagini fantastiche, distorte, eppure dolorosamente reali. In mezzo ai pezzi di quel puzzle forgiato da delusione, psicosi e da un’immaginazione bacata proiettata all’interno di domini terribili e ignoti, c’erano senza ombra di dubbio grossi scampoli di ricordi reali, eventi accaduti, crimini commessi, atrocità e sofferenze. Ma cosa fosse cosa – quali tasselli fossero reali, quali immaginari e quali una deforme discendenza di realtà e fantasia – nessuno l’avrebbe mai saputo, men che meno Billy stesso. Per lui, tutte queste cose erano tangibili come il tavolo a cui sedeva.
Il gioco era finito, per Billy. Lo braccavano. E avrebbe capitolato.
Nella mia ignoranza, sapevo che Billy era malato – molto malato – e mi offrii di accompagnarlo all’Ospedale Reale per un controllo e un po’ di riposo; lenzuola pulite; una doccia veloce e una rispolverata, tutto qui. Per tutta risposta, Billy balzò in piedi allarmato. Mi fissava come se d’improvviso mi fossi rivelato uno di loro. Dopodiché mi voltò le spalle bruscamente e uscì dalla porta.
Lo raggiunsi all’esterno del locale, ma Billy non ne volle sapere. Se fosse andato all’ospedale avrebbe trovato la morte. Si era sparsa la voce di Billy Micklehurst. Loro gli stavano già addosso. Non appena si fosse disteso su un letto d’ospedale, «quelli l’avrebbero preso, così» – schioccò le dita – e la prossima volta che avessi sentito parlare di Billy le sue ossa avrebbero galleggiato nel Bridgewater. No. Era la sua ultima occasione. Doveva fuggire finché ne avesse avuta la possibilità.
Non sapevo che fare. Per quanto ne sapevo Billy soffriva di questi attacchi in continuazione ed era sempre riuscito a cavarsela, così gli ficcai in tasca una banconota da cinque sterline, cosa di cui Billy parve non accorgersi, poi gli dissi di badare a se stesso.
«Dio ti benedica, Pel di Carota» disse Billy. E con quello sparì nella notte.
Desiderai di avere il fegato per andare con lui. Ma era buio e faceva freddo, ed ero troppo assennato, o spaventato, o entrambe le cose. Oltretutto non ero certo di riuscire a superare la notte, anche se lui ci fosse riuscito. Mi continuai a ripetere che la fenomenale tempra di Billy lo avrebbe preservato per danzare un altro giorno con un sorriso beato stampato sul viso. Ma non fu così.
Tre giorni più tardi, nelle vicinanze del sagrato di Sant’Anna, uno dei compagni di viaggio di Billy, un certo Brady, che riconobbi e che sapeva che ero amico di Billy, mi bloccò lungo il vicolo per King Street.
«Billy è morto» disse Brady. «Pensavo volessi saperlo. Sai, si è impiccato a una croce al Southern Cemetery con quel bizzarro foulard rosso che portava sempre».
Billy Micklehurst – l’uomo indistruttibile – si era suicidato. Mi sembrava impossibile, eppure inevitabile. Era fuggito verso il cimitero con quel tetro proposito in testa? O gli spettri dell’angoscia lo avevano destato dal sonno e lo avevano condotto a morire da solo, in un vortice di solitudine e paura? Qualunque fossero le intenzioni o i fatti, la sua impenetrabile disperazione aveva reso la prospettiva di impiccarsi a una lapide più allettante del panico del sorgere di un nuovo giorno.
Dissi a Brady che mi dispiaceva. Brady annuì, e convenne con me che era un peccato. Ma Brady, che aveva vissuto come Billy, duramente, mi ricordò che queste cose potevano accadere e che, dopotutto, Billy Micklehurst era campato più a lungo di molti altri. Ci separammo sul sagrato, e finì così.
Seppi dalla polizia che era vero. Billy si era impiccato a una croce; non si sospettavano atti di violenza. Nessuno rivendicò il corpo e lo seppellirono in una fossa comune a Longsight, che alla fin fine è una tomba buona come qualsiasi altra. Billy aveva vissuto la propria vita come aveva voluto, e la città – come ogni città – aveva da raccontare storie più oscure della sua. Eppure pensavo a lui ogni volta che passeggiavo in piazza Sant’Anna, o a Shudehill, o passavo da Ancoats sul bus duecentotrentasei. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. Così, una notte della primavera seguente, dopo che ero rimasto fuori fino a tardi a Chorlton, varcai i cancelli del Southern Cemetery per controllare se i fantasmi di Billy fossero ancora in circolazione.
Non ce n’erano, per quanto potevo vedere, sebbene fosse un posto agghiacciante, quello era certo. Pensai a Billy, circondato dagli spettri da cui non riusciva a liberarsi, e sperai in qualche rivelazione o evento soprannaturale simili a quelli in cui non avevo mai creduto. Non accadde niente del genere. Allora lo immaginai. Immaginai l’anima di Billy che sorgeva – indistruttibile – dalla fossa comune a Longsight e che piombava giù dal cielo come un pifferaio magico pezzente per radunare i morti intrappolati sulla Terra; i morti che non avevano mai commesso alcun atto di malvagità. Tutti lo vedevano arrivare e invocavano il suo nome – «Billy!» urlavano «Siamo qui! Siamo qui!» – e Billy rideva e alzava gli occhi al cielo e agitava nel pugno il foulard scarlatto del Leicestershire. E questa volta – ora che anche lui era libero e la sua fuga era terminata – i fantasmi furono in grado di sciogliere i propri vincoli e seguirlo. Girarono intorno alla necropoli una volta, con Billy che rideva in cima alla processione, e infine li condusse nell’infinito e scomparvero.
Non successe nulla – o, a ogni modo, quand’anche fosse accaduto io non ero lì per vederlo – ma mi rallegrò pensare che fosse tutto vero; e mi rallegra tuttora. E ancora oggi, quando sono triste – quando il gioco è finito, le voci si sono sparse e mi sono addosso – allora penso a Billy Micklehurst e alla sua ultima fuga, e Billy mi aiuta a liberarmi dal tormento.

 

 

“La fuga di Billy Micklehurst” di Timothy Willocks è tratto dalla raccolta di racconti Mucho Mojo Club in uscita il 7 dicembre 2016 per Casa Sirio Editore, in collaborazione con la Libreria Mucho Mojo (Firenze).

Timothy Willocks (1957) è uno scrittore e psichiatra britannico, e ha lavorato per alcuni anni alla riabilitazione dei tossicodipendenti. Il suo romanzo Bad City Blues è stato adattato per il grande schermo nel 1999 con un film interpretato da Dennis Hopper. Willocks ha anche scritto il film-documentario di Steven Spielberg, The Unfinished Journey, e il film Lo straniero che venne dal mare del 1997 (basato sul racconto del 1903 di Joseph Conrad Amy Foster).
Uno dei suoi romanzi più recenti, Religion (Cairo Editore), è ambientato nel 1565, durante l’Assedio di Malta ed è l’inizio di una trilogia che ha come protagonista Mattias Tannhauser. Nel 2013 è uscito il secondo romanzo della trilogia: I dodici bambini di Parigi (Multiplayer edizioni).

Mucho Mojo Club: Prendi gli scrittori più cattivi del panorama internazionale. Falli affacciare sull’orlo dell’abisso. Uniscili sotto la bandiera del Mojo di Joe Lansdale. Poi leggili, non ne potrai più fare a meno. Sono ladri, detective e assassini. Sono prostitute e homeless. Sono il lato oscuro delle storie. Si muovono nel buio, ti tolgono il fiato e troppo spesso non te lo restituiscono. Sono tra noi. E sono pronti a colpire.

 

Ceneri dell’incompiuto

Prendi un motorino e un’urna funeraria contenente le ceneri di un padre; prendi un panno da avvolgerle attorno per attutire i colpi quando l’urna sarà nel bauletto dello scooter; monta in sella e fai finta di uscire dalla città, cercandone il confine. Prendi le ceneri di tuo padre e spargile su un pezzo di terreno incolto, un pratone quadrato, un lotto edificabile tutto delimitato da lamiere di cantieri; da palazzi in costruzione. Ecco le immagini che abbagliano la mente quando si comincia la lettura di Prima di perderti di Tommaso Giagni (Einaudi, 2016); ecco i pezzi che l’autore dispone fin da subito sulla scacchiera, quasi a voler segnare uno spazio scenico entro il quale i due protagonisti, un padre suicida e un figlio trentenne, si affronteranno in un immaginario duello.

Sì, perché la storia è quella di una resa dei conti fra due uomini, due scrittori molto diversi fra loro: Giuseppe – il padre – ha trascorso la vita lavorando su commissione e provando a portare avanti quello che sarebbe dovuto essere il suo grande romanzo, ma che rimarrà incompiuto; Fausto – il figlio – da enfant prodige che decide di non iscriversi all’università per dedicarsi alla scrittura, infila un successo editoriale dietro l’altro, con tre libri che rappresentano in qualche modo «lo stesso e l’opposto» lavoro del padre.

È un rapporto irrisolto, in cui tutto – dall’astio all’affetto, dal rancore alla commiserazione – ha un peso profondo e misurabile solo dai due personaggi. Un rapporto come stringhe di scarpe inestricabili, duro e intimo, in cui farsi male o decidere di recidere tutto è un lampo. Fausto «si era sempre appellato alla convinzione che ci sarebbe stata un’amnistia, fra loro: un perdono reciproco e un accettarsi, magari in un futuro remoto, in settimane di malattia e accudimento. Non è andata così». Il suicidio di Giuseppe scardina tutto, annienta qualsiasi opportunità di un confronto, sentenzia che non ci sarà mai più la possibilità del chiarimento. Sembra davvero troppo tardi, ma c’è il fantasma del padre, e con lui un inatteso appuntamento.

La prima volta che ho sentito parlare di Prima di perderti è stata alla Libreria Einaudi di Roma, dietro Santa Maria Maggiore; lo presentava Elena Stancanelli. Di Giagni ricordavo L’estraneo (l’altro suo romanzo nella Stile libero Big) e soprattutto un capitolo apparso in una raccolta di storie di calcio (Ogni maledetta domenica, minimum fax 2010) dove in poche pagine riusciva a spiegare profondamente la lazialità. Ci accordiamo per l’intervista, e gli chiedo se posso togliermi subito un sassolino: «Ma certo», risponde.

 

Scrivere un libro sul rapporto padre figlio significa necessariamente tener conto di una letteratura sterminata, si possono scomodare I fratelli Karamazov, si può citare il Bandini di John Fante, o per gli italiani, Il male oscuro di Giuseppe Berto (appena ristampato da Neri Pozza). Allora mi viene da chiederti quale atteggiamento hai assunto al cospetto di questa letteratura nel momento in cui ti accingevi a scrivere.

Se ti confronti con un tema del genere per forza di cose devi conoscere quello che è stato scritto prima, devi soppesarlo e trovare una tua via, una sintesi. E cercare di non farti troppo schiacciare da quei riferimenti, che sono là sopra. In parte mi era già capitato con L’estraneo, perché affrontando l’argomento delle periferie e delle borgate ho dovuto tenere conto di molti autori, come Pasolini e Walter Siti, per citarne solo un paio. Per Prima di perderti avevo un tema gigantesco, e ciò per certi versi mi aiutava perché è un argomento che si ritrova in talmente tanti libri, anche solo incidentalmente, che avevo la possibilità di intercettare i miei riferimenti e poi gestirmela come volevo. Il punto è che bisogna vedere quanto si vuole andare indietro, perché puoi fermarti al Novecento, ma puoi arrivare a Shakespeare, o spingerti sino all’Eneide. Nel momento in cui decidi di confrontarti con un tema del genere, devi mettere in conto che esistono tutte queste cose. E cerchi di non farti schiacciare, altrimenti non lo fai: un po’ ti butti.

 

Se il nocciolo di Prima di perderti è l’inconciliato rapporto tra Fausto e Giuseppe, non manchi di affiancare loro due figure femminili: Benedetta e Catia, quest’ultima è l’ex ragazza di Fausto, ma lui «non riesce ancora a vedere il mondo senza la voce di Catia a guidarlo». Chi è questa ragazza?

Tutto il piano emotivo e sentimentale che Fausto non riesce a tirare fuori è rappresentato da Catia. Il suo non aver saputo dare spazio ai propri sentimenti è il motivo per cui loro due si sono lasciati. Anche nei confronti del padre, Fausto non ha espresso sentimenti, e il duello è l’occasione per farli emergere. Catia sarebbe la ragazza più giusta per lui, la sua opportunità per migliorare certi piani, certi aspetti, che sono evidentemente involuti. Lui non ci riesce, rifiuta il rapporto e rifiuta la fatica che comporta essere in una relazione. La fatica e le gioie. Fausto è un arido e, nonostante Catia avesse fatto di tutto per far sopravvivere la loro storia, alla fine è scappato. Cosa che mi sembra comune nella generazione dei trentenni. Insomma, Catia incarna uno dei fallimenti di Fausto, che invece è rappresentato e si autorappresenta come un vincente. Prima di perderti è anche un libro su quanto sia difficile tracciare un confine tra fallimento e successo.

 

Un duello fra padre e figlio, che ha i contorni di un reciproco atto di accusa, personale e generazionale. Personale, perché Fausto accusa il padre di inettitudine, di debolezza in vita, ma viene tacciato di essere individualista; generazionale perché le responsabilità che i due si attribuiscono non riguardano solo gli aspetti più intimi e familiari delle loro vicende.

I piani sono diversi, da una parte questo duello-processo mette sul fuoco la questione più semplice e più elementare dell’emotività, della capacità di avere rapporti e della loro qualità. Loro sono persone che hanno la capacità – nel caso di Giuseppe – di spendersi verso gli altri, o – nel caso di Fausto – non ce l’hanno perché stretti nell’individualismo. Sul piano più generazionale, da una parte esiste una dimensione assolutamente collettiva, che è quella di Giuseppe, il quale sente molto una identità comunitaria, quasi clanica, che però significa anche stare chiusi dentro un recinto e aprirsi molto meno di quanto si possa proclamare; dall’altra parte c’è la dimensione iperindividualizzata di Fausto, che con la propria generazione sente di non avere niente da spartire e che si distanzia, si distingue rispetto ai coetanei.

 

Tra le imputazioni che Giuseppe muove a Fausto, una è molto rilevante: nei suoi libri parla sì dei margini della società, ma lo fa avendo con essi un rapporto solo utilitaristico, ossia li tocca per raccogliere informazioni o esperienze utili ai libri però non ci si immerge mai veramente. Una volta che viene soddisfatto il suo sguardo quasi entomologico, Fausto dai margini – dalle periferie – esce fuori.

È il piano più politico di Prima di perderti, che riguarda il rapporto tra centro e periferia; la condizione di privilegiati che coinvolge i due personaggi e il loro sguardo su quello che è fuori, cioè appunto sui margini. È uno degli argomenti più importanti del contendere, e le loro posizioni si scoprono essere molto meno lontane di quanto inizialmente possa sembrare. La questione è: basta frequentare un mondo che non è il proprio, una situazione socioculturale che non è quella di appartenenza, per sviluppare un rapporto che possa diventare un ponte fra due mondi, come Fausto è convinto di fare? La stessa domanda la può rivolgere Fausto a suo padre: bastava frequentare le periferie di Roma negli anni Settanta per poter dire di avere con loro un rapporto e di “servire il popolo”?

 

Quando Fausto sparge le ceneri del padre, questi riappare come un fantasma, e tutto comincia. Parte da lì un racconto che ha dell’onirico. Sembra di essere in Alice nel paese delle meraviglie o talvolta di fronte a degli spettacoli di magia di Voland, ma declinati in maniera meno macabra. Insomma, da quel momento la tua scrittura chiede che il lettore si fidi di te e si affidi alla narrazione, abbandonandosi un po’ al fatto che non tutto quello che accade debba rispondere necessariamente alla logica più rigorosa. È un rapporto molto intenso che vuoi instaurare con chi legge. E allora ti chiedo come l’hai gestita, questa materia.

La storia è questa: io dopo L’estraneo ho iniziato un romanzo che rimaneva in quello stesso perimetro, cioè Roma, le periferie. Il protagonista era un personaggio che già compariva in quel libro. Ho scritto una prima stesura, ma poi ho deciso di lasciar perdere: mi sembrava che questo recinto, che ben conoscevo, se da un lato mi poteva evitare un sacco di guai, dall’altro mi avrebbe però limitato molto. Mi stavo chiudendo dentro ciò che già sapevo fare. Quindi ho mollato quel romanzo e ho ricominciato facendo una scelta drastica, cioè di uscire dal – fra molte virgolette – realismo e andare in una ambientazione, in un testo, in un genere che è più assimilabile al fantastico, al visionario, all’irrazionale. Tutte qualifiche che possono sussistere a patto che si mantenga una verosimiglianza narrativa, e questo è stato lo sforzo maggiore. È vero che chi legge si deve affidare, gli si chiede una sospensione di incredulità. La mia speranza è di mettere il lettore inizialmente a disagio, in uno stato di esitazione di fronte a fenomeni apparentemente sovrannaturali, e poi indurlo a lasciarsi andare e non porsi più il problema di capire se quello che sta succedendo sia vero o falso. Che è un po’ quello che devono fare i romanzi del genere.

 

Fausto è dunque un personaggio autoriferito: non ha amici, ha rovinato un bel rapporto con Catia, tutto Prima di perderti è un duello col padre. Ma c’è un gesto che evidenzia la tensione emotiva, e forse la sofferenza, sottesa a questo comportamento. Un gesto di affetto minuto che Giuseppe rivolge a Vittorio, amico dell’adolescenza di Fausto. Sarebbe una cosa innocua e persino dolce, ma Fausto lì vede che esistono momenti in cui al centro delle loro preoccupazioni non c’è lui e la sua aridità, e paventa che i suoi affetti possano andare avanti benissimo anche senza di lui. E allora esplode.

Sì, Fausto si ingelosisce, e nel piano più profondo teme di non essere fondamentale. C’è tutto quello che ti puoi aspettare da un figlio che si è sempre considerato, ed è stato anche cresciuto, come un bambino prodigio; che ha sempre avuto successi nella vita, professionale, ma anche famigliare. Si è sempre sentito molto amato e molto considerato e quel gesto gli fa sembrare che il castello possa crollare.

 

Ci salutiamo. Nelle chiacchiere finali capisco perché non siamo riusciti a incontrarci dal vivo nonostante fossimo entrambi a Roma: a differenza di quello di Fausto, il motorino di Giagni è definitivamente fuori uso. E mentre concludo di trascrivere le domande, torno a chiedermi se mi sfugga qualcosa, di tutta questa vicenda. Ma mi consolo pensando che, in una famiglia dove un Giuseppe e una donna di nome Benedetta generano un Fausto, la risposta possa essere nei nomi.

 

(Tommaso Giagni, Prima di perderti, Einaudi Stile Libero, 2016, pp. 152, euro 16,50)

Brandelli di America

È più o meno la fine di febbraio quando con l’editore di Playground, Andrea Bergamini, parliamo di un libro, a suo dire, straordinario che di lì a poco uscirà in libreria. Il libro in questione è Diario di lavorazione di Sam Shepard (Playground, 2016), pubblicato negli Stati Uniti nel 2010. Dopo qualche giorno ho il libro fra le mani, lo strillo in copertina tratto da The New York Times parla chiaro: «Shepard scava negli strati della nostra storia per giungere alle radici del mito americano… Le parole di Shepard hanno un’integrità granitica, rocciosa».
Bergamini mi propone di intervistare Sara Antonelli, la traduttrice. L’idea mi piace – ho già intravisto Sara a fianco di Jhumpa Lahiri, qualche anno prima – e accetto. Leggo Diario di lavorazione, lo trovo straordinario per originalità e atmosfere, per l’assenza totale di mitizzazioni patriottiche e per lo scavo profonda che Shepard conduce nella quotidianità, in viaggio per gli Stati Uniti.
Purtroppo però, come accade spesso, il tempo scivola via. E ogni volta che mi trovo davanti il libro di Shepard, penso di avere perso l’attimo. Fino allo scorso ottobre, quando per vari motivi, due su tutti la lettura di Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e la rilettura di Spazi Uniti d’America di Matteo Meschiari, entrambi pubblicati da Quodlibet, mi decido a contattare Sara Antonelli per proporle l’intervista.
Sara mi risponde entusiasta, ci incontriamo qualche giorno dopo all’Università di Roma Tre, dove insegna Lingue e letterature angloamericane. Mi racconta di Bob Dylan, della giornata di interventi che sta organizzando [che si è poi svolta lo scorso 30 novembre, ndr] per discutere dell’assegnazione del premio Nobel, a cui lui ha risposto in modo distaccato. Decido di far partire l’intervista proprio da Dylan.

 

Raccontaci del rapporto tra Shepard e Dylan. Come nasce e come si evolve?

Shepard e Dylan si incontrano nel 1976 in occasione di una tournée di Dylan in New England, il cosiddetto Rolling Thunder Tour. La scusa è il desiderio di Dylan di fare un film sul tour, una sorta di diario di viaggio e, siccome lui è Dylan, fa chiamare Shepard e gli assegna il lavoro senza mai averci parlato. Non sceglie certo a caso, perché Shepard all’epoca è il drammaturgo e sceneggiatore più cool del momento – aveva già lavorato con Antonioni ed era un nome noto e apprezzato nel teatro sperimentale, portando sul palcoscenico il personaggio del musicista e della rockstar. Shepard viene nominato sceneggiatore di Dylan, insomma, e ovviamente accetta perché come fai a dire no a Dylan? Da questo incontro tra sceneggiatore e musicista-regista-primo attore non originerà, tuttavia, alcuna sceneggiatura, bensì un diario, il diario di viaggio di Shepard, il diario della sua frustrazione, del suo fallimento: The Rolling Thunder Logbook. Il libro è composto di vignette, di versi liberi, di brani dialogati destinati a offrirci l’effetto di Dylan, e poi di brani introspettivi in cui l’autore, Shepard, ragiona sul ruolo sciamanico della rockstar e soprattutto su quanto sia impossibile scrivere su un artista maestoso e sfuggente come Dylan. O almeno impossibile per lui, Shepard, il quale fin dall’inizio si sente inadatto al ruolo di agiografo tanto quanto alla vita di gruppo “on the road”, che gli appare falsa – i musicisti gli appaiono bambini viziati – ridicolmente ritualistica e ripetitiva tanto quanto quella delle persone che vanno ogni giorno in fabbrica. Di rilevante c’è che nonostante ciò, nonostante Shepard abbandoni il tour a metà perché seccato e annoiato da tutto, perché gli manca la famiglia e la possibilità di andare a prendere un caffè da solo senza avere sempre tra i piedi musicisti vestiti da matti, il rispetto e l’affetto per Dylan restano intatti. In un certo senso Shepard è come atterrito da Dylan. Lo osserva toccare alcuni luoghi significativi della cultura statunitense – Plymouth Rock e Lowell, per esempio – oppure la ricostruzione di un villaggio dei pellegrini, un’attrazione per turisti, e gli pare che Dylan percorra quei luoghi perché desidera colonizzare tutto, che si impossessi di tutto il territorio, di tutto l’immaginario statunitense. Da una parte Dylan gli appare autoritario e arrogante, dall’altra – ed è questa la cosa che a me colpisce sempre di Dylan – il suo autoritarismo si trasforma sempre in autorevolezza. In seguito a questa tournée i due diventeranno grandi amici e, per esempio, scriveranno insieme una bella canzone, “Brownsville Girl”, che Dylan ha incluso in Knocked Out Loaded.

 

Venendo invece a Diario di lavorazione, cosa puoi dirci del titolo?

Diario di lavorazione è la traduzione letterale della locuzione Day out of Days, un documento in cui vengono annotati gli attori, il cast di un film, e i giorni in cui ciascun attore sarà impegnato con le riprese di un film, i giorni di riposo, quelli in cui deve arrivare sul set, quelli in cui potrà lasciare il set. Nel diario di lavorazione, puoi notare come un attore presente tutti i giorni di una settimana, a un certo punto scompaia per poi apparire dieci giorni dopo, magari per un giorno solo. È un documento idiosincratico, capriccioso, ma è anche il documento dal quale puoi fare un preventivo delle spese, dei cachet. Puoi anche capire chi è il protagonista e chi no. Mi pare una locuzione perfetta per illustrare un libro fatto di personaggi diversi che a volte tornano e a volte scompaiono dopo soltanto una breve apparizione. Ma la metafora dell’attore funziona anche perché leggendo l’io è talmente prepotente da suggerire che al centro di ogni racconto, di ogni interpretazione dell’io, ci sia sempre Shepard.

 

Che immagine di Shepard viene fuori da questo libro?

La devi ricostruire da te, dai frammenti, dai vari “attori” e “personaggi” che incontri leggendo. La mia immagine, per esempio, è quella di un settantenne che ha così tanti tratti in comune con l’autore, Sam Shepard, da essere sospetta. In queste pagine ritrovo lo Shepard scontroso, solitario e introvabile, che prende la macchina e gira gli Stati Uniti senza una direzione precisa, ma senza compiacimento, senza illudersi di viaggiare in uno spazio mitico, il mito Shepard lo odia; nella mia immagine rivedo lo Shepard che per tanti anni ha vissuto a Charlottesville, in Virginia, allevando cavalli; quello che ha sempre evitato qualunque esposizione e che, nonostante ciò, è una di quelle facce che ti raccontano meglio di certi anni degli Stati Uniti. Trovo che Shepard sia un uomo rappresentativo degli Stati Uniti, anche per un’asprezza che non ha niente di costruito. Esiste un documentario uscito qualche anno fa, un buon documentario HBO, che si intitola Shepard and Dark e che parte dall’idea di Shepard di raccogliere in un libro la lunga corrispondenza fra lui e Johnny Dark, il suo migliore amico, nonché il compagno della madre di O-Lan Jones, la sua prima moglie, la donna che lasciò per Jessica Lange. Con Johnny Dark, a metà degli Settanta, Shepard ha comprato un ranch in California per poter allevare cavalli e vivere insieme, con le rispettive compagne. Shepard and Dark racconta un’autentica amicizia maschile; non ha nulla di obbligato, nulla di interessante in sé, se non il fatto di essere un’amicizia profonda che ha resistito ai traumi, alle separazioni, alle distanze geografiche. È un’amicizia che si è snocciolata per lettera, tra un allevatore-scrittore e un camionista. Con Dark, Shepard si confronta su tutto, prova i dialoghi delle sue commedie, parla di filosofia e di amore, di figli, di cavalli. C’è un maschile vulnerabile in Shepard and Dark, che viene fuori anche in Diario di Lavorazione. Un maschile che è evidente, per esempio, nel racconto “Indianapolis (Highway 74)” che inizia, tra l’altro, con: «Ho ripreso a vagare per il paese, senza un vero motivo», uno dei fili conduttori del libro.

 

E gli Stati Uniti che racconta?

La cosa interessante di Diario di lavorazione è che Shepard racconta sempre la realtà del territorio così com’è, nella sua quotidianità, evitando una deriva di superficialità e di oleografismo. E ovviamente, se lo leggiamo davvero, se lo leggiamo, cioè resistendo alla tentazione di imporre alle sue parole le nostre immagini e aspettative televisive, scopriamo anche noi che non c’è niente di fintamente straordinario nei territori americani che attraversa. In questi luoghi la gente è morta, si è scuoiata, si è presa a cannonate, ma è anche vissuta tranquillamente, un posto bello e pacioso, se hai una veranda sulla quale sederti la sera a osservarlo. Gli Usa, insomma, emergono come un posto come tutti gli altri. Un posto anche violento, ma non al modo mitizzato dei cowboy e degli indiani. Un posto in cui la gente è stata costretta a fuggire, che è stata perseguitata, è stata cancellata, ma dove la gente si innamora, si rallegra perché ha comprato un bel cavallo, litiga con la moglie ecc. Noi, in Europa, siamo forse diversi? Shepard è davvero un buon antidoto ai facili miti di massa che coltiviamo qui in Italia. Sembra dirci, a noi europei, voi non sapete niente di cosa sia veramente questo territorio e io stesso ho appena iniziato a scoprirlo. Uno dei miei passi preferiti, nel precedente Motel Chronicles, è un ricordo infantile di Shepard, di quando, in macchina con i genitori attraversa il deserto passando sotto le gambe di un dinosauro di plastica, una specie di attrazione turistica, plastica pura. Ovviamente lo Shepard bambino si stupisce come dinanzi a una favola. Ma è un bambino. L’adulto non ci crede. Non può crederci. Gli Stati Uniti, insomma, sono un territorio che porta i segni della storia e anche della plastificazione della storia. Sono un territorio antico tanto quanto quello europeo e la sua antichità è nascosta, come da noi. In superficie ci sono le lucette, una specie di albero di natale sempre acceso, per bambini di tutte le età. È un bel bagno di realtà rispetto ai miti occidentali.

 

«Il comportamento dei bianchi mi strazia il cuore» dice Kit Carson nella citazione che Shepard fa in chiusura del racconto “Fort Robinson, Nebraska (Highway 20)”, dedicato al luogo dell’uccisione di Cavallo Pazzo. Proprio in quel racconto Shepard dice, in riferimento a un sasso raccolto sul posto: «I cattolici lo definirebbero una “reliquia di seconda classe” perché non ci sono prove della sua origine, ma solo un legame con il luogo». Che appare emblematico rispetto al tuo discorso.

Infatti, non c’è niente di eccezionale. Shepard resiste ai facili miti di massa e fa di tutto per scarnificare l’orizzonte e arrivare quanto più vicino possibile a qualcosa di vero, che sia vero per lui. Il vero, per lui, è sempre incastonato nella natura, in quelle chiazze di natura, di “outdoor” ancora disponibili in cui, però, attenzione egli non si immerge da conquistatore hemingwayano. Lo spazio americano, infatti, quando ti ci immergi, ti mangia. Almeno in Shepard. Nei suoi paesaggi non c’è esaltazione, né senso di possesso, ma pioggia, neve, grandine, un caldo tremendo, strade dove non trovi il benzinaio. E non c’è niente di avventuroso, alla “on the road”, per intenderci, in tutto questo. Come in qualunque altro posto del mondo, se hai una buona macchina, se non sei inseguito dai cani dell’inferno, se hai una compagna e dei figli che ti aspettano a casa, il viaggio è una bellezza. Se viaggi perché hai mandato all’aria tutto, perché non sai più dove sta casa tua, viaggiare è davvero brutto.
In Europa e ancor di più in Italia abbiamo adeguato la nostra immaginazione all’idea più banale di Stati Uniti. In Diario di lavorazione, per esempio, a Shepard capita di inquadrare le riserve indiane in cui i nativi si fanno di metanfetamina, e quel che vede non è per nulla avvincente. Non sono avvincenti neppure le case trasformate in laboratori dove fabbricare le anfetamine, case che da un momento all’altro possono esplodere ammazzando gli occupanti e i loro ignari vicini. I villaggi sperduti nelle montagne o nel deserto dove si fanno le metanfetamine sono luoghi popolati di zombi. Insomma, non è Breaking Bad. Intendiamoci, io penso che quella serie sia fantastica e geniale, la insegno, e i miei studenti ci scrivono le tesi. Ma se pensassimo che Breaking Bad rappresenti la realtà o che House of Cards possa farci capire chi siano i Clinton siamo fuori strada. Per tornare alla tua domanda: la frase di Carson è lampante.
Fammi aggiungere un’ultima cosa sul paesaggio naturale americano. A molti statunitensi piace immergersi di tanto in tanto nella natura meravigliosa del loro paese. Raggiungono i parchi in macchina con i figli, dormono in tenda o nei bungalow, avvistano gli alci e gli orsi, ammirano il Gran Canyon ecc. Se da un lato si tratta di un viaggio di conoscenza, di una riappropriazione del territorio, dall’altro questi bagni di natura, almeno a livello simbolico, sono anche un rito di passaggio che ha avuto e in alcuni ha ancora una funzione rigenerante. Esco dalla civiltà e ritorno “vero”. Pensa a De Niro in Taxi Driver. Prima di perdere la testa si rasa i capelli lasciandosi la cresta. Insomma, quando uno fa il giustiziere o impazzisce, cosa diventa? Indiano. La storia, la letteratura e il cinema americani pullulano di storie simili. Pensa a un film come Il patriota. O ai ribelli del Boston Tea Party. Erano patrioti che prima di agire si travestono da cosa? Da indiani. La violenza – insomma – è americana, nel senso che è nativa e selvaggia, è mia ma anche “altra”, perché appartiene all’indiano, a quel tratto selvatico i cui connotati sono quelli degli indiani.

 

Come dicevamo prima, uno dei due fili conduttori di Diario di lavorazione è questa necessità del protagonista di prendere la macchina, a un certo punto, e mettersi in viaggio senza una meta.

Attenzione, anche qui non si tratta del solito mito della Route 66 o dell’On the road di Kerouac. Shepard non lo fa perché è eccitante, ma perché non riesce a stare fermo. Ogni volta che si mette in viaggio lo fa per esorcizzare la maledizione del padre: uno scocciato reduce di guerra infettato dalla febbre del viaggio. Non stava mai a casa, tradiva la moglie, era violento con il figlio: ha distrutto la famiglia, ha distrutto tutto. Suo padre, evidentemente, è stato vittima di uno stress post-traumatico. Ma Shepard? Lui no, ma teme che il virus paterno sia entrato anche nel suo corpo. Quando ci racconta i suoi viaggi insulsi e senza meta è continuamente accompagnato dall’idea di fare qualcosa di male, perché non si devono abbandonare le persone care, come ha fatto suo padre. Perché poi si finisce per andare in pezzi. Dimenticavo di dire una cosa importante: Sam Shepard e suo padre hanno lo stesso nome. Sam Shepard teme di essere un doppio del padre. Da questo punto di vista Diario di lavorazione mi appare come un libro che racconta la ricerca di punti fermi: mentre traducevo, avevo la sensazione che quest’uomo alla deriva, che teme di essere una copia del padre, avesse bisogno di certezze per non andare in pezzi. Un po’ come accade anche nel suo teatro: i personaggi di Shepard hanno sempre paura che gli crolli il mondo addosso, di andare fuori di testa.

 

Ed è così che incontriamo l’altro elemento ricorrente del libro: il distaccamento della testa.

A me l’immagine della testa piace tanto, un po’ perché mi ricorda i classici della letteratura americana e in particolare The Legend of Sleepy Hollow e Rip Van Winkle, due racconti di Washington Irving sul contrasto tra Europa e America e sulla rivoluzione americana. Alessandro Portelli esamina la metafora al centro di questi due racconti – delle teste mozzate – in Il re nascosto oppure in Il testo e la voce. La esamina e la segue fino ad arrivare ad Amatissima di Toni Morrison. Staccare la testa – ragiona Portelli — significa togliere autorità ma anche togliere la voce. Nei suoi libri nota che nella letteratura americana di teste mozze ce ne sono molte, soprattutto nell’immaginario settecentesco, il secolo di una rivoluzione, quella americana, senza decapitazione. In queste teste mozze c’è, di nuovo, il fantasma dell’Europa. È un fantasma politico e culturale, che gli scrittori si portano con sé e da cui si devono separare. Credo che anche Shepard rientri in questa tradizione individuata da Portelli. Aggiungo, però, che in Shepard la testa mozza che va per conto suo è anche il segno della frantumazione dell’io. In Diario di lavorazione l’io narrante, che il più delle volte appare come un unico io, teme sempre di andare a pezzi. C’è un racconto in cui questo mi appare particolarmente evidente: quello in cui un vecchio si osserva minuziosamente allo specchio e non si riconosce più. Da questo punto di vista il distacco della testa è quasi un esorcismo: mi appare il segno della paura di non sapere più chi si è, vuoi per la vecchiaia, vuoi per la malattia, vuoi perché adesso non hai più accanto la stessa donna con cui hai passato tanti anni… I racconti della testa mozza, che dal punto di vista narrativo sono anche i più succosi, sono insomma quelli che permettono a Shepard di esorcizzare la paura di perdere il cervello, di diventare lento, vecchio, incosciente. Il tema della testa mozza lo leggerei, insomma, in modo duplice: da una parte la tradizione della letteratura americana a cui fa riferimento Portelli, che ogni scrittore rielabora poi a modo suo; dall’altra l’elemento della vecchia e della paura di non riconoscersi più, dell’andare in pezzi.

 

Come nasce Diario di lavorazione? Raccolta di pezzi sparsi o progetto unitario?

Fatta eccezione per uno o due racconti, per esempio quello sulla vacanza in Messico, che è uscito su The New Yorker, gli altri testi sono stati scritti per fare parte di un libro unico. Quindi possiamo parlare assolutamente di progetto unitario. Shepard è noto soprattutto come commediografo, ma la prosa fa da sempre parte della sua vita. Fino a ora ha scritto solo racconti, ma la casa editrice Knopf ha annunciato l’uscita, nel febbraio del 2017, del suo primo romanzo.

 

Da traduttrice, che cosa puoi dirci della lingua e dello stile di Shepard?

Che sono sempre stata consapevole di avere davanti un autore che scrive per il teatro. Ha un ritmo pazzesco. Con Bergamini abbiamo fatto di tutto per mantenere la punteggiatura, così come le frasi brevi dell’originale, che però non sono le tipiche frasi brevi, a tensione epigrammatica, quelle che sembrano prometterti chissà quale rivelazione folgorante sul senso della vita, quelle che si rifanno goffamente a Hemingway e a Carver, di certa letteratura americana, bensì di periodi semplicemente più vicini al parlato. Per esempio la primissima storia, “La cucina”, dal punto di vista di chi traduce è piena di trabocchetti linguistico-sintattici: perché tutto è calibrato rispetto a dove il lettore pone l’accento leggendo ad alta voce. È un racconto molto conciso e sofisticato. Dare il senso a quel poco che l’autore dice e renderlo in italiano ha richiesto un certo impegno, come sempre quando si traduce. In Diario di lavorazione Shepard non utilizza uno slang, la sua è una lingua pulita; c’erano solo, ogni tanto, delle forme un po’ desuete del parlato quotidiano degli anni Cinquanta. Per dire, a volte sembra che Shepard parli come uno zio degli anni Cinquanta: nessuno userebbe più quelle espressioni ma ne intendiamo benissimo il significato. Ecco, quella di Shepard la definirei una lingua fonica e visiva: le cose che ti racconta puoi riuscire a sentirle e a vederle.

 

Come viene percepito Shepard negli Stati Uniti?

Il lettore statunitense percepisce Shepard come un drammaturgo imprescindibile e come una celebrità, in particolare dopo il 2010, l’anno della sua rinascita, secondo The New York Times. La celebrità come attore hollywoodiano in parte lo ha danneggiato, lo fa apparire “leggero”. Forse è anche per questo che non ama i riflettori né dare interviste; e che la sua carriera di narratore è meno nota. Certo, attore, drammaturgo, regista e narratore: Shepard ha così tante facce che non stupisce che abbia paura che la testa gli salti in aria una volta o l’altra.

 

Credo sia giusto concludere lintervista con una domanda sulla vittoria di Trump alle recenti elezioni americane che è stata una sorpresa per molti. Tu che opinione ti sei fatta?

Difficile sintetizzare. Ma la cosa che mi ha stupito, il giorno stesso delle elezioni, è aver letto su The New York Times una serie di interviste ad alcuni studenti afroamericani, i quali dicevano di non vedere in maniera così drammatica l’eventuale vittoria di Trump, perché per loro rappresentava uno dei tanti politicanti razzisti di sempre, forse nemmeno il peggiore. A distanza di giorni quel che appare sempre più chiaro è che questi stessi ragazzi non hanno votato per Clinton, che alla candidata democratica siano mancati i voti degli elettori di età compresa tra i 18 e i 29 anni, sia neri sia bianchi. E che il numero dei votanti democratici è diminuito. È una sconfitta di tutto il Partito Democratico, è evidente. Detto questo, la vittoria di Trump testimonia l’ottimo lavoro sul territorio dei repubblicani. Si sono impegnati a vincere dal giorno dopo in cui Obama è diventato presidente. Hanno approfittato di tutto, delle organizzazioni locali, delle chiese, delle leggi statali, delle sentenze della Corte suprema, sono stati determinati e, costanti, soprattutto nelle zone della cosiddetta Rust belt, zone che i democratici hanno invece abbandonato, dandole per scontate. Mentre Obama partecipava alla compagna di Clinton andando a parlare all’università del Michigan, Trump faceva campagna elettorale nelle fabbriche del Michigan. Durante l’ultima settimana di campagna è stato lì di continuo, in Michigan, in Winsconsin, in Pennsylvania, stati operai con una base democratica. Mentre i democratici chiudevano la campagna elettorale a Philadelphia insieme a Bruce Springsteen, il cantante che celebra la classe operaia statunitense, la classe operaia, quella vera, si apprestava a votare repubblicano.
Di questa elezione mi spaventano diverse cose. La prima è la cacciata dei clandestini e ancor più dei loro figli, ovvero: ragazzi e ragazze americani che non hanno alcun legame con il Messico o con il Senegal; ragazzi e ragazze che quei paesi forse non li hanno neppure mai visti perché sono sempre stati negli Usa, perché sono andati a scuola negli Usa. Che gli accadrà? La seconda cosa che mi spaventa è il monocolore. Il presidente, il congresso e tra poco la Corte suprema saranno tutti repubblicani. Persino i governatori sono in larga parte repubblicani. Che garanzie democratiche può offrire e tutto questo il sistema di checks and balances su cui si fonda la democrazia americana? Credo che quando Trump afferma di aver vinto anche il voto popolare – e ovviamente questa sua affermazione non è sostenuta da alcun dato numerico – stia dicendo «faremo di tutto e tutto quello vogliamo, e lo faremo con sicurezza sia perché abbiamo i numeri sia perché la maggioranza dell’America è con me». Certo, visto il personaggio, e se dobbiamo credere a quel che abbiamo visto, Trump potrebbe rivelarsi una mina vagante per gli stessi repubblicani: non dimentichiamoci che si tratta di un newyorchese, vissuto nel mondo dello spettacolo, distante dai valori dei repubblicani. Secondo me gli americani rimpiangeranno a lungo Obama, anche se ancora non lo sanno.

 

(Sam Shepard, Diario di lavorazione, trad. di Sara Antonelli, Playground, 2016, pp. 304, euro 18)
È solo la fine del mondo poster italiano su Flanerí

“È solo la fine del mondo”
di Xavier Dolan

Si può diventare un regista di culto a soli 27 anni? Xavier Dolan è uno degli autori più giovani su cui si sia soffermata l’attenzione della critica internazionale nella storia del cinema. Dall’esordio nel 2009 a oggi, film dopo film – sono sei in tutto – ha continuato a far parlare di sé, a portare i suoi film nei festival, a vincere premi. Lo scorso maggio era attesissimo a Cannes con È solo la fine del mondo, il primo in età adulta, come lo ha definito lui stesso. E ha vinto il Grand Prix della giuria.

Dopo la definitiva consacrazione con Mommy (gran premio della giuria a Cannes nel 2014) e la consacrazione a icona pop con la regia del videoclip “Hello” di Adele, con quasi due miliardi di visualizzazioni su Youtube, i distributori italiani sono corsi ai ripari recuperando nell’arco della passata estate tutti i titoli della filmografia di Dolan. Ci sono state retrospettive nei festival estivi, uscite in dvd, tutto per preparare il pubblico all’arrivo in sala di È solo la fine del mondo.

Louis è uno scrittore di trentaquattro anni che manca da casa da dodici, dopo essere andato via senza spiegare nulla a nessuno. Un giorno decide di tornare dalla sua famiglia per annunciare la sua prossima morte. Ad aspettarlo ci sono sua madre, la sorella minore Suzanne, che non vede da quando era ancora una bambina, il fratello maggiore Antoine e sua moglie Catherine. Tornare nella casa di famiglia, anche se non è la stessa di dove è cresciuto, proietterà subito Louis nelle spirali di amore divorante che avevano segnato la sua crescita fino a spingerlo verso la fuga. Con l’aggiunta di un rancore nuovo per una sparizione di cui nessuno ha mai discusso.

Doveva essere il film della maturità, è sicuramente un film diverso all’interno della produzione di Dolan. Un film minore, sia per la durata che per la riuscita. Per la prima volta, il regista canadese è partito da un testo non suo. La scoperta della pièce teatrale omonima di Jean Luc Lagarce è avvenuta grazie a Anne Dorval, una delle attrici preferite di Dolan. Dopo aver lasciato maturare il testo per qualche anno, si è sentito pronto ad affrontarlo, a renderlo suo, al termine delle riprese di Mommy.

Il – già – lungo percorso del cinema di Dolan prosegue nell’esplorazione delle dinamiche familiari e dei rapporti fondamentali che costituiscono l’essenza degli individui. Da J’ai tué ma mère in poi, i suoi film sono sempre stati concentrati sul segno degli amori primordiali, sul legame incatenante con le radici. Con È solo la fine del mondo porta in scena un dramma da camera fatto di tensione emotiva sempre pronta a esplodere.

Come si capisce già dalla canzone che accompagna i titoli di testa, la casa non è un posto sicuro, è il posto dove tutto fa più male. È dove tutti sono prigionieri, anche a chilometri di distanza. In Mommy, Dolan aveva esaltato il senso di isolamento dei suoi personaggi rinchiudendoli nel formato di ripresa 1:1 (un quadrato al centro dello schermo). I protagonisti di È solo la fine del mondo hanno la libertà dell’ambiente intorno a loro, ma non sanno che farsene, rimangono chiusi in loro stessi, nei loro pensieri, nelle loro paure, con la telecamera che li rinchiude senza mai farli respirare in campo lungo. Solo nei flashback c’è una traccia di libertà.

Il segreto di Louis e del suo ritorno obbliga la giornata sui binari di una felicità forzata e isterica. Bisogna godere del tempo insieme senza fare domande. Eppure è chiaro che non può essere così, che il non detto pesa troppo, che il segno del tempo è lì a condizionare tutto. La madre, che vuole apparire bella per il figliol prodigo, la sorella piccola, che non lo ha mai conosciuto e sogna una libertà e un coraggio simili al suo, il fratello maggiore, sempre di spalle e pieno di rancore che non sa come gestire per quell’abbandono. Solo Catherine, che è estranea quanto è diventato Louis, vede la famiglia per quello che è, capisce i segreti senza il bisogno che vengano detti.

Affidandosi per la prima volta a un cast di fama internazionale, con Gaspard Ulliel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye e uno straordinario Vincent Cassel, Dolan continua a puntare sulla visceralità della recitazione per trasmettere tutta l’umanità dei suoi personaggi. C’è un momento di un’intensità rara quando i due fratelli si scambiano l’unico sorriso e parte un flashback vago sulla loro infanzia insieme, ma i meccanismi di contaminazione tra melodramma ed estetica pop funzionano meno in È solo la fine del mondo rispetto a quanto visto nei film precedenti di Dolan.

Siamo di fronte, comunque, a un film che conferma tutto il talento dell’enfant prodige canadese, ed è lecito chiedersi quali margini di crescita ulteriore ha questo regista prossimo al primo film in lingua inglese (The Death and Life of John F. Donovan, con Kit Harrington, Natalie Portman e Jessica Chastain). Forse, però, l’impianto teatrale e la breve durata (un’ora e mezzo) limitano la portata di un dramma che avrebbe avuto bisogno di maggiore spazio per respirare, di uscire dalla casa di famiglia di più, di aprirsi per far capire meglio il senso della chiusura e dell’incomunicabile.

(È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, 2016, drammatico, 95’)

La messinscena dell'”io”

In questi mesi del 2016 ho avuto letture disordinate e discontinue. Negli ultimi giorni, però, a causa di un banale riordino della libreria, mi sono accorto di un fenomeno che vorrei in qualche modo provare a descrivere. Non sono sicuro, ovviamente, se sia una tendenza in atto o un mero capriccio della disposizione dei miei testi, ma ripensandoci mi pare che possa essere uno spunto buono per ragionare. Ovvero il fatto che molti dei libri che ho letto quest’anno non siano definibili come romanzi, o meglio possono essere considerati romanzi ma anche altro.

Parto da tre libri che ho qui davanti sulla scrivania, li indico in ordine di lettura: La via di Schenèr di Matteo Melchiorre (Marsilio), Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel (Quodlibet) e Lettori selvaggi di Giuseppe Montesano (Giunti). Cosa hanno in comune questi tre libri? In primo luogo nessuno di questi testi è quello che dichiara di essere.

Melchiorre sembra costruire un saggio storico, di storia materiale e minuta, in cui si raccontano le vicende di un vecchio sentiero di montagna. Vasta pare proporre un classico libro di viaggio con tanto di foto e diario degli spostamenti. Montesano sembra costruire un diario delle letture, abnorme e gigantesco, ma che in fin dei conti è un saggio di critica letteraria (qualcosa di simile a Biographia Literaria di Coleridge, per intenderci). Ma basta grattare la superficie delle storie per vedere che un’impostazione di questo genere ci manda fuori strada; come lettori ci troviamo spiazzati.

Il libro di Melchiorre, per esempio, non ha nulla del saggio storico così come noi lo immaginiamo, è pieno di passeggiate per paesi, di giorni seduti davanti al caffè, di visite rocambolesche ad alberghi. Il suo libro non è tanto un saggio di storia, ma è il resoconto del lavoro materiale di uno storico: quali sono le ossessioni, le paure, le perplessità che si inseguono nella mente di uno studioso quando gli balena l’idea di scrivere di una “materia”, o di un “fatto”. Quindi non è casuale che La via di Schenèr sia un testo infestato di vere e proprie apparizioni di fantasmi, che guidano Melchiorre lungo la sua ricerca, che lo spronano a scegliere una strada piuttosto che un’altra, che nei momenti di scoramento gli appaiono per suggerirgli una possibile soluzione. Sembra di essere in un testo dell’Ottocento, una storia di spavento e di paura, in cui il protagonista in difficoltà viene soccorso in maniera più o meno consapevole da entità che lo portano a risolvere la sua vita (ho sentito, in certi momenti, baluginare l’ironia e lo spavento che i personaggi di Dickens e l’autore stesso hanno verso i fantasmi, un misto di paura e tenerezza).

Anche Vasta rompe il suo patto con il lettore fin dall’inizio. Il primo capitolo del libro è la narrazione di un sogno, in cui si sogna un viaggio; a questo si affianca una discrasia tra la numerazione dei capitoli (progressiva) e le date, che invece non seguono la scansione temporale. Vasta ci suggerisce insomma che il tempo del racconto e il tempo dei fatti non sono conseguenti, tradendo quindi l’idea stessa del diario di viaggio. Inoltre dopo poche pagine ci avverte che le persone che con lui si muovono lungo i luoghi deserti degli Stati Uniti si sono, durante la stesura del libro, lentamente trasformate in personaggi. In una parola quello che abbiamo davanti è un libro dallo statuto ibrido, proprio come quello di Melchiorre, in cui l’idea iniziale si deforma e qualcosa di diverso si infila e filtra come una luce, come qualcosa che sfarfalla nella prosa e nella costruzione della narrazione. Anche per Vasta questa tensione si condensa in una apparizione fantasmatica, in un dialogo irreale con un cane ai limiti del deserto. L’impressione è che l’apparire di tali esseri opalescenti serva come avvertenza al lettore, un segnavia a rammentargli che qualcosa nel libro non si muove per sentieri soliti e che anzi più essi sembrano definiti e costretti in un ambito di genere, più l’esplosione sarà deflagrante come in Montesano.

L’esperienza di immersione in Lettori selvaggi è decisamente particolare. In primo luogo, parlo del mio approccio: non è necessario leggere il testo seguendo l’ordine dei capitoli, perché appunto esso è una sorta di immenso vagabondaggio dell’autore dentro un’idea di lettura e di cultura ampia e complessa. A interessarmi, in questo momento, è un’affermazione di Montesano, fatta nell’introduzione, che può valer anche per i due testi precedenti. Nella nota introduttiva leggiamo: «Questo libro è una mappa su cui sono indicate opere di poeti, scrittori, pensatori, musicisti, artisti, scienziati: sentieri per chi volesse attraversare il vorticare di tempeste contrastanti in cui siamo sballottati. È una mappa personale il cui sogno più grande è quello di essere anche un’autobiografia di tutti e un romanzo collettivo». Come si vede l’autore parla apertamente di romanzo, anche se nel corso di questa introduzione, ma anche nel breve volgere della frase, utilizza altri termini come mappa, sogno, autobiografia come a sanzionare l’effettiva natura ondivaga, sfuggente a qualsiasi catalogazione, del testo appena dato alle stampe.

Torno alla domanda che nutre questo intervento: ma questi volumi in un’ipotetica libreria dove li mettiamo? Sotto quale genere? Mi sembra che questa empasse sia molto interessante, anche rispetto al dibattito sul bel saggio di Belardinelli Discorso sul romanzo moderno (Carocci, 2016) e alle riflessioni che sono scaturite dalla puntale recensione di Marchesini. La mia riflessione sfiora appena i temi di Belardinelli e di Marchesini, essendo nient’altro che un maldestro tentativo di mettere in ordine la mia libreria di casa.

Torniamo al punto. Un altro dato interessante di questi libri è che pur mettendo al centro del racconto un “io” – lo storico, il viaggiatore e il lettore – questi volumi segnano la progressiva scomparsa dell’autofiction dall’orizzonte narrativo attuale; quasi a bilanciare la vittoria di Siti allo Strega con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012), forse il momento più alto e finale di quel tipo di postura. Perché non possiamo parlare di autofiction? Semplificando Vasta è veramente andato in America, e ha veramente fatto quel percorso, veramente i suoi libri e i suoi vestiti sono in un container a Zagarolo. Leggendo Absolutely Nothing avvertiamo, però, che non è una confessione, o un memoriale di viaggio, e non è neppure un libro in cui un fatto reale si inserisce nel flusso di una narrazione di finzione, ma sentiamo che Vasta vuole comunicarci un segreto. Lo stesso sentimento muove gli altri due volumi da cui siamo partiti. Allora viene da chiedersi qual è il segreto che contengono al loro interno? Ovvero qual è la storia che questi libri vogliono raccontarci?

Prima di rispondere, faccio qualche passo indietro, guardo altri libri che sono nella mia libreria e noto su uno stesso scaffale altre letture di quest’anno: La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli), L’uomo del futuro di Eraldo Affinati (Mondadori), La preghiera della letteratura di Andrea Caterini (Fazi), La testa sul tuo petto di Eleonora Mazzoni (Edizioni San Paolo), Non è tutto da buttare di Alessandro Zaccuri (La Scuola).

Prendiamo La scuola cattolica: a tutti gli effetti ci troviamo davanti a un romanzo, così recita anche la dicitura posta dall’editore sulla copertina. In realtà non è così: il libro di Albinati non è solo un romanzo, ma è un testo molto più stratificato; in molti punti è un vero e proprio trattato di sociologia, in altre parti si sente lo sguardo dell’antropologo, di chi si cala in un universo per ripotarne usi e costumi; in alcune c’è lo storico del costume, in altre poi il cronista di nera alle prese con il racconto di un delitto. Il tono e i materiali che l’autore usa sono esorbitanti rispetto alla definizione di romanzo.

A ben vedere qualcosa di simile succede anche con L’uomo del futuro. È un romanzo? Una biografia di don Milani? Un reportage? Il testo è un insieme di queste cose, se da un lato a legare tutto è la vita del priore di Barbiana, dall’altra esistono momenti in cui il testo sembra un reportage alla ricerca di esperienze simili a quelle dell’autore di Lettera a una professoressa e in altre pagine poi la vita dell’autore e quella del suo oggetto di studio paiono coincidere fino a confondersi. Quello che viene da chiederci nel leggere questi libri è: quale “io” prende voce nella narrazione? Questa confusione di stili, di scritture è qualcosa di fecondo e mi pare che sia ancora più interferente e, quindi, interessante negli altri tre libri che citavo, ovvero quelli di Caterini, di Mazzoni e di Zaccuri.

Mazzoni per esempio dovrebbe raccontare la vita di Giovanni l’evangelista. Siamo quindi a pieno titolo nella biografia, anzi siamo in un genere ancora più codificato che è quello dell’agiografia. La lettura del suo libro, però, è spiazzante: assistiamo intanto a una duplice scelta narrativa, che toglie subito di mezzo l’imparzialità della ricerca scientifica. Abbiamo due “io” che si innestano. Da una parte la storia di Giovanni è raccontata in prima persona da lui stesso e dall’altra c’è la storia dell’autrice che racconta il suo rapporto con la fede e con l’evangelista, partendo dalla sua infanzia, dai nonni testimoni di Geova, dai suoi trascorsi in Comunione e Liberazione. Se qui l’interferenza è dichiarata, anche graficamente – i capitoli si alternano e sono identificati con corsivo e tondo – nel libro di Caterini essa è come uno sfarfallio, che ogni tanto si insinua.

In un certo senso il testo di Caterini è propedeutico al libro di Montesano, perché abitua il lettore a essere testimone di una lettura che non è semplicemente critica, ma è esperienziale. Nelle pagine di La preghiera della letteratura si avverte come la vita dello scrittore si modifichi nel momento in cui viene a contatto con alcuni testi e temi, come se poco alla volta l’uomo Caterini che inizia a scrivere il libro e l’uomo Caterini che lo conclude non siano la stessa persona.

Il libro di Zaccuri è forse quello che tra tutti è il più conforme alle regole. Il suo è a tutti gli effetti un saggio, anche se è un saggio su di un tema particolare, ma è soprattutto la sua scrittura a farmelo sentire diverso: il modo con cui argomenta e porge le questioni, il modo in cui le racconta e in cui risolve i problemi che mano a mano gli si propongono davanti, mi ha ricordato un libro di avventure. Leggere le scorribande di Zaccuri sul tema dell’immondizia mi ha fatto divertire proprio come un romanzo d’avventura, il cui scopo è far sì che il lettore «volga lo sguardo da» (è il significato etimologico). L’abbuffata che mi presenta Zaccuri nel suo libro è simile alla cena organizzata da Ferreri nel suo film, qualcosa di sontuoso, buonissimo, bellissimo – così come lo è la scrittura, l’arguzia, l’intelligenza del saggio – che però prelude alla tragica fine. Zaccuri come in un romanzo ci narra delle avventure bellissime per non farci vedere lo sfacelo in cui siamo gettati e di cui siamo, comunque, colpevoli.

Mentre guardo tutti questi libri, che ho riunito ora sullo scaffale, mi chiedo perché di colpo certi scrittori abbiano deciso di modificare quella struttura che comunemente chiamiamo romanzo. Nello stesso tempo mi chiedo perché a me interessi questa strana connessione, che forse solo io vedo, ma che più proseguo nel discorso più mi pare essere evidente. Credo che le ragioni siano diverse; alcune di esse sono più profonde e altre superficiali, partiamo da queste ultime che si riferiscono a due scrittori stranieri.

Il primo di questi è W.G. Sebald; la sua traduzione e la diffusione dei suoi testi, molte volte sfuggenti e inclassificabili, hanno modificato non poco il nostro modo di intendere il confine tra romanzo e saggio. In che modo dovremmo catalogare per esempio Austerlitz? Romanzo, saggio di architettura, biografia immaginaria, autofiction? Oppure prendiamo La storia naturale della distruzione? Possiamo definirlo come un semplice ciclo di conferenze sul tema della letteratura tedesca sulla seconda guerra mondiale? Siamo sicuri che questo basti? Lo statuto ambiguo delle sue forme narrative e la sua prosa secondo me hanno prodotto una sorta di tentativo di mimesi molto forte nel nostro panorama narrativo (mi pare per esempio che il libro di Vasta e quello di Montesano debbano qualcosa a questo autore e alle sue strambe peregrinazioni).

Il secondo scrittore è Emmanuel Carrère; lo scrittore francese soprattutto con Limonov, Vite che non sono la mia e L’avversario ha prodotto testi che hanno superato le tematiche dell’autofiction che erano state messe in crisi dai romanzi di Philippe Forest sulla morte della figlia. Nei libri di Carrère a dominare è l’“io” dell’autore che diventa misura di tutte le cose, che piega le storie che intende scrivere: non importa se devo scrivere di un oscuro e matto poeta russo o di uno sterminatore di famiglia e mentitore patologico, ciò che conta è trovare i punti di contatto tra la mia persona, la mia esistenza e le loro, così da fornire al lettore un cortocircuito, che è quello che poi spaventa e attrae chi legge.

Questo mi porta a rispondere alla domanda che ho lasciato volutamente in sospeso all’inizio e che quindi riprendo: quale storia vogliono raccontare questi libri?

Se dovessi rispondere brevemente, io direi che tutti questi libri mettono in scena il racconto di un “io” che si forma e si racconta. In tutti questi libri in maniera più o meno velata si mostra la storia di un “io che racconta” – narrano il formasi di una coscienza, il formarsi di un’ossessione, il proprio essere maschi adulti e violenti, il proprio essere abbandonati. Per questi motivi tematici mi pare che la forma romanzo diventi via via più ibrida e abbia bisogno di altre forme e generi. Eppure nel leggere queste forme di scrittura qualcosa ancora non mi quadra come se ciò che intuisco, non si esaurisse con la chiamata in causa di Sebald e di Carrère. Sento in questi libri che ho letto qualcosa di prepotente e di nascosto, che ha a che fare con la nostra tradizione.

Esiste una corrente carsica che ha prodotto una serie di testi in un certo senso stravaganti che possiamo vedere come anticipatori dei libri che ho preso in esame. Per esempio la narrazione che Guicciardini mette in scena nei suoi Ricordi non è estranea a questo tentativo di raccontare un “io” alla prese non solo con i fatti del mondo, ma con l’interpretazione stessa del mondo. Anzi proprio in quelle pagine, che sono la diretta trasformazione dei libri contabili dei mercanti fiorentini, abbiamo la prima idea di un modo di raccontare sé, che esula dai due grandi canali comunicativi del tempo ovvero la lettera privata e la dedica del testo al mecenate di turno, luoghi del testo preposti a raccogliere la parte più autobiografica del testo.

Quelle di Guicciardini sono le prime parole private dette in pubblico (per usare un’espressione a me cara di Giulio Mozzi); per la prima volta il compito di un libro è narrare il farsi interiore di un “io”, un “io” che non è toccato da nessuna Grazia – prerequisito importante nell’antichità per chi volesse scrivere di sé, non a caso l’autobiografia è quasi sempre inizialmente una storia di una conversione (Agostino) o di una disgrazia (Abelardo) –, ma che racconta il suo prendere coscienza mentre è nel mondo e si occupa delle cose del mondo. Questo tipo di testo, che vivrà alterne fortune, è il precursore di tre grandi libri che in un certo senso sono la congiunzione con i testi succitati.

Il primo è Una vita di Vittorio Alfieri. Il testo di Alfieri non è una semplice biografia, ma segna nella storia della letteratura italiana qualcosa di diverso; ovvero l’idea che se la letteratura deve raccontare l’uomo, allora perché non produrre una spietata analisi su di sé, così da creare uno studio dell’animo umano (per mutuare le parole di Levi) assolutamente moderno e nuovo? Lo dice meglio di me, lo stesso autore nella sua introduzione: «Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest’opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di sé stesso? Quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare? Di più addentro conoscere? Di più esattamente pesare? Essendo, per così dire, nelle più intime di lui viscere vissuto tanti anni?»

Esistono, quindi, libri che per quanto bizzarri sono una strana commistione di diversi testi, che in maniera più o meno consapevole, sono stati pensati per diventare pubblici, testi che condividono con il libro di Montesano, ma anche con quelli di Caterini o di Albinati, la caoticità, la durata nel tempo, il mescolamento di generi, in cui si accumulano come un regesto materiali più eterogenei. Penso allo Zibaldone e a Il mestiere di vivere. Credo che la filiazione ultima dei testi che ho cercato di analizzare stia in queste due opere. In entrambe si intravedono le due tensioni che abbiamo descritto in Guicciardini e Alfieri; la storia dell’“io” e lo studio dell’uomo; in più sono due libri che ne contengono altri, che non sono mono-toni, né mono-tematici: assolutamente moderni e contemporanei ai nostri giorni e forse per questo pensati come postumi (questo è quasi certo per Il mestiere di vivere, ma credo che anche Leopardi pensasse per il suo Zibaldone un possibile esito pubblico, tipo quando concepisce l’abbozzo della Storia di un anima). C’è una correlazione stretta tra la forma del romanzo e l’“io” che narra e diventa via via il protagonista delle pagine. E non è un caso se Montesano nella sua introduzione, e anche nel corso del libro, dedichi molte pagine a Rimbaud, scrittore che più di altri ha intuito la potenza deflagrante della parola “io” e del suo legame con l’alterità. Quando si mette in scena l’“io” – e mi rendo conto ora che i romanzi di cui ho parlato operano tutti in questo ambito – le strutture narrative vengono forzate con una torsione molto simile alla manomissione sintattica insita nella frase «Je est un autre». Questa frase a leggerla bene, anche solo dal punto di vista grammaticale, è una sfida di senso e di logica, che ci ricorda come lo sforzo di raccontare l’“io” sia così prepotente da mettere in crisi ogni tipo forma di racconto.

I libri presi in esame certificano questo legame stretto tra la storia dell’“io”, il suo mostrarsi e le modificazioni delle strutture del testo, in cui concetti come saggio, biografia, autofiction risultano fuori luogo, perché agli autori interessa non codificarsi in un genere, ma utilizzare qualsiasi risorsa pur di riprodurre il movimenti che l’“io” fa nel momento in cui prende coscienza di sé.

A questo punto il mio breve excursus sarebbe finito, però credo che serva una piccola postilla per spiegare questo desiderio di tassonomizzazione. Credo che in fin dei conti sia solo un altro modo di ragionare sul ruolo dello scrittore e del lettore; è un tentativo di affermare che l’essenza più intima della critica letteraria sta nell’essere “un esame di coscienza”. Ritorna forse nell’accidia dei giorni, indeciso tra il continuare a scrivere o il non produrre più nulla, l’idea e lo stupore provati leggendo Il quinto evangelio di Mario Pomilio o Petrolio di Pier Paolo Pasolini, ovvero avvertire l’illuminazione che la ricerca di definire cosa sia la letteratura sia molto più semplice di quello che si pensi. La letteratura è qualcosa di scritto, che possiede in sé la capacità di modificare le percezioni che abbiamo di noi e del mondo. Se dovessi trovare un paragone con qualche altra attività umana direi che la letteratura è un lungo esorcismo rispetto al male che subiremo e a quello che faremo.

Cosa sia questo esorcismo, caro lettore che hai avuto la pazienza di seguirmi fino a qui, io non lo so, o meglio non lo so spiegare con parole mie. Mi vengono in aiuto alcune pagine di Ricordi tristi e civili, in cui Cesare Garboli racconta della messa funebre celebrata da Paolo VI per la morte di Aldo Moro. Garboli vede nella preghiera di Paolo VI a Dio qualcosa di simile a un esorcismo verso un male che per quanto terreno e mortale ha devastando un intero paese, un male politico e sociale che di colpo mostra la sua natura più profonda e abissale. Lo scrittore, guardando un uomo morente che prega disperato per l’amico morto, sente qualcosa di oscuro, avverte distintamente di essere arrivato, contemplando quell’accadimento, a un punto di non ritorno. Il sentimento di Garboli è qualcosa di diverso dalla semplice disperazione della bestia ferita, è anzi qualcosa di lucido, chiaro e nitido. È qualcosa di orrendo, ma da cui non puoi sottrarti. È una sorta di possessione. Ecco la letteratura deve produrre questo non ritorno, questa scomodità, deve – per dirla con Kafka – far capire al lettore che «da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere».

“Until the Hunter”
di Hope Sandoval and The Warm Inventions

Trovarsi tra le mani Until The Hunter, il nuovo lavoro di Hope Sandoval and The Warm Inventions, vuol dire fare i conti con una serie di dualismi d’epoca e problematiche da millennials. Chitarra acustica o sintetizzatori? Urban o rural? Raccontare o creare? E se creare, cosa c’è da tirar su? Rimodellare come?

La Sandoval (Mazzy Star), insieme a Colm Ó Cíosóig (My Boody Valentine), ha tentato di rispondere, nel bene o nel male, all’esistenzialismo artistico contemporaneo: Until the Hunter è un album tendenzialmente alternative, con chiari rimandi al blues e al folk in qualche traccia, il tutto lasciato scorrere nel fiume del dream pop. Non è il primo tentativo di districarsi con creatività tra le materie prime (e pure), né in assoluto, né sul genere – il mix tra elementi acustici alla West Coast e innovazioni visionarie alla East è stato, e continua ad essere, lo spirito del 90% degli album statunitensi che aspirino a definirsi, quantomeno, musicalmente ricercati (tra i più affini sicuramente i Beach House). Allo stesso tempo, però, pochi singoli quest’anno sono stati all’altezza di “Let Me Get There”, brano composto in collaborazione con Kurt Vile, uno degli artisti migliori in attività per quanto riguarda la scena indie/alternative americana – quella del rock fedele alle contaminazioni tradizionali del country-blues. Rientrato da un tour low profile in giro per il mondo con i suoi The Violators (anche in Italia, a luglio, come spalla degli Wilco a Ferrara), Vile con il suo solito tocco (elettrico), che già lo scorso anno aveva fatto respirare i tenaci appassionati del genere con b’lieve I’m goin down… , ha contribuito a colorare la silenziosa anima rock dell’album.

Bisogna dirlo: Until the Hunter non è affatto un album di musica tradizionale ripresa, ammorbidita e resa semplicisticamente fruibile da un pubblico nostalgico ma disabituato a certi suoni. È una di quelle cose che potrebbe essere inserita senza nessun problema nella scia “post” della nostra era, uno dei tentativi reali di inventarsi qualcosa quando non c’è più niente di nuovo da dire. Ritrattare quello che c’era per tirare, artisticamente, a campare. Dunque perché non inserire una chitarre elettrica che si comporti esattamente come si comporterebbe in un universo rock, a volte psichedelico (“Salt of the Sea”, “Treasure”) a volte, appunto, country o blues (“Let Me Get There”), e perché non inserirla in un album – e addirittura in canzoni – che di rock non hanno assolutamente nulla?

Il risultato è ben armonizzato in ogni frazione, ciascuna traccia ha una sua precisa dimensione di riferimento. Tutti gli strumenti lavorano coesi nelle varie canzoni, che singolarmente funzionano piuttosto bene. Un lavoro pensato, costruito. Ma costruito come? L’estrema attenzione alle tracce in sé e non ai loro connettivi, la totale assenza di una visione olistica, fa sembrare l’album stranamente incoerente e privo di qualsiasi organizzazione dei brani – basti pensare all’estemporanea traccia d’apertura “Into the Trees”, che con la sua distensione a lamento non sembra aver nulla a che spartire con le altre 10 tracce.

Forse parlare di incoerenza non è corretto: incollocabilità, piuttosto. Ed è forse questa, in definitiva, la risposta innovativa della cantautrice statunitense, travestita però da enorme pecca. Per ora un quesito rimane aperto: se stiamo parlando di qualcosa, di che cosa stiamo parlando?

 (Until the Hunter, di Hope Sandoval and The Warm Inventions, Alternative Rock, 58’56”)

Poster italiano di Free State of Jones su Flanerí

“Free State of Jones”
di Gary Ross

Arriva al cinema in un momento storico non casuale, Free State of Jones, il nuovo film di Gary Ross con protagonista assoluto Matthew McConaughey. Non poteva esserci momento migliore, infatti, per portare in sala un film sullo schiavismo, sull’oppressione dello stato sul cittadino, del ricco sul povero. Dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti lo scorso 8 novembre sono in molti a chiedersi cosa succederà a Washington e dintorni, dopo una campagna elettorale in cui sessismo, classismo e razzismo sono stati combinati nelle giuste dosi per trasformarsi in populismo.

C’è da dire che nei cinema statunitensi Free State of Jones è arrivato a giugno, con risultati tutt’altro che soddisfacenti in termini di incasso. Il clima era già quello che era, anche se i sondaggi sembravano indicare un’altra direzione.

Gary Jones è partito dalla storia vera di Newt Knight (McConaughey), un maniscalco della contea di Jones, Mississippi, arruolato come infermiere confederato durante la Guerra Civile americana. Quando vede il suo giovane nipote morire per colpa di un ordine insensato di un ufficiale, Knight decide di disertare e fare ritorno a casa. Lì scopre che i soldati della Confederazione approfittano della guerra e dell’assenza di uomini nelle case per razziare le risorse delle donne rimaste sole. Dopo essersi opposto con un fucile e un manipolo di bambine, Newt si nasconde nella paludi del Mississippi insieme a un gruppo di schiavi scappati dalle piantagioni di cotone. È da lì che fa partire la sua rivolta contro l’esercito confederato che lo porterà a riunire sempre più persone, tra contadini e disertori, fino a fondare lo stato libero di Jones.

Il rischio, con pellicole doverose, come Free State of Jones, che affrontano il tema della schiavitù e della segregazione razziale, è sempre quello di metterci troppa partecipazione emotiva, di finire, da un lato, per caricarle di rabbia vendicativa (tipo il caso recente di The Birth of a Nation di Nate Parker), oppure, dall’altro, di metterci troppa retorica.

E il rischio della retorica, in questa storia vera di una specie di Robin Hood proletario, c’è. Knight si innamora e unisce con Rachel, una donna di colore, dopo che la prima moglie è scappata in Georgia con il figlio durante la sua latitanza. Dall’unione con Rachel nasce la prima comunità di razza mista del dopoguerra, che si perpetua nello stato del Mississippi fino all’età contemporanea. È nel secondo filone narrativo, quello più didascalico e superfluo, che Free State of Jones inciampa nella retorica. Ross decide di mostrare il processo a cui nel 1948 un discendente di Knight – bianco – venne sottoposto nella contea di Jones per aver sposato una donna bianca. Il problema era che la famiglia Knight aveva sangue africano nelle vene, per l’esattezza un ottavo, e pertanto, secondo le – per niente assimilabili al nazismo – leggi sulla segregazione razziale vigenti negli Stati Uniti del sud fino a poche decine di anni fa, i suoi esponenti non potevano unirsi in matrimonio con i bianchi, pena cinque anni di detenzione. Storia vera anche questa, nella sua assurdità, ma totalmente superflua e fuori registro rispetto al resto del film.

Perché nella parte storica, invece, Matthew McConaughey usa tutto il suo carisma per tenere a badare la retorica e caricarsi sulle spalle lo stato libero di Jones, sia il film che la patria dei ribelli.

Il regista Gary Ross ha una passione per i ribelli con una causa. Il primo Hunger Games era opera sua, e qualche elemento in comune con questo Free State of Jones ce l’ha. Pur lavorando poco (solo quattro regie in quasi vent’anni di carriera), Ross conferma tutto il suo talento nel gestire il materiale narrativo, sia come regista che come sceneggiatore. Nella parte storica, il trabocchetto più grande della retorica – l’indignazione – è aggirato con uno stile asciutto e comunque di impatto, come dimostra la scena delle madri con le sedie sotto l’albero dell’impiccagione. L’insistenza sull’elemento sociale delle rivendicazioni di Knight e dei suoi, che arrivano a darsi una costituzione basata sulla dignità del lavoro di ogni uomo, bianco o nero che sia, così semplici eppure fondamentali, dà al film un valore ulteriore, in prospettiva contemporanea. E ce n’è sempre bisogno.

(Free State of Jones, di Gary Ross, 2016, azione, 139’)