“Per chi suona la campana”
di Ernest Hemingway

Come accade per alcune delle pietre miliari della letteratura mondiale, è facile che anche Per chi suona la campana (1940), il romanzo considerato assieme a Il vecchio e il mare e Addio alle armi tra le cose migliori di Hemingway, risvegli nell’immaginario collettivo più che altro un’eco indistinta, costruita su vaghe reminescenze scolastiche e sull’inarrestabile brusio di citazioni a cui nessuno che abbia a che fare più o meno alla lontana con i libri può sottrarsi.

Ma sia l’idea di Hemingway, sia le frasi estrapolate da questo o da quel contesto, non rendono giustizia a una scoperta lampante, che può avvenire solo leggendolo: e cioè che Hemingway è sorprendentemente moderno. Più moderno dei contemporanei. E che va incontrato a mente libera, come se ci si apprestasse a un viaggio in più direzioni. Allora potrà succedere che i pensieri di Robert Jordan, l’inglés incaricato di minare un ponte di importanza strategica nella guerriglia contro i franchisti, diventino i nostri.

L’odore della terra coperta di aghi di pino, il colore sbiadito di una cartina militare, la fatica dei muscoli nella risalita della parete rocciosa, il senso di diffidenza per il capobanda Pablo, l’abbaglio a prima vista di fronte a Maria, il calore del vino e il sapore del cibo condivisi tra polvere e munizioni sono adesso le nostre percezioni, così come nostro è il senso del dovere rigoroso che dà impulso all’azione.

Far saltare un ponte. Il chiodo martellante attorno al quale ruotano dilatate a dismisura tutte le componenti di Per chi suona la campana. Hemingway ha impiegato 500 pagine per descrivere un’azione che dura sì e no settanta ore, tre giorni e tre notti, raccontati facendo ricorso al vissuto “reale” dei protagonisti, ai loro pensieri – seguendo il filo dei quali ricostruire tratti psicologici e caratteriali distintivi di ogni personaggio –, ad ampi flashback che aprono parentesi su fatti altrimenti non conoscibili, e soprattutto ai dialoghi, che racchiudono frequentemente gli apici della tensione narrativa che percorre tutta l’opera.

La storia in effetti è ridotta all’osso: Robert Jordan, intellettuale americano che ha scelto di supportare le forze antifranchiste, ritorna in Spagna per raggiungere una banda di guerriglieri, con la collaborazione dei quali dovrà far saltare un ponte d’acciaio importantissimo per i fascisti. Sulle montagne, dove i guerriglieri si nascondono, viene a contatto con uno scampolo di umanità eterogeneo, di cui fanno parte tra gli altri Pablo, ambiguo capobanda, Pilar, donna ruvida e sibillina, Maria, giovane repubblicana la cui vita è stata spezzata dalla guerra, e Anselmo, anziano guerrigliero dai profondi scrupoli morali.

L’ansia di non saper portare a termine il compito, insieme al timore di non riuscire a svolgere il proprio dovere, insegue Robert pure dentro allo sbocciare di un fortissimo amore corrisposto per Maria. Il presentimento onnipresente della morte respira addosso a tutti gli uomini, e anche, con diversa tonalità, alle due donne, alimentato dall’orrore risvegliato dai racconti delle stragi e dal ricordo dei soprusi subiti. Qui si innesta l’altra grande tematica del romanzo, quella del suicidio, inteso da un lato come atto di estrema ribellione, dall’altro come gesto di egoismo – complementarità sulla quale si basa una chiave del rapporto di Robert col padre, e la sua visione del destino.

Percorre l’opera un profondo sentimento di comprensione che investe la Spagna, la sua gente e la sua storia, pur con tutti i difetti e le contraddizioni, più intenso della violenza e del fatalismo ben percepibili in controluce. La simpatia per un intero popolo è quella che tramuta in elegia alcuni dei passi più forti, nei quali si mescolano segnali emotivi anche molto discordanti: i valori della solidarietà e del cameratismo da una parte, la paura e l’avversione nei confronti della guerra e della morte, rese attraverso la metafora ricorrente degli aerei in perlustrazione, dall’altra.

Infine non si fa che girare pagine e pagine di Per chi suona la campana, incalzati dalla complessità delle problematiche alle quali i personaggi sono chiamati moralmente a rispondere. Sino a ritrovarsi «dove i pini della foresta finivano e cominciava la verde china del prato», nella stessa scena dell’inizio, come in un circolo, salvo non riuscire a decidere se è tutto come prima, oppure tutto è cambiato.

 

(Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, trad. di Maria Martone Napolitano, Mondadori)
Poster italiano del film Sully su Flanerí

“Sully”
di Clint Eastwood

Dopo American Sniper, il controverso biopic sul cecchino più efficiente della storia degli Stati Uniti, Clint Eastwood dirige Tom Hanks in Sully e porta sul grande schermo l’ammaraggio del volo US Airways 1549. Basato sull’autobiografia Highest Duty: My Search for What Really Matters, il film del regista di Million Dollar Baby e Gran Torino racconta il “Miracolo sull’Hudson”, la manovra di salvataggio compiuta dal pilota americano Chesley Sullenberger il 15 gennaio 2009.

Intorno alle ore 15 di quel giorno il capitano, detto Sully, e il suo co-pilota Jeffrey B. Skiles salgono sull’Airbus A320 che avrebbe dovuto trasportare centocinquanta passeggeri e tre membri dell’equipaggio dall’aeroporto La Guardia di New York a quello della Carolina del Nord. Pochi minuti dopo il decollo, Sullenberger è costretto a effettuare un ammaraggio sul fiume Hudson a causa di un cosiddetto “bird strike”, ovvero uno scontro con uno stormo di uccelli, così forte da danneggiare entrambi i motori. Nonostante l’intenzione iniziale di tentare un atterraggio d’emergenza nell’aeroporto di partenza, il pilota si rende conto che tornare a La Guardia sarebbe un’operazione molto rischiosa. La torre di controllo, inoltre, aveva segnalato la possibilità di far scendere il velivolo nel New Jersey, presso il Teterboro Airport. L’Airbus, però, perdeva rapidamente quota e raggiungere un qualsiasi aeroporto era diventato ormai impossibile. Secondo Sully, a quel punto, l’unica chance di salvezza erano le acque dolci che attraversano la Grande Mela.

Eastwood dilata, analizza e destruttura i 208 secondi che hanno cambiato per sempre la vita di centinaia di persone, il tutto attraverso una regia che in Sully raggiunge l’apice della rigorosità e dell’essenzialità, eliminando il superfluo e concentrandosi soprattutto sull’aspetto umano della vicenda. La contrapposizione qui evidente è infatti quella tra l’uomo integerrimo che indossa una divisa con responsabilità da oltre quarant’anni e la commissione d’indagine della Sicurezza dei Trasporti, simbolo di un “sistema” che ha sempre bisogno di trovare il colpevole.

Per la gente comune Sully è un eroe a tutti gli effetti, tanto da ispirare baci, abbracci e un cocktail in onore di un salvataggio che ha evitato all’America il suo secondo undici settembre. Eppure le immagini delle fusoliere accartocciate tra i grattacieli vengono rievocate dalla mente del pilota, tormentato anche in sogno dal disastro mancato. Così, i giorni successivi alla vicenda diventano sempre più difficili da affrontare per il comandante, costantemente sotto-stress e pressato dalle accuse della commissione e dalle domande dei giornalisti che assediano casa e famiglia. Sully sembra essere infatti sull’orlo di una crisi, ma la freddezza e la lucidità dimostrate durante quegli interminabili istanti non lo abbandoneranno mai.

Se dovessero bastare l’interpretazione da Oscar di un Tom Hanks in stato di grazia e una scomposizione temporale degli eventi che ricorda vagamente il Kurosawa di Rashomon, allora Sully sarebbe un capolavoro. Invece la presenza di alcuni cliché, tra cui i dialoghi a distanza tra il protagonista e la moglie tormentata dai media e dall’assenza del marito, assieme all’oratoria finale sul “salvataggio collettivo” rendono la pellicola di Eastwood un dramma altamente crowd-pleasing, orientato cioè a ottenere l’approvazione del pubblico.

(Sully, di Clint Eastwood, 2016, biografico, 95’)

“Lesbianitj”
di Pop X

Pop X probabilmente non è un genio. Pop X non è, allo stesso tempo, la peggiore cosa che si possa ascoltare. L’ultima creatura di Bomba Dischi, con Lesbianitj, sembra  essere lo sbocco naturale di un modo di intendere il cantautorato italiano  – quantomento quello definito e definibile come alternativo – che ha iniziato il suo processo di stravolgimento con I Cani,  ha sviluppato una ripresa elettropop sonora anni ’80/’90  mischiati a testi smaccatamente melensi con i Thegiornalisti e si è auto confermato con Calcutta. Sembrano  lontanissimi i tempi in cui l’allora nuovo cantautorato italiano aveva come rappresentati i vari Dente e Brunori Sas (ai quali hanno seguito Dimartino e Colapesce).  I Baustelle, a un livello superiore. Lo stesso Calcutta, che tra i nuovi per inclinazione può ricordarli maggiormente, fa trasparire un approccio scanzonato diverso, quasi a far passare il messaggio di non voler essere preso mai concretamente sul serio. Artisti che cercavano una nuova lettura del e nel cantautorato italiano, interpretandolo a loro modo, immersi in un contesto sociale e politico chiaramente diverso, ma che avevano radici ancorate nei pilastri De Andrè, De Gregori,  Guccini e Battisti. Dall’uscita di  Il sorprendente album d’esordio  dei Cani in poi, le cose hanno iniziato a cambiare radicalmente, facendo trasparire la possibilità che la riduzione e la semplificazione, un modo di fare naiv  fossero la maniera, oggi, per emergere. In un momento in cui, tra l’altro, forse, si sente la necessità dell’opposto. Così, l’avvento dei Thegiornalisti, di Calcutta e, ora, di Pop X.

Lesbianitj è un album che, per come è stato pensato, funziona. Indubbiamente godibile.  Piacevole nel suo riuscire a essere immediato con melodie e ritmiche martellanti, ma disturbante perché non ne esce fuori altro se non, appunto, la sua capacità di  rimanere impresso solo a livello di sensazioni primitive. Il fischiettare che si può associare a ogni tipo di brano pop che ha l’intento unico di rimanere un brano pop da fischiettare. Il che, certamente, non è per nulla un esercizio facile, tutt’altro.  La questione, però, è che pare che tutto il suo discorso ruoti attorno all’essere immediato, riconoscibile. Ma basta fare così, ora, per uscire fuori? Per essere credibili? Ciò che sembra trasparire da questa nuova generazione è proprio questo. Fare della superficialità la profondità. Se per Battisti fu una reazione all’impegno dei vari  De Andrè, De Gregori e Guccini, oggi sembra solo  una moda da cavalcare. L’uso del disimpegno forzato come mezzo comunicativo. Un appiattimento globale verso verso il modello che, teoricamente, dovrebbe essere antagonista a questo mondo: quello mainstream. E sembra, ora, con Pop X, essere arrivati a un culmine, a una sintesi di quanto accaduto negli ultimi anni.

In Lesbianitj c’è il Battisti di Hegel (a livello strumentale, “Mister V”, “Secchio”), ci sono sprazzi dell’attenti al lupo di  Dalla (“Azzurra”),   ci sono I Cani (il brano “Ti scatto una Photo”  sembra preso direttamente da  Il sorprendente album d’esordio  dei Cani), c’è il dissacrare dei Prophilax   (“Frocidellanike”) , ci sono i matrimoni osceni alla Real Time (“Sanatrix”, “Madamadorè”, “Preti”),  c’è la parodia di alcuni successi di lingua spagnola che avrebbe potuto usare  Moccia nella prima scena di La Grande Bellezza se l’avesse girata lui (“Dens”). C’è, quindi, un album straniante, ma con il risultato, assurdo, di una coerenza estetica notevole. Lavorato sicuramente con intelligenza. Un tipo di intelligenza che però può  sfociare nella furbizia.

Ed è giusto quindi, oggi, cercare di introdurre Pop X in un contesto ampio che ha a che fare con la tradizione importante cantautorale oppure prenderlo per altro, ovvero per un prodotto certamente godibile, ma nulla di più?

 

“Terreni”
di Oddný Eir Ævarsdóttir

Quanta letteratura di qualità può produrre una nazione che ha meno abitanti di Bologna? A giudicare dai nomi altisonanti del secolo scorso (su tutti: Gunnar Gunnarsson e, soprattutto, Halldór Kiljan Laxness, premio Nobel nel 1955) e dalle nuove leve che si affacciano sul panorama europeo e internazionale in questi anni, la letteratura islandese ha già detto molto e ancora avrà da dire nei decenni a venire. Il panorama artistico dell’isola nordica è decisamente vivo, come ricorda la prefazione di Massimiliano Bampi posta in apertura di Terreni, libro di Oddný Eir Ævarsdóttir (Safarà Editore, 2016). La casa editrice di Pordenone ha fatto una mossa più che oculata mandando in stampa questo libro in un momento in cui l’Islanda è tornata alla ribalta grazie ad alcune vicende non direttamente legate al mondo letterario ma appartenenti alla cultura di massa. L’impensabile performance sportiva della nazionale di calcio isolana agli Europei 2016 e la nuova apertura al turismo straniero del paese – attuata mediante la creazione di voli e agevolazioni turistiche dalla vicina Europa – ha riequilibrato l’immagine e l’appeal di un paese che pareva affossato dalla grave crisi economica del 2008, che lì aveva colpito più duramente che altrove.

Terreni è il terzo libro scritto da Oddný Eir, artista poliedrica in grado di mettere a curriculum la curatela di spazi espositivi negli Stati Uniti e in Islanda, la collaborazione con la cantante Björk e un’attività letteraria originale e introspettiva. Dopo aver collezionato un paio di premi nazionali con le prime pubblicazioni, il vero successo della scrittrice è arrivato con quest’opera, pubblicata nel 2011, accolta con grande clamore dal pubblico di casa e dalla critica europea e giudicata meritevole del premio dell’Unione Europea per la Letteratura. Il best-seller è dunque sbarcato sul continente, raccogliendo consensi in ogni paese per la delicatezza del suo stile e delle sue immagini, capaci di catturare l’attenzione dei lettori ed emozionarli pagina dopo pagina. Pur non essendo un romanzo, Terreni consente una lettura vivace e leggera, in grado di condurre chi legge alla scoperta di innumerevoli mondi: dalla vita interiore dell’autrice alle vicende storiche del suo paese, dal panorama letterario islandese passato e presente alle tradizioni isolane che vanno via via scomparendo nel paese dei vulcani e dei geyser.

La ricerca che Oddný Eir racconta in Terreni è duplice: da un lato l’autrice trasporta il lettore nel suo mondo, realtà in cui sta vagando assieme a membri della sua famiglia (il fratello archeologo Ugli e il suo uomo, l’ornitologo Fugli) con l’obiettivo di scoprire una vera e propria dimora; dall’altro quello che si viene a comporre è un affresco storico-culturale dell’Islanda, dalla sua scoperta alla crisi sopracitata, all’interno del quale è palese il bisogno della scrittrice di reperire le proprie coordinate esistenziali. «La casa dovrebbe essere un luogo di esperienze e di scoperte, un luogo di tranquillità per coltivare la parte più nobile di ciascun essere umano, in sintonia con i desideri e le ambizioni degli altri» scrive Oddný Eir durante il suo continuo peregrinare. Appare dunque chiaro, fin dalle prime pagine, che l’unione dei due obiettivi dell’autrice si concretizza nella ri-scoperta della terra e di un modello di esistenza (la «spirale autosufficiente») che il XX° secolo ha spazzato via anche in una terra di confine com’è l’Islanda.

Archeologia, ornitologia, mitologia, storia, agiografia e letteratura (a partire dalle celebri Saghe Islandesi); queste sono soltanto alcune delle discipline che il libro tocca con finezza, riuscendo sempre nell’arduo tentativo di non essere didascalico. Anche nel rapporto che l’autrice instaura con il pensiero verde e il recupero delle tradizioni non è ammantato da quella patina semplicistica e idealistica che accomuna molti lavori di settore, specialistici e non. Oddný Eir non professa il ritorno alle origini e non sbandiera un luddismo anacronistico, bensì pone l’accento sull’importanza di associare le buone pratiche del passato al futuro che abbiamo davanti. In uno dei passaggi migliori del libro, l’autrice si scaglia contro il sempre chiacchierato ritorno al passato: «No, non back to nature, semmai forward! Avanti, verso la natura!» Anche quando la realtà contemporanea, quella della crisi economica, subentra con violenza nelle pagine del memoir il libro non deraglia mai nel nazionalismo di chiusura, aprendo invece alla «totalità di tutto ciò che esiste» e inneggiando all’unica lealtà degna dell’impegno di tutti: quella verso la terra.

Terreni è un libro-diario che vale la pena di leggere; è una porta aperta su una nazione nascosta, che difficilmente abbiamo la possibilità di conoscere in modo così intimo e personale. Non è un libro di viaggio, non è una guida canonica da utilizzare come alternativa alla Lonely Planet. Il libro di Oddný Eir riesce a creare un ponte fra le letterature di ieri e la terra devastata di oggi, presentando al pubblico internazionale un’autrice la cui opera andrebbe indagata più a fondo, perché caratterizzata da una sensibilità sociale e da una morbidezza stilistica fuori del comune. Al termine del libro è impossibile non ritrovarsi a sperare di cuore che Oddný Eir abbia trovato la sua terra, che vi sia stabilita, e che dal luogo a lei consono stia scrivendo nuove pagine.

 

(Oddný Eir Ævarsdóttir, Terreni, trad. di Silvia Cosimini, Safarà Editore, 2016, pp. 240, euro 18)

 

Copertina di La grazia del demolitore su Flanerí

“La grazia del demolitore”
di Fabio Bartolomei

Finalmente Fabio Bartolomei è tornato! E non solo perché è uscito il suo quinto libro La grazia del demolitore (E/O, 2016), ma soprattutto perché in esso si ritrova quella magia che nel precedente romanzo, Lezioni in paradiso, sembrava proprio mancare.

Le storie immaginate da Bartolomei si aggrappano saldamente alla realtà, quella realtà quotidiana che consiste di piccoli gesti, incontri casuali e luoghi senza tempo, ma che viene abilmente trasfigurata dall’autore in modo che ogni aspetto descritto diventi rituale, innamoramento, luogo di culto. Non è raro il pensiero di poter incontrare ogni giorno in una via del proprio quartiere i personaggi di cui si sta leggendo la storia, e allo stesso modo può nascere spontaneamente la fantasia che il signore sempre seduto al tavolino del bar, la tabaccaia o il fruttivendolo racchiudano storie favolose.

La grazie del demolitore è ambientato principalmente in un frammento di spazio cittadino che si dilata a poco a poco col procedere dei lavori di riqualificazione urbana a opera del protagonista Davide, figlio di un importante e disonesto costruttore, e costruttore lui stesso. A causa di un evento imprevisto (che diventa poi un rituale necessario per il personaggio) che vede Davide intrappolato in casa di Ursula, una ragazza cieca, il giovane inizia a subire la fascinazione della donna e tutto il suo bagaglio di emozioni e atteggiamenti viene alterato dall’indomabile desiderio di renderla felice. Ursula vive sola col suo cane-guida, ha poche ma robuste amicizie, un lavoro che le permette una vita modesta ma indipendente e anche se a tratti diventa nostalgica, sa essere affettuosa e spensierata.

La grazie del demolitore è poi costellato di una serie di altri personaggi che nascono nei due diversi universi dei protagonisti, universi molto caratterizzati e situati ai due lati opposti della società, e che si fondono e confondono in un turbinio di reazioni e sentimenti poiché in fondo appartengono tutti allo stesso mondo, quello abitato dagli esseri umani e dalle loro emozioni.

La trama di La grazie del demolitore è semplice ma arricchita dalla genuinità dei comportamenti umani, dagli errori e dalle gesta eroiche di ogni giorno, dal rapporto conflittuale con un padre troppo potente e da quello danzante e segreto con la madre, dalle invenzioni di un autore che non si distacca mai dalla realtà ma la fregia di miracoli possibili, come un albero di Natale addobbato con acrobatiche bolle di sapone.

La lettura procede fluida; l’idea di naturalezza è mal celata in una scrittura ricercata e brillante che non nasconde il lavorio dello scrittore, mentre è confermata dalla facilità con cui ci si immerge in una storia che potrebbe davvero toccare chiunque.

La grazia del demolitore non eguaglia quel capolavoro che continua a essere We Are Family, ma non smentisce la capacità di Fabio Bartolomei di regalare ai suoi lettori storie di imprevista bellezza senza che debbano volgere lo sguardo dell’immaginazione troppo lontano, anche solo oltre il vetro delle finestre delle loro case.

 

(Fabio Bartolomei, La grazia del demolitore, E/O, 2016, pp. 275, euro 18)
Copertina di L’Outsider su Flanerí

“L’outsider”
di Colin Wilson

Pensate a un aspirante scrittore inglese di ventitré anni, solo al mondo e senza un soldo. Immaginatelo mentre dorme in un sacco a pelo sull’erba di un parco londinese o mentre passa le sue giornate nella sala lettura del British Museum, nel tentativo di scrivere un libro su Jack lo squartatore. No, non sto parlando del protagonista di Fame, il romanzo del premio Nobel norvegese Knut Hamsun, ma di uno scrittore in carne e ossa. Il suo nome è Colin Wilson e, purtroppo o per fortuna, quel libro che sarebbe dovuto essere il suo esordio (Ritual in the Dark) lo ha messo da parte per un po’, per scriverne uno molto più ambizioso, che è subito diventato un caso letterario: L’outsider (1956), un appassionante saggio ripubblicato quest’anno da Atlantide in edizione limitata per la nuova traduzione di Thomas Fazi – la prima edizione italiana era del 1958 (Lerici) e si intitolava Lo straniero.

Ad averci a che fare oggi, l’idea di Wilson non sembra particolarmente originale: rovistare nelle biografie e nelle bibliografie degli scrittori otto-novecenteschi con l’obiettivo di tratteggiare in maniera metodica e minuziosa la figura di un particolare “tipo psicologico”: l’outsider, appunto, il visionario incompreso, colui che a causa dell’odio verso se stesso e verso una società con cui non riesce a riconciliarsi, decide autonomamente di vivere ai margini o, nel peggiore dei casi, di ricorrere a metodi estremi per superare la propria inadeguatezza.

Prima di iniziare a leggere questo testo di circa 400 pagine – e conoscendone solo le premesse programmatiche – ho subito pensato a Un uomo che dorme (1967), la cronaca di una rinuncia al mondo firmata da Georges Perec. Poi a Van Gogh il suicidato della società (1947), il meraviglioso testamento spirituale di Antonin Artaud, nel quale l’autore marsigliese – anche lui, come Van Gogh, internato in una clinica psichiatrica – attacca la società perbenista, rea di volersi sbarazzare degli artisti visionari etichettandoli come malati di mente. Infine, ho pensato a Bartleby e compagnia (2000) di Enrique Vila-Matas, una raccolta di vite esemplari di artisti e scrittori che a un certo punto, proprio come il personaggio del racconto di Melville che dà il titolo all’opera, hanno deciso di dire no, di smettere, di cambiare vita. Il saggio di Wilson sembra l’archetipo di tutte queste opere, la fonte originale, la premessa metodologica; una panoramica ricca e documentata sui diversi tipi di outsider, scritta con una lingua accessibile e divulgativa, ma senza rinunciare alla vena poetica (implicita) propria di chi – difficile dire il contrario nel caso di Wilson – nel parlare degli altri, parla un po’ anche di se stesso.

L’uomo che dorme di Perec, che per me è l’outsider per eccellenza, nel libro di Wilson non c’è (per ovvi motivi cronologici), eppure potrebbe essere inserito a pieno titolo nella categoria che l’autore definisce “uomo-insetto”. Si tratta del primo e più basico tipo di outsider, quello “passivo”, che Wilson rintraccia leggendo L’inferno (1908), uno dei primi romanzi del francese Henri Barbusse, che rappresenta anche l’inizio della sua avventura intellettuale nel British Museum. Ciò che lo incuriosisce è un passo in cui il protagonista del romanzo, bombardato dagli stimoli erotici delle donne che lo circondano, si rende conto che il suo desiderio non sarebbe mai stato soddisfatto, neanche con il sesso. Una frustrazione perenne e un senso di impotenza tipici dell’outsider. «Non è una donna che vorrei, le vorrei tutte, e le cerco, intorno a me, una ad una. Loro passano, se ne vanno, dopo avermi dato l’impressione di essersi avvicinate a me».

Altri esempi di outsider passivi sono i personaggi di Franz Kafka: l’uomo-insetto di La metamorfosi, ovviamente, ma soprattutto il protagonista di Un digiunatore, che Wilson definisce «la sua esposizione più lucida della condizione dell’outsider», la mancanza di appetito per la vita.

Ma c’è spazio anche per gli outsider attivi. Ci sono quelli che non hanno mai capito se stessi, che credevano, cioè, «di non avere nulla e di non meritare nulla» (Van Gogh, Lawrence d’Arabia, il ballerino Nijinsky); quelli che hanno scoperto di essere outsider a causa di un “attacco” improvviso che ha sconvolto la loro vita apparentemente normale (Pierre Besuchov in Guerra e pace, il protagonista di Memorie di un pazzo di Tolstoj, Tolstoj stesso o Antoine Roquentin, il protagonista di La nausea di Sartre) e quelli che, invece, lo scoprono solo alla fine, di fronte alla morte (l’Ivan Il’ič di Tolstoj e il Meursault di Lo straniero di Camus); oppure quelli che hanno sempre saputo di esserlo e hanno agito di conseguenza: Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, ovvero un eroe nietzschiano che detesta la propria debolezza e che cerca di combatterla con un atto estremo. Un duplice omicidio. In tutti questi casi – ci dice Wilson – «il sintomo principale è l’odio per se stessi, il desiderio di fuggire da sé».

È proprio Dostoevskij l’autore che Wilson prende a modello per il suo capitolo intitolato “La grande sintesi”. Non solo, infatti, lo scrittore russo ha esplorato nei suoi romanzi tutti i vari tipi di outsider, dall’uomo-scarafaggio di Memorie dal sottosuolo a personaggi come Raskol’nikov, Myskin (l’outsider istintivo e “fanciullesco” di L’idiota) e Stavrogin (il ribelle di I demoni), ma li ha condensati in un’unica opera: «Ne I fratelli Karamazov è riassunto tutto ciò che Dostoevskij ha imparato dai suoi esperimenti precedenti in fatto di outsider. Ci ritroviamo, in una unica sintesi, l’uomo-scarafaggio, Raskol’nikov e Myskin. Essi sono, ovviamente, i tre fratelli Karamazov: Mitja, Ivan e Alëša, che rappresentano rispettivamente il corpo, l’intelletto e il sentimento».

È un po’ deludente, a mio parere, l’ultimo capitolo di L’outsider, intitolato “Spezzare il circuito”, in cui Wilson cerca di mostrare ai lettori delle soluzioni (o tentativi di soluzione) ai problemi dell’outsider, il che, per carità, è degno di stima. Il problema è che lo fa sprofondando in una sorta di misticismo da “manuale di sviluppo personale”, che a mio parere stonano con il resto del testo. Wilson cita prima Ramakrishna e poi si lancia in una spiegazione della cosiddetta “Quarta via” di Gurdjieff, un’alternativa ai percorsi tradizionali di lavoro sull’essere: la via del fachiro, la via del monaco e la via dello yogi, ovvero la disciplina sul corpo, sulle emozioni e sulla mente. «Gurdjieff insegna che ci sono quattro possibili stati di coscienza. Il primo è il sonno ordinario (la maggior parte degli esseri umani, ndr). Il secondo è la condizione in cui il borghese comune passa la propria vita; questo stato è chiamato – ironicamente, pensa Gurdjieff – “coscienza lucida”. Il terzo è il ricordo di sé (quello dell’outsider, ndr). Il quarto è la coscienza obiettiva (il saggio, il santo, ndr)». Attraverso degli esercizi specifici – che si insegnano in alcune scuole a pagamento – è possibile evolvere e passare da uno stato di coscienza all’altro. È chiaro che, dal punto di vista della soluzione proposta da Gurdjieff, la posizione dell’outsider si ribalta, essendo lui sì in una situazione di impasse, ma molto più vicino di noi comuni mortali alla condizione del santo.

Dite che se facessimo fare qualche esercizio spirituale a Bob Dylan, andrebbe a ritirarlo questo benedetto Nobel?

 

(Colin Wilson, L’outsider, trad. di Thomas Fazi, Atlantide, 2016, pp. 400, euro 35)

“R.I.P. – Ritorno In Platea”
di Luca Gaeta e Salvatore Rancatore

Una piccola impalcatura rosso fiamma dalla forma di una gigantesca poltrona, di quelle che si trovano vicino alle insegne delle località balneari, come una tiny house (una piccola abitazione dotata di tutto l’occorrente) accoglie l’attore e si fa contenitore di sogni e passioni. Si trasforma in un balcone dove poter curare una pianta grassa o eventualmente un bonsai, in una finestra da cui sporgersi nel caos cittadino, una ghigliottina per darsi il colpo di grazia. Si scherza con il prototipo teatrale per eccellenza, tirando fuori l’immancabile teschio amletico e condividendo una corona di plastica, con annessi brillocchi, solo per il gusto di ribadire che la vita può essere un gioco, o meglio in gioco: il frutto acerbo di decisioni, di promesse non sempre mantenute, di azioni che non tornano più indietro. Siamo sopraffatti dalle sferzate e dai manrovesci, collaudati nel suo ritmo senza posa eppure basta sapersi prendere e non smettere di voltare pagina e di imboccare la prossima avventura.

Capitolo conclusivo della trilogia sulle disavventure di un attore qualunque, dopo Confessioni di un burattino senza fili e #ALTROKESUPERMAN, Luca Gaeta e Salvatore Rancatore portano in scena R.i.p. – Ritorno In Platea con la sua carica di umorismo irresistibile, inguaribilmente elastico.

Tutto inizia dai primi passi: i primi vorrei espressi e non realizzati non rubano il sorriso sul volto, resistente e impavido, del nostro attore qualunque. Una saltafoss – bici da cross con le marce davanti alla sella – oggetto del desiderio del bambino che riceve in cambio una «Graziella da passeggio» diventa la metafora di un adattamento complicato a ciò che la realtà riserva, qualcosa che stenta a raggiungere il massimo. Della serie “la vetta spetta ai pochi eletti”. L’oscar sospirato dal protagonista ha le sembianze di una causa persa.

Lo spettacolo, condito dei toni della tragicommedia, diventa così l’ultima spiaggia per confidare le proprie mancanze senza farne un dramma. L’attore, Salvatore Rancatore, si confessa, schiacciato e deriso da una società affezionata alle “persone che contano” quanto il peso del loro denaro, affermandosi pur sempre come individuo. Tuttavia la condivisione dei propri pensieri e progetti con la platea non è sufficiente a riscattare l’amarezza di un’esistenza che non ha raggiunto gli obiettivi imposti dalla propria coscienza e non ha saputo realizzarsi.

R.i.p. con coraggio porta avanti la riflessione spinosa del ruolo sociale dell’artista, sottopagato come fosse privo di un mestiere concreto, come un funambolo sempre sul filo del rasoio tra il riconoscimento e la derisione.

Un’ottima interpretazione per Rancatore che, indossando le vesti d’attore, ironicamente si trova a sfoggiare un anonimo pigiama corredato, come sostituto del fiore all’occhiello, da una toppa a forma di emoticon in adorazione, con gli occhi a cuoricino. L’attore qualunque alla ricerca del pubblico in delirio conclude il suo ultimo spettacolo chiedendo l’elemosina. Dopo esser passato tra la gente col berretto in mano per ottenere monetine, Salvatore Rancatore torna sul palco, la gigantesca poltrona, e in piedi con gli occhi rivolti al cappio della ghigliottina decide di saltare. Le luci si spengono. Niente ribalta eppure gli applausi sono contagiosi.

 

R.i.p. – Ritorno in platea
di Luca Gaeta e Salvatore Rancatore.
Regia di Luca Gaeta

Progetto scenico Gianluca Amodio
Realizzazione scenica Matteo Barberini
Piano solo Melody Quinteros
Elaborazioni sonore Celeste Frontino
Sarto Antonio Bruni Ercole
Regista Assistente Fabio Ramiccia
Foto Giorgia Lucci

In scena al Teatro dell’Orologio dal 18 al 20 Novembre

Poster italiano di Animali notturni su Flanerí

“Animali notturni”
di Tom Ford

Sette anni dopo il più che apprezzato A Single Man, lo stilista Tom Ford torna dietro la macchina da presa per dirigere Jake Gyllenhaal e Amy Adams in Animali notturni, presentato, ancora una volta, alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria.

Venezia porta bene a Tom Ford, e gli vale sempre almeno un premio (nel 2009 era stata la Coppa Volpi per l’interpretazione di Colin Firth). Uno stilista con l’hobby del cinema capace di crearsi uno stile unico e riconoscibile con solo due film. Alla seconda prova, Ford colpisce per una maturità e una capacità di andare oltre l’evidente che dovrebbero essere proprie di un regista navigato.

Basato sul romanzo Tony & Susan di Austin Wright pubblicato in Italia da Adelphi, Animali notturni parte da un amore finito male.

Susan è un’importante gallerista unita senza gioia a un uomo che la tradisce e con cui condivide la ricchezza e le amicizie altolocate. Un tempo aveva un altro marito, Edward, che coltivava il sogno di diventare scrittore. Dopo una separazione difficile, i due non si sono più parlati per anni finché Edward non invia a Susan il manoscritto del suo prossimo romanzo. È una storia durissima di stupri e violenza da cui Susan non riesce a staccarsi, senza capire perché Edward abbia deciso di dedicarla a lei.

Animali notturni è due film in uno solo. Da un lato c’è Susan, che legge il manoscritto e cerca di capire, frugando nella memoria, perché Edward abbia deciso di spedirglielo. Dall’altro c’è il romanzo, che Ford mostra come un film a parte. Da un lato, quindi, c’è un thriller psicologico di introspezione raffinata quasi ai limiti del patinato, dall’altro c’è un western contemporaneo – ovviamente texano – di spietata crudezza.

A unire le due anime del film di Ford è la vendetta, la voglia di rivalsa di Edward su Susan. Quando quasi vent’anni prima il loro matrimonio era finito, Susan aveva ferito il marito due volte, tradendolo e dicendogli che non aveva la stoffa per diventare uno scrittore. Tra i due c’era una distanza sociale incolmabile: Susan di buona famiglia e destinata – e intenzionata – a rimanere nell’alta borghesia, Edward un normale ragazzo di umili origini con il sogno della scrittura. Vent’anni dopo, il romanzo di Edward diventa l’arma con cui ferire Susan, per farle sentire qualcosa, in qualsiasi modo, per farle vivere quello che viene raccontato nel libro. È il mezzo della rivalsa del povero contro il ricco, dell’abbandonato contro chi abbandona, dell’ultimo contro il primo.

Sospeso tra le due trame, Animali notturni conferma tutta l’eleganza del cinema di Tom Ford. Sul piano visivo, il film è impeccabile. Le due anime del racconto si svolgono parallele, alternando freddezza e orrore, buio e luce.

Il limite più grande Animali notturni lo trova nell’ambizione esagerata del suo regista, nella voglia di Ford di spingere la sua idea di cinema a un livello estremamente avanzato di fusione di generi. Così, nel tentativo di fare un film che sia allo stesso tempo thriller e melodramma, noir alla Lynch (l’inizio è una dichiarazione di intenti) e horror in salsa western, Animali notturni finisce per vagare nel buio delle idee sparse, pieno di spunti di grande suggestione ma senza una linea unica che riesca a dare una coerenza.

(Animali notturni, di Tom Ford, 2016, drammatico, 115’)

copertina di Lo schiavista su Flanerí

“Lo schiavista”
di Paul Beatty

Ok, non ci sono solo gli americani – per dire, la Francia in questi anni può vantare un numero di scrittori di razza assai nutrito e giustamente nelle ultime settimane da noi molto si è parlato di Volodine, Énard, Michon. Però, in attesa di trovare nuova linfa (letteraria) dalla vittoria del folle avversario della signora Clinton, gli statunitensi bianchi e neri non hanno smesso di scrivere – e bene, come nel caso di Paul Beatty, autore di un romanzo strepitosamente divertente (ma serissimo). Il titolo è Lo schiavista (Fazi, 2016), lo ha tradotto Silvia Castoldi – meravigliosamente.

Lì per lì ti pare stand-up comedy: il narratore s’imbarca in un prolungato, verbigerante e amaramente elegante racconto sulle proprie disgrazie di afroamericano invischiato nel classico “mare di guai”. Che però è tutt’altro che prevedibile – e il romanzo non è cabaret ma un lavoro dai tratti magistrali. Figlio di un assai maldestro ma impunito psicologo che nel ghetto alla periferia di Los Angeles – per una sua personalissima idea su come impegnarsi nella faccenda razziale – sottopone il bambino a farsesche prove senza ritorno, costui nonostante gli sforzi per rinnegare la sua educazione, da adulto non riuscirà a essere meno bizzarro. Al punto di finire in un’aula di tribunale, stravolto dalla marijuana, inviso a bianchi e neri (una nera «seduta in prima fila» se lo guarda «come un’appropriazione anglosassone remixata dalla musica nera»), difeso da un avvocato che le physique du rôle ce l’ha sì ma da delinquente (doppiopetto bianco, capsula d’oro fra i denti, stuzzicadenti posato con cura sul leggio). La causa? Aver tentato di riportare in auge – lui, nero scombiccheratissimo – la segregazione razziale. Riproposta diciamo “dal basso”. Un modo per reagire alla cosmesi urbanistico-culturale che, cancellando il ghetto, integra forzosamente la comunità nera al resto e la lascia vuota: di storia, di senso, di identità. Così mr. Me prende con sé un vecchietto – volontario, va detto – e si organizza per ripristinare con puntiglio la pratica della schiavitù. Il resto sta nelle trecento pagine di un racconto che solo un recensore convinto infantilmente di saperla lunga può scambiare per politically correct.

Laddove invece Beatty, autore coltissimo, descrive il paradossale (e insano?) scenario odierno in cui qualcosa sembra esser andato storto se neri di fama mondiale come Condoleezza Rice o Colin Powell firmano una pagina, il caso di dire, nerissima della recente storia americana (se l’Iraq vi dice ancora qualcosa). La narrazione è avvolgente, divagante solo all’apparenza – ricca di assoli linguisticamente vorticosi che si saldano bene ai fatti insensati che racconta.

Se volete una storia che va subito al dunque, Lo schiavista non è il libro che fa per voi – del resto perché nell’anno di grazia 2016 dovreste cercarla proprio in un libro? Diverso è il caso se invece siete disposti a farvi trascinare dall’intelligenza di una scrittura sferzante, capace di rispolverare l’arte della satira adombrandola nella capziosa compunzione di un autodafé tutt’altro che pacifico – pare girarci intorno, il narratore, ma l’esercizio della digressione di cui è chiaramente maestro si pone al servizio di una lettura serissima della questione razziale negli Stati Uniti di oggi.

Potete non fidarvi del trascurabilissimo recensore ma magari può convincerci la notizia che Beatty, in questi giorni in giro per l’Italia, in patria ha vinto prima il National Book Critics Circle Award 2015 e pochi giorni fa il Man Booker Prize – affari un tantino più seri di certi nostri imbevibili liquori.

 

(Paul Beatty, Lo schiavista, trad. di Silvia Castoldi, Fazi, 2016, pp. 369, euro 18,50)

“Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio”
di Riccardo Ferrazzi

Dopo un intero inverno passato a leggere e a conoscere le eroine mitologiche (Medea, Fedra, Antigone, Elettra, Pentesilea, Cassandra), ecco inciampo in Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio di Riccardo Ferrazzi (Fusta editore, 2016), un breve, brevissimo discorso sulle origini del mito in generale. Piccolo cammeo quello di Ferrazzi, un amabile e coinvolgente discorso su uno degli argomenti più misteriosi della storia. Quand’è nato il mito e perché? Quale esigenza umana vuole soddisfare e come si è evoluto nel corso della storia? E le sue radici, quanto delle sue radici permea i testi della letteratura contemporanea mondiale?

Leggere il saggio di Ferrazzi equivale a salire su una giostra del tempo. Un tempo remoto – trapassato remoto – che via via si avvicina alla pazza e sconclusionata età contemporanea e che con amabile destrezza e leggerezza, che non vuol dire superficialità della trattazione, presenta con il giusto tocco d’interesse e curiosità una carrellata impressionante di storie, leggende, avventure.

Ferrazzi suddivide Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio in tre sezioni: “Alla scoperta delle origini”, “Il mito dell’isola felice”, “I miti del futuro”. Non posso dire quale delle tre sia la più interessante e degna d’attenzione; nel momento in cui si è immersi nella lettura, il discorso fluisce spontaneo e rompe gli argini di una divisione con molta probabilità atta a circoscrivere, per quanto “impossibile” oserei dire, un argomento vasto, illimitato, indefinibile proprio perché aperto a ogni tipo di riflessione.

Ferrazzi non scrive un saggio accademico noioso e ridondante, non ha la presunzione di affermare la verità della sua ricerca; Ferrazzi affronta con passione un tema che, lo si sente, lo affascina e ne dà una definizione propria senza nulla attendersi dalla critica di un esperto o di un lettore qualunque:

«Come ogni altro prodotto letterario, il mito si perfeziona quando il processo della sua creazione non è più ricostruibile e la narrazione finisce per esemplificare un aspetto dell’animo umano come se un ignoto autore l’avesse ideata a questo scopo. Tuttavia, per quanto complicata sia la gestazione, in una certa misura è possibile intuire come si formarono vicenda e personaggi: dunque diventa lecito domandarsi se esista un percorso ricorrente e, per così dire, canonico nella creazione dei miti. […] Non esiste un metodo scientifico che conduca alla soluzione del problema. Il nucleo del mito va al di là della forma letteraria e persino al di là dei contenuti. Per ricavarne il senso bisogna prendere in considerazione le domande alle quali vuole rispondere».

Ferrazzi esordisce con il mito del diluvio universale, probabilmente il primo mito a essere stato plasmato ad arte dall’uomo per spiegare e giustificare la fine dell’ultima era glaciale e quindi l’inondazione cosmica che ha travolto il pianeta Terra. Però, dietro a questo fenomeno naturale, c’è molto di più: c’è la convinzione tutta umana che la calamità contingente sia una punizione, la giusta punizione, anche se incomprensibile, da parte di un padre superiore che conosce bene il concetto di lecito e illecito ignorato, al contrario, dall’uomo, o meglio dal bambino-uomo. Il senso di colpa, l’idea del peccato è un fatto congenito, un qualcosa con il quale nasciamo a prescindere dalla condotta che adotteremo in vita.

Segue il mito della rivolta contro il volere divino: Zeus contro il padre Crono, Prometeo contro Zeus e Adamo contro Dio. Gli ultimi due personaggi rappresentano l’emblema della ribellione illusoria di essere slegati, indipendenti dal principio soprannaturale al quale si oppongono.

Il mito antichissimo dell’Inferno e del Paradiso, la cui immagine concreta si delineerà grazie al mito greco di Odisseo sceso nell’Ade e, ancora di più, grazie al racconto di Platone, il quale, in La Repubblica, narra il mito di Er, un soldato morto durante la guerra in Panfilia, Asia Minore, che, tornato in vita, racconta di un’esistenza ultraterrena in cui giudici impietosi destinano in luoghi di gioia e beatitudine le anime di coloro che hanno condotto una vita irreprensibile e in luoghi di perdizione e sofferenza le anime di coloro che hanno condotto una vita ispirata a cattiveria e slealtà. Un racconto, devo dire, ricco di suggestioni dantesche anche se incredibilmente antecedente al divino poeta.

Infatti, la bellezza di questo breve discorso sul mito sta proprio nel suggerire e anticipare le possibili suggestioni che in un percorso di studi più o meno specialistico, possiamo avere ricevuto e metabolizzato. Così, di suggestione in suggestione, di rimandi letterari in rimandi letterari di varia natura, ecco attraversare l’intera gamma dei miti greci, del Basso Medioevo e del mondo moderno con Don Giovanni e Don Chisciotte, con Cristoforo Colombo e Napoleone. Ognuno di questi personaggi incarna un sistema di valori e di convinzioni, di paure e credenze strettamente legati all’epoca vissuta. Colombo e Napoleone, per esempio, e il mito del viaggio, dell’isola felice, una tensione continua a voler sfidare l’ignoto, le forze della natura (come non correre, leggendo di Colombo, alle coraggiose e sfrontate gesta di Ulisse o Ercole?), il limite umano per poi finire, immancabilmente, a riconoscersi e a inscriversi in preoccupazioni prettamente tali:

«E Napoleone? Di tutti i sogni e le ideologie che gli hanno prestato (L’Asia, la Rivoluzione, i Lumi, il Codice Civile, e chi più ne ha più ne metta) qual è la preoccupazione dominante nel chilometrico memoriale autoassolutorio di Sant’Elena? La più borghese, la più italiana: trovare una sistemazione a suo figlio».

Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio di Ferrazzi non giunge, in sostanza, a nessuna conclusione anzi, mostra i paradossi in cui la vita umana spesso si dibatte, perché l’esistenza è puro caos, non c’è nulla, in essa, di piano e ragionevole, la Storia è dominata dall’incertezza, non esistono garanzie di ciò che sarà o potrà essere, nonostante si studino piani abili e sagaci. La Storia è fatta di “varietà”, la stessa varietà di cui sono fatti gli essere umani: c’è chi decide di affrontare la vita da protagonista e chi da spettatore, chi da conquistato e chi da conquistatore, ognuno convinto di poter ottenere il successo o l’autoaffermazione nel suo modo, di poter afferrare così il senso dell’essere al mondo. L’importante è provarci: non importa il come, ma l’azione. In fondo, conclude anche Ferrazzi, il Mito, costellato di personaggi buoni o cattivi che siano, insegna questo: a provarci. Perché, la sostanza del concetto, resta sempre la medesima pur nel trascorrere dei secoli: chi non agisce mai, non può veramente dire di aver vissuto.

 

(Riccardo Ferrazzi, Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio, Fusta editore, 2016, pp. 144, euro 13,90)
Copertina di Le cose che non facciamo su Flanerí

“Le cose che non facciamo”
di Andrés Neuman

«Raccontare un racconto è saper tenere un segreto». Andrés Neuman, scrittore argentino cresciuto e maturato in Spagna, deve avere appeso questa frase nello studio dove scrive o, quantomeno, deve averla ripetuta come un mantra durante la stesura delle perle brevi che compongono la raccolta Le cose che non facciamo (Sur, 2016). Autore poliedrico, Neuman si cimenta in ogni sfida letteraria che gli capita a tiro: dal romanzo alla raccolta di poesie, dal racconto breve alla traduzione. Dopo quattro lavori sulla lunga distanza portati in Italia da Ponte alle Grazie, Sur ha tradotto i suoi racconti, brani che mostrano l’abilità dell’autore nel gestire il genere letterario più caro agli scrittori della sua natale Argentina.

Le cose che non facciamo contiene venticinque racconti, ognuno dei quali non include alcuna sbavatura o digressione che ne aumenti la consistenza. Ogni brano è diretto, tondo, di una stringatezza al limite del poetico. In ciascuna sezione è possibile percepire la passione dell’autore per le situazioni ordinarie che, per qualche strana ragione, si tramutano in incubi dialettici o in momenti epifanici. Nella prosa di Neuman non c’è spazio per il fantastico che faceva breccia nei lavori di Cortázar, perché l’autore resta sempre bene ancorato alla realtà, preferendone i lati poco esplorati, gli stravolgimenti e gli accadimenti inaspettati. Colpiscono soprattutto i componimenti più brevi, lunghi una o due pagine soltanto, in quanto capaci di essere fuliminanti ed emozionanti nell’arco di poche righe, come accade in “La felicità”, “La coppia perfetta” e nel racconto che dà il titolo alla raccolta.

Del lavoro di Neuman sorprende anche la varietà: in centocinquanta pagine l’autore riesce a toccare numerosi generi letterari, raccontandoli con una ricchezza di forme narrative a dir poco sorprendente. La lettura del libro è una sorpresa continua, anche all’interno della medesima sezione tematica. Ai brani ascrivibili alla corrente realista, si affiancano incursioni nel mondo del thriller e situazioni che paiono estratte da un romanzo a sfondo storico. Non mancano poi i “racconti sul raccontare” – appartenenti alla sezione Fine e principio del lessico – in cui ritornano più volte echi borgesiani e tentativi di esplorare l’atto dello scrivere e il suo esaurimento, come di recente hanno fatto anche altri scrittori brevi, dal cileno Alejandro Zambra all’americano George Saunders. Inoltre, alla varietà tematica si aggiunge quella tecnica, grazie a un utilizzo della sperimentazione ricco e variegato ma che non affatica mai la lettura. Neuman utilizza ogni possibilità che la grammatica gli consente al fine di inquadrare la storia dalla giusta prospettiva e di raccontarla con il giusto ritmo; persone verbali, punteggiatura e struttura narrativa sono gli ingredienti che l’autore adopera per realizzare una ricetta sopraffina.

Se è vero che ciascun narratore di racconti è un artigiano, ancor più di un romanziere, Andrés Neuman è un vero e proprio minusiere, attento com’è a dosare le emozioni e le parole attreverso cui le evoca. Lo scrittore argentino è in grado di gestire il ritmo di ogni singolo racconto nello stesso modo con cui amministra la componente emotiva interna ai brani. In alcuni racconti sembra avere la capacità di fermare il tempo (una lezione borgesiana bene assimilata), come nei pezzi inclusi nella sezione L’ultimo minuto, mentre in altri dona alle pagine un ritmo indiavolato, rendendo ogni racconto una cavalcata che lascia senza fiato – come nel caso di “Dare alla luce” (dieci pagine di flusso di coscienza senza un punto fermo) e di “Fuori non cantavano gli uccelli”, forse il brano più esilarante dell’intera raccolta.

I dodecaloghi che chiudono Le cose che non facciamo sono imperdibili tanto quanto i racconti che li precedono. Neuman non ha potuto fare a meno di dire la sua sulla didattica della narrazione breve, un tema tanto caro alla tradizione argentina – basti pensare al decalogo di Horacio Quiroga, reso celebre dalle lezioni di scrittura di Cortázar. Il lettore attento e appassionato di questi temi saprà cogliere, fra una voce e l’altra, riferimenti e storpiature di citazioni famose sull’arte del raccontare che Neuman ha disseminato qua e là nelle sue liste. Che siano un divertissement letterario pieno di citazioni o il succo del sapere di Andrès Neuman sul racconto poco importa, perché la qualità dei venticinque brani presenti nella raccolta parla da sola, consacrando l’autore come una delle voci più interessanti della letteratura contemporanea. Ma questo lo aveva già capito e predetto nientemeno che Roberto Bolaño alla fine degli anni Novanta.

 

(Andrés Neuman, Le cose che non facciamo, trad. di Silvia Sichel, SUR, 2016, pp. 152, euro 15)
Poster di Fai bei sogni su Flanerí

“Fai bei sogni”
di Marco Bellocchio

Liberamente ispirato al best seller autobiografico di Massimo Gramellini, Fai bei sogni, il nuovo film di Marco Bellocchio, racconta in modo poetico e personale la storia di un bambino rimasto orfano, costretto a fare i conti con l’assenza della madre e a trovare da solo la sua strada.

Siamo a Torino, è il 1969 e Massimo ha nove anni quando perde la mamma all’improvviso nel cuore della notte senza capire neanche come. Solo qualche anno dopo sarà il padre, messo alle strette dal figlio, a rivelargli, mentendo, che si è trattato di un infarto fulminante. Massimo cresce e diventa un giornalista (interpretato da Valerio Mastandrea). Dopo gli esordi nelle pagine sportive, va in Bosnia, nelle zone colpite dalla guerra come inviato speciale e cronista di guerra per il quotidiano torinese La Stampa. Al suo rientro in Italia, colpito da un attacco di panico, si reca al pronto soccorso dove incontra Elisa. La giovane dottoressa lo aiuterà ad affrontare la paura della verità e a mettere in luce il suo passato.

Fai bei sogni è un lungo viaggio che attraversa i decenni dell’anima del protagonista nella cornice di un’Italia legata alle proprie passioni (il calcio per Massimo) e al malaffare di ogni tipo (Tangentopoli). Prima il calcio, poi la passione politica, Massimo sembra sopravvivere con forza e determinazione. Eppure, il coraggio di vivere davvero, essere se stesso e accettare la verità sembra non trovarlo mai. Il suo io autentico sembra rimasto li, nei giorni dell’infanzia trascorsi con la mamma, tra vecchie canzoni e programmi televisivi, nelle sue fantasie infantili abitate da Belfagor, la protagonista della serie televisiva che affascinava la madre, unico e spaventoso fantasma che come una corazza non l’ha mai abbandonato, proteggendolo dal mondo esterno fino alla fine.

E così tra ricordi, verità nascoste, flashback sulla difficile infanzia di un bambino costretto a diventare adulto in una notte sola, e un presente troppo legato al passato, Fai bei sogni sembra indagare l’anima; un’anima limpida e trasparente che a volte si sporca. La vita del protagonista oscilla, assumendo tinte buie, tra i fallimenti del se, con i quali talvolta risulta più facile giustificarsi, e la vittoria dei nonostante, di chi ce la fa sgomitando, di chi decide nonostante tutto di diventare adulto.

Se da un lato la difficoltà maggiore per Marco Bellocchio sembra quella di riuscire a prendere le distanze dal racconto autobiografico di Gramellini, dall’altra la sua storia personale appare affrontata con grandissima dignità e coinvolgimento emotivo. Fai bei sogni non racconta solamente il tormento di una vita e l’ultimo augurio di una madre, ma riesce ad andare oltre, affrontando temi difficili come l’affermazione della propria identità, il rapporto con la fede, con le donne e perfino con il ballo. Quel tragico lutto che ha condizionato Massimo in tutto il suo essere e ha caratterizzato l’uomo che è diventato, viene affrontato dal regista prima come tormento e poi, successivamente, come sentimento. In questo, nella rappresentazione del passaggio fondamentale per la vita di ognuno di noi verso l’età adulta, Valerio Mastandrea aiuta il regista, con la sua interpretazione malinconica e a tratti un po’ triste.

A facilitare questa trasformazione anche il personaggio di Elisa, una sorta di angelo custode del protagonista, una presenza inaspettata ma perfettamente in armonia con il contesto, interpretata con dolcezza e cura da Bérénice Bejo.
Ancora una volta Bellocchio non smette di emozionare, esplorando i meandri delle famiglie disgregate e troppo instabili sentimentalmente e rivolgendosi, in particolare, a tutte le persone che nella vita hanno perso qualcosa di importante e hanno rifiutato per troppo tempo di accettare la realtà, finendo per perdere se stessi.

(Fai bei sogni, di Marco Bellocchio, 2016, drammatico, 134’)