Copertina di Conforme alla gloria su Flanerí

“Conforme alla gloria”
di Demetrio Paolin

«Testimoniare è fare male, nella dose minima ma sufficiente affinché ognuno capisca cosa è stato».

Conforme alla gloria di Demetrio Paolin (Voland, 2016), tra i dodici finalisti del Premio Strega 2016, è un dramma della coscienza. Mostra come la condizione di sopravvissuto trasformi chi lo è stato in una scacchiera su cui si svolgono aspri e sordidi combattimenti. A essere messa in scacco e a soccombere è l’anima: «Io sono tutta superficie. Cosa posso nascondere? Io sono così, se qualcuno mi guarda nel profondo non vede niente. Io sono solo il niente del mio corpo».

Il corpo, estremo confine del dolore e dell’estasi, è il vero protagonista del romanzo. Sono i corpi denutriti, umiliati, mutilati e disumanizzati degli ebrei prigionieri nei lager, un bersaglio perpetuo, un peso paradossalmente ingombrante da portare in giro, una macchia nella storia della Germania in particolare è mondiale in generale. Quei corpi sono lì a ricordarci che è necessario mantenere viva la parte più oscura della storia e della memoria umana, l’ombra sinistra dell’Olocausto: «Non hanno pietà. Non hanno nessuna compassione per il debole. Il debole va estirpato. Il debole è un virus che infetta il sangue. Il loro è un sangue grandioso, è quello che li spingerà all’immortalità». Niente deve essere dimenticato anche se lacera la coscienza dei sopravvissuti e dei figli di quella generazione maledetta.

Sono i corpi bruciati nel rogo della ThyssenKrupp. Da quel tetro passato alle tragedie dell’oggi, la narrazione procede avanti e indietro come una macchina implacabile che cerca di scrostare l’orrore.

Proseguendo nella lettura, si capisce che ci troviamo di fronte a un ingranaggio narrativo spietato le cui ruote dentate sono le rivelazioni relative al passato di uno dei personaggi principali, Rudolf Wollmer. È infatti la morte del padre, Heinrich Wollmer, ex guardia SS nel campo di Mathausen, a mettere in moto un assedio che progressivamente imprigiona Rudolf.

Il peso dell’eredità di questo padre rinnegato sarà molto più gravoso di quanto si possa in un primo momento pensare: «…la colpa, la vergogna, il disonore. Questi sono i doni che mio padre, prima di finire all’inferno, mi ha lasciato».

Se della casa dell’infanzia sarà facile sbarazzarsi, sarà invece impossibile per Rudolf liberarsi di uno strano quadro intitolato La gloria e di tutto ciò che esso rappresenta. Quasi come in una sorta di maleficio, Wollmer vede sfaldarsi, dissolversi la propria esistenza, diventare tutt’uno con la materia del quadro, una materia che è incarnazione letteralmente di tutto il male del mondo.

Quella tela cela un segreto inquietante di cui è custode un ex deportato torinese, Enea Fergnani, tatuatore e artista di body art. Come ogni sopravvissuto, è un uomo alla deriva, mai veramente tornato dal campo di concentramento, che attraverso le sue performance tenta di espiare la colpa di essere ancora vivo a discapito di altri: «Ci è semplicemente bastato sopravvivere a qualcosa di tremendo, ma poi? Abbiamo dovuto venire a patti, decidere cosa fare di questo eccesso di vita […] La nostra esistenza sarà il ricordo costante che gli altri sono morti e noi viviamo e guadagniamo soldi, mangiamo pranzi e cene in nome loro».

La sua vicenda è un susseguirsi frenetico di crudeli istantanee, di immagini e ritratti freddati in presa diretta sull’epidermide di Ana, modella anoressica, «sparita come corpo vivente, rimane la bellezza dei disegni che adornano un palinsesto di pelle».

Conforme alla gloria è un romanzo di presa di coscienza, ambientato in un’atmosfera sospesa di colpa, scritto con uno stile scarno e privo di orpelli. Si legge senza potersi staccare, narcotizza cuore e mente, confonde il male con il bene: «Il male non scompare con la morte di chi lo subisce, il male continua, sopravvive al disfacimento delle carni sofferenti. Filtra nelle esistenze di chi rimane, come il veleno nelle falde e intossica le acque, togliendo la vita».

 

(Demetrio Paolin, Conforme alla gloria, Voland Edizioni, 2016, pp. 400, euro 18)
Cover di Schmilco su Flanerí

“Schmilco”
degli Wilco

Cos’è successo a Jeff Tweedy e ai suoi Wilco? Il loro ultimo album, Schmilco, uscito a settembre, è stato spesso dibattuto e ha generato molte domande  all’interno della Redazione di Musica. Più o meno per tutti, è stata grossa la delusione. Dopo un periodo di reticenza nell’affrontare il discorso, Giada Ferraglioni, Valerio Torreggiani, Alessio Belli, Tommaso di Felice e Luigi Ippoliti hanno pensato che, nonostante Schmilco fosse palesemente un album minore all’interno della discografia della band di Chicago, il fatto che fosse ancora argomento di discussione meritasse un momento di condivisione e di confronto.  A due mesi di distanza le cose sono cambiate?

 

GF: Cari vecchi Wilco. Se c’è una cosa che mi aspetto da loro, è che riuscirò sempre a riconoscerli in pieno già dal titolo della prima canzone. E come a ogni ascolto di ogni album, dopo un primo momento in cui la voce di Jeff Tweedy mi porta a sorridere e a distendere la schiena sulla sedia, dopo aver superato soddisfatta le prime quattro/cinque tracce, mi ritrovo a pensare sempre la stessa cosa: che cosa diventerebbe l’intera discografia della band riprodotta in versione strumentale? Mentre Tweedy marca senza fatica tutto quello che sono, dietro di lui accade di tutto; e non ci vuole molto prima che la curiosità diventi desiderio. Non fraintendetemi, gli Wilco hanno il bisogno reale di un Jeff-Caronte con il cappello da cowboy che li traini nel mare del folk alternativo e del successo mondiale. Ma se Schmilco è qualcosa, oltre a essere un familiare e rassicurante ripasso della band, è l’ennesima riprova della grandezza tecnica sullo sfondo e del perché, grazie soprattutto a John Stirratt, Paul Sansone e Nels Cline, sono a oggi uno dei pochi gruppi per cui vale la pena pagare il biglietto sopra i trenta euro.

AB:  A proposito di pagare il biglietto, il sottoscritto ha ancora ben impresso cosa è stato quel fantastico live romano tenuto a luglio dagli Wilco e considerando quanto sia legato alle vicende musicali di Tweedy&Co. farò del mio meglio per risultare il più critico e obiettivo possibile. Diciamolo subito: Schmilco è un bel disco. Come diceva giustamente prima di me Giada, gli Wilco continuano a essere una band impeccabile e la loro maestria e classe non delude mai. Se il precedente Star Wars era un concentrato genuino e rockeggiante di brevi momenti schietti e diretti, Schmilco è l’esaltazione del lato country-acustico della band. Vi dirò la mia: è tutto troppo liscio e quieto in Schmilco. Preferisco Star Wars (le session sono le stesse), i suoi momenti di tensione purissima – “You Satellite” – al pacifico scorrere di quest’ultimo ravvicinato successore, sicuramente sopra la sufficienza, con pezzi in alcuni casi notevoli, ma che non aggiunge nulla (e nemmeno toglie, ovviamente) alla produzione Wilco.

VT: Non so se avete mai visto Amore e guerra, di Woody Allen. Nel film, a un certo punto, c’è una frase che fa più o meno così: «E c’erano il vecchio Grigorij e suo figlio, il giovane Grigorij. Stranamente il giovane Grigorij era più vecchio del vecchio Grigorij. Nessuno riusciva a capire come fosse andata». Ecco, questo nuovo disco degli Wilco dà un po’ la stessa straniante sensazione di essere fuori tempo e fuori luogo: più vecchio di se stesso, dei suoi più vicini predecessori e persino dei suoi modelli. Il che è tutt’altro che un merito. Forse è il successo che crea strani compagni di letto, ma sotto questa copertina pseudo-folk mi pare si sia consumato un deludente menage a trois di chitarrine banali, ritornelli scontati ed escamotage da quattro soldi. Pensate a “Commons Sense”, un tranello sperimentale che di sperimentale non ha nulla, e sta lì che gira su se stesso per tre minuti e mezzo che sembrano quindici. E temo che Giada s’illuda se crede che dietro Jeff Tweedy ci sia qualcosa che non sia soltanto un enorme, innocuo, deja-vu. Forse Alessio ha ragione: Schmilco non toglie nulla ai Wilco che furono. Certo però che noia.

TDF: Giada ha aperto una questione molto interessante: band per le quali vale la pena pagare un biglietto di (almeno) trenta euro. Per diversi motivi, tenendo anche conto del mercato musicale, penso siano davvero pochi i gruppi che meritano un tale sforzo economico da parte dei fan. Detto questo, gli Wilco e il loro Schmilco non credo rientrino più tra questi, purtroppo. Per assurdo, l’album è anche simpatico, piacevole nelle sue sonorità e nei suoi ritmi folk ma, facendo un paragone con i lavori precedenti della band, non possiede un’anima e si fa fatica a finirne l’ascolto. Davvero un peccato. Gli Wilco sembrano aver scelto una strada più facile e meno profonda, fatta eccezione per “Cry all day”, l’unico pezzo che davvero merita. È questione di sostanza, con Schmilco passerete un piacevole viaggio in macchina ma non rimarrà nei vostri ricordi come è stato per “Summerteeth” e i vari “Mermeid Avenue”.

LI: “Cry All Day”, Tommaso, mi sembra  un riassunto mediocre di qualcosa che è stato preso alla rinfusa da Yankee Hotel Foxtrot – che rimane il loro punto più alto –, risistemato un attimo e buttato dentro Schilmco. Ma in generale, tutto l’album sembra il tentativo della cover band degli Wilco che prova a fare sul serio gli Wilco scrivendo canzoni degli Wilco. Un giochetto che fa pure tenerezza che piano piano si trasforma in tristezza – non che alla fine mi aspettassi molto, non avendo neanche particolarmente apprezzato Star Wars, Alessio. Tweedy sembra rincorrere a fatica la sua voce, si muove in certi suoi schemi melodici che non dicono più molto oggi, appiattendo di fatto il tutto. Giada, probabilmente non avremo mai la risposta a cosa potrebbero essere gli Wilco senza di lui e probabilmente gli Wilco stessi non avrebbero più motivo d’esistere. Prendiamo ad esempio i Midlake di Antiphon senza Tim Smith: cosa sono? Sostanzialmente nulla. È molto probabile che non ne abbiano più. Ci sono dei pezzi che sono delle parodie di altri loro pezzi: la già citata “Cry All Day” (mi dispiace, Tommaso), “Someone to Lose”, “Happiness” – Valerio, rispetto a te sono più possibilista per quanto riguarda “Common Sense”: può sembrare una furbata, ma quantomeno è fatta bene. È triste dover assistere al probabile declino di un gruppo come gli Wilco, ma pare non abbiano più il guizzo, l’intuito, la creatività. Cose che sembrano ricercare negli altri: tipo in Joan Cornellà, che ha disegnato la copertina. Una grande rock band dal vivo, per cui vale ancora pagare trenta euro solo per il modo in cui suonano, e una rock band annoiata da salotti annoiati in studio, che non regge più il confronto con ciò che era.

Poster di Che vuoi che sia su Flanerí

“Che vuoi che sia”
di Edoardo Leo

Arrivato, con Che vuoi che sia alla quarta regia, Edoardo Leo continua a cercare il modo esatto di fare commedie con qualcosa in più. Un po’ di riflessione, sociale, un po’ di amarezza, di realismo. È un tipo di percorso su cui si sono affacciati tanti registi negli ultimi anni, per cercare di raccontare il Paese e le sue difficoltà, senza però rinunciare alla leggerezza, al gusto della risata, all’inno nazionale dell’arrangiarsi e del trovare un modo per farcela, comunque.

Anna (Foglietta) e Claudio (Leo) sono due più che trentenni/quasi quarantenni che non hanno niente di stabile nella vita se non il loro amore. Anna è una supplente in una scuola privata (800 euro al mese), Claudio un ingegnere informatico che pulisce i computer degli altri dai virus dei siti porno. Per tirare su qualcos’altro affittano una stanza allo zio di Anna (Rocco Papaleo), andato via di casa in un tentativo di modernizzare e riaccendere il rapporto con la moglie. Claudio ha un’idea per una startup per “svoltare” e tenta la strada del crowdfunding per mettere insieme i soldi per farla partire, ma i risultati non sono dei migliori. In una serata alcolica parte la provocazione della rabbia dettata dalla sbronza. In un video, Claudio dichiara al web che farà un sextape con Anna se raggiungerà la cifra necessaria per la startup. In poco più di due settimane raggiunge più di duecentocinquantamila e una popolarità che mai credeva di poter avere.

Edoardo Leo si è specializzato nel fare film in cui il protagonista, o comunque il suo personaggio, cerca un modo per fare soldi e uscire dalla palude del precariato e dei contratti a scadenza. Era così in Buongiorno papà (il pagliaccio) e in una forma diversa in Noi e la Giulia (l’agriturismo), per rimanere sulle sue regie. Era così in La mossa del pinguino (il curling), Smetto quando voglio (la droga) e tutto sommato pure in Perfetti sconosciuti (tutta una serie di idee). Qui punta tutto su una startup.

In una sorta di continuità ideale proprio con Perfetti sconosciuti, Che vuoi che sia torna a parlare della presenza imperante della tecnologia nelle vite quotidiane. Nel film di Genovese erano i telefonini, qui è il web 2.0, quello delle community, dei social network e della condivisione a tutti i costi. È per colpa del «popolo della rete» che uno sfogo filmato finisce per diventare una condanna e una fonte costante di dubbio. Perché di fronte alla possibilità di fare un bel po’ di soldi in un colpo solo le certezze vacillano. Anna e Claudio non vogliono vite incredibili, vogliono solo la loro normalità con uno spazio in più per la serenità di un figlio. Non vogliono diventare famosi, non vogliono smettere di lavorare, vogliono solo continuare a essere quelli di prima.

Caricato di ottime intenzioni, Che vuoi che sia parte da un’idea intelligente, attuale e di grande fascino che coniuga Proposta indecente e Black Mirror. C’è una riflessione su cosa si sarebbe disposti a fare per un po’ di soldi facili, una denuncia dello strapotere dell’opinione pubblica e dello “sharing”, della pressione sociale di una reputazione web quasi involontaria.

Per colpa delle troppe mani sul copione, forse (lo hanno scritto in quattro: il regista, Alessandro Aronadio, Marco Bonini e Renato Sannio), il film di Leo non riesce però a essere realmente compiuto. Troppo spesso l’intelligenza dello spunto di partenza si disperde in errori classici del cinema italiano, che vanno dall’ultracaratterizzazione dei personaggi (i giovani imprenditori del web) al bisogno troppo forte per essere tenuto a bada di infilare a un certo punto, a tutti i costi, un monologo moraleggiante sulla deriva della vita sempre connessa. Nella confusione delle migliore intenzioni a rimetterci è anche la recitazione, priva di spontaneità, di naturalezza. La scena della coppia di protagonisti ubriaca è al limite della vecchia comica e Anna Foglietta, in particolare, con filtro linguistico milanese non riesce a essere credibile.

È un peccato, perché Leo ha talento, dimostra film dopo film di essere in grado di raccontare delle storie di normalità estremizzata con la dovuta leggerezza. Che vuoi che sia aveva il potenziale per essere il nuovo Perfetti sconosciuti. Per noi, si ferma una decina di passi prima, il resto lo deciderà il botteghino.

(Che vuoi che sia, di Edoardo Leo, 2016, commedia, 105’)

Il caso editoriale di NN Editore

Iniziamo dalle facce. Bellamente schierate. Chi inchioda, chi svicola, chi sorride di taglio. Sono una squadra in mostra. Palesemente soddisfatta, di un’euforia in rilievo, che impugna una N non tanto come un totem, ma come un oggetto domestico. Un inquilino del quotidiano. Sono Eugenia Dubini, Alberto Ibba, Edoardo Caizzi, Serena Daniele, Alex Pietrogiacomi solo per citarne alcuni. Sono loro le identità esplicite di una casa editrice milanese fondata appena lo scorso anno che si chiama come Nessuno. NN Editore (qui il loro sito), dove “NN” sta per “nescio nomen”.

È nata così, innescando una chiacchiera tra Eugenia Dubini, Alberto Ibba, Edoardo Caizzi e Gaia Mazzolini, scomparsa lo scorso febbraio. Ognuno con i suoi interessi editoriali germogliati da tanto e intenzionati a fondersi. «Già da quella prima volta abbiamo iniziato a parlare della possibilità di dare inizio a un nuovo progetto, vedevamo degli spazi aprirsi e cambiamenti interessanti profilarsi all’orizzonte», ricorda in un’intervista Eugenia Dubini.

La volontà netta di NN Editore è quella non sottrarsi al proprio tempo, soprattutto al suo disorientarsi inesauribile, al suo rimescolare termini e confini. «Raccontare il mondo contemporaneo, […] mettere in luce, dare risalto a questo nodo, a questa confusione etica in cui siamo immersi».

Una ricombinazione costante di ruoli e contrappesi, in cui definire, da esigenza indubbiamente umana, diventa arginante, escludente, quasi rischioso. Attraente e dannoso.

Parlare di uomo e di donna, di madre e di padre e sentire in ciascuno di questi vocaboli una fragilità vertebrale pronta a far scricchiolare ogni crepa. «Il tema è il tema della letteratura per eccellenza […] così abbiamo deciso che per noi questo filo di ricerca e di proposta sarebbe stato un vincolo nella scelta, insieme alla qualità della scrittura, e da subito ci siamo confrontati, da forti lettori quali tutti siamo, sul cambiamento di prospettiva, sia come ruolo di editore oggi, sia come gusto del lettore».

E l’urgenza sanguigna di una plasticità costante, induce alla scelta di NN Editore di non ricorrere alle collane come sistema di catalogazione, ma di «strutturare il catalogo in serie, seguendo un filo tematico o un punto di ispirazione comune a ogni progetto, da proporre ad agenti, autori e infine ai lettori come filo conduttore e anche come percorso di lettura».

Libri divisi per Stagione di nascita (2015 e 2016), per naturale appartenenza a un autore, come La trilogia della pianura di Kent Haruf, deceduto nel 2014 e completamente ignorato in Italia, fino alla pubblicazione con NN Editore. Oppure per comune sensibilità congenita, come nel caso della serie Viceversa, improntata sul concetto del rovesciamento possibile, dell’abbattimento di margine tra bene e male, tra mattino morale e notte del peccato. Un terreno meticcio in cui le orme s’intrecciano e ogni passo contiene il suo opposto.

«Non più l’epoca per vizi e virtù impigliati in una scultorea definizione una volta per sempre: rigidi esatti rassicuranti. Nella società contemporanea, dove tutto è più fluido, liquido, mutevole e rapido, anche i vizi e le virtù cambiano di posto, di faccia, di forma e di sostanza. Ma il loro motore rimane la passione. Ed è lì che andiamo a frugare».

Libri dalla grafica sofisticata e accattivante, in cui permane sempre un’attrazione sospesa; e poi trame impreviste, distoniche e affabulanti.

Oltre al già menzionato Haruf, ecco i titoli che più di altri ci hanno colpito:
Panorama, di Tommaso Pincio. Vincitore del Premio Sinbad 2015. La vicenda di Ottavio, che s’innamora senza aver toccato. S’imbatte in Ligeia nell’eden gassoso di un social network e comincia a scrivere dopo aver solo letto per tutta la sua vita. E quell’amore impalpato sgualcisce il corso delle cose.

Anche noi l’America, di Cristina Henríquez. La sorte di Maribel, ragazzina messicana travasata nel Delaware dopo l’incidente che l’ha resa infelice.

Le cose che restano, di Jenny Offill. La famiglia di Grace, suo padre ponderato e stabile, sua madre ipnotica e borderline. La continua fame d’amore di una figlia verso sua madre, in costante squilibrio tra premura e distanza. Raccontato come una favola colpevole di troppa verità.

Il resto è affondare. Nelle pagine che ancora verranno e in quelle già intagliate. Nelle facce di tutte le storie. Grazie alle facce, sempre pronte, al riparo dai nostri occhi, di chi le sceglie e le cura come voci interiori, come odori di strada.

copertina di i fichi rossi su Flanerí

“I fichi rossi di Mazar-e Sharif”
di Mohammad Hossein Mohammadi

«Non sono riuscito a capire chi di noi fosse, neppure guardando i vestiti. Erano diventati un impasto di sangue e polvere». Sibila. Come il vento ostinato, la guerra si insinua in ogni fessura del tessuto umano fino a (con)fondersi con la quotidianità. I 14 racconti che compongono I fichi rossi di Mazar-e Sharif (Ponte33, 2012) sono un vero e proprio reportage di guerra in cui le parole prendono per intero il posto delle immagini. Tutt’altro che edulcorate, le storie narrate da Mohammad Hossein Mohammadi si caricano di una violenza senza filtri che non risparmia nessuno. Neppure il lettore. Quest’ultimo, infatti, è completamente travolto dalla scrittura evocativa che lo trascina in Afghanistan, a Mazar-e Sharif per la precisione; qui incontra assassini e vittime, genitori che piangono la morte dei loro figli, bambini che mendicano per strada, donne costrette a prostituirsi per mantenere la famiglia.

Nessun giudizio da parte di Mohammad Hossein Mohammadi. Mai. Non è importante; ciò che conta è narrare a 360° un paese in conflitto ormai da decenni e le relative conseguenze che si generano nella società stessa. A riguardo il primo racconto, “I morti”, è senza dubbio emblematico. Dopo una battaglia combattuta vicino l’aeroporto, un uomo si impossessa di un PK e decide di vendicare la morte del nipote e del marito della sorella. Gli sfortunati “prescelti” sono una famiglia proveniente da un villaggio vicino. L’episodio viene raccontato più volte, ogni volta da un punto di vista diverso; nessun ruolo è dato per scontato: i protagonisti sono dapprima coloro che vengono uccisi, poi gli abitanti del villaggio, infine l’uomo accecato dalla rabbia. Nessuno, tuttavia, può dirsi innocente o colpevole in modo assoluto. La netta demarcazione tra Bene e Male viene meno, per Mohammad Hossein Mohammadi, infatti, non può esistere laddove la morte violenta si confonde con la vita in modo così naturale.

La morte, dunque, è senza dubbio il filo conduttore che tiene uniti tutti e 14 i racconti – capitoli di un più ampio romanzo piuttosto che narrazioni separate – eppure il degrado che emerge talvolta è stemperato da attimi di felicità innocente che vengono dal passato. “Allah, Allah!”, per esempio, è un racconto straziante in cui il dramma di un bambino rimasto mutilato e per questo costretto a mendicare, scivola lungo la duplice dimensione temporale del passato e del presente. Questa si sovrappone costantemente e quando la realtà diviene troppo gravosa ecco subentrare il ricordo, l’unico vero rifugio ancora possibile.

Un buio denso ricopre la storia recente dell’Afghanistan; la lettura di I fichi rossi di Mazar-e Sharif di certo non conforta ma rende il lettore più lucido e consapevole.

 

(Mohammad Hossein Mohammadi, I fichi rossi di Mazar-e Sharif, trad. di Narges Samadi, Ponte33, 2012, pp. 137, euro 16)
Poster italiano di Sing Street su Flanerí

“Sing Street”
di John Carney

Tre film e una sola certezza. Dopo Once dieci anni fa e il troppo sottovalutato passaggio negli Stati Uniti con Tutto può cambiare, John Carney con Sing Street si conferma come il miglior regista musicale al mondo.

Con i suoi film, l’ex bassista dei The Frames ha trovato il modo migliore per parlare di ispirazione, di creatività, di passione e libertà attraverso la musica. Sing Street lega la curiosità musicale al momento fondamentale della crescita, andando a raccontare la realtà irlandese della metà degli anni Ottanta, con una realtà economica difficile e il sogno di Londra e dell’Inghilterra così vicino e allo stesso tempo così distante.

A Dublino, il quindicenne Connor vive in una condizione tutt’altro che semplice. I genitori non si amano più ma non possono divorziare perché la legge irlandese non lo permette. I soldi sono pochi e non bastano per pagare la sua vecchia scuola. Connor viene trasferito in un collegio cattolico a Synge Street, pieno di studenti minacciosi e preti maneschi. È lì che conosce Raphina, ragazza più grande di un anno che sogna una carriera di modella al di là del Mar d’Irlanda. È per conquistare Raphina che Connor mette su una band “futurista” per poter girare un videoclip in cui far recitare la ragazza. Nascono così i Sing Street, pieni di voglia di fare e di idee confuse sulla musica dell’epoca, tra new wave, new romantic e suggestioni di passaggio.

Grande successo al Sundance Film Festival, grande successo nella sezione parallela della Festa del Cinema di Roma Alice nella città, Sing Street ha tutti gli elementi per diventare un classico per gli amanti del cinema e della musica, nello stesso modo in cui aveva fatto School of Rock di Richard Linklater nel 2013. Ogni appassionato troverà di che gioire con una colonna sonora che mette insieme Duran Duran, The Cure, a-ha e molti altri.

La capacità maggiore di Carney, però, è quella di riuscire ad andare oltre la pura e semplice nostalgia per un’epoca musicale, in cui lui per primo si è formato, per realizzare un film (di cui è anche sceneggiatore) che riesce a tratteggiare un racconto di formazione convenzionale nelle sue evoluzioni eppure capace di catturare l’attenzione e la simpatia dello spettatore.

Il pregio di Sing Street è nel riuscire a nascondere la sua natura complessa nella leggerezza dei toni. Mentre Connor combia look a seconda della musica che il fratello maggiore gli fa scoprire, sullo sfondo si intravedono tracce del degrado della società irlandese, della violenza della povertà e dei preti, dello strapotere della chiesa e della paura per un futuro che appare impossibile. A John Carney, però, non interessava raccontare un’epoca con le sue crisi e le sue aspirazioni, ma una storia, tra le tante, di quei tempi. Attraverso la quotidiana e normalissima battaglia di Connor e dei suoi Sing Street per trovare un posto in un mondo migliore, si parla di musica, di crescita, di coraggio e amore, per le donne e i fratelli, di sangue e non, che accompagnano Connor verso il suo destino.

Come già nei suoi due film precedenti, la musica è la coprotagonista del film di Carney. Il regista l’ha composta mettendo insieme vari riferimenti alle band anni Ottanta, lavorando tra gli altri in collaborazione con Glen Hansard – già protagonista di Once e premio Oscar per la canzone “Falling Slowly” del film – e Adam Levine dei Maroon 5, nel cast di Tutto può cambiare.

(Sing Street, di John Carney, 2016, commedia, 106’)

Alla ricerca di nuovi autori:
i risultati del contest

Ecco i nomi degli autori selezionati direttamente dal contest Alla ricerca di nuovi autori, che leggerete sul prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività:

*Davide Coltri;
*Matteo Pascoletti;
*Francesca Morelli;
*Luca Franzoni;
*Laura Fusconi;
*Alessio Schreiner.

Ai racconti di questi 6 autori si andranno ad aggiungere quelli di Paolo Cognetti e Luca Ricci, due dei più noti scrittori di short stories in Italia, per un totale di 8 storie, che saranno illustrate da altrettanti artisti della scena creativa nazionale.

Cercavamo, come al solito, racconti meritevoli di essere letti e scritture capaci di rimanere impresse, che fossero una valida espressione della narrativa emergente contemporanea. Il lavoro di selezione, su circa 450 testi inediti giunti in redazione, è stato svolto dal nostro comitato di lettura attraverso confronti, discussioni e innumerevoli riletture.

Questo elenco svela solo una parte delle scritture che ci hanno colpito e convinto. Come già annunciato, i racconti inclusi nella rosa finale, composta di circa 30 autori, che non sono rientrati in effe #6 saranno pubblicati sul nostro sito, nella sezione di Altre Narratività, a partire da gennaio 2017. Sarà nostra premura avvisare per e-mail gli autori selezionati già nei prossimi giorni.

Adesso tocca agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui, da circa due anni, è affidato il lavoro redazionale del volume, prendersi cura dei racconti, in attesa di gennaio, mese in cui è prevista l’uscita di effe – Periodico di Altre Narratività #6.

Noi, da parte nostra, ci tenevamo a ringraziare tutti gli autori che hanno partecipato al contest.

 

Per rimanere aggiornati su effe – Periodico di Altre Narratività potete seguirci sulla pagina facebook di Flanerí o scriverci all’indirizzo e-mail: redazione@flaneri.com.

Copertina di Derive di Pascal Manoukian su Flanerí

“Derive”
di Pascal Manoukian

Basta poco per dissociarsi, per disconnettere una persona dalla sua storia. L’asiatico che vende le rose, l’immigrato est-europeo, il profugo nero: tutte figure umane che nella percezione comune rimangono appena abbozzate, con la vaghezza degli stereotipi a delimitarne le sfaccettature. Il percorso di vita, le aspirazioni, la cultura, l’origine sono dettagli irrilevanti – controproducenti, anche – nello stabilire delle distanze.

Derive di Pascal Manoukian (66thand2nd, 2016), però, spinge i lettori a scavare dietro tre storie di immigrazione – alle quali fanno da corollario una miriade di altre microstorie di partenze – per riassegnare un nome e una dignità a un gruppo di disperati finiti nel sobborgo parigino di Villeneuve-le-Roi. Come corpi alla deriva, che si lasciano trasportare dalle correnti, si affidano ai capricci del vento e delle acque e aspettano di sapere dove li condurrà il caso, così questa compagnia di clandestini in Francia si incaglia, affonda, risale, va incontro a mirabolanti colpi di fortuna. Stringendo un’allenza tra profili caratteriali e culturali che in altri contesti sarebbe apparsa improbabile, Chanchal, il venditore di rose bengalese, Virgil, l’operaio moldavo, Assan e sua figlia Iman, che scappano dalla guerra civile somala, si ritrovano ad appoggiarsi a vicenda nella lotta per trovare un lavoro, una casa e un posto nella società francese.

Le azioni si svolgono in un tempo ancora lontano dai numeri dei fenomeni migratori attuali: il 1992, un anno dopo la caduta dell’Unione Sovietica, lo scoppio della guerra civile in Somalia e il devastante ciclone tropicale che colpì il Bangladesh sudorientale. Guidati dalla cieca risolutezza di chi è sopravvissuto alla tragedia, i protagonisti di Derive sono gli apripista intraprendenti di un fenomeno destinato a prendere proporzioni smisurate, come profetizza Virgil rivolgendosi a un sindacalista: «Anche le cose che a voi sembrano più spente, per noi sono piene di luce! Più migliorate la vostra vita e più ci attirate come mosche. E questo è solo l’inizio, noi siamo solo i pionieri, i più coraggiosi. Vedrà, tra poco ci saranno migliaia di altre persone che seguiranno il nostro esempio e si metteranno in cammino da tutti i luoghi in cui gli uomini vengono trattati come bestie. Nessun muro sarà mai abbastanza alto, nessun mare sarà mai abbastanza burrascoso per trattenerli. Perché quello che di peggio c’è da voi, è comunque meglio di ciò che di meglio c’è da noi. Non potete farci niente, mi creda, quello che oggi è un lieve formicolio non è niente in confronto al prurito che sentirete domani».

Per anni Pascal Manoukian ha raccontato conflitti ed eventi attorno al mondo come reporter di guerra, e dalla minuzia nel tratteggiare i suoi personaggi si nota l’abitudine a osservare, ricordare, empatizzare con il dolore. Quelle del romanzo sono figure umane che si crede di conoscere abbastanza per poter predire come agiranno, salvo poi restare sorpresi dalle azioni inaspettate che la loro inventiva escogita quando subentra lo sconforto. Forse nell’evocare con tanta spontaneità le pene e le sfide delle migrazioni gioca un ruolo la storia della famiglia dell’autore, approdata in Francia dalla Turchia per sfuggire al genocidio del popolo armeno.

Scorrevole e ben costruito, Derive è un testo semplice, che arriva a tutti, e serve a sottolineare concetti che chi è assuefatto al benessere tende a soprassedere.

 

(Pascal Manoukian, Derive, trad. di Francesca Bononi, 66thand2nd, 2016, pp. 240, euro 17)
Poster italiano di Genius su Flanerí

“Genius”
di Michael Grandage

La figura del genio è sempre pericolosa quando arriva il momento di raccontarla. Si corre il rischio di esagerare, di perdere la misura e cadere negli stereotipi che rendono gli uomini di ingegno così affascinanti e sfaccettati. Genius, l’esordio alla regia di Michael Grandage, cade senza appello in tutti i trabocchetti che una biografia d’artista sa tendere, e lo fa fin dalla prima inquadratura.

Partendo dalla biografia di A. Scott Berger Max Perkins. L’editor dei geni, di grande successo negli Stati Uniti e ripubblicata lo scorso ottobre da Elliot, Genius racconta la storia vera del rapporto tra lo scrittore Thomas Wolfe e il suo editor Max Perkins.

Alla fine degli anni Trenta, Wolfe ha già fatto leggere il suo manoscritto Angelo, guarda il passato: La storia di una vita sepolta a tutti i più importanti editori di New York. Nessuno gli ha offerto un contratto. La sua ultima speranza è Max Perkins, l’editor della Scriber’s Sons che ha scoperto Hemingway e Scott Fitzgerald. Perkins rimane folgorato dal romanzo e inizia subito a lavorarci con Wolfe. Tra i due nasce un rapporto molto profondo che va oltre il piano professionale.

La prima inquadratura di Genius mostra Jude Law nei panni di Thomas Wolfe in piedi sotto il diluvio. Sta osservando il palazzo della Scriber’s Sons battendo nevroticamente il piede nella pioggia, stringendosi nel cappotto ma senza ripararsi dall’acqua. Il messaggio di Grandage è chiaro: qualora non lo abbiate già capito dal titolo, siamo di fronte a un film su un genio tormentato, tutto eccessi e sregolatezza.

Non c’è neanche un momento in cui Genius prova a evitare i cliché delle biografie d’artista. Le trappole del luogo comune e dell’eccesso non sono evitate ma anzi sono calpestate con lo stesso slancio di un bambino che si tuffa in una pozzanghera.

C’è la passione per la musica maledetta, per l’alcol, per le droghe, per gli eccessi in generale. Ci sono i viaggi, il ciuffo ribelle, i discorsi megalomani, l’affetto profondissimo che diventa ingratitudine e poi pentimento. C’è tutto quello, in sostanza, che ci si può aspettare da un racconto stereotipato.

Eppure Genius, che è stato presentato in concorso al Festival di Berlino 2016 per poi passare anche alla Festa del Cinema di Roma, aveva un potenziale. Un buon cast, con Colin Firth (Perkins) a duettare con Law e Nicole Kidman e Laura Linney a fare le donne di contorno, uno sceneggiatore importante come John Logan che ha lavorato con Scorsese (The Aviator; Hugo Cabret), Aronofsky (Noah) e Sam Mendes (Skyfall e Spectre), e un regista esordiente ma con un ottimo curriculum teatrale alle spalle.

Forse sono proprio i possibili punti di forza gli elementi di maggiore debolezza di Genius. Law e Firth fanno a gara a chi esagera. Da un lato Jude Law va sopra le righe subito e non riesce neanche per un istante a limitarsi alla normalità. Dall’altro Colin Firth punta tutto su una compostezza troppo rigida, senza mai un eccesso. Si capisce in fretta che Grandage non è in grado di gestire il film. Abituato all’impianto teatrale, il regista finisce per dimenticarsi che sta sfruttando un mezzo diverso e presenta Genius come se fosse un dramma. Passano gli anni, ma i personaggi sono sempre uguali, addirittura vestiti allo stesso modo, con Firth/Perkins sempre con il suo cappello in testa. Sembra passare una settimana, invece si va dal ’29 alla fine degli anni Trenta.

In un approccio narrativo che preferisce affidarsi a dinamiche molto più che già viste, come il rapporto tra Perkins e Wolfe che assume in fretta le sfumature di una relazione padre-figlio, Genius finisce per vanificare tutto quanto di interessante avrebbe potuto esserci nel racconto di un processo creativo a due, nel lavoro dell’editor che deve restare sconosciuto eppure è così fondamentale per lo scrittore. Neanche il fascino degli anni Trenta serve a qualcosa, neanche le apparizioni fugaci di Scott Fitzgerald e Hemingway. Come Wolfe con Perkins, Grandage avrebbe avuto un grand bisogno di qualcuno che gli dicesse cosa fare della sua opera prima.

(Genius, di Michael Grandage, 2016, biografico/drammatico, 104’)

“Angeli minori”
di Antoine Volodine

Ricordare i sogni è molto difficile, trascriverli lo è ancora di più. Portare sulla carta le esperienze oniriche, così come le turbe e i sobbalzi emotivi, è compito che soltanto i grandi narratori riescono a concludere in modo soffisfacente. Dato che il rischio di risultare astratti o inconcludenti è altissimo, la maggior parte dei tentativi finisce per sfibrare l’atto narrativo, mutandolo in un mero esercizio di stile votato al bizzarro o all’artificio di stampo borgesiano. Pochissimi sono dunque in grado di confererire alle loro opere un potenziale evocativo e atmosferico caratterizzato da bordi sfilacciati, trame inesistenti e al tempo stesso intricate, suggestioni talvolta orrorifiche talora accoglienti, ricorrenze stranianti. Pochissimi riescono a raccontare storie simili a sogni. Antoine Volodine è uno di questi.

Eteronimo di un autore francese di origini russe la cui biografia è ammantata di mistero e di multi-identità al pari della sua opera, Volodine è attivo ormai da molti anni oltralpe: si dedica alla pubblicazione di opere post-esotiche – corrente letteraria il cui manifesto del 1998, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze, è firmato da un pugno di autori dietro alla maggior parte dei quali si nasconde lo stesso Volodine. Il “loro” obiettivo è svincolarsi da ogni classificazione, compresa quella di letteratura avanguardista, per dare alle stampe opere senza radici e senza direzioni, provenienti da un altrove che ha sì punti di congiunzione con il nostro reale, ma che di fatto non lo rappresenta se non sottoforma di istantanee che, come illustra Volodine, «fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo».

Angeli Minori, datato 1999, è arrivato quest’anno in Italia grazie alla casa editrice romana L’orma, dopo aver conquistato il Prix Wepler e il Prix du Livre Inter in Francia. Si tratta di un’opera che la quarta di copertina e le recensioni bollano come visionaria e difficilmente classificabile, una storia sulla cui natura lo stesso multiforme narratore non esita, in prossimità della fine, a interrogarsi: «Uno strano romånce o semplicemente un ammasso di quarantanove strani narrat»? Di sicuro Angeli Minori è qualcosa di diverso dal filone distopico o post-apocalittico a cui tanti autori hanno attinto negli ultimi anni. Non è l’odissea violenta narrata da McCarthy in La strada, né la degradata metropoli che Paul Auster ha descritto in Il paese delle ultime cose. L’assenza di una trama vera e propria, così come la fratturazione della narrazione in tante unità denominate narrat, toglie al libro materia e lo spezzetta, permettendo all’autore di creare una rete di immagini in movimento il cui obiettivo è colpire in rapida successione l’immaginario, i ricordi, le emozioni e i sensi del lettore, ogni volta in modo diverso. Per cui non esiste obiettivo pedagogico, non esiste finale risolutivo e, soprattutto, non esiste un vero e proprio itinerario da seguire.

Che cos’è, allora, Angeli Minori? È un romanzo che permette al lettore, dopo cinque o sei capitoli, di non seguire più la trama (perché inconsistente) e di abbandonarsi alle immagini che l’autore proietta, un narrat dopo l’altro. L’atmosfera sembra levarsi da un mondo posto al di là del tempo e dello spazio, dove le regole fisiche e naturali hanno lasciato posto a qualcosa di simile alla magia. Accanto ai simulacri della nostra realtà (i dollari, lo spettro del capitalismo distruttivo, misteriosi campi segregativi, somiglianze col regime sovietico), si levano misteriose professioni (il regolatore di lacrime), agiscono sparuti gruppi di vegliarde immortali ed esploratori dell’ignoto e sopravvivono a stento i resti di un’umanità collassata su se stessa e ossessionata dai propri demoni. Spettri senza nome si aggirano in metropoli che ricordano la Pripjat’ spopolata dalla catastrofe di Černobyl’, in luoghi spaesanti che paiono usciti dall’ultimo trailer visionario di Hideao Kojima e in tempi diversi dal nostro presente, dove tutto è mutato tranne la propensione umana a provare (e a cercare) emozioni di qualsiasi tipo.

«I narrat lavoravano al fondo della coscienza in maniera musicale, per analogia, simultaneità, magia. Era in questo modo che agivano». Con Angeli Minori Volodine ha confezionato un vero e proprio capolavoro: un “romanzo di voci” (non dissimile, per certi versi, ai libri del Nobel 2015 Svjatlana Aleksievič) che parla direttamente al lettore attraverso le porte della percezione e che è un omaggio all’arte della narrazione attraverso la narrazione incessante, così come lo fu il lavorio di Shahrazād nell’epopea nota come Le mille e una notte. Non sappiamo chi sia con precisione Volodine nè dove ci porteranno in futuro gli “altri” autori post-esotici con la silloge a cui stanno dando i natali in questi anni, possiamo soltanto ringraziare questo autore di essere in grado di captare e trascrivere simili voci e sogni, provenienti non tanto dalle stelle cui soleva guardare un altro visionario (quel Dick così lontano eppur così presente nelle pagine di Volodine, soprattutto nelle inquietudini che attanagliano i personaggi), bensì da un altrove posto chissà dove e chissà quando.

 

(Antoine Volodine, Angeli Minori, trad. di Albino Crovetto, L’Orma, 2016, pp. 213, euro 15)

“Giorni selvaggi”
di William Finnegan

Prima ancora di concepire un articolo, solitamente, si annusa un po’ in giro. Quanto meno io lo trovo necessario. Scandaglio, rovisto gli umori di stampa, mi sbraccio parecchio tra cataste di giudizi e voti incipriati. E nel caso di Giorni selvaggi di William Finnegan (66thand2nd, 2016), premio Pulitzer 2016, molti dei pezzi compulsati per radunare un po’ di carne prima del banchetto, avevano un dato in comune. Grondavano di citazioni. Virgolettavano, sembravano solo un pretesto punteggiato per dare spazio a quell’enorme spuma di discorsi che stavano vagliando. Ma in realtà, l’impressione tra le mani era che stessero a guardare. Che non ci fosse altra scelta sul piatto se non quella di parlare del testo solo e soltanto attraverso di esso. Ma proviamo a dire la nostra.

In effetti il memoir di Finnegan è una marea effervescente, un carnevale acquatico (ma non acquoso) la cui stesura ha richiesto più di vent’anni. Biografia di un’ossessione e agiografia di uno sport, in cui l’autore racconta l’insolente storia d’amore tra lui e il mare. Non tanto come cornice liquida di narrazioni intrepide, ma come ingrediente uterino dentro le cui onde si consuma un mistero, un rito iniziatico, «un’eruzione di realismo magico». Così, tutti i suoi spostamenti, da Los Angeles alle Hawaii quando aveva tredici anni, i continui pellegrinaggi balneari dopo il diploma e l’università, il valzer di coste lungo cinque continenti, rimbalzando tra Fiji e Sud America, sono il fondale cangiante di una ricerca infinita.

Quella dell’attimo al confine. Dove non si appartiene a niente. Dove un altare di creste può innalzarti al di sopra del destino comune, dove il tempo accavalla le gambe e si aspetta la scossa. L’attraversabile. Trattare l’oceano come una bocca. E farsi inghiottire e uscirne vivi.

«Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto dei tuoi desideri e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica». E a questa dualità congenita Finnegan ha consacrato gran parte dei suoi anni più accesi. Sabotando e subordinando rapporti di coppia, relazioni familiari, progettando percorsi a misura di surf.

Praticandolo con fare liturgico, per cui quel riottoso primordiale elemento «era simile a un Dio insensibile, infinito nella sua pericolosità, dotato di un potere smisurato».

Ancora tante sue parole, splendidamente restituite nella traduzione corale di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini. Come quelle indispensabili per espugnare il cuore tecnico di questo sport. Moltissime, forse anche troppe per un profano della tavola, che fatica a destreggiarsi tra i gorghi di un gergo un po’ settario. Dal “set” allo “swell”, alla “zona di takeoff”, fino all’esame morfologico di ogni contesto d’azione: «Studiare in modo attento e scrupoloso un piccolo lembo di costa […] persino ogni singolo scoglio, in ogni possibile combinazione tra la marea, il vento e lo swell – uno studio longitudinale, che si rinnova di stagione in stagione – è l’occupazione di base di qualsiasi surfista nel suo break d’elezione».

Basta poco a comprendere che per Finnegan il surf è molto più di un’attività motoria, o di una posa noncurante da equilibrista degli oceani, con la faccia salata e la pelle indurita. Capire il mare vuol dire vendergli calcoli, occhi, attenzioni. Sezionare un’onda, galopparla ancora e a volte non sgominarla mai. È la missione senza scadenza. E questo, ben oltre le colate di nozioni ingegneristiche, è il dato saliente di Giorni selvaggi. Certo, c’è anche dell’altro.

C’è l’America, ci sono le isole, lo sterminato atollo degli anni Sessanta con le sue increspature, lo sciame psichedelico di musica, abbandono, deragliamento e sesso. L’istinto del viaggio come sintomo vitale. Il mondo che evolve o è convinto di farlo. C’è l’esistenza di un uomo che è sceso dalla tavola, ha pestato la terraferma e ha scelto di scrivere. Si è trasferito a New York, dove altre correnti l’hanno irretito. È diventato editorialista e reporter di guerra, si è affacciato e sporcato su scenari del conflitto: Nicaragua, Sudan, Balcani. Cercando motivi e sopravvivenze.

A sessantaquattro anni il corpo non si avvita e non guizza come quando si accontentava di un’auto prestata per addormentarsi. Ma Finnegan non ha smesso di surfare. Non vuole e non può. Si spoglia, afferra il suo strumento e chiede al mare di chiamarlo per nome.

 

(William Finnegan, Giorni selvaggi, trad. di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini, 66thand2nd, pp. 496, euro 25)

“Come ti scopro l’America”
di Emanuela Crosetti

Un itinerario da ripercorrere, tanti chilometri da macinare e un’instancabile curiosità. Sono questi gli elementi che danno vita alla meravigliosa avventura che la giornalista e fotografa Emanuela Crosetti racconta nel suo primo libro Come ti scopro l’America. Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark (Exòrma, 2016). Ciò che spinge l’autrice a intraprendere questo percorso di (ri)scoperta sono i diari dei due esploratori americani Meriwether Lewis e William Clark, ai quali il presidente Thomas Jefferson affida il compito di partire in direzione del selvaggio Nord America, in quella che è stata la prima spedizione alla scoperta del passaggio a nord-ovest.

L’autrice compie un viaggio in solitaria attraverso alcune regioni dell’America che restano tuttora quasi estranee al turismo di massa, percorre strade apparentemente infinite, si ferma in minuscole cittadine formate da un incrocio di vie, un motel e qualche casa, attraversa paesaggi di incredibile bellezza o di disarmante desolazione. Afferra i dettagli di una vita che scorre fin troppo veloce, tra fabbriche e colate di cemento, oppure assurdamente lenta, negli angoli polverosi della bottega di un rigattiere o fra i tavoli di un ristorante sulla strada. Sono 4000 miglia di bellezza, quelle che percorriamo in queste pagine: e non si parla di “bellezza” nell’accezione comune del termine, ma di quella bellezza che ogni viaggiatore solitario e irrimediabilmente appassionato di avventure estreme conosce. La bellezza delle parole rivelatrici di un incontro casuale in una tavola calda dall’aspetto improbabile, o quella che si avverte fermandosi dopo un viaggio di sei ore su una strada sconosciuta, ostile e spietata.

«Ma io l’America la volevo scoprire dentro le parole degli stessi americani, quelle che ti arrivano senza domande, incapaci di prendersi sul serio; quelle abbandonate sui banconi appiccicaticci di qualche diner o scivolate durante un interminabile e sperduto pieno di benzina».

La prosa sciolta, evocativa e ironica di Emanuela Crosetti è piacevolmente intervallata da spezzoni dei diari di Lewis e Clark, e ciò crea una sovrapposizione di due esperienze di viaggio e di scoperta straordinarie e decisamente simili tra loro, nonostante l’abisso temporale che le separa. A completare il tutto numerose foto in bianco e nero dei luoghi attraversati, anch’esse intrise di tutta l’immensità, il fascino e lo squallore di cui essi sono capaci.

«“[…] Sono sinceramente dispiaciuto di non aver portato con me la mia camera oscura grazie alla quale avrei davvero potuto sperare di fare meglio ma tutto questo è fuori dalla mia portata. Perciò è soltanto con l’ausilio della mia penna e della mia memoria che mi sono sforzato di tracciare alcuni degli aspetti più forti di questa vista, sperando ancora di dare al mondo una vaga idea di ciò che in questo momento mi riempie di piacere e stupore”. Lewis, 13 giugno 1805».

Una lettura che smuoverebbe anche l’animo più pigro e annoiato, da assaporare ascoltando gli album elencati alla voce “colonna sonora”, nelle ultime pagine. Schietto e imprevedibile, è un libro per lettori dalla curiosità famelica, che riflette alla perfezione l’animo del vero, insaziabile viaggiatore.

 

(Emanuela Crosetti, Come ti scopro l’America, Exòrma, 2016, pp. 360, euro 17,50)