Poster di 7 minuti su Flanerí

[RFF11] “7 minuti”
di Michele Placido

Parte da una storia vera, Michele Placido, per il suo nuovo film 7 minuti, una storia di coraggio e resistenza di un gruppo di donne costrette a scegliere tra la sicurezza dell’immediato e la dignità del futuro.

I fatti raccontati sono accaduti in Francia, a Yssingeaux. C’è stato un testo teatrale, poi, di Stefano Massina, che ha avuto un grande successo di critica e pubblico sui palcoscenici italiani. Adesso arriva questo adattamento cinematografico di cui Massina è cosceneggiatore insieme a Placido e Toni Trupia. Dalla Francia ci spostiamo nel basso Lazio, dalle parti di Latina. Al momento dell’acquisto di un complesso industriale tessile da parte di un colosso francese, le rappresentanti delle operaie sono chiamate ad accettare una richiesta dall’apparenza innocua: rinunciare a 7 minuti della pausa pranzo. Le operaie più esperte capiscono in fretta come dietro ci sia un discorso molto più ampio di dignità e iniziano un lento lavoro di persuasione sulle loro colleghe.

Un tema a dir poco attuale, quello del lavoro e della sua difesa, quello scelto da Placido per il ritorno alla regia a un anno e mezzo dallo scellerato La scelta. Cambiano i temi, cambiano i toni e i riferimenti.

Il modello evidente è La parola ai giurati di Sidney Lumet, per costruire un dramma da camera chiusa con una tensione crescente che si deve risolvere in una decisione finale. Lì per la vita di un uomo, qui per il futuro di trecento persone.

Sette minuti, nel bilancio quotidiano di chiunque, non sono niente, soprattutto se la scelta se conservarli o meno potrebbe valere il posto di lavoro. Sette minuti, però, sono la metà della pausa pranzo, che prima era di quarantacinque minuti, poi di trenta, poi di quindici. Rimarrebbero otto minuti, tra un turno e l’altro. Per lavorare si può anche accettare di avere meno tempo per riposare, oggi come oggi, ma che succede poi se chi dà il lavoro si accorge che sette minuti risparmiati ogni giorno su ognuna delle operaie fanno quasi 900 ore di lavoro in più a fine mese, 900 ore che magari non servono e a quel punto, anziché riallungare la pausa, possono portare a esuberi e licenziamenti?

7 minuti ha il merito di proporre, nelle intenzioni, un’immagine sincera, autentica e sofferta del mondo del lavoro di oggi, della fatica quotidiana di migliaia di persone chiamate per portare a casa uno stipendio.

Come capita spesso con le regie di Placido, però, c’è un divario netto tra l’ambizione e il risultato finale. Pur riuscendo a gestire con mestiere la tensione della trattativa tra le operaie, 7 minuti inciampa troppo spesso in limiti di retorica che si riflettono in un’infinità di piccoli aspetti del film, dai discorsi stereotipati alla rigidità dell’impianto teatrale da cui non riesce mai del tutto a liberarsi, fino al limite più grande: l’eccessiva caratterizzazione delle protagoniste.

Con un cast che mette insieme alcune delle attrici italiane più note del cinema italiano d’oggi, Placido finisce per disperdere il potenziale in dei tipi troppo marcati che non conoscono sfumature. Così, vedere Ambra Angiolini che fa la trentacinquenne arrabbiata, piena di tatuaggi e con la passione per la boxe, sembra una presa in giro, così come Violante Placido in sedia a rotelle con ciuffi bianchi che rimpiange i bei tempi in cui andava a correre al parco e non pensava a niente. Come se non bastasse, Maria Nazionale fa la napoletana caciarona e aggressiva che urla tutto il tempo (anche se urlano tutte, non solo lei) e le attrici straniere si limitano a dire che va bene tutto per tenere il lavoro e a cadere in trabocchetti narrativi classici, tipo l’africana che racconta la favola morale della savana.

A salvarsi da una recitazione incerta e sopra le righe sono solo Ottavia Piccolo, nei panni della rappresentante del gruppo – che già aveva interpretato il testo a teatro – e la sorprendente Fiorella Mannoia, a suo agio davanti alla telecamera più di quanto fosse lecito aspettarsi.

(7 minuti, di Michele Placido, 2016, drammatico, 88’)

“Il rumore della pioggia”
di Gigi Paoli

Una storia che ha il suo baricentro nel plot. Un giallo che si squaderna attraverso la concatenazione di eventi. Una velocità narrativa che colpisce. Parliamo di Il rumore della pioggia (Giunti, 2016), esordio narrativo di Gigi Paoli, ex responsabile della cronaca giudiziaria di La Nazione e – per ora – responsabile della redazione di Empoli.

Il romanzo, già nella top venti delle vendite, ruota attorno a Carlo Alberto Marchi, un giornalista fiorentino che si trova ad affrontare un inizio settimana con un traffico battente, una pioggia sferzante e un omicidio in via Maggio. Siamo in pieno centro storico e i carabinieri – una volta allertati – entrano in un negozio di antiquariato religioso, dentro un palazzo di proprietà della Curia, dove è morto il titolare. Un uomo, si scoprirà, dai contorni molto evanescenti che ha a che fare con i due poteri forti della città: chiesa e massoneria.

Gigi Paoli sceglie di portare avanti una storia nella Firenze attuale. Una città che diventa, a tutti gli effetti, un personaggio ben preciso. Ma le strade di questa Firenze – che non sono le strade scelte dagli altri giallisti fiorentini – conducono dritte a indirizzi molto temuti: dietro ogni porta c’è un grumo di potere che la curiosità del protagonista scopre per ricomporre un puzzle. Una storia portata avanti tra le stanze della procura e quelle del Nuovo Giornale, con un finale inaspettato e forte: dentro le pagine di Paoli ci sono molti elementi della cronaca viva dell’Italia degli ultimi anni.

Non ci si trova dunque di fronte all’invenzione per l’invenzione (come per esempio in certe pagine di Sandrone Dazieri). La scelta operata da Paoli si smarca da una denuncia della realtà (come accadeva nei primi romanzi di Giuseppe Genna). Paoli, insomma, quella realtà la racconta per quello che è: in maniera piatta. C’è un omicidio e un giornalista cerca di trovare notizie navigando tra magistrati, carabinieri, poliziotti, avvocati e cittadini.

La velocità narrativa di Il rumore della pioggia sembra ricordare molto più il passo dei giallisti americani. Se proprio si vuole andare a cercare un paragone, allora non bisognerà cercarlo in Scerbanenco, bensì nel ritmo sincopato delle pagine di Mickey Spillane, l’inventore di Mike Hammer, e nel tono canzonatorio usato da William Lashner.

Gigi Paoli ha in preparazione altri due romanzi. Segno evidente che Carlo Alberto Marchi sta per diventare un personaggio seriale, che si muove nel mondo del giornalismo investigativo col passo del cronista cocciuto e col piglio dell’uomo di strada.

Quello che insomma ha scritto Gigi Paoli è un libro che qualsiasi amante del giallo non può che apprezzare: le avventure lavorative ed esistenziali di Carlo Alberto Marchi sono un bel momento per chi ama leggere gialli dal plot serio e robusto, scritti in maniera ironica.

 

(Gigi Paoli, Il rumore della pioggia, Giunti, 2016, pp. 288, euro 15)

“2084” di Boualem Sansal e “Sottomissione” di Michel Houellebecq a confronto

E se ci fossimo noi al loro posto? Cosa sceglieremmo, come ci muoveremmo? Se fossimo noi François di Sottomissione (Bompiani, 2015) ci convertiremmo all’Islam per garantire, anzi, alzare il livello del nostro stile di vita? Se fossimo Ati di 2084 (Neri Pozza, 2015) andremmo oltre i confini del nostro pan-stato per scoprire se esiste qualcosa di diverso dall’Abistan e cosa fanno davvero gli Infedeli?

Scrivevo quest’articolo e cercavo le risposte, univo le trame e paragonavo i romanzi e le annesse vicende. La prima conclusione a cui sono giunto è che Sottomissione di Michel Houellebecq e 2084 di Boualem Sansal non sono due romanzi rivali, le due facce della stessa medaglia: uno è il seguito dell’altro.

In Sottomissione (ambientato nel 2022) abbiamo François, avvilito professore della Sorbona IV profondamente legato all’opera di Huysmans, costretto a fare i conti con l’avvento politico della Fratellanza Musulmana. Il partito, battendo alle elezioni la Le Pen, grazie a un accordo con i socialisti, nomina come capo del governo Mohammed Ben Abbes. Inizia così la sottomissione francese. Ma sia chiaro: non c’è violenza, non c’è Isis, non ci sono stragi e sangue. Houellebecq ci racconta di come il paese accetti e inizi a prendere atto del cambiamento e dell’annessa conversione.

In 2084 abbiamo l’Abistan, un impero esteso quasi quanto il globo, in cui l’unico Dio venerato si chiama Yölah e Abi è il suo profeta. Sappiamo che c’è stata una lunghissima guerra inumana e devastante ma ora l’Ordine è ristabilito, il passato cancellato e tutti venerano – chissà perché – il 2084. È in quell’anno che è iniziato il conflitto? È la data di nascita di Abi o è quando Abi è stato illuminato da Yölah? Nessuno – almeno all’interno dell’Abistan – conosce la risposta.

Ecco: e se la Francia di Houellebecq sfociasse nel mondo di Sansal? Se in nome di un dio o di una religione un popolo cercasse di prevaricare inesorabilmente l’altro, dando vita al peggiore dei totalitarismi?

2084 apparentemente è lontano da noi: il racconto è in terza persona, il narratore onnisciente e Sansal imposta l’opera come una narrazione persa tra le polveri delle ere. L’avvertenza iniziale è ironica e minacciosa allo stesso tempo e la divisione del romanzo in vari libri, ognuno con la sua introduzione, ci fa apparire il tutto come un reperto storico, quasi un ciclo biblico, una vicenda tratta da un arcano testo sacro. Abbiamo delle coordinate ma poi tutto il resto è sfumato, pericolosamente indefinito e qui il lettore inizia a porsi le prime cruciali domande: dove siamo? Siamo sicuri che sia un paese del Medio Oriente? Chi è che comanda davvero? Nonostante l’Islam e Allah non vengano mai nominati, Samsal ha ammesso di aver preso spunto dall’attuale e quotidiana situazione algerina.

Tutto l’opposto del solito Houellebecq. Poche pagine e siamo immersi tra le angosce del protagonista e i suoi pensieri sono anche i nostri. Siamo con lui e sappiamo cosa lo circonda: il culto e l’ammirazione per Huysmans (che si convertì al cattolicesimo in vecchiaia), il piattume sterile della sua carriera universitaria e sentimentale e la piega degli eventi in Francia. Se con Sansal si è trasportati poco a poco in un mondo lontano (sicuri?), con Houellebecq si è schiantati immediatamente nel turbinio degli eventi.

Cosa accomuna allora maggiormente i due romanzi? Le riflessioni sull’Islam, sulle ipotetiche conseguenze della sua espansione in Occidente e delle eventuali modalità di scontro.

Eppure nei due libri non c’è uno scontro diretto, una guerra nel senso stretto del termine, un impatto fisico, una collisione brutale e tragica. In Sottomissione c’è una normale scelta democratica espressa tramite il voto e in 2084 la guerra c’è già stata, appartiene al passato. Allora qual è il vero scontro? Noi (io), come affronteremmo tutto ciò? Posso dirvi come lo vivono i due protagonisti: se François ci appare sempre più oppresso e segnato dagli eventi, Abi ci appare molto più uomo d’azione e fautore del suo destino. François reagisce ai sismi politici con la fuga (prima della conversione); Abi fa l’opposto: dopo la drammatica convalescenza-prigione, la sua progressiva guarigione sia nel corpo che nell’anima, lo vediamo reagire prepotentemente contro il proprio destino. Affronta rischi, cerca risposte alle domande: chi sono questi Infedeli? Cosa succede oltre i confini? Davvero chi ci comanda è così affidabile? Ma soprattutto cosa significa quella scritta, Bigaye (che si legge Big Eye)? L’unico modo per saperlo è di andare incontro al pericolo, oltre un abisso che nessuno ha mai voluto scorgere. Non vi dico altro per non raccontarvi troppo.

Posso dirvi però come la penso io, cosa mi hanno lasciato questi due romanzi. Houellebecq avrà pure un talento innato nel farsi odiare e attirare su di sé le luci sbagliate, ma leggere la sua prosa è ambrosia e se si ama la vera letteratura Sottomissione appagherà non poco il lettore, soprattutto in alcuni dialoghi indimenticabili, come quello in cui si capisce il senso e il motivo del titolo dell’opera. Il pregio di Sottomissione lo ha centrato in pieno quell’altro peso massimo della letteratura francese e mondiale, Carrère: «Profetico non perché predice il futuro, ma perché enuncia una verità sul presente». Esattamente.

Sansal invece è più classico nel comunicare e istituzionale nel narrare anche perché la sua testimonianza è estremamente legata a episodi della sua vita: lo scrittore è stato fino al 2003 impiegato nel Ministero dell’Industria Algerino, ma poi i suoi scritti hanno generato parecchio rumore e Sansal è stato costretto a espatriare.

Chi è il più pessimista tra i due? Houellebecq piazza la sua distopia a qualche anno da noi ma non è così tragico, anzi: dimostra come la dote che ha garantito la sopravvivenza della razza umana sia l’adattamento. Sansal invece è cosmico, totale e il suo 2084 è in parte “attivo” già oggi: l’Abistan è il Mondo, la lingua è una sola e non esiste nulla all’infuori di tutto ciò. Se alcune delle pagine più belle di Sottomissione sono gli scambi di battute e di principi tra François e i suoi colleghi universitari, in 2084 è ancora più entusiasmante vedere Ati cercare il confronto, la ricerca dell’altro, qualcosa di diverso. François, oltre a Huysmans, non ha verità assolute, mentre Ati che è obbligato ad averne una, ne cerca altre, disperatamente.

 

(Boualem Sansal, 2084, trad. di M. Botto, Neri Pozza, 2015, pp. 256, euro 17)
Cover di 22, a Million di Bon Iver su Flanerí

“22, A Million”
Di Bon Iver

Tralasciando i giudizi di natura soggettiva e le questioni che ruotano attorno a un artista come Bon Iver – se sia realmente un nuovo pilastro della musica pop/folk o semplicemente una moda –, è difficile non ammettere che 22, a Million sia il suo album più coraggioso. E non solo per quanto riguarda la sua carriera, che oramai sta prendendo una forma ben definita, quanto rispetto al panorama musicale odierno dove, in linea di massima, c’è una certa tendenza a un appiattimento verso uno standard anche nella musica che viene accettata come alternativa – ultimo caso, per esempio, quello dei Kings of Leon con Walls, ma sono molteplici gli episodi di gruppi che si sono omologati, a un certo punto della loro carriera: alcuni portandosi all’estremo opposto rispetto a ciò che si pensava potessero diventare o potessero rappresentare per la musica pop, trasformandosi (e non si parla di numeri, di pubblico) in modo quantomeno discutibile, come è accaduto negli anni per esempio ai Coldplay (da Parachutes a A Head Full of Dreams) o ai Muse (da Origin of Simmetry a Drones).

Uscito cinque anni dall’ultimo Bon Iver, Bon Iver e a nove dal debutto, For Emma, Forever Ago, 22, a Million, nonostante non si distacchi completamente dal secondo lavoro, mentre è molto più netta la distanza quantomeno formale dal primo, è un complessa e sofisticata architettura che rende indubbiamente ostici i primi ascolti – l’uso massiccio della voce filtrata dall’OP-1 è terreno fertile per chi ha affrontato l’album con preconcetti negativi – e che affonda le sue radici proprio nel suo predecessore: l’uso dei fiati, la voce deformata dai filtri che sembra quasi camuffarsi con l’ambiente strumentale alle spalle, un modo di intendersi musicalmente che sembra essere contemporaneamente dentro e fuori questi tempi.

Osservando come siamo arrivati a questo elettrizzante ultimo lavoro, ci troviamo di fronte a un ragazzo poco più che trentenne che dal cantautorato folk quasi del tutto acustico di For Emma, Forever Ago, con un set molto scarno, una ritmica primitiva, incentrato quasi interamente sulla melodia e sul timbro vocale è passato a un lavoro d’insieme, Bon Iver, Bon Iver, con una grossa e fondamentale presenza della batteria – dal vivo, durante il tour, venivano suonate due batterie –, un’attenzione minuziosa per tutto ciò che rispetto al primo sarebbe stato solo decorazione e contorno ma che è diventata essenza, andando poi a creare nel tempo un vero e proprio suono (dettato dai fiati, dai violini e dai synth) che ha caratterizzato e che caratterizza il suono alla Bon Iver diventando realtà stessa di Bon Iver, a un lavoro, 22, a Million, che non è precisamente una sintesi di tutto questo; lo è, in parte, ma è soprattutto un salto in avanti, la consapevolezza di poter calibrare perfettamente dieci canzoni anche esagerando in alcune scelte – inserendo elettronica, distorsioni, filtri, rimandi a un certo mondo melenso degli anni ’80. Rendendolo anche se non propriamente non-melodico (un pezzo su tutti: “8 (circle)” è tra le cose più melodiche prodotte da Bon Iver), quantomeno di difficile interpretazione, straniante, come il singolo, “33 ‘GOD’”. Un’esagerazione misurata, che trova (e qui sta la grandezza di questo lavoro) una sua giustificazione nella coerenza stilistica ed estetica.

In qualche modo, quello di Bon Iver, è un viaggio che lo ha portato a spostarsi dalla natura incontaminata alla città e alle sue ipocrisie, dal Wisconsin, dalle camicie a quadri, dai laghi, dagli orsi, ai club berlinesi, agli hipster, ai cappelli hip hop.

La partenza di 22, a Million è fulminante: tre brani di neanche tre minuti e ciascuno in modo diverso di grande intensità. “22 (OVER S∞∞N)” è una ballata leggera che sembra tirata fuori dai Sigur Rós se non fossero cresciuti in Islanda ma a Londra ed è l’anticamera della ritmica compressa e ossessiva di “10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠”, che finisce nel new soul struggente di “715 – CRΣΣKS”, un brano che fa pensare al modo di fare di James Blake (da ricordare le recenti collaborazioni tra i due, “Fall Creek Boys Choir” dall’Ep Enough Thunder e “I Need a Forest Fire”, da The Colour in Anything).
La scelta di usare come singolo “33 ‘GOD’” avrebbe dovuto far pensare alle scelte artistiche che Bon Iver ha deciso di prendere: un singolo che è un non singolo e che esalta nell’intreccio di voce (qui si capisce come il filtro non è un eccesso, ma necessario per creare tensione), basso e batteria. “29 #Strafford APTS” sembra un gospel scritto da Elliott Smith mentre in 666 ʇ c’è la stessa forza della combinazione voce-ritmica che ha fatto da padrone in Bon Iver, Bon Iver (“Perth”, “Holocene”): una canzone destrutturata, presa e messa alla rinfusa, ma paradossalmente con criterio e incastrata alla perfezione in “8  (circle)”, brano più immediato dell’intero album, una sorta di gemella evoluta di “Beth/Rest”, un canto d’amore pieno di rimandi a atmosfere anni ’80. “____45_____”  è la classe dei fiati che fanno da contrappunto a una voce che cresce istante dopo istante e che sfuma come per magia in un arpeggio di banjo. Chiude come non avrebbe potuto fare meglio “00000 Million”, ballata al piano che sembra la riscrittura quasi dieci anni dopo di “4 Minute Warning” dei Radiohead.

22, A Million conferma Bon Iver come uno dei grandi musicisti del momento, un totem contemporaneo, un artista che è stato in grado di creare una propria poetica e una propria estetica, che ha generato una serie di epigoni (uno su tutti, Vincent McMorrow) e che negli anni non ha mai cercato di adagiarsi, prendendosi tutto il tempo necessario, provando e riuscendo a percorrere una strada che non permettesse di parlare degli album di Bon Iver come i classici album di Bon Iver che non aggiungono niente a Bon Iver.

Copertina di Sylvia di Leonard Michaels su Flanerí

“Sylvia”
di Leonard Michaels

«C’erano attimi in cui ci capitava di guardarci, mentre eravamo seduti a qualche metro di distanza in una metropolitana affollata, o a una festa, o nel flusso di una conversazione drogata con altre quattro persone nel nostro soggiorno, quando l’alba grigia iniziava a illuminare le finestre, e ci sorridevamo con gli occhi, come se fossimo imbarazzati dalla nostra stessa fortuna di stare insieme».

Sylvia (Adelphi, 2016) è un romanzo di Leonard Michaels che racconta la breve e lancinante relazione con la sua prima moglie, Sylvia Bloch. Appena quattro anni in sole 129 pagine, eppure Sylvia è un libro destinato a depositarsi dentro di noi, come certi altri libri della vita – di solito più corposi – in cui il tempo dilatato del racconto equivale a quello impiegato a sedurre il lettore. Il romanzo di Michaels invece ci arriva addosso come uno schiaffo a viso aperto, rapido e indimenticabile.

Mentre «Elvis Presley e Allen Ginsberg erano i re del sentimento e la parola ama risuonava come un proclama con la forza di uccidi», Leonard e Sylvia stanno insieme, uniti da un sentimento che non lascia spazio agli intrusi e si consuma tra le mura di un appartamento, nelle lenzuola su cui fanno l’amore «non bene, ma fino allo sfinimento» e occasionalmente sui marciapiedi del Greenwich Village, sui quali passeggiano in quei primissimi anni Sessanta. Su Sylvia aleggia lo spettro della follia, Leonard lo sa ma questo non gli impedisce di amarla, e così lo scrittore ci trascina nelle pieghe più intime della sua antica relazione, dove egli visse in funzione di Sylvia, immerso in un amore rabbioso, consapevolmente soggiogato al capriccio e privato della propria individualità. La trama è costruita su episodi scomposti della relazione, che ci vengono consegnati dall’autore come estratti dei diari di quegli stessi anni: l’incontro con Allen Ginsberg e Jack Kerouac, e quell’epoca di «pochi eroi» – Malcom X e Fidel Castro «dal leggendario coraggio» – rimangono però ricordi pallidi e lontani, sempre subordinati a Sylvia e alla quantità di parole a lei destinate, più taglienti man mano che ci si avvicina alla fine.

Ipnotizzati dal forte squilibrio che interessa i due protagonisti, viene facilmente da domandarsi perché l’autore abbia accettato le condizioni di quell’amore folle, tanto da arrivare a sposare la sua compagna. Allo stesso tempo però non si può negare si tratti di una storia piena di amore devoto e irreprimibile, e che la sua forza risieda proprio in questo: non nel sentimento di Leonard per Sylvia, quanto nell’universalità di quei suoi gesti incondizionati, così distanti dal naturale istinto di conservazione.

Così chi legge Sylvia finisce per dimenticare presto lo spunto autobiografico (che pure è sempre evidente) sbalestrato com’è dal moto ondivago di sentimenti intensi ma mutevoli, manifestati quasi sempre nello spazio piccolissimo di una stanza o di una notte.

Con una scrittura intensa e sincera Sylvia è un romanzo superbo, con angoscia e dolcezza è una storia capace di raccontare amore e follia insieme alla caduta libera in un precipizio.

 

(Leonard Michaels, Sylvia, trad. di Vincenzo Vergiani, Adelphi, 2016, pp. 129, euro 16)
Poster italiano di The Accountant su Flanerí

[RFF11] “The Accountant”
di Gavin O’Connor

Se c’è un merito che va riconosciuto a The Accountant, il nuovo film di Gavin O’Connor presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo l’ottima accolgienza di pubblico negli Stati Uniti, è quello di aver capito come sfruttare Ben Affleck.

Il buon Ben non è un grande attore. Forse non lo è mai stato, sicuramente non lo è negli ultimi anni. Troppo statico, troppo rigido. Solo David Fincher, di recente, aveva capito come sfruttarlo in Gone Girl – L’amore bugiardo, attaccandosi al sorriso da bravo ragazzo per farlo diventare un simbolo di ambiguità. O’Connor in The Accountant fa una cosa simile. Prende uno dei difetti che maggiormente vengono attribuiti ad Affleck, la scarsa espressività, e la fa diventare il motore del film.

Ben Affleck è Christian Wolff, un contabile autistico, più a suo agio con i numeri che con le persone, che conduce un’apparente vita normale nei margini della sua malattia. In verità, Wolff è specializzato nel risolvere i problemi finanziari di grossi gruppi criminali senza lasciare tracce. Quando viene assunto dalla Living Robotics, un’azienda che produce protesi all’avanguardia tecnologica, Wolff si ritrova al centro di uno strano piano che mette a rischio la sua vita. L’addestramento militare che aveva ricevuto sin da bambino diventa la sua unica possibilità di salvezza.

Christian Wolff, in pratica, è un supereroe. Dietro l’apparenza di una vita ordinaria, fatta di routine e tavole apparecchiate per uno, si nasconde una macchina da guerra capace di usare ogni tipo di arma e padroneggiare ogni arte marziale. Come nella tradizione dei supereroi, Wolff ha un’infanzia difficile minata dalla malattia, dall’abbandono della madre e da un padre militare che portava lui e il fratello in giro per il mondo sottoponendoli ad allenamenti spietati. Come ogni supereroe, Wolff ha un nascondiglio segreto, un’assistente e un codice etico.

Anzi, andando nello specifico, Wolff ha più di un elemento in comune con Batman. Diciamo che The Accountant è una specie di prova generale per il nuovo Batman, quello con la regia di Affleck che si andrà a infilare nell’universo cinematografico DC. L’identità inafferrabile, il senso spietato della giustizia (anche se questo contabile uccide), l’aggancio nelle istituzioni con J.K. Simmons, che curiosamente sarà il commissario Gordon.

Come nella tradizione dei cinecomic, The Accountant fa bene quello che deve fare, cioè offrire intrattenimento puro di azione, combattimenti, velocità. Come detto, l’inespressività naturale di Affleck trova qui un ottimo alibi nella sindrome di Asperger che lo rende credibile e animato da una determinazione illeggibile sul volto.

Non è che tutto funzioni alla perfezione, tutt’altro. Anche sospendendo ogni presunzione di giudizio realistico su un film del genere, si fa fatica ad accettare la duttilità estrema di Wolff, capace di fare qualsiasi, nonostante o grazie alla malattia, come si accettano a fatica alcune semplificazioni della trama, con il lunghissimo flashback nella parte centrale raccontato da J.K. Simmons. In generale, i flashback, che dovrebbero fare chiarezza sulle origini del personaggio, finiscono solo per spezzare il ritmo narrativo e creare un generico senso di confusione.

Rimane, però, che The Accountant è un action di sicura presa sul pubblico e con alcuni elementi che possono portarlo a distinguerlo dalla media del genere. Sembra tutto costruito per portare almeno a un seguito se non al lancio di una saga cinematografica in stile Jason Bourne.

Gavin O’Connor conferma di essere un regista a dir poco discontinuo, che alterna risultati sia in termini artistici che di incassi. Male nel 2008 con Pride and Glory, bene nel 2011 con Warrior, male l’anno scorso con Jane Got a Gun. Con The Accountant ferma l’altalena a metà. Una cosa è certa: i rapporti tra fratelli sono una costante dei suoi film.

(The Accountant, di Gavin O’Connor, 2016, azione, 128’)

Copertina di Vite Minuscole su Flanerí

“Vite minuscole”
di Pierre Michon

Di Vite minuscole, libro d’esordio di Pierre Michon, uscito in Francia nel 1984, si è parlato a lungo da più parti ma solo da poche settimane il romanzo è arrivato in Italia grazie ad Adelphi (il traduttore, bravissimo, è Leopoldo Carra).

Michon è romanziere sui generis, maestro di una narrazione minuziosa e assidua nella ricerca della precisione del dettato. Vite minuscole rinvia – secondo una tradizione minore più per celia che per convinzione – ai personaggi che lo popolano, per lo più di provenienza rurale e dal destino impegnativo quando non tragico.

L’origine è la stessa di Michon, il quale costruisce il libro attraverso otto biografie (immaginarie ma non troppo, trattandosi spesso di conoscenze empiriche dell’autore, parenti in prevalenza). Sono storie in cui i fatti contano – per fortuna – non più della scrittura, traccia piuttosto di una trama segreta che nelle più elusive ragioni di ogni singola vita (di un carattere, di una disposizione emotiva) cifra un cammino iniziatico del loro inventore.

Come lo stesso Michon ha dichiarato in più occasioni, con questo romanzo-mosaico ha potuto allentare la morsa dei dubbi, dei tentennamenti a rischio di velleitarismo che avevano seguito cupamente le sue fatiche di scrittore. Il che a un lettore medio potrebbe interessare fino a un certo punto, se non fosse che Vite minuscole conferma quanto per la maggiore parte degli scrittori veri sia necessario passare – e molti ci restano, non necessariamente sbagliando – per il proprio mondo originario. Lo stesso, nel caso di Michon, che lo ha tenuto per molto tempo ai margini della società letteraria e ai limiti dell’indigenza. Mondo-protagonista del libro se è vero che ogni vita procede dentro quello spazio, concentrata in poche pagine (Michon dichiara apertamente di prediligere le forme brevi), umbratile ma a suo modo accanita, spesso tesa verso una qualche forma di riscatto – anch’essa una sorte che Michon biograficamente condivide con i suoi personaggi (un po’ come la connazionale – da noi assai più nota e, a parere di chi scrive, meno convincente – Annie Ernaux).

Ma l’empatia di Michon è ingannevole (non falsa): non invita il lettore a una banale e ricattatoria compartecipazione delle disgrazie altrui ma le inscrive (letteralmente) in un disegno di prodigiosa fattezza stilistica. Una ricchezza di scrittura che va saggiata con pazienza, inadatta a un lettore frettoloso, capace di creare una realtà in apparenza fantasmagorica – virtù di una lingua barocca fino al concettismo (e, quali siano le vite implicate nel racconto, barocco è il repertorio di segni ricorrenti: ombre, deliri, sogni, specchi, “presenze truccate”, sfide impossibili…). Si tratti della sorella scomparsa da piccola, o di un bambino partito alla volta dell’Africa in cerca di un personalissimo, delirante miraggio, dei nonni perduti e colpevolmente negletti, o ancora di un prete ubriacone, Michon esibisce una maestria quasi pittorica non al servizio della meraviglia ma di un’intimazione ultima, nella quale ciò che è in gioco è la sopravvivenza almeno simbolica dei personaggi. Come nello splendido racconto – assai borgesiano a dire il vero – in cui il narratore, ubriaco, decide di vedersela con uno spaccone, un dongiovanni da taverna, per smontarlo da capo a piedi, salvo, una volta finito in ospedale per i cazzotti dell’altro, riconoscere in un vecchio deciso a rifiutare le cure dei medici un destino pericolosamente simile al suo: quello di chi teme – ed evita – il confronto con una lingua, un sapere, superiori ai propri. Lo stesso rischio che Michon dovette affrontare quando mise in gioco la propria parola di scrittore fra quella degli altri. Rischio mortale ma l’unico in grado di salvarlo.

 

(Pierre Michon, Vite minuscole, trad. di Leopoldo Carra, Adelphi, 2016, pp. 204, euro 18,00)
Copertina di Il cappello di Rembrandt su Flanerí

“Il cappello di Rembrandt”
di Bernard Malamud

«A essere sincero, sebbene abbia fatto resistenza all’idea, mi considero un uomo ansioso, il che, quando cerco di spiegarmelo, significa trovarsi a ogni istante già per metà in quello successivo. Se sto seduto sono impaziente, mi preoccupo inutilmente del futuro, e porto il peso di una coscienza sovrabbondante».

Quando ci si ritrova tra le mani un libro di racconti il territorio da esaminare può diventare spinoso, poiché, risolvendosi in tempi più brevi rispetto al romanzo, necessita di un’idea forte, di una minuziosa cura dei dettagli, di un’accurata selezione delle parole.

Raymond Carver sosteneva di apprezzare nei racconti la chiarezza e la semplicità ma non la semplicioneria, ed è in effetti questo il rischio maggiore che uno scrittore può correre, ma se a comporre una raccolta di racconti è Bernard Malamud il discorso cambia e di parecchio.

Il libro in questione è Il cappello di Rembrandt – pubblicato inizialmente nel 1973 e riportato nelle librerie a quarant’anni di distanza dalla casa editrice minimum fax nella collana minimum classics.

Nei racconti che lo compongono trovano spazio personaggi disillusi, remissivi, perfino cinici che tuttavia non abbandonano mai del tutto l’inclinazione alla speranza, alla possibilità di un finale diverso, inverosimilmente felice, che li salvi dall’abulia delle proprie cattive abitudini, dalla consapevole negligenza del viversi addosso, da se stessi.

Giorgio Fontana nella prefazione sostiene che «L’impossibile, in Il cappello di Rembrandt, permane sempre tale. Nessuno ottiene ciò che vuole, anche perché spesso non se lo merita. Eppure la sconfitta non illumina un mondo cupo e desolato, né si tramuta in accanimento: in ogni caduta c’è sempre una grande dignità».

È il caso del dottor Morris nel racconto “A riposo”, un pensionato che per combattere i demoni della solitudine azzarda goffe avances a una giovane donna avvenente e dai facili costumi, per poi essere mestamente deriso dalla realtà della sua vecchiaia; o dell’insegnante Albert Gans in “La corona d’argento”, che prova con ogni mezzo a salvare il padre ormai prossimo alla morte – spinto soprattutto dai sensi di colpa e da una pietà filiale maturata troppo tardi e troppo in fretta – fino a ricorrere alle dubbie prestazioni miracolose di un rabbino.

Anche qui la conclusione è facilmente supponibile, l’autore non ci lusinga con speranze poco plausibili e dunque la morte arriva, logica e avvilente, a farsi beffa delle debolezze e delle superstizioni di chi resta.

Ma il rapporto conflittuale tra genitori e figli lo ritroviamo anche in “Mio figlio l’assassino”, dove, in poche splendide pagine, emerge tutto il disagio di un padre che non riesce a comunicare e a farsi amare dal figlio chiuso in se stesso e spaventato dalla vita.

«Non puoi sconfiggere gli anni quando ti corrono dietro. Ma se sei in pensiero per un altro, non c’è niente di peggio. È una vera preoccupazione, perché se quello non ti vuol parlare, non puoi entrargli dentro per scoprire il perché. Non sai dove si trova l’interruttore da spegnere. Non fai altro che preoccuparti di più».

Malamud, dunque, in queste otto storie volutamente prive di eventi eclatanti, riesce ad allestire minuziosamente il teatro della natura umana: ogni figura si muove sulla carta in base alle sfaccettature e alle contraddizioni della propria indole, che spesso porta soltanto a una serie di soluzioni inesplose.

Alla fine di ogni racconto al lettore rimane la consapevolezza dell’inevitabile, come se ogni azione compiuta per alterare la condizione iniziale abbia modo di esistere solo nell’inconcludenza.

 

(Bernard Malamud, Il cappello di Rembrandt, trad. di Donata Migone, minimum fax, 2015, pp. 211, euro 13,50)

Il viaggio più misterioso di Rimbaud

Avendo letto molti libri su Arthur Rimbaud, credo che il solo approccio valido sia quello “misto”. Rimbaud è stato un uomo e un poeta unico, diverso da chiunque altro; non lo si può dunque trattare con assoluta oggettività, pena il ridicolo; ma il suo mito non deve abbagliarci né mutarci in agiografi. Occorre regolarsi come con le belve feroci: prudenza e saldezza, la cui somma realizza un equilibrio. Se abbassi troppo la guardia Rimbaud ti azzanna, se la alzi troppo ti sfugge.

Il libro di Jamie James Rimbaud a Giava. Il viaggio perduto (Melville edizioni, 2016), a cura del bravo Fabrizio Ottaviani, mi sembra in tal senso perfetto. James è un autentico appassionato di Rimbaud e dunque avverte: «Attento, lettore: subire il fascino di Rimbaud provoca un entusiasmo spossante». James prende le giuste misure alla belva e se non la ammansisce, neppure se ne lascia divorare.

L’opera indaga la pagina più oscura dell’assurda vita di Rimbaud: il viaggio a Giava. Nella tarda primavera del 1876 egli si arruolò nell’esercito coloniale olandese ma disertò due mesi dopo a Salatiga, un accampamento sulle pendici del vulcano spento Merbabu, nel cuore verde e umido dell’isola di Giava. Il suo nome, presente negli appelli di mattina e sera fino al 14 agosto, dal giorno 15 scompare; e con esso anche il suo proprietario. Abbiamo di nuovo notizie del poeta nel dicembre del 1876 quando si trova a Charleville, dalla famiglia. Il periodo compreso fra agosto e dicembre, durante il quale Rimbaud non scrisse lettere né lasciò tracce di sé, scava un buco nero.

James ricostruisce i tentativi, a metà fra eroici ed esilaranti, dei volenterosi che nel corso del tempo hanno provato a riempire quel buco. Paterne Berrichon, il balordo marito della sorella di Rimbaud, ipotizza che il poeta «errò nell’isola di Giava nascondendosi entro temibili foreste vergini dove gli oranghi gl’insegnarono a difendersi dall’assalto delle tigri e dalle sorprese del boa» finché «non sopportando più questa esistenza da primate, con la scaltrezza di un indiano trovò la strada per Batavia sbattendosene delle autorità».

Enid Starkie invece, basandosi sulle notizie a disposizione (quasi nessuna delle quali, ahimè, ben salda), compie un’analisi certosina dei biglietti navali internazionali per concludere che Rimbaud poté tornare in Europa (a Queenstown, Irlanda) solo sulla Léonie oppure sulla Wandering Chief. Si sarebbe spacciato per l’inglese Edwin Holmes; un uomo che, a giudicare dai registri, pare sbucato dal nulla e nel nulla rientrato. Si staglia però all’orizzonte un gigantesco problema: secondo la sorella Isabelle, Rimbaud giunse a Charleville il 31 dicembre; invece secondo l’amico Delahaye già il 9… I conti insomma, come sempre quando c’è di mezzo Rimbaud, non quadrano. L’affannarsi furibondo della Starkie (e di molti altri sia prima che dopo di lei) per forzare la mano al giovane ribelle fa concludere con sarcasmo a Jean-Luc Steinmetz che Rimbaud si diede a una «frenetica gara contro il tempo pur d’arrivare puntuale all’appuntamento coi futuri biografi».

Il libro, snodandosi come un’appassionante e divertente detective story, ne approfitta per dipingere il mondo orientale di allora e di oggi, ma va oltre. James fonde il tema del viaggio e del mistero col più generale quadro delle vicende e delle liriche dell’enfant prodige. Parte da pochi, ma ben chiari e condivisibili presupposti: «Non c’è niente che si possa affermare di Rimbaud il cui contrario non sia altrettanto vero. […] Il paradosso è l’unica costante. Le sue creazioni diventano più misteriose quanto più il lettore vi si avvicina». E con coerenza ne ricava: «Quanto più ci si immerge nella vita di Rimbaud, tanto più essa sembra un acrostico risolto a metà, in cui ogni nuova risposta rende dubbia la precedente. Però, dopo tutto, dire che è impossibile individuare l’itinerario percorso da Rimbaud nel 1876 per andare da Giava a Charleville non è così diverso dall’ammettere che è impossibile stabilire con certezza cosa significhi Il battello ebbro».

Per risolvere poi con amarezza, mista alla strana ammirazione che solo Rimbaud sa suscitare: «Pochi anni dopo, in Abissinia, l’ex poeta studierà scienza e ingegneria. Nel 1880 scrisse alla madre pregandola di inviargli ventisette libri, fra i quali alcuni trattati di metallurgia, idraulica, telegrafia nonché saggi dedicati ai piroscafi a vapore, alle immersioni in acque profonde e alla fabbricazione delle candele. La letteratura era completamente scomparsa dalle sue letture. Quante miglia, nel 1876, avesse attraversato dell’oceano che separa lo spirito dalla materia non lo sa nessuno, perché Rimbaud non lasciò traccia della sua vita interiore durante gli anni della sua personale Egira, prima che riconoscesse nell’Africa la sua destinazione finale».

Il buco nero insomma non è geografico ma psichico. James con acume osserva: «Nel periodo del viaggio a Giava l’esistenza di Rimbaud mutò così profondamente che a volte si ha l’impressione che, come in un racconto di E.A. Poe, un lugubre sosia abbia sostituito il giovane brillante che nel 1872 aveva sedotto Parigi». Del resto l’esperienza di Rimbaud possiede una concentrazione così sovrumana che i cambiamenti, più che succedersi, si sciolgono l’uno dentro l’altro, cosicché discernerli si riduce a un miraggio.

Nella postfazione del curatore, Fabrizio Ottaviani, un altro spunto mi colpisce. L’abbandono della poesia alle soglie dei vent’anni resta, dei tanti atti scandalosi compiuti da Rimbaud, il più enigmatico e affascinante. Io per parte mia ho sempre provato sana invidia nei confronti di questo ragazzo, capace di staccare la spina da un qualcosa – morto o vivo che fosse – di così grande; seppure infatti la musa lo aveva abbandonato (o lui aveva abbandonato lei), quante incrostazioni d’orgoglio, angoscia, gioia e dolore dové strappare a viva forza dal nucleo della propria anima? Quanto abisso dové ingoiare? Ottaviani avanza l’ipotesi, cui mai avevo pensato, che «dietro il nostro gridare allo scandalo si celi una forma obliqua di compiacimento. Anche lui, ci diciamo, è stato costretto a sbarazzarsi delle cose più notevoli che possedeva, e che lo intralciavano, per sopravvivere al pari di qualsiasi altra comune bestia darwiniana».

Ecco, non concepisco il brusco e irrevocabile silenzio di Rimbaud in simili termini; comprendo che lo si possa fare, ma non ci riesco. Per me vale l’opposto: la sua metamorfosi, benché tragicamente nichilista, lo innalza a vette inesplorate d’autocoscienza e lo scaglia in un luogo ignoto, dove ancor oggi ci attende. Abbracciare senza riserve la “rugosa realtà”, per un mistico del suo stampo, equivale ad aver già spezzato la schiavitù dalla materia. Ma, anche e soprattutto in questo caso, la verità «che forse ci sta intorno coi suoi angeli in lacrime» non la sapremo mai.

Poster italiano di Captain Fantastic su Flanerí

[RFF11] “Captain Fantastic”
di Matt Ross

Se ne sta parlando da un po’, di Captain Fantastic, il nuovo film di Matt Ross (una carriera soprattutto da attore) arrivato alla Festa del Cinema di Roma prima di uscire nelle sale italiane il prossimo 7 dicembre. Se ne parla da quando è stato presentato all’ultimo Sundance Film Festival per poi passare nella sezione Un Certain Régard dell’ultimo Festival di Cannes portandosi via il premio per la miglior regia. Ci sono stati altri festival, altri premi e giudizi generalmente positivi da parte della critica.

È facile capire il perché del consenso. Captain Fantastic è un film di grande e facile presa sullo spettatore, capace di guardare al mito statunitense della wilderness, della vita nelle terre remote, a contatto con la natura, senza rinunciare a uno spirito critico totale, sia verso la società tradizionale che verso le fughe alternative.

La famiglia Cash vive nei boschi del Pacific Mid West in un isolamento quasi assoluto. Il padre Ben insegna ai sei figli di età compresa tra i sei e i vent’anni come cacciare, pulire una preda, vivere a contatto con la natura. Ogni giorno c’è una sessione di allenamento fisico, il lavoro in casa, poi si leggono i libri che Ben assegna (roba tipo I fratelli Karamazov o saggi sulla teoria delle stringhe) e si canta e suona tutti insieme intorno al fuoco. Non c’è la madre, ricoverata in ospedale da tempo per una depressione che non si riesce a vincere. Quando arriva la notizia del suicidio, che Ben riferisce ai figli senza risparmiare nessun dettaglio, i Cash salgono su Steve, il loro scuolabus adattato a camper, e attraversano gli Stati Uniti per raggiungere il luogo del funerale. Il viaggio costringerà Ben a riconsiderare ogni aspetto della sua vita isolata, per il bene dei figli.

Viggo Mortensen ha dichiarato, presentando il film all’Auditorium di Roma, che il copione di Captain Fantastic è uno dei pochi ad averlo realmente colpito tra quelli letti negli ultimi anni. Sicuramente, ha un grande fascino, soprattutto per il suo personaggio. Ben Cash è un padre animato da un dispotismo illuminato che lo porta a credere di sapere sempre cosa sia meglio per tutti. Vuole il bene dei figli, ovviamente, ma il bene deve essere così come lo intende lui, senza deviazioni.

Non si rende conto, Ben, che un gruppo di ragazzini può provare il desiderio – soprattutto alcuni di loro – di vivere una vita normale, festeggiando il Natale, come tutti gli altri, e non il Noam Chomsky Day, di ricevere in regalo un videogioco e non un coltello da caccia, di sapere come è fatto un paio di Nike e non che Nike sia la dea greca della vittoria. Per rinunciare alla vita nella società normale sarebbe bene conoscerla, quella vita, poter fare una scelta che sia consapevole anche di cosa si stia rifiutando.

Matt Ross è riuscito a costruire un film che non manca di furbizia nel suo spirito di contestazione. Il rifiuto dei valori del sistema capitalistico standard, con qualche sparata di troppo del padre Ben mentre guarda i centri commerciali e i fast food, si accompagna per tutto il tempo con uno sguardo quanto meno perplesso sulle pratiche dell’educazione spartana che Cash riserva ai figli. Era il sogno condiviso con la moglie, solo che la moglie ha iniziato a ripensarlo e a stare male proprio quando è diventata madre.

Cercando sempre di mantenersi in equilibrio nella critica dei due modelli di vita, Captain Fantastic riesce a regalare sorrisi – molti – per le assurdità della famiglia Cash e qualche spunto di riflessione sull’importanza delle scelte dei genitori. Forse rimane un po’ troppo vago in un finale che sembra non voler scontentare nessuno, in una fusione tra utopia hippie e pragmatismo statunitense, ma si può accettare. Oltre a Mortensen, molto bene tutti i ragazzini.

(Captain Fantastic, di Matt Ross, 2016, commedia drammatica, 118’)

Cover di Walls dei Kings of Leon su Flanerí

“Walls”
dei Kings Of Leon

Correva l’anno 1970 e un giovane Greil Marcus scriveva su Rolling Stone a proposito del nuovo album di Bob Dylan, Self Protrait: «What’s this shit?». Non è l’ennesima triste e patetica polemica sul Nobel all’Everest della musica. Semmai è l’ennesima triste e patetica polemica sull’ultimo lavoro di artisti di un certo calibro.

Quattro giorni fa è uscito il settimo album dei Kings of Leon,WALLS (acronimo di “We Are Like Love Songs”), anticipato dall’uscita dei tre singoli che si presupponeva dovessero, come da tradizione discografico-economico-musicale, fornire un bignami dell’album in procinto di uscire sugli scaffali, virtuali e non. Nelle settimane precedenti al 14 ottobre sono apparsi su Spotify i pezzi “Waste a Moment”, “Reverend” e “WALLS”. Cos’altro dire se non: what’s this shit?

I Kings of Leon sono un gruppo di enorme qualità, questo è evidente almeno dal biennio 2003-2004, quando i quattro nipoti di Leòn diedero alla luce i loro primi due album d’esordio ancora meravigliosamente sporchi di terra del Sud, ma già con quella consapevolezza di far musica in un secolo diverso da quello dell’età d’oro di Nashville e Memphis. L’ultimo album non è all’altezza di niente di tutto questo, e non solo per il servizio fotografico discutibile che ha accompagnato la propaganda promozionale sui social. Con WALLS i Kings of Leon ci mostrano nient’altro se non cosa vuol dire essere mainstream al di fuori di una cornice pop (o almeno dichiaratamente pop): schitarrate e ritornelli da stadio – riempiti da chi il rock proprio non lo capisce, ma bisognerà pure andare a vedere qualche band dal vivo – alternati a pezzi acustici di un certo gusto melodico perfetti per il momento accendini.

Sia chiaro, non che i Kings of Leon si siano sempre tenuti lontani dal richiamo innico: basti pensare al sicuramente meglio riuscito Only By The Night del 2008, che accoglieva pezzi come “Sex on Fire”, “Use Somebody” e “Be Somebody”. In quel disco però (composto ormai quasi dieci anni fa) i Followill erano riusciti ad incendiare con criterio l’energia sofisticata dei due album precedenti (i favolosi Because of the Times e Aha Shake Heartbreak). Il risultato, tutt’altro che deludente, aveva fatto sì che potessimo tutti esserne quantomeno divertiti ed elettrizzati, tenendo ben a mente l’indole dei Kings of Leon e la loro capacità di integrare lo spirito “post” di un rock ultracontemporaneo con il rimando alle radici del Tennessee – coscienza che li aveva portati da un tanto splendido quanto ruvido Youth and Young Manhood (con le sue “Happy Alone”, “Joe’s Head” e “Genius”) alla fioritura (come da copertina) in Aha Shake Heartbreak, e alla consacrazione nel panorama indie/alternative con Because of the Times (“Knocked up”, “Ragoo” e l’inarrivabile “Ariziona” di chiusura), dove i Kings of Leon sembravano aver capito definitivamente l’intima sovranità del basso sulla chitarra, senza dimenticare a casa nessuno strumento del rock.

Lo scenario che apre WALLS è anni luce da tutto questo. WALLS attinge dall’acquasantiera dell’indie-pop e ne esce nella sua versione più abusata. Con “Waste a Moment” piazzata subito a inizio disco, la band sembra ben convinta a confessare con le mani in alto. Non c’è che dire, dopo due o tre ascolti ci si ritrova facilmente in cucina a canticchiare «woha-hooo / take your time to waste a moment», come una hit qualunque, senza fare o dover fare troppa attenzione alla struttura musicale (piuttosto standardizzata e appiattita, appunto, su cose già sentite e risentite).

Per trovare qualcosa di buono nel nulla assoluto bisogna scendere ancora di altre cinque tracce, dove un’interessante “Muchacho” – nonostante il titolo – salva l’album dal lancio nel tritarifiuti, con i suoi vaghi rimandi ad una ipotetica versione semplificata di “Eldorado” di Neil Young. “WALLS” in chiusura è, se non superiore, almeno diversa dall’andamento musicale del disco; eppure non stupisce trovarla lì alla fine a sfumare la banalità dell’intero lavoro nello spicciolo sentimentalismo.

Insomma, la versione da H&M dei southern boys ha lasciato con l’amaro in bocca chiunque si aspettasse quantomeno una ripresa da Come Around Sundown – per quanto non fosse un album totalmente da dimenticare – apparsa in parte nel 2013 con Mechanical Bull. Sarà per questo che la gran parte della critica non ha fatto che tacere durante tutta la prima settimana dall’uscita del disco?

Poster italiano di Manchester by the Sea su Flanerí

[RFF11] “Manchester by the Sea”
di Kenneth Lonergan

È destinato, con ogni probabilità, a essere l’outsider della prossima corsa agli Oscar, il film indie che si porterà a casa nomination e trofei tra i vari premi di Hollywood. Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan è un melodramma di sentimenti trattenuti spinto da interpretazioni di primo livello.

Lee Chandler vive una vita senza troppe gioie lavorando come factotum per quattro palazzi nella periferia di Boston. Fa l’idraulico, l’elettricista, tutto quello che serve. Vive in una stanza seminterrata, ma a lui sta bene così. Quando riceve la notizia della morte del fratello Joe, sale in macchina e torna a Manchester by the Sea, il villaggio di pescatori dove è nato e cresciuto. Lì scopre che il fratello gli ha lasciato in affidamento il figlio adolescente Patrick e con lui la possibilità di riappropriarsi di una vita interrotte dopo un drammatico incidente.

Kenneth Lonergan è arrivato con Manchester by the Sea solo al suo terzo film come regista e sceneggiatore in una carriera di quasi vent’anni. Il suo esordio nel 2000 con Conta su di me aveva già fatto capire di essere davanti a uno dei potenziali più interessanti del cinema statunitense. Poteva diventare da subito un nome da segnarsi, ma Lonergan e preferisce prendersi i suoi tempi, maturare i film con calma.

Manchester by the Sea è il frutto di una riflessione sul tema della perdita. Lonergan è tornato a scrivere e dirigere un film sei anni dopo il travagliassimo Margaret (una post-produzione lunghissima, senza budget, e alla fine una distribuzione molto limitata che non lo ha portato neanche in Italia, nonostante un cast che includeva tra gli altri Matt Damon, Mark Ruffalo e Jean Reno). L’idea di Manchester by the Sea è venuta a Matt Damon, che avrebbe anche dovuto dirigerlo, e a John Krasinski. Poi a un certo punto i due hanno deciso di ritagliarsi solo il ruolo di produttori e hanno chiesto a Lonergan di portare avanti il progetto.

Lonergan è riuscito a dosare la forte dose di dramma presente nel materiale narrativo passandola attraverso due filtri. Da una parte la distanza emotiva, sottolineata da una regia che non cerca mai il primo piano o la ripresa a effetto, dall’altra l’ironia che si nutre dei dialoghi quotidiani dei protagonisti.

Le ragioni dell’apatia di Lee Chandler si rivelano solo un poco alla volta. Ogni tanto appare un flashback che lo mostra felice, con una donna, dei bambini. Quello che è successo si scopre solo a metà film. È una costruzione lenta, che si prende il tempo necessario per far capire. Del resto, a Lonergan non interessa commuovere lo spettatore ma renderlo partecipe dei vari strati di dolore che cadono uno sopra l’altro sulle spalle dei suoi personaggi. Il dramma delle urla, degli strepiti, è tenuto lontano perché non appartiene alla vita reale. La vita reale è quella che ogni giorno si deve confrontare con le conseguenze di quello che è successo. La vita reale è quella che nonostante tutto riesce a ridere, che porta un adolescente che ha appena perso il padre a dividersi tra due ragazze, a suonare con la band e a cercare di capire uno zio silenzioso.

Se ci si sofferma sulla trama e sui singoli elementi che compongono Manchester by the Sea non sarebbe sbagliato dire che siamo di fronte a una variazione sul tema già abbondantemente analizzato al cinema del dolore e del riscatto. La grandezza delle storie, però, è sempre anche nel modo in cui vengono raccontate. E Lonergan è un grandissimo narratore.

A questo bisogna aggiungere che a vedere Manchester by the Sea si hanno due certezze immediate. La prima è che Casey Affleck è uno degli attori migliori in circolazione quando si tratta di interpretare ruoli in sottrazione continua. La seconda è che Michelle Williams, anche quando ha un minutaggio sullo schermo molto ridotto, contribuisce sempre a innalzare la qualità complessiva di un film. Tra di loro c’è tutta la tensione che ci deve essere fra due persone che hanno condiviso tutto prima di perderlo ma che rimangono, in qualche modo, comunque legati. Il loro dialogo finale, pieno di cose che non si riescono a dire se non con il silenzio e le lacrime, è un saggio breve su come andrebbe scritto una scena e come andrebbe interpretata.

(Manchester by the Sea, di Kenneth Lonergan, 2016, drammatico, 140’)