“Vangelo Yankee”
di Nicolò Gianelli

Se On the Road di Jack Kerouac è stato uno dei libri simbolici degli anni Cinquanta americani, una specie di Bibbia per intere generazioni di ragazzi che intendevano sovvertire le convenzioni, lanciandosi per le strade di una nazione geograficamente sterminata, culturalmente variegata e inafferrabile, Vangelo Yankee. America non è (’round midnight edizioni, 2015) di Nicolò Gianelli, prematuramente scomparso nel luglio 2015, condivide la stessa dimensione mitica di un viaggio attraverso le sconfinate distanze degli Stati Uniti senza altra speranza che quella vana di esorcizzare l’ansia e il male di vivere, inseguendo una vita meno scontata e priva di senso.

Vangelo Yankee è l’ultimo lungo sogno letterario di Gianelli: «L’America non è solo un continente. Non è solo la terra, le rocce, le spiagge, le sequoie. L’America è un immaginario collettivo, è un lungo sogno che ha attraversato le nostre vite».

È un viaggio alla scoperta di se stessi, di entusiasmo e di dubbi, di inquietudine e di tante domande, di vie che interrogano e si fanno interrogare.

La voce narrante, alter ego dell’autore, fa della ricerca di Kristof Katrakausky Kazachenko, di questa smania tormentosa raccontata a ritroso, a partire cioè dalla fine, a rebour, controcorrente al tempo e allo spazio, dal deserto ai grattacieli di New York, l’essenza stessa del suo personaggio e della società circostante. Del resto, è piuttosto reticente su se stesso. Non c’è un suo ritratto a tutto tondo. Parla di sé per sottrazione o per interposita persona tramite i personaggi che incontra e che diventano i veri protagonisti. Eppure è una figura cardine che trasforma Vangelo Yankee da romanzo di viaggio a romanzo di formazione.

A interessare è innanzitutto la realtà dell’essere umano, quel nocciolo inafferrabile dell’identità individuale di ciascuno, una realtà che diventa sempre più fragile e sottile e che sembra progressivamente erosa dalla società.

Gianelli è abile, con una lingua e uno stile gradevoli, a mantenere acceso, pagina dopo pagina, un senso di irrequietezza appena sotto la superficie che lambisce la vita di cose e persone.

A differenza del capolavoro di Kerouac, dove si avverte, sin dalla prima pagina, l’avidità giovanile di vita, anche se di una vita irregolare, da outsider, borderline, innaffiata da fiumi di alcol e anestetizzata da droghe, nello scrittore modenese è strisciante la familiarità con la morte. Non con la grottesca morte che avrebbe potuto toccargli nel tentativo di liberarsi la vescica nel giardino della Casa Bianca, ma con quel nulla che tutto fagocita e rende vano.

L’autore procede per brevi capitoli a se stanti, come fossero tante fotografie sparpagliate, e si abbandona, senza pentimento o rete di protezione, al racconto del tentativo di riallacciare i fili della propria vita a partire dalle radici che potrebbero avere a che fare con la fantomatica figura di Kristof Katrakausky Kazachenko.

 

(Nicolò Gianelli, Vangelo Yankee. America non è, ’round midnight edizioni, 2015, pp. 248, euro 9)

 

Poster originale di The Birth of a Nation su Flanerí

[RFF11] “The Birth of a Nation”
di Nate Parker

Fino a oggi, quando al cinema si parlava di The Birth of a Nation al cinema veniva subito in mente, a ogni cinefilo che si potesse definire tale, il film di David Wark Griffith che ormai un secolo fa contribuì alla nascita del cinema moderno. Il film, in oltre tre ore di racconto, portava sullo schermo gli Stati Uniti pre e post Guerra di Secessione e ritagliava un ruolo di primo piano al Ku Ku Klux Klan come associazione necessaria per mantenere l’ordine negli stati del Sud. Il razzismo secondo il film, in una semplificazione estrema, sarebbe una delle colonne fondamentali per la sicurezza degli Stati Uniti.

Cento anni dopo, a Griffith risponde Nate Parker, attore afroamericano arrivato alla prima, molto sentita, regia. Anche lui racconta la nascita della nazione, ma da un altro punto di vista. Il suo The Birth of a Nation parte dalla storia vera di Nat Turner, schiavo nella Virginia di inizio Ottocento che guidò una rivolta di due giorni contro i padroni culminata nella morte di oltre sessanta bianchi e nel massacro indiscriminato di centinaia di schiavi di colore.

Nat Turner era uno schiavo anomalo, sapeva leggere, conosceva molto bene la Bibbia, al punto da diventare un predicatore nella sua piantagione. In un periodo di forti agitazioni dei gruppi di schiavi a causa della siccità che aveva colpito la Virginia e inasprito (ulteriormente) le condizioni di vita, Turner inizia a girare da una tenuta all’altra, insieme al suo padrone Samuel Turner, per predicare il Vangelo e calmare gli animi degli schiavi. Durante le sue predicazioni, Nat ha modo di vedere tutte le atrocità che si vivono nelle piantagioni e decide di guidare una rivolta per cercare di cambiare le cose.

Presentato al Sundance Film Festival, dove ha vinto il premio del pubblico e il Gran Premio della Giuria, The Birth of a Nation ha fatto da subito parlare molto di sé. Il titolo, una provocazione e una riappropriazione, pone la vera origine degli Stati Uniti nella violenza, la vera radice comune di sfruttati e sfruttatori. In un’epoca di enormi dibattiti razziali, violenze ingiustificate della polizia contro la popolazione afroamericana, con lo spettro di una possibile presidenza Trump, negli Stati Uniti sembra di essere tornati indietro di cinquant’anni quando si parla di diritti civili, se non addirittura di diritti umani.

La doppia vittoria dell’opera prima di Nate Parker al Sundance è sembrata arrivare apposta per sottolineare quanto sia urgente e importante non dimenticare gli orrori e gli errori che hanno segnato la nascita degli Stati Uniti.

Dopo un percorso di produzione lungo e travagliato, con Parker che si è speso in prima persona per raccogliere i dieci milioni del budget totale, The Birth of a Nation è stato acquistato per la distribuzione alla cifra considerevole di diciassette milioni e mezzo di dollari. In poco tempo sembrava essere diventato già il film favorito per gli Oscar 2017, dopo tutte le polemiche per gli “Oscar so white” degli scorsi anni.

Le cose, un po’ alla volta, sono andate in maniera diversa. La prova della sala, della grande distribuzione, ha dimostrato tutti i limiti del film che ha incassato, al botteghino nazionale, molto meno delle aspettative. Certo, le accuse di violenze sessuali contro Nate Parker degli ultimi mesi hanno dato un contributo notevole nel cambiamento dell’opinione generale intorno al film. Ma non è solamente quello.

The Birth of a Nation ha tutti i limiti che può comportare una forte ispirazione. Nate Parker credeva moltissimo nel suo progetto, e questo lo ha portato a una serie di errori che sono la debolezza del film. La rabbia e l’urgenza di raccontare le violenze razziali di due secoli fa come se fossero quelle di oggi hanno portato a una perdita di lucidità complessiva. The Birth of a Nation è un film sbilenco in cui manca un equilibrio tra la qualità della regia di Parker – sicuramente padrone del mezzo espressivo – e la struttura della narrazione.

Sembra che a Parker importasse solo mostrare la violenza per far capire l’orrore senza preoccuparsi di cercare tracce un minimo profonde per costruire i suoi personaggi. Solo Turner, interpretato dallo stesso Parker, ha una sua tridimensionalità. Tutti gli altri hanno i caratteri accennati quel tanto che basta per trovargli lo spazio minimo all’interno della storia. Anche le ragioni della rivolta partono da pretesti che non riescono a scuotere la solidarietà dello spettatore se non attraverso la violenza delle immagini. Non c’è empatia per le vittime, c’è solo disgusto per le violenze subite.

In un eccesso di immedesimazione, Parker finisce per mettersi sempre al centro della scena e a riservarsi tutti i discorsi più nobili e alti. Il risultato è un bizzarro incrocio tra Braveheart e 12 anni schiavo, senza la grandezza dei mezzi di produzione del primo e la profondità del secondo.

(The Birth of a Nation, di Nate Parker, 2016, storico, 119’)

Poster italiano di Snowden su Flanerí

[RFF11] “Snowden”
di Oliver Stone

Il più politico dei registi statunitensi alle prese con uno dei temi più controversi della politica contemporanea. Oliver Stone racconta la vita di Snowden, il programmatore informatico che nel 2013 rivelò a un gruppo di giornalisti come il governo degli Stati Uniti fosse in grado di monitorare in tempo reale ogni scambio di informazioni, ogni dialogo a mezzo telefono o computer che avviene nel mondo.

Una scelta sofferta, quella di Snowden di arrivare a denunciare tutto. Ha messo a rischio la sua vita, quella della sua ragazza e la sua tranquillità di programmatore strapagato alle Hawaii. Eppure ha sempre pensato fosse necessario. «Non bisogna essere d’accordo con il proprio governo per essere un patriota», viene detto a un certo punto nel film. Questo è il ruolo che Oliver Stone dà al suo Edward Snowden. Un patriota contro, che difende i veri valori del «Greatest Country in the world» persi di vista dal governo e dalle istituzioni.

Snowden ha sempre e solo voluto difendere il paese, sin da quando provava, nel 2004, a entrare nei corpi speciali nonostante il fisico inadeguato, sin dalle prime missioni come informatico per la CIA in Svizzera, poi in giro per il mondo tra NSA, consulenze esterne e altri servizi di intelligence. Il dubbio di non stare dalla parte giusta inizia a farsi strada in fretta nella testa di Snowden. Dubbio che un po’ alla volta si trasforma in certezza.

Due anni fa c’è stato Citizen Four, il film più importante che potesse essere fatto sul caso Snowden, il racconto dall’interno dell’inchiesta giornalistica con cui sono venute fuori le prime informazioni sui servizi segreti statunitensi. Oliver Stone non lo dimentica e anzi rende il documentario di Laura Poitras il punto di partenza del suo biopic. È Melissa Leo nei panni di Poitras il primo personaggio che vediamo sullo schermo, è dagli incontri all’Hotel Mira di Hong Kong che parte tutto.

A differenza del documentario di Poitras, a Oliver Stone interessa, però, concentrarsi soprattutto sulla persona Snowden più che sulle sue rivelazioni, sulle ragioni che possono aver portato un uomo che aveva una vita sicura a rinunciare a tutto per mettersi contro il proprio governo.

Scelta necessaria, quella di Stone, anche perché come viene specificato all’inizio del film, siamo davanti alla drammatizzazione di fatti realmente accaduti, non davanti alla realtà. Solo che per andare a cercare le motivazioni del suo Snowden, Oliver Stone finisce per infilarsi nei binari del più banale film biografico con una forte venatura sentimentale.

Perché c’è una donna dietro tutto quello che fa Edward Snowden, c’è l’amore per la sua unica ragazza che ha sopportato i misteri, le bugie che il suo lavoro ha sempre richiesto e che a un certo punto ha scoperto essere spiata dal governo. È l’amore la spinta finale che lo convince a raccontare quello che sa. E sinceramente è troppo poco.

Sorretto da dialoghi quasi banali, Snowden rimbalza a caso tra vari registri narrativi senza mai riuscire a fermarsi in un punto preciso. A ispirare tutto c’è sempre la solita vena polemico-patriottica di Stone, quella che nell’arco degli anni lo ha portato a guardare più e più volte all’interno della realtà statunitense, ai suoi presidenti, alle sue guerre. La vita di Edward Snowden dovrebbe essere il pretesto, nelle sue intenzioni, per parlare di come la lotta al terrorismo sia diventata (o sia sempre stata) una scusa per controllare la vita di tutti, ma non riesce a tenere il film dove vorrebbe, scivolando sempre nella vita privata e nelle sue semplificazioni.

A portare in alto il film ci pensa Joseph Gordon-Levit in una delle sue interpretazioni migliori nei panni di Snowden, con un lavoro enorme sul corpo e sulla voce.

È il punto più alto di un film confuso e senza una vera personalità. Se volete sapere di più sul caso Snowden, guardate o riguardatevi Citizen Four. Anche se volete vedere un thriller politico di maggior spessore.

(Snowden, di Oliver Stone, 2016, biografico, 134’)

Copertina di Mescolo tutto su Flanerí

“MESCOLO TUTTO”: DECOSTRUIRE IL DISAGIO GIOVANILE

Yasmin Incretolli ha firmato uno degli esordi letterari più discussi di quest’anno. Il suo romanzo si intitola Mescolo tutto (Tunué, 2016) ed è stato scoperto dallo scrittore e talent scout Vanni Santoni grazie alla menzione speciale che il testo di questa giovane autrice romana ha ottenuto al XXVIII Premio Italo Calvino.

È la storia di Maria, un’autolesionista diciannovenne che vive con la madre alcolizzata e della sua pericolosa relazione con Chus, un teppistello di vent’anni che viene dall’Argentina e che, dopo aver messo fine al loro rapporto, spinge la ragazza a scappare di casa. Catapultata in un turbinio di vizi, perversioni e violenza, a Maria non resta che liberare la sua propensione all’estremo.

Dopo l’acclamato esordio di Luciano Funetta con Dalle rovine, la fresca e dinamica casa editrice Tunué ha regalato ai lettori italiani un vero e proprio oggetto non identificato, capace di spiazzare la critica non solo per i contenuti estremi e pornografici, ma soprattutto per una lingua singolare che sembrerebbe cesellata da una Isabella Santacroce con i piedi ben piantati a terra. Nonostante sia un’artista che ci mette la faccia – è apertamente una militante femminista, Lgbt e antispecista – la Incretolli non ama molto parlare di sé: «Credo che l’unico dato biografico rilevante di un’autrice sia la sua bibliografia – mi confida –, perché, come sosteneva anche Calvino, se lo scrittore (e la sua storia) occupa il campo, il mondo rappresentato viene svuotato». Cosa ne penserebbero i segugi che ultimamente non danno tregua a Elena Ferrante? A me basta sapere che ha 22 anni, che vive a Roma e che è iscritta alla Sapienza. Niente di più. E ora, parliamo del libro.

 

Il titolo originale di Mescolo tutto era Ultrantropo(rno)morfismo. Perché avevi scelto un titolo del genere? Perché ti hanno chiesto di cambiarlo?

Sì, così fu presentato al Premio Italo Calvino. Scelsi un titolo composto perché pensavo rispecchiasse l’anima disorientante del romanzo. Il mio editor, Vanni Santoni, mi avvertì fin da subito che dovevamo trovargli un nome diverso, meno concettuale. Fra le molte proposte prevalse Mescolo tutto, titolo – tra l’altro – di un’azione della parigina Gina Pane, body performer che mi piace moltissimo.

 

Maria, la protagonista del romanzo, è un’autolesionista. Cosa ti ha spinto a scegliere un personaggio con questa patologia?

Maria rappresenta il disagio giovanile che è il perno intorno a cui ruota la narrazione. E l’autolesionismo è la manifestazione più frequente di questo disagio, insieme al craving e alla commissione di piccoli reati. Inoltre, si ricollega a una più generale riflessione sul linguaggio, tema importante all’interno di Mescolo tutto. La voce di Maria, soffocata dall’insensibilità propria dell’ambiente in cui abita, riemerge nel sangue, diventando un paralinguaggio.

 

Cosa c’è di vissuto nei personaggi (estremi) del tuo romanzo e negli ambienti in cui si muovono? Consideri Mescolo tutto un “romanzo generazionale”?

Ci sono dei riferimenti alla mia esperienza, ma tutto è rielaborato in una funzione narrativa. Volevo raccontare una storia, e il materiale che avevo a disposizione è stato modellato per questo scopo. Al centro del romanzo c’è la ricerca della propria identità tipica di tutte le adolescenze. Ma questa ricerca ha connotati di forte contemporaneità: isolamento dalla vita sociale, disgregazione familiare, teen dating violence. In questa misura sì, possiamo definirlo “generazionale”.

 

Che rapporto hai con la pornografia?

So che la pornografia è tutto ciò che viene rappresentato per indurre eccitazione sessuale. Ma è luogo comune rapportare questa parola, nella nostra contemporaneità, all’industria del porno audiovisivo mainstream. E verso tale sorgente provo risentimento, perché immagino lo sfruttamento che dà sostegno al suo mercato. Mi trovo molto vicina perciò al pensiero di Catharine MacKinnon: lei definisce il porno nient’altro che un’altra diversa forma di violenza sulla donna. Secondo me la pornografia propone un modello oggettificante del soggetto “che riceve”, la diffusione del suo godimento deriva dal far godere l’altro. Questa contraddizione plasma le fantasie sessuali del pornofilo al totalitarismo e all’insensibilità, fantasie che, incontrando un’esasperazione, diventano stile di vita: sessismo.

 

Come definiresti la tua lingua?

Dato il vocabolario di Maria, composto di arcaismi e neologismi, definirei la sua lingua una sorta di decostruzione grammaticale della realtà odierna, tipicamente lineare e convenzionale. Perlomeno, mi piace pensare di aver fatto qualcosa di tanto poetico.

 

Così giovane e già con una “voce” così originale. Quali sono i tuoi modelli letterari?

Non ho un riferimento letterario a cui riesco a identificarmi totalmente. Ciò è dovuto al fatto che le mie letture, e i miei gusti, spaziano molto. Leggo narrativa alta e non, saggistica, racconti, poesia. Apprezzo particolarmente la prosa aulica di Paola Capriolo, ma anche le dimensioni underground, punk, per esempio mi piace tantissimo quella Silvia Ballestra della prima metà dei nineties. Libri agli antipodi che esercitano su di me egual fascino.

 

Sei fuori dai salotti letterari italiani, un’autentica outsider: è quindi possibile esordire nella letteratura senza “conoscenze” e raccomandazioni? Che consiglio daresti a un esordiente che come te è fuori dal giro?

Sono stata pubblicata da Tunué, casa editrice di Latina che pubblica quattro titoli l’anno in una collana di narrativa diretta da quell’asso di Vanni Santoni. La mia esperienza quindi è circoscritta al mondo della piccola editoria, che è sicuramente più accessibile rispetto a grandi realtà. Come sostiene anche Santoni, i premi letterari aiutano l’editor a trovare manoscritti validi perché effettuano già un’importante cernita. Lui ha scoperto il mio testo, infatti, dagli estratti dei finalisti del Premio Calvino pubblicati sull’Indice dei Libri del Mese. Quindi consiglio di mettersi in gioco attraverso concorsi letterari. Partecipare, magari, con un’opera editata da altri, o revisionata scrupolosamente. Riprovarci se va male, non scoraggiarsi.

 

In un’intervista dici di aver paura di essere giudicata per la tua giovinezza. Ti è già successo?

Come molti altri, anch’io sono cresciuta scoraggiata, certa che fra gerontocrazia, favoritismo, corruzione, alla mia generazione fossero state tagliate le gambe. E forse, quella mia esternazione, tratta da un’intervista in cui ero particolarmente emozionata, nient’altro è che un riflesso condizionato proprio dalla paura di non potercela fare per norma. Finora, però, mi sembra che nessuno sia stato particolarmente reso scettico dalle caratteristiche della mia persona, né da quelle anagrafiche, né tantomeno da quelle fisiche.

 

(Yasmin Incretolli, Mescolo tutto, Tunué, 2016, pp. 128, euro 9,90)

Alla ricerca di nuovi autori per effe #6

Limite: dal latino limes, confine, linea terminale o divisoria, livello massimo al di sopra o al di sotto del quale si verifica normalmente un fenomeno, impedimento fisico, umano oppure divino.
Questo è il tema da cui lasciarsi ispirare per partecipare alla selezione dei racconti per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, il #6. Una traccia deliberatamente nebulosa, un concetto il cui significato finale sia determinato in maniera esclusiva dall’autore, dalla sua capacità di interpretare e modulare una sostanza vaga e polisemica fino a renderla una cosa netta, chiara, propria.

La partecipazione al nuovo contest è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no.

I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail titolo, nome e cognome. La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 15.000 e le 40.000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 21 ottobre 2016 e la partecipazione è gratuita.

Dopo un’attenta lettura, i testi più meritevoli saranno sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui è affidata la cura redazionale del volume, e pubblicati sul prossimo numero dell’antologia periodica effe e su Altre Narrativitàla sezione di Flanerí dedicata ai racconti brevi.

Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività è un progetto indipendente che coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Marco Lazzarotto (Indiana), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Romagnoli (Transeuropa), Paolo Zardi (Neo edizioni), Vins Gallico (Fandango Libri) e Demetrio Paolin (Voland).

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

 

Per ulteriori informazioni:
redazione@flaneri.com
redazione@42linee.it

 

 

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Copertina di Rise and Fall of Academic Drifting dei Giardini di Mirò

“Rise and Fall of Academic Drifting”
dei Giardini di Mirò

Sono passati quindici anni dalla pubblicazione di Rise and Fall of Academic Drifting (Homesleep, 2001), album d’esordio dei Giardini di Mirò ed è proprio per celebrare quest’anniversario che la band reggiana sta promuovendo un nuovo tour – iniziato l’8 Ottobre con la data di Verona – durante il quale sta suonando l’album per intero. Per l’occasione, inoltre, Rise and Fall of Academic Drifting è stato ristampato dalla 42 Records in un’edizione speciale, e limitata a sole 500 copie, in doppio vinile.

Personalmente l’attesa per la tappa di Roma (15 Ottobre al Monk) si è trasformata in un ottimo pretesto per riascoltare Rise and Fall 0f Academic Drifting e per scivolare di nuovo in quella morbida malinconia che avvolge con continuità tutte e otto le tracce.

Bastano le prime note di “A New Start (For Swinging Shoes)” per sentir svanire la tensione, il corpo si abbandona docile alla deriva strumentale e, di colpo, si ritrova sospeso lungo i confini della dimensione onirica creata dai Giardini di Mirò: un equilibrio etereo e fugace in cui le fragilità scompaiono. Rise and Fall of Academic Drifting accarezza i lembi consumati dell’animo, li libera da quel torpore profondo e colloso che soffoca i sentimenti e rende aridi. Contemporaneamente commuove e dà conforto.
E quando si è quasi sopraffatti dall’inaspettata sensazione di benessere, ecco, è a quel punto che si può cedere senza remore alla tentazione di ascoltare almeno un paio di volte “Pet Life Saver” o “Little Victories” prima di passare alla traccia successiva.

La scelta, poi, di collocare come ultimo pezzo la canzone da cui l’album prende il nome è perfetta. Sono nove minuti con cui dilatare il tempo per un’ultima volta. Immersi in un buio placido solo le vibrazioni solleticano i sensi, il silenzio che segue alla fine del disco riporta alla realtà brutalmente, quasi con una fitta di dolore. Di nuovo opaco, l’animo torna a ripiegarsi su sé stesso.

A buon diritto, dunque, Rise and Fall of Academic Drifting consacra i Giardini di Mirò come una delle band più interessanti del panorama indie italiano. Le influenze di altri gruppi post–rock , uno su tutti i Mogwai, rintracciabili nell’album, contano poco poiché rimane intatta l’intensità delle sonorità create così come la dolcezza che permane nell’aria dopo averlo ascoltato più e più volte.

Immagine di The Young Pope su Flanerí

“The Young Pope”
di Paolo Sorrentino

Senza dubbio è l’evento televisivo dell’anno. Probabilmente, visti i nomi in ballo, può essere considerato anche un evento e basta. The Young Pope, la prima serie tv scritta, diretta e prodotta dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino, è pronta a sbarcare su Sky Atlantic dal prossimo 21 ottobre.

Realizzata da Sky, HBO e Canal +, The Young Pope mette insieme un cast internazionale che va dagli Stati Uniti all’Italia, con nomi di spicco come Jude Law e Diane Keaton, e una distribuzione in oltre ottanta paesi.

Dopo aver visto in anteprima i primi due episodi possiamo buttare giù un po’ di spunti su come il progetto di Sorrentino sia qualcosa di diverso da una classica serie tv e qualcosa di molto più vicino a un film. Un film di Sorrentino, con tutti i pregi e i difetti del caso.

Per fare il punto su quanto visto finora, The Young Pope racconta le conseguenze dell’elezione di un papa giovane e diverso, l’italo americano Lenny Belardo, 47 anni, fumatore e consumatore di Coca Cola alla ciliegia. Il nuovo Pio XIII è stato messo sul Soglio di Pietro dai cardinali guidati dal Segretario di Stato, il cardinal Voiello (uno straordinario Silvio Orlando), convinto di poterlo manipolare per fare i propri interessi. Ovviamente Belardo non la pensa allo stesso modo e lo fa capire nominando suor Mary, la suora che lo ha allevato come una madre, sua assistente personale. Cresciuto senza conoscere i genitori, Lenny ha un rapporto di costante ricerca e messa in discussione con Dio e la fede. Per lui tutto può essere cambiato all’interno dell’istituto vaticano. Chi si aspetta, però, una rivoluzione moderna della Chiesa capisce subito che Pio XIII sembra puntare molto di più su un ritorno all’intransigenza.

Ormai i grandi registi italiani hanno capito che a un certo punto della loro carriera devono passare per un confronto con la figura papale. La linea l’ha tracciata, come in tanti altri casi, Nanni Moretti nel 2011 con Habemus Papam, poi lo ha seguito l’anno scorso Daniele Luchetti con l’agiografia targata Mediaset di Bergoglio in Chiamatemi Francesco.

Paolo Sorrentino, per fortuna, ha pensato bene di guardare al modello Moretti e non a quello Luchetti per il suo The Young Pope. Un papa giovane, come dice il titolo, e non da giovane come era il Bergoglio di Chiamatemi Francesco, già pronto alla beatificazione in vita. Un papa estremamente umano, con le sue debolezze e le sue paure.

Suor Mary gli dice subito che lui non è più Lenny Belardo ma Pio XIII, che tutto ciò che ha vissuto prima deve smettere di esistere. Deve esistere solo il papa.

Eppure sembra che Lenny non sarà mai completamente Pio XIII, e non per le infradito bianche, per le sigarette fumate nel Collegio Apostolico, i riferimenti a Banksy e ai Daft Punk. A rimanere forte e viva in lui sarà sempre la traccia del dubbio, l’impronta dell’abbandono dei genitori che non ha mai superato. Come il papa di Moretti rinunciava al pontificato perché incapace di smettere di essere uomo, così Belardo sembra accettare il mandato per il motivo opposto: spingere la sua ricerca di un posto nel mondo ancora più in là.

Il confronto con Dio è costante. La presenza assente di Dio, come quella dei genitori, è la guida della vita del nuovo papa. E in questa vita è vietata ogni rappresentazione, perché Dio non ha volto, non lo hanno i suoi genitori, non lo deve avere neanche il papa.

Le semplificazioni della stampa hanno già portato ai primi paragoni con House of Cards per il discorso costante sul potere e a parallelismi improbabili tra Papa Francesco e Pio XIII. Questo Belardo, in realtà, sembra avere molto più in comune con Ratzinger (incluse le scarpe rosse) di quanto possa condividere con Bergoglio.

Queste, ovviamente, sono impressioni pronte a lasciare il tempo che trovano con l’evoluzione della serie. Dopo solo due episodi (su dieci) si può giusto intuire quale sarà la direzione che prenderà The Young Pope.

Quanto visto finora, però, è già sufficiente per fare alcune considerazioni di carattere più generale sul progetto. Perché la serie di Sorrentino sembra già essere qualcosa di molto diverso da quanto si vede di solito in televisione, o in streaming.

Partendo da un dato puramente tecnico, The Young Pope è scritto, diretto e prodotto da Paolo Sorrentino. Il che vuol dire che oltre al ruolo canonico, nelle serie tv, di showrunner, Sorrentino si è riservato anche la scrittura e la regia di ogni episodio. Una cosa insolita per le produzioni televisive, giusto Woody Allen con il nuovo progetto per Amazon Crisis in Six Scenes ha fatto lo stesso.

Non è un caso se presentando la serie alla stampa Sorrentino continui a parlare di un film lungo 500 minuti, più che di una serie in dieci episodi. La sua visione è quella di un blocco narrativo unico, non frammentato.

Come dicevamo in apertura, The Young Pope conserva tutte le caratteristiche del cinema di Sorrentino, nel bene e nel male. Visivamente è magnifico. La fotografia di Luca Bigazzi, i costumi, le scene, la regia precisa come sempre. Poi ci sono i dialoghi, che per alcuni sono la vera forza di Sorrentino, per altri la sua più grande debolezza. Sicuramente sono la sua vanità.

A Sorrentino piace scrivere. Lo hanno dimostratoi libri pubblicati con Feltrinelli, lo dimostra la strada che sta prendendo sempre più il suo cinema negli ultimi tempi. I dialoghi, a volte, finiscono per prendere il sopravvento sulla narrazione. I fatti, anziché essere mostrati, vengono raccontati dai personaggi. Youth era praticamente tutto così.

The Young Pope, per quello che si è visto finora, sembra pronto a cadere in questo vizio (o virtù, a seconda dei punti di vista) del sorrentinismo militante. Non che scriva male. Magari, ogni tanto, scrive troppo. Forse, ogni tanto, farebbe bene a mostrare qualcosa anziché farlo raccontare ai suoi personaggi.

(The Young Pope, di Paolo Sorrentino, 2016, serie tv in 10 episodi in onda dal 21 ottobre su Sky Atlantic)

“Sono Dio”
di Giacomo Sartori

Tutto sommato, se Dio fosse quello di Giacomo Sartori, sarebbe un buon amico. È un padreterno che fino al visto si stampi di questo libro (Sono Dio, NN Editore 2016) se ne stava lì a guardare e ascoltare l’universo, in un modo che gli umani non possono cogliere pienamente, ma grosso modo se la godeva. Un Dio come potremmo essere noi, che «fa quello che deve fare senza affannarsi e senza stressarsi, senza farlo pesare». Solo che da lui ti aspetti che tenga sotto controllo le cose e invece, divino o meno, molto gli sfugge. E questo è un macigno sull’umanità. Non si tratta di concedere un più o meno lasco libero arbitrio, è che se Dio fosse quello di Sartori sarebbe uno (l’essere di cui parliamo è un maschio) che improvvisa persino nell’atto della creazione: «Io mi sono messo a creare, adesso non mi ricordo nemmeno più perché», in una situazione confusa dalla quale è nato l’uomo. E c’è di più: nemmeno l’essere supremo si aspettava che quella specie di scimmia glabra avrebbe dominato il pianeta, anzi, avrebbe scommesso che a farlo «fossero i leoni, gli scorpioni, o qualche tipo di combattiva formica»; solo che quella scimmia è La specie imprevedibile di Philiph Lieberman (Carocci, 2016).

Un Dio umano, dunque. D’altronde difficilmente potremmo crederlo verosimile, se non avesse logiche e sentimenti riconoscibili. Che si tratti di rabbia, di amore, di vendetta o di misericordia, gli attributi che appartengono ai nostri simili diventano imprescindibili nella formazione del personaggio Dio. D’altronde, il gioco è manifesto sin dalla bandella, che dichiara: «Dio si ferma a contemplare l’umanità, tra le sue creazioni forse quella meno riuscita, così brutale, inconsapevole e priva di prospettive. Ma quando il suo sguardo si posa su una ragazza […] accade qualcosa di imprevedibile». Questo Onnipotente ci giudica, e severamente. Ci informa che per salvare un pianeta ormai spacciato – a causa di inquinamento, cementificazione, disboscamenti, abbandono di scorie radioattive – occorrerebbe il suo intervento, che però non arriverà: «Quello che dovevo fare l’ho fatto, non ho nessunissima intenzione di ricominciare tutto da capo solo perché quattro disgraziati si sono divertiti a sfasciare tutto».

È soprattutto il genere maschile a essere mal visto, confermando la capacità empatica con il femminile che Sartori aveva messo in mostra già in Rogo (CartaCanta, 2015). Ma tutta la razza risulta essere affascinata dal male, nonostante – o forse a causa – di una presunzione di intelligenza: «Nessuna scimmia ha mai scritto un tomo di mille pagine di etica, ma nessuna scimmia ha mai trucidato la sua amica e ne ha mangiato il cuore».

Cosa salvare, dunque, se non la schiettezza di una ragazza troppo magra sopra e troppo larga sotto, con gli occhi distanti e i capelli viola raccolti in due codini? Su di lei si posa lo sguardo di Dio, fermando il tempo eterno nel momento più intimo di un essere che è sempre esistito: quello del dubbio. Cosa accade all’Altissimo? Potrebbe inquadrare miliardi di esseri umani e invece il suo sguardo si posa con sempre maggiore insistenza su una genetista atea, che si diverte ad accendere dei falò di crocifissi, ammonticchiando i metallici cristi su un lato del caminetto quando il legno della croce si trasforma in cenere. Non che Dio ne rimanga turbato, del resto non è nemmeno sicuro che quel ragazzo palestinese sia proprio suo figlio, anzi, nemmeno si era accorto della sua esistenza finché Gesù non cominciò a proclamarsi generato e non creato.

Sartori non manca di spirito, e architetta la narrazione sotto forma di un diario. Dio ci parla in prima persona e si arrovella nel dover usare un linguaggio umano, che non solo – per dirla con Wittgenstein – traveste il pensiero in un modo tale che «dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito», ma rappresenta un abito sull’abito, poiché il pensiero stesso è per Dio un travestimento della sua essenza: prima della scrittura di questo diario, Dio non ha mai avuto bisogno nemmeno di pensare perché, dopotutto, è Dio.

Ma è appunto la ragazza, Dafne, l’atea genetista, il motivo del suo scrivere, del suo avvicinarsi sempre più ai difetti umani. È lei a esasperare quella perdita di controllo che fino ad allora si era manifestata in innocue distrazioni. Dio fin da subito capisce che l’assidua curiosità con cui la segue nei suoi gesti quotidiani è maggiore rispetto a quella spesa per qualsiasi altro essere, pianeta, stella o galassia. Egli s’innamora di questa inconsapevole Dafne, che nel nome porta lo svolgersi della storia: Dio potrà infatti inseguirla a lungo come già fece Apollo, e l’esito di questa storia, Sartori lo custodisce per il colpo di scena finale.

 

(Giacomo Sartori, Sono Dio, NN Editore, 2016, euro 17, pp. 224)
Foto di scena di Crave al Teatro India

“Crave”
di Sarah Kane

Una luce rossa accoglie gli spettatori all’ingresso in sala. Sul palco una grande gabbia in fondo alla quale gli attori, rintanati ognuno in una minuscola cella, restano immobili. La spartana e claustrofobica scenografia di Francesco Ghisu attende, fredda, mentre risuona una musica dalle note ruvide. Poi un movimento improvviso, mani che sbattono contro le sbarre, una corsa sfrenata e senza meta nella cattività di un ambiente senza via d’uscita.

Il primo impatto con Crave, per la regia di Pierpaolo Sepe, è forte, violento, all’apparenza sorprendente, nonostante la scelta della gabbia come chiara allegoria della vita stessa, soluzione non troppo originale. Ma andiamo con ordine. I personaggi in scena sono quattro. C’è un uomo anziano di nome A (author, abusator, actor), che ha una relazione malsana e controversa con C (child), una ragazza appena adolescente legata al suo aguzzino da un amore morboso dal quale non riesce a fuggire; c’è M (mother), che non vuole altro che avere un figlio che la accompagni nell’imminente vecchiaia, e che vuole concepire con B (boy), che la umilia e schernisce con il suo rifiuto.

Quattro personalità ben definite sulla carta, ma qui decisamente più sfumate, quasi un’unica entità che riesce comunque a rappresentare degnamente, soprattutto grazie all’ottima interpretazione degli attori (Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra e Morena Rastelli), il complesso mosaico psichico dell’autrice.

I quattro personaggi si muovono all’interno della loro gabbia personale, sbattono con violenza contro le sue pareti, si incrociano e si parlano senza quasi vedersi. I loro dialoghi sono concitati, non lasciano tregua e sembrano partorire nient’altro che concetti spezzati, i quali finiscono invece per ritrovarsi racchiusi in un’unica logica di sofferenza e insieme anelito per una vita possibile.

Come nelle altre opere di Sarah Kane, drammaturga inglese morta suicida a soli 28 anni, il testo di Crave è denso, le parole sono come schiaffi. Dure, provocatorie e intrise di disperazione, si susseguono con una rapidità disarmante, si ripetono e feriscono con metodica puntualità. Sono le parole di chi è in trappola e non riesce a uscire, ma anche quelle di chi prova a vedere oltre la squallida cella che è diventata la sua vita.

Febbre, così è stato tradotto il titolo in italiano. Non c’è parola che possa descrivere meglio l’inarrestabile delirio dei quattro personaggi, che si traduce a metà spettacolo in un’immagine tanto straziante quanto, purtroppo, di scarso effetto: i quattro si spogliano, mentre cercano invano di avanzare verso i confini della loro cella, cadendo quasi a ogni passo. Visione di istantaneo impatto visivo ed emotivo senza dubbio, ma il nudo integrale a teatro, spesso abusato, ha ormai perso il suo potenziale valore espressivo. E con lo scambio di abiti immediatamente successivo e il ritorno alla “normalità” (la stessa modalità utilizzata nella prima parte dello spettacolo per i dialoghi e i movimenti), si perde l’opportunità di realizzare un eventuale crescendo, o semplicemente un cambiamento.

«Qualsiasi modalità si scelga per mettere in scena un testo di Sarah Kane, lo si tradirà», sostiene il regista. Appunto. Quindi perché non spingersi più in là?

Crave

di Sarah Kane
regia Pierpaolo Sepe
con Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli
scene Francesco Ghisu
costumi Annapaola Brancia d’Apricena
luci Cesare Accetta
movimenti di scena Chiara Orefice

In scena al Teatro India dal 4 al 9 ottobre

Poster di American Pastoral su Flanerí

“American Pastoral”
di Ewan McGregor

Nei mesi scorsi avevamo fatto un breve elenco dei film tratti da libri più attesi per questa nuova stagione cinematografica. Al primo posto avevamo messo l’adattamento di Pastorale americana, uno dei capolavori di Philip Roth premiato con il Pulitzer per la letteratura nel 1998. Adesso, la prova della sala è finalmente arrivata per American Pastoral, esordio alla regia dell’attore scozzese Ewan McGregor (quello di Trainspotting e l’Obi Wan Kenobi della seconda trilogia di Guerre stellari, tra l’infinità di altre cose).

Non è necessario aver letto il libro di Roth per commentare l’opera prima di McGregor. Togliamo ogni dubbio subito: American Pastoral è un brutto film. Brutto in assoluto, non in confronto al romanzo.

Se proprio si vuole fare un confronto bisogna partire subito dalla semplificazione. Il romanzo di Roth parlava della fine del sogno americano, disintegrato dalla guerra del Vietnam e dalle sue conseguenze sul suolo americano. Lo faceva partendo da una famiglia del New Jersey, i Levov, con il padre Seymour, detto “lo Svedese”, bello e vincente negli sport e negli affari, la moglie Dawn, ex miss New Jersey, e la figlia Merry, balbuziente e fuori posto in una famiglia di apparente perfezione. È un romanzo complesso e profondo, come deve essere la grande narrativa.

Il film di McGregor, al contrario, è totalmente superficiale. Il neo regista è partito dall’adattamento, ampiamente rimaneggiato rispetto all’originale, dello sceneggiatore John Romano, senza conoscere il romanzo. Solo in un secondo momento si è dedicato alla lettura di Roth. Il risultato è un film che si concentra quasi esclusivamente sulla dimensione familiare dei Levov, con il contesto sociale e la storia che rimangono in sottofondo. Peggio. La politica, la guerra del Vietnam, i movimenti per i diritti degli afro americani, diventano puri e semplici pretesti per confronti/scontri didascalici tra Merry e la famiglia, e in senso più ampio tutto ciò che è autorità.

Ewan McGregor non è riuscito in nessun modo a dare una dimensione di dignità al suo passaggio dietro la macchina da presa. American Pastoral è un film debole sotto ogni aspetto. Sorretto da una scrittura priva di qualsiasi slancio, il film finisce per essere un catalogo banale di retorica sul tema “scontro di generazioni”, con i paludati Levov genitori incapaci di comprendere il cambiamento in atto nella società di cui la figlia è testimone e attrice armata. In una rassegna di insulti urlati al presidente Johnson in tv, locandine che gridano alla rivolta, opposizione generica a ogni forma di ordine costituito e psicanalisi elementare, American Pastoral si adagia subito su una piattezza narrativa desolante. McGregor non riesce neanche a recitare bene, talmente assorbito dal ruolo di regista, e accanto a lui non fanno meglio né Jennifer Connelly come Dawn, algida, distante e paralizzata nella sua bellezza a tutti i costi, né Dakota Fanning come Merry, irritante nella balbuzie forzata, lontana anni luce dalla bambina prodigio che sbucava fuori in ogni film anni fa.

Se non ci fosse dietro un grande romanzo, saremmo davanti a un film con un enorme potenziale di idee buttato via da un’approssimazione dilagante. Con dietro un capolavoro il discorso cambia.

Per confrontarsi con un romanzo della dimensione di Pastorale americana ci sarebbe voluto, probabilmente, un regista con ben altra esperienza. Non è un caso se nessuno si era mai avvicinato al libro di Roth, non è un caso neanche se gli adattamenti che sono stati fatti finora dei romanzi dello scrittore di Newark sono sempre stati mediocri, per usare un eufemismo. Pare che Ewan McGregor sia arrivato a questa regia quasi per caso, senza che fosse un progetto totalmente suo o sentito. Sarà come sarà, il risultato finale è un errore immenso di autoconsiderazione, come minimo. Riuscire a concentrare in un film lo spessore della scrittura di Roth non è una cosa facile. Non lo è per un regista d’esperienza, figuriamoci per un esordiente.

(American Pastoral, di Ewan McGregor, 2016, drammatico, 108’)

Il sadomasochismo e Histoire d’O su Flanerí

Il sadomasochismo e “Histoire d’O”

…Ecco come ti amo… Amare? No, adorare, idolatrare… ah!
Alfred de Musset

 

Si chiama O, le sue palpebre sono ombreggiate, le labbra rosse e persino l’areola dei capezzoli e gli orli delle labbra intime sono dipinti con il rossetto. Il solco fra le cosce, i peli del pube e delle ascelle sono intrisi di profumo. È nuda, oppure ha la gonna arrotolata e assicurata con una cintura in modo che il ventre e le terga rimangano scoperte. I suoi seni sono offerti in corsetti di seta. Ha il divieto di chiudere le labbra e di accavallare le gambe perché la sua totale disponibilità sia palpabile al primo sguardo. È bene che tenga la testa bassa senza mai guardare negli occhi gli uomini che di lei si servono, un gesto di tale insolenza non le sarebbe perdonato. In presenza di un uomo le è permesso di aprire la bocca solo per gridare o per accarezzare. Viene percossa con la frusta di cuoio, con lo scudiscio o con la sferza bagnata. Ha perduto il diritto di sottrarsi all’uomo e né le sue mani, né il suo seno, né i suoi orifizi le appartengono, perché in qualsiasi momento può essere esplorata e penetrata. O si considera fortunata di contare abbastanza per un uomo, tanto da permettergli di godere oltraggiandola, «come i credenti ringraziano Dio di umiliarli». Dorme in un letto coperto da pellicce e il ricordo delle frustate la lascia serena.

Histoire d’O è un romanzo erotico pubblicato in francese nel 1954 sotto lo pseudonimo di Pauline Réage. Solo dopo quarant’anni l’autrice Anne Desclos, già conosciuta con lo pseudonimo di Dominique Aury, confessò di aver scritto questa storia. Anne fu amante dello scrittore Jean Paulhan, più anziano di lei di vent’anni, il quale scrisse la prefazione a Histoire d’O: “Felicità nella schiavitù”. Il romanzo fece scandalo e, sebbene nel 1955 avesse vinto il Prix des Deux Magots, furono avanzate accuse per oscenità nei confronti dell’editore Jean-Jacques Pauvert e fu imposto il divieto di pubblicizzare il libro per diversi anni. Alla pubblicazione seguì un acceso dibattito riguardo alla sua paternità: era da attribuire effettivamente a una donna – e allora chi celava lo pseudonimo Réage – o invece era stato scritto da un uomo? Qualcuno lo attribuì allo stesso Paulhan, da altri fu ipotizzato che fosse stato scritto a quattro mani dai due amanti.

O viene portata dall’uomo che ama, René, nel castello di Roissy dove è educata, mediante violenze sessuali, psicologiche e fisiche, all’obbedienza. Molti uomini dispongono di lei, che sopporta le sevizie facendo leva su un pensiero più grande e edificante: il suo amore incondizionato per René. O si abitua al dolore e le continue umiliazioni diventano per lei fonte di orgoglio e di piacere. Il suo corpo è mercificato e, con il consenso di Renè, anche altri uomini approfittano dei piaceri sessuali che lei offre. Gli orgasmi che riesce a provare in tali circostanze provocano in lei un profondo senso di colpa. René rappresenta, in fondo, una figure debole e romantica rispetto a Sir Stephen, cui O sarà ceduta in segno di ammirazione. Il nuovo padrone, che ha realmente l’indole del sadico, la lascerà alcune settimane sotto la tutela della signora Anne-Marie, che dovrà forgiarla in modo da rendere la sua obbedienza una dedizione inerme e totale. Qui O è obbligata a indossare un bustino a stecche di balena che le viene stretto sempre più, in modo che, alla fine del suo soggiorno, sarà possibile avvolgere la sua vita con le dieci dita. O viene marchiata a fuoco e incastonata da anelli siglati in modo permanente, perché non si possa più dubitare della sua appartenenza a Sir Stephen.

Il romanzo segue la metamorfosi di O: da fotografa di moda in carriera con celate tendenze masochiste a una femmina senza più desideri né ambizioni se non quella di soddisfare l’amante-padrone e, qualora lui ne faccia richiesta, chiunque altro. Esistono, però, altri due finali di Histoire d’O: secondo una versione O torna a Roissy e, come ha già fatto René, così anche Sir Stephen la abbandona. L’altra versione racconta che O, con il consenso dell’amante, che di lì a poco l’avrebbe lasciata, si lascia morire.

O è un nome altamente simbolico che richiama l’idea di un buco penetrabile, sempre disponibile e al servizio dell’uomo; uno zero e quindi un niente, come la masochista si sente e ama sentirsi, poiché non accetta di avere una propria identità; una linea che si ricongiunge con se stessa come l’infinito, una non esistenza; il tondo perfetto del grembo materno; un contenitore impersonale messo lì perché l’uomo si svuoti.

Una componente emblematica ruota anche intorno allo pseudonimo che fu scelto dall’autrice per la pubblicazione di Histoire d’O. È forte, infatti, l’assonanza fra Réage e “réagir”, e reagire è esattamente l’opposto di quanto si addice al masochista, che invece si abbandona al volere altrui e desidera esserne schiavo. Maria Marcus, nel saggio Masochismo: una malattia particolare (Savelli, 1979), ritiene che la “reazione” cui si riferisce Anne Desclos (in arte Réage) sia da intendere come la reazione contro l’idea occidentale democratica secondo la quale «tutte le persone sono nate libere e uguali e queste libertà e uguaglianze non devono essere soppresse». In Histoire d’O, infatti, si afferma il contrario: esistono persone predisposte alla disuguaglianza e alla non-libertà, che solo dedicandosi alla schiavitù e alla sottomissione potranno essere felici. «L’ostacolo era […] il fatto che René la lasciasse libera, e lei detestava essere libera. La libertà era peggio di qualsiasi catena. Essere libera la separava da René».

Alberto Moravia, nella prefazione alla prima edizione italiana di Histoire d’O, fa un parallelismo tra il masochismo esplicito del romanzo e il masochismo che si cela dietro al concetto stesso di “bellezza” e che, in particolare, caratterizza il mondo dell’alta moda e di conseguenza i modelli che da essa derivano. Le immagini di donne avvenenti, giovani e inespressive di cui sono piene le riviste, esaltano una bellezza “oggettuale”, “cosale”. «La vita reale delle donne-cose delle riviste di moda è la schiavitù erotica», afferma Moravia, secondo il quale Histoire d’O nasce per rappresentare il rapporto tra i meccanismi dell’alta moda e la società neocapitalista.

Del tutto diversa nel timbro è la prefazione che fece lo scrittore Jean Paulhan alla prima versione francese del romanzo. Egli sembra accogliere con grande compiacimento l’idea di un ritrovato masochismo della donna, e si meraviglia che il concetto di felicità nella schiavitù possa sembrare ad alcuni un’idea nuova. Alla soppressione del diritto di vita o di morte nelle famiglie, delle punizioni corporali nelle scuole, dei mezzi correttivi applicati sulle mogli, attribuisce una colpa: come se l’eccessiva mitezza che si riscontra nei micro-contesti sociali avesse portato ai bombardamenti col napalm e alle esplosioni atomiche. Paulhan è lo stesso che afferma di invidiare le donne poiché a loro è concesso di somigliare tutta la vita ai bambini e perché «una donna è esperta in mille cose che mi sfuggono. In generale, sa cucire. Sa cucinare. Sa come disporre un appartamento, e quali sono gli stili che non vanno d’accordo (non dico che faccia tutto questo alla perfezione …). E le sue capacità non si fermano qui. Si trova a suo agio coi cani e i gatti…»

Rabbrividisco, oggi, a leggere le dichiarazioni di Paulhan che dà voce al maschilismo peggiore, quello di chi ama le donne e amando le disprezza. Ma qualunque donna, come me, si sentirebbe punta nel profondo o, invece, la sensazione di appartenere integralmente a un uomo, in modo onnicomprensivo e solo come un oggetto può fare, è una sensazione capace di lusingare?

«“Prima di partire, vorrei farti frustare” disse “e te lo chiedo, non te l’ordino. Accetti?” Accettò. “Ti amo” ripeté lui».

Della cultura maschilista sono portavoce non solo uomini, ma anche donne. Helene Deutsch fu una psicanalista, diretta allieva di Freud, che sin dagli anni venti si occupò dell’identità femminile. Secondo la Deutsch il coito è vissuto da ogni donna come un atto masochistico e si conclude a distanza di nove mesi con il parto, che lei chiama «un’orgia di piaceri masochistici». La deflorazione è dolorosa, così i cicli mestruali, e il masochismo, che per la psicanalista è insito nella natura di ogni donna, è uno scudo protettivo che le permette di accettare il dolore per il piacere dell’uomo. Ancora la Deutsch si sbilancia affermando che una donna che abbia un «eccesso di intelletto» e che ne faccia uso, sarà «il tipo di donna più infelice che possa esistere, perché […] spesso è un perfetto uomo, ma generalmente incompleto». Intelletto e ambizione, dunque, sarebbero nettamente in contrasto con la femminilità. All’interno di questa dinamica l’amore per il padre celerebbe un desiderio di castrazione da parte della figlia che, inibita, sarà costretta a tornare al suo ruolo passivo. Prendere l’iniziativa è un atteggiamento che, a dire della Deutsch, contraddice le leggi biologiche e psicologiche, e si fa largo nella donna moderna a causa di un originario «complesso di mascolinità».

«Non mi ama, perché non mi picchia più, l’eroina e la puttana, sono tutte felici o infelici secondo il grado di masochismo femminile utilizzato e assimilato», afferma la Deutsch.

Janine Lamp-de Groot scrive L’evoluzione del complesso edipico nelle donne quattro anni prima della pubblicazione del saggio di Freud La sessualità femminile (1931), e tratta della fase pre-edipica, del complesso di castrazione e dell’invidia del pene. Non appena la bambina accetta di essere «un’evirata», metabolizzando l’inferiorità fisica che le deriva dal fatto di non possedere il pene, il suo oggetto d’amore non è più la madre, con la quale ora invece si identifica, ma il padre. Il desiderio del pene si trasforma in desiderio di un figlio e il piacere della maternità diviene l’elemento di soddisfazione che rende possibile e necessario l’atteggiamento masochista. La femminilità stessa, a suo dire, è frutto di un’umiliazione narcisistica e per questo, afferma la Groot, «nella donna passiva, puramente femminile, non esiste Super-io».

Secondo Marie Bonaparte il complesso di virilità si fonda su radici biologiche: la clitoride della donna somiglia al pene, e la donna non è altro che un organismo maschile il cui sviluppo si è arrestato prima, sino a congelarla in uno stato ibrido fra l’uomo e il bambino.

Le autrici che finora ho nominato non hanno messo in discussione le pietre miliari freudiane – seppure in alcune affermazioni specifiche se ne distaccano – affermando anch’esse che la femminilità non è originaria, ma nasce da un complesso nei confronti del maschio. Nulla di nuovo se pensiamo alla creazione di Eva, la prima donna: «Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”.

Karen Horney, psicanalista tedesca, scese in campo contro Freud nel 1922 durante il Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Berlino – che vedeva Freud stesso alla presidenza – esponendo la sua tesi contenuta nell’articolo Sulla genesi del complesso di castrazione nelle donne. La Horney rileva come il masochismo, non solo sessuale ma anche psicologico e sociale, sia una protezione resa necessaria da un contesto culturale in cui le donne sono costrette a identificarsi con ruoli impossibili. «C’è da stupirsi della invidia intensa che l’uomo prova per tutto ciò che ha a che fare con gravidanza, parto, allattamento, maternità. Evidentemente è l’uomo, al contrario di quanto si pensa, che ha bisogno di umiliare la donna».

Torno ora alla mia O, che ha atteso legata e fremente che terminassi questo breve excursus sul masochismo femminile nella psicanalisi, e ora si aspetta che io la colpisca con la frusta oppure che, senza mostrarmi debole, la ami. La schiavitù l’ha resa schiava, ma O non è passiva e tenta di manipolare il padrone in modo che esso la ami, utilizzando a suo favore la posizione di subalterna. Anche lei, verso la fine del romanzo, è costretta a frustare e si mostra capace di provare piacere dal dolore altrui, oltre che dal proprio. I personaggi maschili di Histoire d’O hanno la sola funzione di porre O al centro, come perno di un meccanismo doloroso che le gira intorno. «O non aveva mai compreso […] il groviglio contraddittorio e costante dei propri sentimenti: amava l’idea del supplizio, mentre lo subiva avrebbe tradito il mondo intero per sfuggirvi, quando finiva era felice di averlo subito, tanto più felice quanto più era stato lungo e crudele». Il dolore fisico e l’umiliazione sono al servizio di O, non è O al servizio dell’uomo. Il maschio è il braccio meccanico che agita la frusta nell’aria e le scalfisce la carne, il piacere è quello di O e sa provarlo solo soffrendo. Maria Marcus, con la consapevolezza di una donna che è masochista e femminista al contempo, ha affermato che O «è la protagonista e tutto è stato messo in scena per lei. Gli uomini sono solo delle comparse nel sogno, sono un mezzo necessario per dare a lei la possibilità di darsi».

Copertina di Sono il guardiano del faro di Eric Faye su Flanerí

“Sono il guardiano del faro”
di Éric Faye

Una società costretta a vivere su due treni perennemente in corsa, un viaggiatore che cerca di scalare una muraglia senza fine per scoprire cosa c’è dall’altra parte, l’inutile guardiano di un faro altrettanto inutile sperduto nell’immensità dell’oceano: sono solo alcune delle situazioni surreali in cui un Éric Faye, al limite del sadismo, ha catapultato i protagonisti della sua raccolta di racconti Sono il guardiano del faro, pubblicata in Francia da José Corti – storico editore di Julien Gracq – nel lontano 1997 e finalmente tradotta e pubblicata in Italia grazie alla sensibilità letteraria della neonata Racconti edizioni.

Dopo aver letto questi nove testi più o meno lunghi e averne apprezzato la lingua raffinata e spesso poetica, è stato difficile non pensare subito a Dino Buzzati, maestro del racconto fantastico, molto più amato (e imitato) in Francia che in Italia. È lo stesso Éric Faye, d’altronde, a dichiarare apertamente di essersi ispirato allo scrittore e giornalista bellunese in Sono il guardiano del faro, il racconto lungo che dà il titolo alla raccolta: come non notare la somiglianza tra il guardiano del faro e il sottotenente Giovanni Drogo di Il deserto dei Tartari? «L’importante è vivere nell’illusione che un giorno vedremo i Tartari all’orizzonte – ha dichiarato Faye in un’intervista rilasciata alla sua casa editrice – Secondo me è quest’illusione che permette di vivere e di vivere bene». Come i personaggi di Buzzati, anche quelli di Faye sono costretti a fronteggiare degli ostacoli che travalicano i limiti dell’assurdo: guidati, nonostante tutto, da un’inesauribile tensione verso l’ignoto, essi sembrano piuttosto delle cavie abbandonate a loro stesse in un laboratorio esistenzialista, incapaci di liberarsi dal meccanismo kafkiano che li imprigiona. Metafora di ciò che succede anche nelle nostre vite, ciascuno di loro vive nell’eterna speranza che la situazione cambi, che il senso dell’esistenza gli venga finalmente rivelato.

Molto simili, dunque, Faye e Buzzati, ma anche molto diversi. Prendiamo per esempio il racconto dell’autore francese che si intitola “Frontiere”. Il protagonista della storia, affascinato dalla maestosità di una gigantesca barriera di pietra e argilla – che, un po’ come accade per il “dome” di Stephen King, nessuno sa da dove arrivi, né da chi fosse stata costruita –, decide di intraprendere una scalata impossibile per arrivare fin sulla sommità della struttura. Bene, Buzzati ci conduce nell’identico tipo di atmosfera con il suo testo “La Torre Eiffel”: in questo caso, però, i protagonisti – cioè gli operai che vengono impiegati nella costruzione della torre – sono all’oscuro di tutto: pagina dopo pagina, scopriranno che l’opera non avrà mai fine.

Se nei racconti dello scrittore italiano, insomma, l’elemento fantastico si rivela poco a poco nel corso della narrazione, in quelli di Faye esso è un dato di fatto imposto dall’autore, un punto di partenza, una conditio sine qua non. Mentre nei racconti di Buzzati il meraviglioso condiziona progressivamente la vita quotidiana dei protagonisti e il lettore viene preso per mano dalla storia e condotto lentamente nei meandri del sogno (o dell’incubo), in quelli di Faye il danno è fatto fin dall’inizio.

Ai personaggi non resta che adeguarsi. E così, i passeggeri nati su quei treni in perenne movimento aspettano mestamente che arrivi la prossima stazione, il “viaggiatore” sogna di arrivare in cima alla barriera per vedere cosa c’è al di là senza mai riuscirci e il guardiano del faro si abbandona a un flusso di coscienza nell’attesa che qualcuno o qualcosa si manifesti all’orizzonte. Anche la vista di una semplice striscia di terra. Tutto, anche solo quello, servirebbe a dare un senso all’assurdità dell’esistenza.

 

(Éric Faye, Sono il guardiano del faro, trad. di Valentina D’Onofrio, Racconti edizioni, 2016, pp. 148, euro 14)