Avrebbe meritato di partecipare in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia Indivisibili, il terzo film del regista napoletano Edoardo De Angelis. Si è dovuto accontentare di passare fuori concorso nella sezione Giornate degli Autori (e poi al Toronto Film Festival, e al London Film Festival), lasciando spazio nella competizione ufficiale a film italiano con molta meno personalità.
Secondo Paolo Sorrentino, il film di De Angelis avrebbe meritato di essere scelto per rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar come miglior film straniero. Invece è stato scelto Fuocoammare, in una stagione in cui c’erano almeno altri due titoli su cui tutti, critica e pubblica, si erano trovati d’accordo nell’elogiarli.
Parleremo delle scelte della commissione italiana in un altro momento, ma quello che probabilmente intendeva sottolineare Sorrentino indicando Indivisibili come suo favorito è quella rinnovata voglia di un certo gruppo di autori italiani di trovare nuovi linguaggi per il cinema italiano. Quella voglia, in sostanza, di fare qualcosa di diverso dal puro e semplice cinema d’autore o dalle commedie senitmentali in cui negli anni si è andata ad arenare le proposta del cinema nazionale.
In una periferia campana di case costruite a metà, prostitute, africani e vari esemplari di mostruosità umana, due gemelle siamesi, Desi e Viola, si esibiscono come cantanti in feste di matrimonio, comunione, battesimi e tutto il resto. Il pubblico è convinto che portino fortuna, chiedono di toccare il punto del bacino in cui le due sorelle sono legate. Le venerano tanto che un prete con l’orecchino e il giubbotto jeans vuole renderle il fondamento di una nuova chiesa da costruire. Sfruttate da un padre che scrive le canzoni e si gioca i guadagni – rigorosamente in nero – al videopoker e da una madre sempre con la canna in bocca, le due ragazze scoprono al loro diciottesimo compleanno che è possibile venire separate, basta andare nella clinica svizzera di un luminare disposto a operarle gratuitamente. La vita potrebbe cambiare, lontano da quella famiglia che ha sempre nascosto la verità.
Sono tanti i meriti di Indivisibili, tanti quanti i rischi che riesce a evitare. È un racconto crudo di una grande parte della realtà periferiche italiane, fatte di degrado, fanatismo ignorante e sfruttamenti vari, ma riesce a fermarsi prima di prendere strade troppo battute. È una favola che sa molto di Pinocchio ma che riesce a non cedere nulla all’ingenuità. È un film di genere per la costruzione dei personaggi di contorno e un film d’autore per la voce del racconto. È un romanzo di formazione – doppia formazione – di due sorelle diverse e legate non solo nel corpo, trascinato dalle incredibili gemelle Angela e Marianna Fontana, non siamesi nella vita reale, già viste in televisione alla ricerca di celebrità come cantanti.
La scrittura di Nicola Guaglianone, già autore del soggetto di Lo chiamavano Jeeg Robot, garantisce ancora una volta quella capacità di inserire uno spunto narrativo potente in un contesto originale. La periferia interculturale, la moralità ambigua del mondo dello spettacolo di infimo livello, le feste, le chiese da costruire formano un palcoscenico di livido e onirico realismo, fotografato da Ferran Paredes Rubio, da sempre collaboratore di De Angelis. È un immaginario che unisce Garrone e Fellini, la cronaca con la favola nera, i Freaks di Tod Browning (i nomi delle due gemelle sono gli stessi di Daisy e Violet Hilton, che compaiono nel film del ’32) con i video dei prediciottesimi su YouTube.
Non tutto, purtroppo, è perfetto. C’è una seconda parte in cui si va troppo vicini alla solennità del cinema d’autore, con tutti i suoi difetti. Manca un po’ di realismo della carne, un po’ di body horror alla Cronenberg (Inseparabili viene in mente già per il titolo, ma non solo), così come manca il coraggio di denunciare del tutto gli sfruttatori, di far vedere i mostri che non hanno difetti fisici.
Quello che è certo è che il trentottenne Edoardo De Angelis, arrivato al terzo film dopo Mozzarella Stories e Perez., è ora un autore nuovo del cinema italiano, uno di quei registi di cui va aspettato il nuovo film con curiosità e fiducia. Un regista in grado di dire ogni volta qualcosa di nuovo, in modo originale, con una voce che sa farsi riconoscere e suggerire soluzioni nuove.
(Indivisibili, di Edoardo De Angelis, 2016, drammatico, 100’)
“Lontano” e “altrove” è la direzione verso cui punta come una freccia sioux l’ultimo lavoro degli Okkervil River, Away. La copertina è una dolce promessa: Away sono gli uccelli che migrano, il fiume che scorre lungo le terre dei grandi laghi e delle grandi pianure che si trapuntano di bianco. Away sono gli ultimi residui dell’autunno del foliage spogliato dai venti e raccontato dall’incredibile capacità narrativa di Will Sheff, un artista dalla sensibilità linguistica rara, rubato alla letteratura e donato (fortunatamente) alla musica indie–rock/folk.
Away è anche un disco creativamente scoordinato, di attimi di ispirazione appuntati su un fazzoletto più che di strutturalità sistematica. Ed è anche e soprattutto questa la sua bellezza: siamo davanti alla nostalgia confusa di fasi storiche e ambientazioni diverse tra loro, un cammino non ben definito che, se da un lato annuncia una chiusura con qualcosa (intento piuttosto chiaro nel bellissimo requiem iniziale “Okkervil River R.I.P.”), dall’altro continua a portare con sé tutte le sfumature delle note folkways statunitensi, rivisitate – certamente e ovviamente – nella chiave indiefolk del cantautorato moderno.
L’album si apre con la già citata “Okkervil River R.I.P”, morbida e melodica canzone acustica, che incarna il riuscitissimo inizio del rivolo, il lento flusso di un’acqua che incontra inevitabilmente elementi sempre diversi con i quali fare i conti. Il pianoforte, essenziale, e la batteria, d’aiuto, tentano di districarsi in questa dialettica tra quello che c’era e quello che c’è, combattendo ancora una volta l’eterna lotta costitutiva di qualsiasi artista americano, quella tra tradizione e rivoluzione.
Gli strumenti a fiato e gli archi in “Call Yourself Renee”, splendida seconda traccia del disco, sono l’anima dell’intero ultimo lavoro degli Okkervil River, intimamente proiettati verso un viaggio en plein air lungo l’invernale pastorale americana; un’esperienza di reale portata pittorica (e spirituale – come il diktat artistico non può che, giustamente, imporre) attraverso le sperdute lande di confine.
Ma Away non è solo l’uomo davanti alla Natura. In “The Industry” il fiume ci trascina piano in una strana e inaspettata atmosfera anni ottanta, appena sporcata di malinconia nel testo, deviando per quattro minuti e mezzo verso orizzonti distanti dall’architettura emotiva dell’album, e ricalcando un mood decisamente più urban – che lascia comunque il tempo che trova: «I never thought I’d feel like that again / Just let go».
Una fuga dalle atmosfere agresti (riproposta poco dopo in “Judey On A Street”, quasi a simboleggiare una paura à la page tutta commerciale di immergersi troppo in un clima di puro (indie)folk – mancanti già, tra l’altro, di una finestra aperta sulla scena dell’elettro–tutto), un trucchetto divertente rinnegato subito in “Comes Indiana Through the Smoke” e nelle sue squillanti e oniriche note d’ingresso. Nel pezzo, di una bellezza evocativa quasi disarmante, la voce anacronistica di Sheff è ammorbidita dalle armonie femminili sullo sfondo, e il fumo ruvido dei tabacchi del Sud si trasforma negli incensi dei cheyenne delle terre al confine con il Canada, scivolando ancora senza fatica nei ruscelli gelidi tra le nevi del Nord, i lupi e gli alberi sempreverdi.
Gli Okkervil River sono riusciti nell’impresa di scovare una linea melodica e narrativa che non ricalcasse semplicemente un certo filone già – ampiamente – battuto. Away trova meritatamente un suo posto all’interno della scena indie/rock/folk dai rimandi rurali. Tra le svariate novità dell’autunno, Away è sicuramente una perla da non lasciar passare inosservata. Anzi.
«Quando ti sembra che le ore non passino, che non sia mai l’ultima notte ma semplicemente la stessa, la prima e unica notte, allora trovare qualcosa da fare, soprattutto qualcosa che significhi ordine, è addirittura la salvezza dalla pazzia».
Di rado ho letto poesia in una prosa e mai ne ho trovata aggirandomi e scavando in una discarica di rifiuti, tra liquami e veleni. Eppure, insieme a Demetrio Rota, l’ho fatto; che poi, mi sono domandata per l’intera lettura di Frammenti della notte di Andrés Neuman, chi è realmente Demetrio Rota? Un uomo, certo, ma intendo: un visionario, un appassionato di puzzle o un semplice dipendente statale della nettezza urbana?
Impossibile definirlo, di lui – e della sua storia – si conoscono solo “frammenti” di un tempo e di uno spazio rimasti sospesi e cristallizzati. Il mondo di Demetrio, così come lo si vive tra l’inchiostro vivido delle pagine, è opaco, lento, triste: opaco il suo passato, il suo presente, l’epilogo della sua storia personale.
Neuman, straordinario autore contemporaneo, occhi intrisi di poesia che conducono sicuri nel mondo buio e tormentato di Demetrio, muove la sua creatura tra due stati d’esistenza infelicemente inconclusi: un passato di cui Demetrio svela, attraverso la sua passione per i puzzle, i frammenti di un’infanzia felice, attraversata, bruciata e consumata nell’ardente rogo di una passione giovanile impossibile e un presente squallido, misero, statico, dominato dalla sua inettitudine all’amore, da un’incapacità totale di amalgamarsi alla vita, di fidarsi e concedersi al prossimo.
«Veronica si accese una sigaretta e si stese con la faccia rivolta al soffitto, guardando quell’orizzonte invisibile che è negli occhi degli amanti appagati. Rimasero un bel pezzo in silenzio, poi lei parlò. Mi stai rovinando la vita, Demetrio, devi fare qualcosa. E lui lo fece: le andò addosso, le passò le braccia dietro la testa, la strinse forte. Liberandosi con una piroetta, ora sopra di lui, imprigionandolo tra le cosce, Veronica schiaffeggiò Demetrio con rabbia».
Ogni suo tentativo d’instaurare rapporti sociali si rivela un fallimento e, più la delusione che ne consegue è cocente, più Demetrio si rifugia nel ricordo del passato che si svela, quotidianamente, attraverso brevi, improvvise e intense epifanie proustiane, le quali dipingono, sulle pagine bianche, un mondo primordiale e idillico cancellato dall’avanzata imperativa e inesorabile dell’età adulta: abbattimento dei sogni, dell’innocenza, disillusione.
I ricordi di Demetrio che compongono Frammenti della notte sono gli squarci che gli permettono ancora di respirare in una Buenos Aires dispersiva e individualista, in una discarica dalla quale è impensabile recuperare anche solo una parte delle proprie illusioni. E allora non resta che affogare nei rifiuti, non resta che arrendersi all’immobilità, abbandonare la vita e lasciarsi trasportare laddove il destino aveva già deciso di condurlo.
(Andrés Neuman, Frammenti della notte, trad. di Silvia Sichel, Ponte alle Grazie, 2015, pp. 160, euro 14,50)
Avevamo lasciato Keaton Henson nel 2014 con Romantic Works, un tentativo riuscito fino a un certo punto che non aveva convinto del tutto. Lì l’artista inglese aveva escluso la sua voce, punto di forza e caratteristica fondamentale di tutti i suoi precedenti album, in un lavoro di orchestrazione che che è sembrato in fin dei conti un azzardo anche un po’ presuntuoso – musica da camera e canzoni pop non hanno molto a che spartirsi.
Oggi il ritorno con Kindly Now. E il ritorno a Keaton Henson per quello a cui ci aveva abituati. Siamo nella sua zona di conforto: voce tremula che soffre, chitarre dilatate, pianoforti che sembra vengano accarezzati, romanticismo estremo, amori spezzati, difficoltà nel fare capire alla persona amata cosa si è nel profondo, e la convinzione drammatica di non poter essere compresi. Keaton Henson, in tutto e per tutto. Con un paio di eccezioni che stravolgono la comprensione dell’album: “March”, la traccia iniziale e “Holy Lover”, la penultima.
L’ascolto di “March” è spiazzante. C’è una grossa curiosità nel cercare di immaginare come possa suonare Kindly Now dopo un’apertura del genere. La voce messa in loop che si mischia all’elettronica come fosse uno strumento e nient’altro, i fiati sullo sfondo, in quello che sembra assomigliare a un gioco tra Bon Iver e Sigur Ros, lascerebbe presagire, se non la fantomatica svolta elettronica che sembra dover accompagnare la carriera di ogni artista, almeno un approccio diverso alla musica, in cui lui dimostra anche di trovarsi molto bene. Chiariamoci: i pezzi di Keaton Henson sono sempre molto belli e, soprattutto, sono sempre molto ispirati. Non ci sono esempi lampanti di cadute rovinose. Ma i pezzi di Keaton Henson risultano sempre pezzi di Keaton Henson. Chiaramente non facciamo esclusivamente riferimenti a scelte di marketing, visto che comunque i suoi lavori, incluso Kindly Now, non sono propriamente l’emblema della fruibilità. E se proprio ci fosse dietro l’intento di voler strizzare l’occhio a qualcuno, sarebbe sempre rivolto verso la sua fetta di pubblico. Solo che a lungo andare la sensazione è che possa esserci un adeguamento a un certo tipo di standard che magari potrebbe allontanare anche i fedelissimi. Infatti, pezzi come “Alright” – che segue “March”, e il contrasto è così netto da alienare l’ascoltatore – e “The Pugilist” potrebbero trovare posto in Dear… e Birthdays senza alcun problema.
Da “Alright” a “Good Lust” c’è una coerenza stilistica davvero notevole. Si passa per “NW Overture”, poco più di quaranta secondi di fiati che rimandano all’immaginario costruito dal 2000 in poi dai Sigur Ros; “No Witnesses” e “Good Lust”, due pezzi che dipendono uno dall’altro, un unicum che si sviluppa in modo tale da far emergere la voce come fosse quella di un Jeff Buckley che ha passato gli ultimi anni ad ascoltare Eluvium. Fino a “Comfortable Love”, brano rock insolito per Keaton Henson – un rock comunque che pare sussurrato –, ma che ha il suo antenato in Kronos (Birthdays). La quasi jazzata “Polyhimia” e “Gabe”, altro brano interamente strumentale – Romantic Works quindi non rimarrà un lavoro isolato – ci portano a “Holy Lover”. Una sorta di new soul che prende spunto un po’ dal già citato Bon Iver, un po’ da James Blake, un po’ da Dirty Projectors e che sfocia in una coda che sa di indietronica pura (The xx, ad esempio). Qui non c’è il Keaton Henson solito, c’è un nuovo tipo di Keaton Henson. Come per “March”, sarebbe stato interessante vederlo alle prese con composizioni di questo genere. L’album, infatti, si chiude con “I Could Have I Know”, l’ennesima ballata che messa così in ultima posizione sembra più zavorra nascosta che chiusura struggente.
La presenza di “March” e “Holy Lover” rende in questo modo, paradossalmente, tutto il resto di Kindly Now un bellissimo contorno. Forse questi due brani ci hanno dato la possibilità di spiare nella serratura e vedere cosa sarà in futuro Keaton Henson, a cui probabilmente è mancato un po’ di coraggio per affondare il colpo, il quid che gli permetterà di superare questa splendida adolescenza in cui ci sta guidando da diversi anni.
Cosa sappiamo realmente dell’Iran? Che fino al 1935 si chiamava Persia. Che in seguito chiese di reintitolarsi, con l’unico nome tangibile, quello suonato da tutte le sue bocche. “Iran”, appunto, Paese dagli Arii.
Questo riusciamo abilmente a raccogliere, tra pascoli più o meno enciclopedici. Dalle origini dinastiche alla Rivoluzione. E poi l’assalto dell’Iraq e il risveglio islamico. Il resto è una distesa impropria. Di chilometri, di confini per noi ancora nebulosi. Per il resto l’Iran è una terra strangolata da Stati impronunciabili e da tutti i terrori riecheggiati da altre fonti.
Ma cosa vuol dire vivere in Iran, sentirsi schiacciati da un passato di pietra e un futuro clandestino? Raccontare l’Iran (ma anche l’Afghanistan e il Tagikistan) a quei Paesi occidentali che lo temono o lo annebbiano, soprattutto oggi, mescolandolo al barattolo esplosivo definito “Medioriente”.
Creare luce, ritmo e senso attraverso la letteratura. Questa la mission dichiarata da Ponte33, Associazione culturale e casa editrice fiorentina, fondata nel 2008 da Felicetta Ferraro e Bianca Maria Filippini, di ritorno da un’esperienza a Tehran.
Un’area di transito per bagagli d’arte, per voci di scrittori, grafici e poeti con la forza e il desiderio di valicare il guado. Passare il fiume e poi espatriare. Verso altri occhi, verso altre lingue. Proporre «una sorta di sguardo dall’interno», che strappi dal mondo di sempre e ci risucchi altrove. Che escluda e re-includa, come una valvola sanguigna, per regolare i flussi del nostro cercare parole, di quel continuo provare a capire.
Impresa ostinata, quella di sbirciare al di là del velo (come fosse soltanto un dilemma di stoffa), di diffondere testi che connettano tra loro latitudini in conflitto o quanto meno indifferenti, relegate nelle proprie imbottite zone di comfort.
Siamo felici di riaffacciarci quest’anno Dietro le quarte, cominciando da una realtà piccola e preziosa, ispirata al ponte di Isfahan, alle sue 33 arcate sotto cui di snodano e s’intrecciano generazioni di umori e discorsi, dove i libri sono odori e sono versi.
È un catalogo esile e autodistribuito, con pochi libri ben calibrati, curati da una grafica evocativa ed efficace. Ottime traduzioni, storie accattivanti, dimensioni da incontrare.
Tra i soli otto titoli a disposizione, ne segnaliamo uno in particolare:
– Ossa di maiale e mani di lebbroso, di Mostafa Mastur. Caleidoscopica ripresa di un condominio di Tehran, un alveare di destini contrapposti, antinomie di sfarzi e miserie in cui ogni casa impacchetta una vicenda. In cui l‘unica a infiltrarsi, uguale per tutti come striscia di sole, è l’incertezza. L’incapacità dolente di sapere chi essere e che fare.
Ma d’altronde, per questo si legge e per questo si scrive. Mettere a soqquadro, disordinare gli ordini, soprattutto quelli imperativi. Grattare pregiudizi, sfatare le convinzioni di coloro che credono solo a quello che non vogliono sentire. Soprattutto quando si tratta di se stessi.
Pubblicare distanze, dissonanze, contatti diretti con le proprie inconsapevolezze. Ponte33 rappresenta questa sfida, la indossa con naturalezza.
Ed è proprio per questo che ci aspettiamo ancora parecchio da questa realtà editoriale senza novità in pentola da lungo periodo, perché vogliamo vedere al più presto campeggiare altri titoli, altri autori, altre declinazioni del vivere persiano.
Contraddittorie e autentiche come quelle finora incrociate. Tutt’altro che facile, con le risorse economiche a disposizione. Tutt’altro che facile. Come ciò di cui sempre c’è bisogno.
L’espressione Café Society venne coniata dal giornalista di costume Maury Henry Biddle Paul per descrivere la bella vita dei frequentatori dei locali di New York, Parigi e Londra nei primi decenni del ventesimo secolo.
È da quell’ambiente che parte il quarantaseiesimo film di Woody Allen in cinquant’anni di carriera. Ci sono tutti gli elementi classici che ci si può attendere da un film di Allen. Molto jazz, molte battute, un po’ di esistenzialismo, una famiglia ebrea piuttosto presente, gli ambienti di Los Angeles e New York sempre in contrasto indiretto uno con l’altro, e quella vena di autobiografia che c’è sempre, da qualche parte.
Siamo negli anni Trenta, il giovane Bobby Dorfamn decide di lasciare New York per cercare fortuna a Hollywood puntando sull’appoggio dello zio Phil, un importante agente delle celebrità del cinema. La prima cosa che fa Bobby a Los Angeles è innamorarsi di Vonnie, disincantata segretaria di Phil. L’amore è impossibile perché lei è impegnata con un misterioso giornalista, ma col tempo qualcosa cambia. Segue avvicinamento, separazione, ritorno a New York, ingresso nella Café Society e un nuovo amore. E altro ancora.
Diciamo subito: Café Society rientra nel novero dei film “carini” di Woody Allen. Strappa qualche risata, affascina per gli ambienti, i costumi e per la splendida fotografia di Vittorio Storaro, alla prima collaborazione, e poco altro. Non ha la grandezza di Moonlight in Paris, per citare uno dei titoli più riusciti degli ultimi anni, ma neanche la rivoltante banalità di To Rome With Love.
Le gonfie riflessioni filosofiche e morali di Irrational Man sono lontane. Qui, Allen si è voluto concentrare sulla struttura narrativa. Ha dichiarato, presentando il film lo scorso anno a Cannes (dove per la terza volta ha avuto il dovere di aprire il Festival) che ha cercato di replicare la struttura di un romanzo in fase di sceneggiatura.
Non c’è niente di sorprendente nell’andamento narrativo di Café Society. È una classica storia di amori complicati e passioni mai dimenticate. Gli anni Trenta sembrano quasi un pretesto. Allen non è mai realmente vicino a Hollywood nel film, come non lo è mai stato nella realtà. Il suo omaggio all’epoca d’oro si limita a un elenco di nomi tirati in ballo dallo zio Phil. Allo stesso modo, i bar newyorkesi sono una cornice come un’altra in cui inserire la seconda vita di Bobby. A prevalere, nel racconto, sono le divagazioni sulla famiglia, dove probabilmente Allen si trova più a suo agio. Nell’ambiente familiare della comunità ebraica di New York, Allen ha modo di ritrovare un linguaggio con cui parlare più semplicemente.
Chiamato per di nuovo, dopo il già menzionato e vituperato To Rome With Love a vestire i panni dell’alter ego del suo mito Woody Allen, Jesse Eisenberg ritrova al suo fianco Kristen Stewart. È la terza volta che i due fanno coppia dopo i film surreali/demenziali Benvenuti a Zombieland (gran film) e American Ultra (molto, molto meno bene). I meccanismi ormai consolidati della coppia fanno bene a Café Society conferendo una buona dose di freschezza e spontaneità.
Probabilmente, i due sono anche aiutati dal fatto che i loro personaggi sono i più costruiti nella sceneggiatura a romanzo di Allen. Non volendo limitare il discorso agli ambienti di Hollywood o New York, Woody finisce per buttare dentro al film una massa di personaggi appena accennati. Ognuno fa capire che ci potrebbe essere molto altro da raccontare. I genitori di Bobby, per esempio, o il fratello gangster. È soprattutto Blake Lively a far capire quanto di più avrebbero potuto dare gli altri attori al film. Nei panni del secondo amore di Bobby, Lively riempie lo schermo per quei pochi minuti che compare. Solo lo zio di Steve Carrell ha avuto più spazio nella costruzione.
Arruolato all’ultimo a sostituire un Bruce Willis insopportabile sul set (così dicono), Carrell trova il giusto equilibrio tra la sua natura comica e l’indole tormentata e drammatica del personaggio.
In attesa del prossimo film – e della serie tv Crisis in Six Scenes in cui torna anche a recitare – Woody Allen prosegue la sua produzione ipertrofica confermando tutti gli elementi già noti del suo cinema, nel bene e nel male.
(Café Society, di Woody Allen, 2016, commedia, 93’)
«Le ultime assi di legno hanno ceduto, l’interezza dello scheletro di Gregorio è ora esposta ai miei occhi, posso contare tutte le sue ossa. […] Quanto sto compiendo è evidentemente folle, ma è stato lui a chiedermelo, a farmi giurare. Ricordo che quando chiusero la bara fui io stesso a riporre l’involto dietro la sua testa, al posto del cuscino di stracci. Se avessi lasciato la salma alle cure dei monaci di San Giorgio, non sarei riuscito a esaudire il suo ultimo desiderio».
Un capogiro. Riemergere dalla lettura di La reliquia di Costantinopoli di Paolo Malaguti (Neri Pozza, 2015) provoca un capogiro tale che servono diversi istanti prima di riprendersi, prima di capire, con esattezza, dove ci si trovi dopo aver percorso, senza sosta e carichi di tensione sfibrante, i sotterranei di una delle più misteriose città del mondo: Costantinopoli.
Costantinopoli ambigua, Costantinopoli dai mille volti: tutti e nessuno le appartengono. È forse quest’aura d’incerta identità che fa della Nuova Roma lo scenario più adatto per intrecciare realtà storica e fantasia, per ospitare la gestazione di un’avventura che, grazie alla versatile penna di Paolo Malaguti, proietta e immerge in una dimensione “altra” dalla quale è realmente difficile fare ritorno dopo averla attraversata e conosciuta e vissuta attraverso gli occhi del suo protagonista.
La reliquia di Costantinopoli inizia nel 1565, a Venezia, nel campo santo di San Zaccaria. A seguito di un’ordinanza comunale, si è deciso di liberarsi delle vecchie salme per far posto ai nuovi morti, ma tale operazione rischia di portare alla luce un segreto che Giovanni non può permettere venga svelato. Fedele all’ultima volontà del suo precettore Gregorio Eparco, cinquant’anni prima, quando il suo maestro lo aveva convocato in punto di morte, Giovanni aveva sepolto insieme con lui un prezioso e antico volumetto che l’anziano maestro lo aveva pregato di nascondere sotto la sua testa, in luogo del cuscino funebre. Giovanni si occupa personalmente della sepoltura di Gregorio, affinché la sua volontà venga rispettata, ma, ora, è necessario fare altrettanto: occuparsi di disseppellirlo per continuare a nascondere al mondo l’esistenza dell’antico volume.
Corrompendo un pissigamorti, Giovanni – ormai gli stessi anni di Gregorio all’epoca della sua morte –, riesce nell’intento, solo, stavolta, non può non disobbedire, non può non infrangere la segretezza celata all’interno di quelle pagine e apre e legge. Ed è nell’infrangersi di quella promessa che ha inizio la storia, mirabolante, crudele, poetica dell’assedio a Costantinopoli, riportata, sotto forma di cronaca, dallo stesso Eparco, in quel che Giovanni scopre essere il diario del suo maestro.
L’atmosfera cambia repentinamente. 1452, Adrianopoli. Qui, Gregorio Eparco, in viaggio d’affari insieme all’inseparabile socio e amico Malachia Bassan, assiste impotente alla raccapricciante esecuzione di una compagnia navale proveniente dalla Serenissima, accusata di non aver osservato le direttive impartite dalla fortezza di Boghaz-kesen, fatta costruire da Maometto II. Quell’atto turpe è soltanto l’inizio di una scia in crescendo di esecuzioni che porteranno il sultano a dispiegare, come fine ultimo della sua nuova politica dittatoriale, le sue immense risorse militari per cingere in un assedio lungo e spaventoso la città di Costantinopoli.
Il diario di Eparco altro non è che il racconto dei giorni dell’assedio, una narrazione cruda e dettagliata delle violenze, delle turpitudini, delle distruzioni perpetrate dai turchi ai danni dei costantinopolitani e, ancor di più, il racconto della tensione psicologica che soggioga un intero popolo nell’attesa di un attacco che sembra non voler essere mai sferrato. La crudeltà dei nemici si misura, infatti, sull’intensità del panico psicologico che riescono a diffondere – dall’esterno all’interno delle mura – mediante la presenza dell’esercito invasore che, per settimane, rimarrà immobile, percepibile non con gli atti, bensì col suo alito minaccioso di terrore e orrore.
I dettagli dell’avvenimento storico, lo studio sociologico delle masse di fronte alla possibilità di eventi catastrofici, denotano da parte di Malaguti un lavoro di documentazione vasto e approfondito. Ciò di cui ci si rende conto al termine della strabiliante lettura, è proprio la preparazione sottesa alla scrittura del romanzo. Lo stile, la lingua, le molteplici nozioni artistico-architettoniche, religiose, storiche, concorrono a fare di La reliquia di Costantinopoli un romanzo irrinunciabile, soprattutto per gli estimatori del genere.
Realtà storica e fantasia si amalgamano in La reliquia di Costantinopoli per raccontare il tentativo di Gregorio Eparco e di Malachia Bassan di salvare, metaforicamente, l’anima della città. Un progetto ambizioso, ma non impossibile, che si snoda in maniera serrata tra peripezie, difficoltà e risoluzioni di arcani enigmi. Al ridestarsi da un sogno ricco di simbolismi, Gregorio capisce di essere stato investito da una missione “divina”: recuperare e portare in salvo le reliquie sacre, le quali, nel corso dei secoli, sono state nascoste nei sotterranei di Costantinopoli. L’impresa non salverà la Nuova Roma dalla distruzione, ma permetterà di metterne in salvo l’essenza sacra, di sottrarla allo scempio che, da lì a poco, i turchi attueranno.
Decisamente dantesca la discesa nel labirintico sottosuolo della città; mentre si segue con ansia il ritrovamento delle reliquie sacre, non si può fare a meno di percepire la presenza discreta delle ombre di Dante e Virgilio. Un riecheggiare continuo della Commedia accompagna l’esplorazione dei luoghi misterici ormai dimenticati: la missione divina, la salvezza dell’anima e, dal punto di vista dello stile, l’uso frequente di metafore e similitudini.
Una lettura impegnativa, quella di La reliquia di Costantinopoli, una prosa elaborata, a tratti poco fluida, ma anche brani permeati da un lirismo commovente. Quando la descrizione del dato oggettivo si fa pesante, ecco che Malaguti irrompe col sentimento e regala frammenti poetici indimenticabili, attraverso i quali si sprigiona l’interiorità emotiva delle sue creature:
«E fu a quel punto che si compì il miracolo. Come una gigantesca tenda che venga lentamente sollevata, o come il crepuscolo dell’alba rivela agli occhi del pellegrino, perdutosi in una selva, i contorni degli alberi e delle rocce a poco a poco, sì che egli non riesce quasi a dire in quale momento preciso abbia iniziato a distinguere tra le tenebre, così la nebbia, sfilacciandosi pigramente sotto tiepidi refoli di vento, iniziò a scoprire tratti via via più larghi di cielo azzurro e nitido, sul cui fondo volano indolenti i gabbiani. Ma furono le rondini, con le loro traiettorie inconfondibili, tutte folli pieghe e fughe festose, a rivelarmi dove fosse la terraferma, quando questa era ancora avvolta dalla caligine, e a guidare il mio sguardo nella giusta direzione. Poi vidi qualcosa spuntare dalla nebbia. Ed era lei, la Città, la mia città, e mi accoglieva, si mostrava ai miei occhi, con il pudore verecondo e lieto dell’amante fedele. La gioia traboccò dal mio cuore, perché non avevo capito di essere già giunto a casa, e perché, soprattutto, non avevo mai visto la Città sorgere splendida dalle acque, come un diamante incastonato in una corona di zaffiri, come un monte cinto di nevi perenni che svetta tra i pascoli azzurri di Nettuno, come il volto della donna amata che, tra tutti gli altri volti, unico splende agli occhi dell’amante».
Una dichiarazione d’amore per Costantinopoli che fa immedesimare il lettore nell’attaccamento di Gregorio alla sua terra, alle sue origini e presentire il dolore di doverla lasciare per sempre, quando Maometto l’avrà definitivamente distrutta:
«È lì, la Città, ed è sempre lei, superba e maliarda, regina e meretrice, madre e amante di tutti gli uomini; esiste e resiste nonostante tutto, nonostante noi non le apparteniamo più, nonostante lei non appartenga più a noi».
(Paolo Malaguti, La reliquia di Costantinopoli, Neri Pozza, 2015, pp. 590, euro 18)
Se c’è una cosa capace di mettere in crisi chi scrive, ancora prima di uno spettacolo terribilmente brutto, è uno spettacolo terribilmente bello. Per uno spettacolo brutto, l’imbarazzo sta tutto nel mettersi a cercare un’aggettivazione strategica che permetta al lettore attento di andare oltre la coltre fumogena delle parole, ma uno spettacolo bello, le parole, le ruba. È il caso di Niente panico
Luca Avagliano, già finalista del Festival Troia Teatro dello scorso giugno, porta in scena al Teatro Argot, per pochi giorni, uno spettacolo poderoso. Poco più di sessanta minuti di potenza travolgente. Un monologo contemporaneamente comico e disperato, intimo e pubblico, tenero e insopportabile, logico e inconcludente in cui Avagliano si consuma completamente e non risparmia una sola goccia della sua persona e della sua energia.
In un lasso di tempo brevissimo, infatti, l’autore/attore riesce ad attraversare con grazia le stanze della propria mente, presentando, sotto una luce familiare e perfettamente comprensibile, l’inestricabile matassa delle entità metafisiche generate dall’inconscio umano. Dal genitore, al fanciullo, all’analista interiore, tutti hanno spazio per affiorare sul viso e nella voce dell’inetto protagonista.
L’incipit che dà il via alla vicenda di Niente panico non è poi neanche estremamente originale: l’amore di lui e lei si consuma e, mentre lei va avanti, lui rimane intrappolato nel presente orfano della presenza dell’amata. La messa in scena, però, è incredibile. Ogni gesto, ogni parola, trasudano una verità che non può essere frutto che di uno studio enorme o di un talento naturale straordinario.
Si ride, inoltre, e si ride molto, con Niente panico, quindi la visione di questo spettacolo, non solo è fortemente consigliata, ma quasi obbligatoria. Un monito all’autore/attore: a questo punto non sarà più possibile scappare dalla responsabilità di essere sempre migliore.
Niente panico. Vaneggiamenti di un patafisico involontario
spettacolo, testo, canzoni e voci varie di Luca Avagliano
È stato un po’ il grande escluso italiano dell’ultima Mostra di Venezia La vita possibile, l’ultimo film di Ivano De Matteo. Molto apprezzato negli ultimi anni, anche in Laguna, per i suoi film improntati su un racconto realistico dei vari livelli della borghesia nazionale, De Matteo è rimasto fuori dalle selezioni veneziane nonostante la coppia di interpreti di grande richiamo Margherita Buy – Valeria Golino.
È da La bella gente, il suo secondo film da regista, che Ivano De Matteo parla sempre delle famiglie. Famiglie in difficoltà più o meno evidente, incapaci di mantenersi in piedi o di unirsi di fronte all’imprevisto È lì che si struttura l’individuo e di conseguenza la società.
In La vita possibile la famiglia si distrugge per far sopravvivere madre e figlio. Il padre è un violento dispotico che li tiene prigionieri della paura e delle botte. Dopo gli ennesimi cazzotti, Anna sale sul treno che da Roma porta a Torino insieme al figlio Valerio. Cerca riparo dall’amica Carla, attrice di teatro zitella più che single, per costruire una nuova vita possibile. In Piemonte succederanno una serie di cose, tra nuovi lavori, nuove scuole, nuovi amori, mancanze e incomprensioni.
Se in I nostri ragazzi, tratto da La cena di Herman Koch (che nel 2017 ridiventerà film con Richard Gere e Rebecca Hall), i figli erano l’oggetto della sbigottita osservazione del gruppo di genitori, così diversi e distanti dall’immagine di normalità che veniva proiettata su di loro, in La vita possibile la prospettiva si sposta direttamente su Valerio e sul suo percorso di crescita in una dimensione nuova. Il mondo adulto accompagna, senza riuscire davvero a entrare in contatto, ma accontentandosi dei piccoli segnali.
La famiglia, come detto, rimane al centro, ma più che in altri momenti del cinema del regista di Gli equilibristi siamo davanti a un racconto di formazione dall’andamento classico. L’ostacolo che Valerio deve superare per crescere è la solitudine che può diventare rabbia, illusione o frustrazione.
Come succede sempre con i film di De Matteo – e come succede spesso nei film diretti da attori –, la forza principale di La vita possibile arriva dagli interpreti, da Margherita Buy pronta a ogni sacrificio per il figlio a Valeria Golino nel ruolo dell’amica svampita, con il giovanissimo Andrea Pittorino, con una carriera decennale tra televisione e cinema all’attivo, in particolare rilievo.
La vita possibile, però, non riesce a indovinare la strada del cinema di qualità, piuttosto finisce per inciampare nei luoghi comuni del cinema italiano, dei pianti, degli urli, delle fughe in bicicletta. I singoli elementi del film funzionano anche, presi uno alla volta, ma è il loro insieme che rende tutto meno efficace, meno puntuale nel raccontare le difficoltà.
Il tema importante della violenza delle donne e soprattutto della voglia di reagire agli abusi si disperde nelle varie sottotrame di relazioni possibili e impossibili. C’è il ristoratore buono e “strano” con una colpa da espiare, c’è la giovane prostituta dell’Est (in pieno pomeriggio? in un parco pubblico del centro di Torino?) che si affeziona a Valerio perché le ricorda il fratellino, ci sono i bulletti del quartiere pronti a diventare nuovi amici. Ci sono tante cose già viste. Non c’è, però, la rabbia sacrosanta che la vita impossibile da cui Anna e il figlio scappano dovrebbe scatenare. Non c’è la paura, non c’è la determinazione. È tutto così posato, così calmo, da sembrare freddo. È un peccato, perché gli elementi di pregio ci sarebbero. Su tutti, la costruzione del rapporto madre-figlio.
(La vita possibile, di Ivano De Matteo, 2016, drammatico, 100’)
Treptower Park è immenso. Giorni fa ho dato più di un’occhiata su Google Maps. Più piccolo del Tiergarten, ma comunque una bella fetta di verde. Si sviluppa nella zona sud-est di Berlino, Alt-Treptow. Ho letto che all’interno c’è un grande memoriale dedicato ai soldati dell’Armata Rossa. Peccato non poterlo vedere. Sono le undici e mezza e siamo appena arrivati. D. e V. mi sembrano entusiasti di quello che stiamo per fare, ne abbiamo parlato molto negli ultimi mesi. I tornelli sono talmente tanti che nonostante ci sia moltissima gente non facciamo nessuna fila. Ai controlli, un ragazzone probabilmente di origine turca mi fa svuotare le tasche – sigarette, accendino, portafogli, qualche cartaccia. Non so se è autoconvincimento, ma qui in Germania mi sembrano parecchio tesi. E hanno tutti i motivi per esserlo. I recenti casi del tizio che a Monaco si è messo a sparare dal tetto e quell’altro afgano che ha preso a colpi di machete i passeggeri di un treno, hanno fatto sì che si rendessero conto di quanto possono essere vulnerabili – un esempio della tensione che si respira: il giorno prima, verso le undici di sera, un ragazzo completamente ubriaco stava scrivendo con una bomboletta spray qualcosa su un muro. Sono arrivati otto poliziotti per fermarlo, sembravano in tenuta antisommossa.
Nonostante mi sto portando appresso questa tensione da quando sono atterrato, vedo nel ragazzone di fronte a me solo un ragazzone che ha su per giù l’età mia che mi fa qualche domanda in maniera molto gentile, mi chiede da dove vengo, gli rispondo, e quando capisce che sto solo lì solo per godermi una giornata di musica, mi sorride, mi dà un opuscolo con tutto il programma della giornata e mi saluta dicendo «Ciaomammamia» (Poco prima due ragazze mi hanno messo un braccialetto a righe bianche e rosse con scritto Lollapalooza. So che tra una cosa e l’altra non me lo toglierò fino a domani, e questo mi provoca una leggera ansia. Cercherò solo di non pensarci e di non stringerlo troppo).
Dentro c’è già più gente di quanto pensassi. Ci sono moltissimi ragazzi che, per evitare di dover comprare l’alcol al festival, si sono adoperati riempiendo di vino/ birra/superalcolici/non so cos’altro dei cartoni di succhi di frutta ai quali hanno legato una sorta di tracolla con scotch o lacci. Li avevamo notati già prima sul Ring che ci portava dall’appartamento a Treptower Park. Sono giovani e giovanissimi (molti qui dentro sono chiaramente minorenni) che con queste borracce fai da te camminano mezzi sbronzi e non è ancora mezzogiorno – non sono in grado di parlare dell’ipotetico tacito accordo con le autorità di questo escamotage, ma sarebbe interessante capire come sia possibile che nessuno dica o faccia nulla quando è chiaro che quelli che si portano appresso non siano succhi di frutta.
Mi sono riproposto di guardare, nel limite delle possibilità – suonano contemporaneamente su palchi diversi in aree diverse – ogni concerto. Cantanti o gruppi di cui non avevo mai sentito parlare o che conoscevo poco. È chiaro, sono qui per i Radiohead e James Blake, ma l’intento è quello di ascoltare il più possibile. Ci facciamo un giro per vedere un po’ com’è il tutto. Seguo D. e V. che si sono fermati di fronte a qualche bancarella. Puoi personalizzare la tua maglietta con la scritta Lollapalooza, farti dipingere la faccia come vuoi, coprirti di brillantini, farti tatuare un unicorno; e infatti è già pieno di gente con la faccia dipinta o coperta di brillantini o con il tatuaggio dell’unicorno. Ci spostiamo e andiamo verso l’area dove ci sono i due palchi principali. Si iniziano a vedere i primi ragazzi con magliette dei Radiohead: alcune sono ufficiali, altre no. Quelle che vanno per la maggiore sono quelle del tour di In Rainbows. Il palco principale è in una zona vastissima: avrebbero potuto fare il festival anche solo lì e nessuno si sarebbe lamentato. Ordiniamo una prima birra in uno dei tantissimi chioschetti distribuiti in tutto il parco. Paghi 4,50 Euro, ti danno un gettone, se riporti il bicchiere e il gettone ti restituiscono un euro. Comunque la vedi, è un sistema che funziona.
Sta suonando Aurora, di cui non ho mai sentito parlare. Rimango impressionato da un paio di pezzi. Ogni tanto passano ragazzi con dei fusti di birra sulle spalle, altre volte ragazzi che vendono sigarette portandosi dietro una bandierina con scritto, appunto, Cigarettes. Aurora è brava, ma è una Dolores dei Cranberries che gioca a fare il cosplay di Bat For Lashes.
Ascoltiamo un altro po’, guardo D. e V., facciamo qualche considerazione su quello che stiamo ascoltando, e decidiamo di fare un altro giro. Finiamo la birra, riprendiamo il nostro euro, ne ordiniamo un’altra.
Abbiamo fame. C’è un’infinità di posti dove mangiare, stand di tutti i tipi: difficile scegliere. Cinese, giapponese, vietnamita, thai, uruguaiano, messicano, kebab, pizza, wustel, hamburger. C’è di tutto. Ogni zona del parco è presidiata da stand. Sono talmente tanti, che non fai mai la fila – possiamo dire qualsiasi cosa sui tedeschi, ma a livello organizzativo sono davvero impressionanti: hanno tirato su un evento del genere in una maniera impeccabile. Comunque. Hai fame? Mangi immediatamente. Non c’è quel momento di esitazione che ti fa posticipare o anticipare il pranzo, nessun «aspettiamo un attimo e poi andiamo», oppure «mangiamo ora che altrimenti non mangiamo più». Mi decido. Senza pensarci troppo ordino dal cinese un piatto di noodle – mi versano gli spaghetti in un cartone con disegnati draghi che volano sopra la Muraglia Cinese –, mentre D. e V. optano per una sorta di mini-calzone ripieno di funghi e ricoperto da panna acida. Ci fermiamo in uno dei pochi punti d’ombra rimasti e mangiamo mentre qualcuno ha iniziato a suonare su un qualche altro palco. Passiamo un’oretta a chiacchierare e ci accorgiamo che le persone iniziano ad aumentare. Ce ne accorgiamo dalla polvere che comincia a sollevarsi da terra. Decidiamo di alzarci, andiamo da qualche parte senza nessun obiettivo, se non quello di andare in bagno. Se il numero di entrate/tornelli era impressionante, il numero di bagni chimici posizionati come tantissime casette a schiera in un ipotetico paesaggio di una città dimenticata dal mondo, è davvero incredibile.
Non so quanta gente ci sia, ma fare neanche tre minuti di fila per andare in bagno in una situazione del genere ha dell’incredibile (incredibile è un aggettivo che mi viene spesso in mente mentre penso a come è gestito il tutto) – il fatto che non ci fosse la possibilità poi di un risciacquo continuo come sono abituato nei bagni chimici qui in Italia, o almeno quelli con cui ho avuto a che fare io, e di trovarmi una sorta di discarica davanti agli occhi non è proprio gratificante, il che potrebbe tranquillamente riequilibrare ogni cosa nella mia percezione della cosa, farmi ripensare al concetto di organizzazione impeccabile alla luce di una condizione igienica non proprio adeguata, ma il fatto che ogni tot passino aspirando tutto con delle pompe collegate a dei camion della spazzatura, beh, mi fa pensare che forse hanno trovato il modo con cui affrontare questo tipo di eventi. Chiedo a V. come ha fatto ad affrontare la situazione e lei mi risponde guardandomi sconsolata.
Vaghiamo un po’ per Treptower Park. Qualcuno sta suonando. Mi accorgo che sono gli Years & Years e chiedo a D. e a V. se gli va di andarli a sentire. Sono molto incuriosito, avevo ascoltato qualcosa nell’ultimo anno e volevo vedere com’erano, anche solo per quel pezzo, “King”, che in qualche modo – tra supermecati e altro, non ricordo se quest’anno o quello prima o l’anno ancora prima – conoscevo inaspettatamente a memoria. Ci prendiamo un’altra birra con il solito giochetto del gettone e ci mettiamo sotto un albero ad ascoltarli. Per quanto posso essere incuriosito, fa troppo caldo per stare lì in mezzo sotto al sole. E sarà appunto il caldo, un po’ di stanchezza che inizia a farsi sentire, il cinese mangiato poco prima, l’insieme di tutto questo, ma sento i muscoli iniziare a rilassarsi e trovo gli Years & Yars piacevoli. Una sorta di boyband mascherata da gruppo indie con qualche sprazzo di The XX.
Dopo un altro po’ di chiacchiere e di silenzi, con D. e V. decidiamo di andare a vedere qualche altra zona. Ci incamminiamo verso un lato che non abbiamo ancora esplorato, e ci troviamo nel bel mezzo del concerto di Tujamo. 40, 45 gradi al sole, un caldo insopportabile, un numero spropositato di persone che ballano – o fanno quelle mosse con cui il corpo ondeggia dal basso verso l’alto (o dall’alto verso il basso), adeguando anche un certo movimento delle braccia/mani, assecondando il ritmo della techno dance che sta uscendo con prepotenza dalle casse del palco – che non è propriamente ballare, ma non è neanche qualcosa che possa essere definito come non-ballare. Provo una grandissima invidia per tutti loro che non si fermano di fronte all’evidente difficoltà dettata dalle condizioni climatiche e che stanno lì, si muovono, ridono, sembrano felici.
Finiamo in un mini circo dove si può giocare ai classici giochi da fiera rivisti in chiave no challenge – prova a colpire con una pallina leggerissima dei barattoli e a buttarli giù; metti alla prova i tuoi riflessi cercando di schiacciare con un martello delle delle noci lasciate cadere giù lungo un tubo da un hipster con pantaloni alla zuava; cerca di fare canestro in un cesto di vimini con una pallina ricamata pazientemente a mano. Non paghi per giocare e non vinci nulla se vinci. Giochi solo per il gusto di giocare. Giuro che sono stranito da questa cosa – gioco comunque per vincere, altrimenti che gioco a fare? –, ma mi piace. Fuori dal mini circo c’è una piccola struttura ottagonale, dove su ognuno dei lati c’è un disegno e su ogni disegno ci sono uno o più fori ovali dove puoi infilare la testa e poter essere così un orso, un domatore di leoni, un funambolo. Passiamo un po’ di tempo a farci foto e a bere birra, ci divertiamo.
Per quanto la birra tedesca sia leggera, l’alcol inizia a salire. Abbiamo praticamente nello stesso momento un attacco di fame alcolica incontrollabile – il mix di alcol+quantità non definita di posti dove mangiare, la possibilità di poter scegliere in continuazione cosa mangiare, la diversità di cibo che puoi scegliere, il fatto che essendo in vacanza uno si senta mentalmente più libero di eccedere, sono input che arrivano e che non riesci a gestire completamente.
Ci ritroviamo così in un chioschetto che vende cibo uruguaiano: sul menu ci sono quattro piatti in tutto, li ordiniamo – sono come dei mega ravioloni al forno pieni di carne o verdure.
Finalmente sazi, ci accorgiamo che manca poco al concerto di James Blake. Il sole inizia la sua parabola discendente. Guardando il palco, ci appostiamo leggermente defilati sulla sinistra. C’è già molta gente, ma si può stare senza alcun problema. Il tempo di un’altra birra e Blake sale sul palco.
Sono in tre, come sempre. Lui si apposta seduto dietro alle tastiere. James Blake è bravo, su questo penso si possa dire poco. Ma per quanto mi siano piaciuti tutti e tre i suoi album, trovo nel suo approccio alla musica un limite nettissimo: va a toccare sempre le stesse corde, usa sempre lo stesso tipo di linguaggio e parla sempre allo stesso interlocutore che si trova sempre con la stessa identica predisposizione d’animo. E vederlo dal vivo non fa che confermarmi questa sensazione. Ha suonato dieci pezzi andando a pescare da James Blake, Overgrown e Colour In Anything. Tutto il suo repertorio. E per quanto pezzi come “Limit To Your Love”, “Timeless”, “Retrograde”, “The Wilhelm Scream” siano oggettivamente dei gran bei pezzi, è inevitabile che a un certo punto arrivi la noia. Il pubblico comunque apprezza, lui fa molta tenerezza quando dice che quelli che suoneranno tra poco renderanno questa serata ancora più incredibile. Il sole scompare dietro gli alberi. James Blake lascia il palco.
Passiamo mezz’ora a chiacchierare. Vado a prendere una birra per tutti e tre e andando mi accorgo di quanta gente stia arrivando. Cerco di non schiacciare nessuna mano e nessun piede. Il ritorno con tre birre in mano è complesso, ma ce la faccio. La gente inizia ad ammassarsi, inizia a spingere, a cercare di sfruttare qualsiasi spazio non occupato da altre persone per arrivare chissà dove.
Non è il primo concerto dei Radiohead che vado a vedere e posso dire senza dubbi una cosa: i concerti dei Radiohead fanno schifo. Le persone si accalcano, ti spingono, ti tirano addosso la birra, parlano, non cantano – o cantano solo per alcune canzoni –, e quando lo fanno lo fanno in maniera sguaiata, sono coinvolte non perché i Radiohead stanno suonando, ma perché loro si trovano, sono presenti a un concerto dei Radiohead – la differenza tra le due cose è abissale. Almeno questo è quello che ho sempre provato. La situazione infatti inizia a essere ingestibile e mancano ancora diversi minuti all’inizio del concerto. Con D. e V. decidiamo di spostarci un po’ più indietro.
Troviamo un buon posto e aspettiamo. Mi rendo conto che il concerto sta per iniziare, e per quanto da quando ho preso i biglietti a ora è stato un continuo «Tanto è un festival, ci sarà una scaletta da festival, quindi niente sorprese», ora è semplicemente «Stanno per suonare i Radiohead». Me ne rendo conto, sono contento.
L’apertura è sempre la stessa: “Burn The Witch”, “Daydreaming”, “Decks Dark”, “Desert Island Disk”, “Ful Stop”. Salvo in pochi casi, durante questo tour le prime sono sempre state queste, in quest’ordine, cosa che mi ha sempre un po’ intristito. “Burn The Witch” è inascoltabile dal vivo. Si capisce già dai video su Youtube. L’assenza dell’orchestra dell’album non riesce a essere sopperita dalle distorsioni di Thom Yorke e Ed O’Brian e dall’archetto di Johnny Greenwood sulle corde della chitarra – ne esce una specie di surrogato di “Planet Telex” vent’anni dopo.
Il concerto vero e proprio inizia da “Daydreaming”, eseguita alla perfezione. In un silenzio sacro. No, c’è qualcosa che non mi torna. In realtà qualcuno sta parlando. Di fronte a me c’è una coppia. Due spagnoli. Si baciano, si toccano. Giuro, questo non è un problema. Amatevi pure durante i concerti. Il problema è che quando non si baciano e non si toccano, parlano. Parlano ad alta voce. Continuano a parlare anche su “Decks Desk”, quanto Colin Greenwood sbaglia un paio di note e Yorke si gira come per dire «Colin, ma che stai facendo?» (Però che roba quando Johnny entra con la chitarra nell’outro). Parlano ancora, lui si muove in modo osceno, completamente fuori tempo, fuori contesto, fuori dal buon gusto. “Desert Island Disk” è una piacevolissima sorpresa. In A Moon Shaped Pool forse è uno dei pezzi che esce meno, ma dal vivo gira che è una meraviglia. Parte “Ful Stop” e D. è a mille. Mi guarda e inizia a battere le mani. Yorke si esibisce in uno dei suoi balletti sgraziati da pazzo in un brano che suona come un’intepretazione inglese nel 2016 del Kraut Rock. E i due spagnoli continuano a parlare. Guardo V. e anche lei non sa che fare, la cosa prende dei connotati piuttosto imbarazzanti. Da un po’ di tempo Greenwood ha cambiato il tipo di pennata sull’arpreggio di “2+2=5”, D. mi dice che non gli piace, io gli dico che concordo, non so perché ma non ho il coraggio di dirgli che invece a me piace. Su “Lotus Flower” i due spagnoli esagerano, ma non me la sento di dirgli nulla. Li odio, li odio fortemente, ma non voglio alterare nulla. Si è creato uno strano equilibrio che attinge anche dall’odio che nutro nei loro confronti. Yorke sta cantando molto bene, è in forma, si vede che gli va di stare lì. Dopo il falsetto di “Reckoner”, il primo classicone, “No Surprises”. I cellulari che fino a quel momento erano stati tirati fuori da pochissime persone, ora illuminano quasi interamente il pubblico. Addirittura lo spagnolo sta registrando con il suo iPhone. “Bloom”, “Identikit”, “The Numbers”. Nella prima la combo Phil+Clive alla batteria sprigiona una prepotenza ritmica incredibile. “Identikit” dal vivo è molto più rock con i power chord di Ed, e “The Numbers” sembra venga suonata con meno cuore: il finale, che è forse l’obiettivo principale del pezzo, viene velocizzato ed eseguito senza il pathos necessario. Con “Burn The witch”, la peggiore.
I due spagnoli hanno parlato tutto il tempo, non so cosa fare. Contemporaneamente, di fronte a me, due tizi che mi danno almeno quindici centimetri, hanno deciso di chiacchierare di non so cosa. Quindi la mia visuale è un pezzo di palco che ha come confini i profili imperfetti di questi due. Fortunatamente, però, tra una cosa e l’altra, si spostano leggermente verso destra e non ho più problemi. Da qui fino alla prima pausa: “The Gloaming” – quelle luci da palco verdi che sono solo le luci di “The Gloaming”, e il basso inserito nelle versioni dal vivo che è la fine del mondo –, il piano sincopato di “Everything In Its Right Place” a cui hanno legato “Idioteque”, “Bodysnatcher” che è il pezzo più rock dai tempi di The Bends, e dal vivo si vede ancora di più, che sprigiona una forza che ha il suo acme nel cambio strutturale in cui Ed entra con l’ebow. Ed eccoci a “Street Spirit (Fade Out)”, il pubblico canta, i due spagnoli continuano a fare quello che hanno fatto per tutto il concerto, ma non mi interessa più. Siamo alla prima pausa.
Si riprende. Appena capisco che stanno per suonare “Let Down”, mi giro verso D. e gli dico che ora vado a correre sul serio nudo per Alexander Platz. “Let Down” è un pezzo che aspettavo da sempre, l’hanno riproposta quest’anno dopo dieci anni di assenza, sta nel mio personale Olimpo dei Radiohead, mi commuovo mentre Yorke canta in crescendo «You know where you are with». Sono talmente su di giri che non mi accorgo che i due spagnoli se ne sono andati. In qualche modo, la fine di una mini-era.
“The Present Tense” è semplicemente la riconferma che solo i Radiohead potevano prendere quello che Yorke suonava da solo al Latitude 2009, sdrammatizzarlo, ficcarci dentro la samba e renderlo ancora più potente. Un pezzo di gran classe. D. è fuori di sè. Altro classicone: “Paranoid Android”. Nessuna sbavatura. Il pubblico canta «Rain down on me» all’unisono. La sacralità, questa volta totale, con cui viene accolta “Nude” dal pubblico è da brividi – nonostante Colin si inceppi un paio di volte – e l’intreccio di chitarre in “Arpeggi/Weird Fishes”, ci portano alla seconda pausa. Mi giro verso D. e V. e gli dico che tanto ora chiudono con “Creep” e “Karma Police” . Perché è un festival e perché il pubblico dei festival si aspetta determinate cose.
Nonostante faccia la parte dell’intransigente, dell’anti canzoni che conoscono tutti e che tutti cantano, dell’anti-festival nonostante mi trovi a un festival, quando risalgono sul palco per chiudere una giornata incredibile e suonano sul serio “Creep” e “Karma Police”, mi sento davvero in pace con il mondo.
Limite: dal latino limes, confine, linea terminale o divisoria, livello massimo al di sopra o al di sotto del quale si verifica normalmente un fenomeno, impedimento fisico, umano oppure divino.
Questo è il tema da cui lasciarsi ispirare per partecipare alla selezione dei racconti per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, il #6. Una traccia deliberatamente nebulosa, un concetto il cui significato finale sia determinato in maniera esclusiva dall’autore, dalla sua capacità di interpretare e modulare una sostanza vaga e polisemica fino a renderla una cosa netta, chiara, propria.
La partecipazione al nuovo contest è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no.
I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail titolo, nome e cognome. La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 15.000 e le 40.000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 21 ottobre 2016 e la partecipazione è gratuita.
Dopo un’attenta lettura, i testi più meritevoli saranno sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui è affidata la cura redazionale del volume, e pubblicati sul prossimo numero dell’antologia periodica effee suAltre Narratività, la sezione di Flanerí dedicata ai racconti brevi.
Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività è un progetto indipendente che coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.
Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Marco Lazzarotto (Indiana), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Romagnoli (Transeuropa), Paolo Zardi (Neo edizioni), Vins Gallico (Fandango Libri) e Demetrio Paolin (Voland).
Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.
Non è stato accolto bene Demolition allo scorso Toronto Film Festival, e non poteva essere altrimenti. Il nuovo film di Jean-Marc Vallée conferma, dopo Wild, l’incapacità del regista canadese di confermarsi ai livelli di Dallas Buyers Club, il film della definitiva consacrazione internazionale dopo gli interessanti primi film.
C’è un problema generale di ricerca eccessiva dell’empatia con personaggi con cui è difficile entrare in sintonia. Se in Dallas Buyers Club si veniva facilmente distratti dalla magrezza di Matthew McCounaghey, già in Wild ci si chiedeva perché si dovesse fare il tifo per una persona che aveva deliberatamente deciso di buttare la sua vita per poi riprendersi. In Demolition, la reazione fredda e introspettiva del protagonista Davis Mitchell tiene lontani, non coinvolge.
Davis lavora nella banca di investimenti del suocero, è sposato con apparente serenità quando un incidente stradale gli porta via la moglie. Nei giorni immediatamente successivi Davis non ha alcuna reazione se non arrabbiarsi con una macchinetta dell’ospedale che non gli dà le M&M’s. Durante la veglia funebre decide di scrivere una lettere di reclamo ai produttori del distributore, poi un’altra, e un’altra. Una notte riceve una telefonata da Karen, l’addetta al servizio clienti della compagnia. Tra i due nasce uno strano rapporto a distanza che poi li porta sempre più vicini, coinvolgendo anche Chris, il figlio adolescente di lei.
Non si può negare che lo spunto iniziale delle lettere di protesta sia interessante, originale nella sua dimensione completamente surreale. Al dolore si reagisce in vari modi. Davis manda lettere e smonta le cose per cercarne il meccanismo interno. Incapace di provare qualcosa di vero, si attacca a reazioni prive di logica per sentirsi meglio.
Come detto in apertura, il limite più grande di Demolition rimane l’impossibilità di empatizzare con Davis. Non è solo la freddezza della reazione il problema. Di uomini rimasti vedovi che non sanno come confrontarsi con quello che resta se ne sono visti tanti al cinema di recente, da La foresta dei sogni dello scorso anno a A Single Man di Tom Ford. Qui, però, l’apatia si accompagna a un percorso di recupero che appare a dir poco privo di senso, sorretto da personaggi di contorno poco credibili e molto poco strutturati.
A distinguersi, forse, è solo il Chris del giovane Judah Lewis, con la sua confusione e la sua rabbia adolescenziale, ma è più per il livello dell’interpretazione che per qualche merito specifico del personaggio.
Discorso a parte merita Jake Gyllenhaal. Arrivato alla soglia dei trentasei anni, l’ex Donnie Darko è ancora alla ricerca del film che lo consacri definitivamente come l’attore di talento che è. Dopo I segreti di Brokeback Mountain e la relativa nomination agli Oscar come migliore attore non protagonista (era il 2006, vinse George Clooney per Syriana), l’Academy sembra essersi completamente dimenticata di lui. Nonostante i film con David Fincher, il sodalizio con Denis Villeneuve, il dimagrimento nervoso per Nightcrawler e la massa di muscoli tirata su per Southpaw lo scorso anno, non sono arrivate altre nomination. Ora prova ad affidarsi a Vallée, regista che negli ultimi anni si è specializzato nel far fare bella figura ai suoi attori, con i due Oscar per Matthew McConaughey e Jared Leto per Dallas Buyers Club e la nomination per Reese Witherspoon per Wild. È impossibile, in tutta onestà, che il suo Davis catatonico venga nominato per qualsiasi premio. Gli andrà meglio, ci auguriamo per lui, con Nocturnal Animals di Tom Ford.
(Demolition – Amare e vivere, di Jean-Marc Vallée, 2015, drammatico, 100’)
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