“Isole minori”
di Lorenza Pieri

Isole minori (Edizioni e/o, 2016), romanzo d’esordio dell’editor Lorenza Pieri, mostra un percorso lungo il quale cresce la consapevolezza di un’impossibilità che non equivale però a una sconfitta. È la consapevolezza, da parte della voce narrante Teresa, di restare visceralmente legata alla sua condizione di minorità ontologica e geografica. Infatti le due vere protagoniste di questo romanzo, grondante di vissuto pieno di umori che la pagina mantiene intatti, sono l’isola del Giglio, «quell’isola che sembrava distante da ogni cosa», e Teresa stessa, la sorella minore di Caterina, «la parte intelligente di me, la mia complice aguzzina, la mia metà cattiva, la metà geniale, la metà più amata, quella che mi sarebbe mancata sempre».

Inquiete sono le donne di questa saga familiare tutta declinata al femminile. Vanno e vengono dal Giglio in cerca della loro giusta collocazione e della loro pace: «Eravamo una strana pianta di frutti donna, trapiantata dalla Pianura Padana all’isola, in cui mio padre aveva tessuto la sua comoda tela di ragno, senza averlo davvero deciso, servito e riverito in quanto unico uomo e in quanto tale anche sempre sorvegliato e criticato».

Nonnalina, taciturna e trincerata dietro il dialetto, aveva fatto la guerra e la resistenza rimanendo precocemente vedova: «In camera di Nonnalina c’era una cornice di legno con cinque ovali. In ogni ovale c’era la fotografia in bianco e nero di un uomo. Erano tutti giovani, tranne uno più vecchio coi baffi. Erano tutti pallidi e senza sorriso. Si somigliavano anche se ce ne era uno che sembrava un ragazzino. Quello con gli occhi più tristi era il nonno che non avevamo mai conosciuto.

Le vite di quegli uomini erano un segreto. Non se ne poteva parlare. Nonnalina parlava pochissimo in generale, sempre in dialetto e mai del suo passato».

Nonnalina aveva cresciuto da sola Elena, la madre di Teresa e Caterina, detta la Rossa per via delle sue preferenze politiche. Elena è una donna semplice ma appassionata, vittima però di un sistema più forte di ogni ideale di libertà e di convinzioni politiche, «un essere soprannaturale, la mia madreperla, quella che sapeva e faceva la storia, la donna – come mia nonna del resto – della quale non sarei mai stata all’altezza».

Isole minori è una sorta di catalizzatore letterario dei travagli interiori di più di quarant’anni italiani del secolo scorso. L’autrice riesce a trovare un efficace equilibrio drammatico fra due fatti decisivi della storia d’Italia: la protesta nel 1976 degli abitanti del Giglio, che arriveranno a bloccare il porto, per non far arrivare Franco Freda e Giovanni Ventura (che nell’immaginario infantile di Teresa e Caterina diventano un unico mostro, «Fredevventura», condannati al confino lì sull’isola in quanto imputati della strage di Piazza Fontana del 1969, e il disastro della Costa Concordia nel gennaio del 2012.

In questo romanzo le donne sanno vivere meglio degli uomini, come dimostra la figura marginale del padre Vittorio. La loro forma corpo è quella di un’isola, indipendente e bastante a se stesse. L’infanzia e l’adolescenza di Teresa sono ripensate senza dolcezza, senza tenerezza. È un’infanzia pronta a mettere le radici nella consapevolezza tuttavia che le radici sono sempre fragili, che nei giorni più limpidi e solari si nascondono insidie (i litigi e la separazione dei genitori), che ogni radioso paesaggio può di colpo sparire (il relitto della nave da crociera sull’isola).

Teresa e Caterina sono molto diverse e complementari. L’una è la buona, l’altra la cattiva che si esercita a provare rancore verso tutto e tutti. Del resto, la famiglia può essere un porto comodo e accogliente. In famiglia si può crescere e diventare adulti ma anche rimpicciolirsi e logorarsi. C’è chi ci si riconosce e ci ritorna. Chi invece si sente un alieno incompreso e vuole solo scappare.

Teresa proverà, una volta diventata madre, a impostare la propria vita sul continente ma all’esilio a Roma corrisponde in lei un esilio interiore, un silenzio da custodire gremito d’immagini e pensieri inconfessabili, di appagamenti effimeri e deludenti.

Isole minori è la storia di una partenza e di un ritorno e anche dell’essenza dell’amore. Il Giglio, punto di appoggio e baricentro, è la Procida che fa crescere e fortifica l’Arturo della Pieri, Pietro, amico di infanzia e primo mai dimenticato amore di Teresa.

Il libro ci avvolge in una patina splendente, culla e ristora come un temporale estivo ma allo stesso tempo macchia e graffia come facevano i rami degli alberi della pineta quando ci si correva in mezzo da bambini: senza fare male.

 

(Lorenza Pieri, Isole minori, Edizioni e/o, 2016, pp. 224, euro 17)

“La voce umana”
di Jean Cocteau

La voce umana è un’opera del 1930 e rappresenta la pièce più celebre dello scrittore francese Jean Cocteau.

In scena, in una camera con un letto sfatto, è presente solamente una donna al telefono. L’apparecchio suona, ma in quella camera che sembra essere ritagliata nel buio, il segnale è stentato e la conversazione procede faticosamente e a singhiozzo.

Elegante, ma scomposta, la donna si affanna per cercare di rimanere attaccata all’ultima telefonata con l’amante. L’ultima, drammatica, conversazione che, con la scusa di concordare come smaltire le scorie dell’amore – una valigia con pochi vestiti e le lettere scambiate negli anni, da bruciare, il cane, inconsolabile e rabbioso – le permette di sentire ancora la sua voce.

Cocteau scrive un monologo così perfetto che si ha la sensazione esatta dell’articolarsi della conversazione: la tenerezza malcelata, la preoccupazione che entrambi gli interlocutori nutrono per la salute dell’altro, la dolce inflessibilità dell’uomo nel cercare di contenere la donna all’interno dei confini del confronto civile, di impedirle di cedere alla disperazione e al languore della nostalgia, il tentativo goffo della donna di suggerire ancora il sentimento nascondendo un «amore mio» dietro ogni intercalare.

Il monologo telefonico rivela, nel procedere, risvolti sempre più amari mostrando come la donna, abbandonata, si riscopra priva di appigli e di amicizie, sola al punto da disperarsi e tentare il suicidio, prostrata dall’impotenza nei confronti dell’epilogo imminente della storia d’amore con l’uomo all’altro capo del filo.

Abbassare la cornetta – recitano le note di regia – rappresenta un atto distruttivo, che nega l’esistenza stessa della donna e decreta la vittoria dell’impossibilità/incapacità di comunicare. Rifiutare il dialogo, in questo testo, significa imporre il silenzio e la morte.

La voce umana è un testo indiscutibilmente complesso, doppiamente difficoltoso da interpretare in quanto, da un lato, impegna l’interprete a dare voce e animo anche al personaggio invisibile dell’uomo, dall’altro richiede un’autenticità assoluta dei sentimenti, per evitare di cadere in un’atona ripetitività.

Veronica Visentin si confronta con attrici del calibro Anna Magnani, Una voce umana per la regia di Rossellini, e si dimostra capace di dimostrare una sensibilità rara – per quanto incostante – riempiendo di senso e di vissuto alcuni passaggi. Nonostante ciò è poco apprezzata la declinazione digitale della telefonata, con la mancanza di segnale a rendere l’effetto dello scarso livello della comunicazione telefonica parigina d’anteguerra. L’eleganza naturale della Visentin avrebbe, del resto, permesso di collocare la messa in scena anche all’interno della cornice originale dell’opera, sfruttando maggiormente i momenti ironici per ammantare il personaggio dell’algida compostezza delle donne in bianco e nero.

 

La voce umana di Jean Cocteau

regia di Giancarlo Gentilucci
con Veronica Visentin
Roma, Teatro Vittoria, 15 settembre 2016

Poster di Alla ricerca di Dory su Flanerí

“Alla ricerca di Dory”
di A. Stanton e A. MacLane

Arriva nelle sale Alla ricerca di Dory, seguito a quasi quattordici anni di distanza di uno dei più grandi successi di casa Pixar, Alla ricerca di Nemo, premio Oscar per il miglior film d’animazione nel 2004. Il pesce pagliaccio Marlin e suo figlio Nemo sono di nuovo in viaggio, questa volta per aiutare la loro amica Dory, la pesciolina smemorata che ora vuole scoprire la verità sul suo passato e su quei genitori che non ha mai smesso di cercare.

Siamo un anno dopo, più o meno, i fatti del primo film. Nella barriera corallina è tornata una parvenza di normalità dopo il lungo viaggio sulle tracce di Nemo. Dory, però, sente il bisogno di sapere di più del suo passato di cui ricorda solo poche confuse immagini. Decide di partire alla ricerca dei suoi genitori puntando la California, dove forse qualche brandello di memoria le dice che potrebbe trovarli. Marlin e Nemo si mettono sulle sue tracce per non lasciarla sola e tutti insieme finiscono in un centro oceanografico dove forse troveranno davvero quello che cercavano.

La Pixar ha deciso di adottare per i prossimi anni una strategia di sequel che porterà nelle sale Gli incredibili 2, Cars 3 e Toy Story 4. Non è un periodo in cui i seguiti e le operazioni nostalgia vanno proprio alla grandissima nel mercato cinematografico, salvo alcune enormi eccezioni (tipo Mad Max: Fury Road, o Jurassic World, o Star Wars.

Disney e Pixar, però, sanno bene quello che fanno e infatti Alla ricerca di Dory è già entrato nella storia per una serie di motivi: è il cartone animato ad avere incassato di più nel botteghino statunitense; è il più grosso incasso della storia della Pixar, sempre negli Stati Uniti; è il secondo incasso della stagione dopo il settimo episodio di Guerre stellari. Tutti grandi risultati.

Nei fatti, Alla ricerca di Dory si pone numerosi gradini al di sotto dell’originale e del podio dei capolavori assoluti firmati Pixar (lì ci sono Inside Out, Up, i Toy Story, almeno il primo e il terzo, Wall-E e Nemo). È un grande film per famiglie, senza dubbio, che fa il suo lavoro in termini di divertimento e spettacolo, ma gli manca quella dimensione ulteriore che è in grado di fare la differenza.

Quello che è certo è che anche in un film “minore” come questo, la squadra guidata dai registi Andrew Stanton e Angus MacLane riesce a fare un lavoro incredibile sia sul piano puramente tecnico, con il polpo Hank semplicemente straordinario nella fluidità di movimenti, sia su quello del messaggio. Sono vent’anni, ormai, che la Pixar riesce a mandare messaggi nella forma dell’intrattenimento più puro. Come in Alla ricerca di Nemo, la disabilità e la capacità di superarla tornano a essere le tematiche centrali in questa avventura di Dory. Se il piccolo Nemo non si arrendeva alla sua pinna atrofica ma spingeva la sua curiosità oltre i confini del consentito, così Dory non si ferma di fronte alla sua memoria intermittente e si lancia alla ricerca della verità.

Anche in episodi al di sotto della media – altissima – a cui sono stati abituati gli spettatori, quello della Pixar continua a essere grandissimo cinema carico di una nobiltà morale che ha pochi, pochissimi altri esempi nella cultura contemporanea.

(Alla ricerca di Dory, di Andrew Stanton e Angus MacLane, 2016, animazione, 97’)

“Finché dura la colpa”
di Crocifisso Dentello

Mi fa piacere che il romanzo di Crocifisso Dentello, Finché dura la colpa (Gaffi, 2015), sia stato pubblicato. Vuol dire, questo, che le case editrici hanno coraggio e non si bloccano su scelte ovvie.

Inoltre, sono contento perché il romanzo è una delle più belle prove di un assunto a cui credo. Molte volte (troppe!) critici e/o scrittori lamentano che in Italia si scriva ma non si legga. Lunghe geremiadi riempiono le pagine culturali dei quotidiani: «Ci sono più scrittori che lettori!» E, dietro a questo lamento, (argomentato con una serie, che si vorrebbe esilarante, di errori, strafalcioni e ingenuità), si coglie, in modo nitido, un’altra indicazione: «Che cavolo vogliono questi sedicenti nuovi scrittori? Poveri illusi. Nel 90% dei casi producono schifezze. Invece vadano a leggere, e vadano a leggere i nostri testi». Provo un senso di rabbia davanti a simili esternazioni, snob e pretenziose.

Il romanzo di Dentello è una precisa testimonianza del fatto che, con poche eccezioni, chi scrive legge e legge anche molto. Chi scrive non può che amare il libro in sé e non può che amare gli scrittori a lui vicini o lontani, e non può che attingere alle loro opere con devozione, attenzione e perspicacia.

Il libro di Dentello è un esordio. Come la gran parte degli esordi è stato prima rifiutato da una miriade di editori e abbattuto da critiche feroci.

Il libro di Dentello lascia intravedere un culto vero e proprio nei confronti della letteratura. Si nutre di letteratura, e non solo in riferimento al protagonista Domenico, ma pure per l’enorme quantità di libri e di autori che sono celati nel romanzo, e di cui il romanzo è il risultato.

Quanti libri ha dovuto leggere Dentello per giungere a produrre i suoi romanzi? Migliaia. Nel corso del tempo. Finché dura la colpa è un romanzo che è nato perché chi l’ha scritto ha letto a perdifiato e con entusiasmo. Insomma cosa voglio dire: chi scrive, che sia bravo o no, pubblicato o no, è un lettore. Si scriva, quindi, e le case editrici pensino ai lettori forti che sono proprio gli scrittori di qualsiasi genere. E i critici si spingano a scrivere ancora di più e non si trincerino nel loro hortus conclusus.

Adesso torniamo al romanzo. La prima e più importante impressione è che Finché dura la colpa contenga una massa potente di carne e di sangue, di materia e di nervi, di orrore e di terrore, di passione e di tragedia.

Sfido chiunque a leggere il romanzo e a non rimanere stordito e travolto da alcune sequenze che, una volta lette, non saranno mai dimenticate. Mi riferisco, per esempio, allo scontro terribile che vede il padre minacciare e colpire il figlio Domenico per costringerlo a parlare davanti alla maestra, o l’umiliazione che subisce Domenico a opera dei suoi violenti compagni di classe.

È la grandezza del romanzo, questa vita narrata che esplode nelle mani del lettore che risulta contagiato da una malattia per la quale non c’è cura conosciuta.

La storia di Domenico, il protagonista, è la storia di un bambino, di un ragazzo e poi di un giovane che vive di libri e che si relaziona alle persone solo perché costretto, mai per sua libera scelta. Il finale, che lasciamo al piacere di una scoperta, è una conferma di una vita che si svolge entro l’orizzonte dei libri.

La famosa sfida tra vita e arte, qui, si conclude con la netta vittoria della seconda sulla prima. «Serena è l’arte seria è la vita» diceva Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Potremmo chiosare: il dramma doloroso della vita, per quanto doloroso sia, trova nella trasposizione artistica la sua unica e possibile serenità.

Domenico deve confrontarsi con la famiglia (una madre comprensiva e amorevole, quasi proustiana nella cura che dedica al suo povero figlio che è incapace di adattarsi al mondo; un padre dispotico e feroce), con una fidanzata (Anna, simil madre nella sua volontà protettiva), con un fratello scomparso (Vincenzo che resta come un alone di mistero e di incertezza).

Ma ecco che si delinea il difetto maggiore del romanzo. Il contenuto ricchissimo ed energico del testo è imprigionato in una specie di camicia di forza che lo blocca, lo castra, lo impoverisce, lo uccide. Mi riferisco al linguaggio, innanzi tutto, che non riesce a trovare una sua giusta posizione. Non è un linguaggio secco ed essenziale (non so alla Carver o alla Kristóf). Non è un linguaggio ipertrofico ed esplosivo (alla Busi o alla Moresco). Rimane a mezzaria, tentando di sollevarsi a un registro che vorrebbe ma non sa diventare veramente alto.

Le occorrenze sono numerose. Ne riporto alcune: «contemplare» «nitore» «accasciare» «inferto» «rovente» etc. Tutti termini che aspirano a una nobiltà che non hanno, o non hanno più. Si pongono come rari e non lo sono.

Compaiono, inoltre, similitudini e/o metafore che appiattiscono la storia e la deturpano («presentimenti che avvelenano il pozzo dei miei pensieri»; «sbranare un nuovo sabato sera»; «il mio orizzonte annegato in acque»; «la sua testa che ballonzola come la corolla di un fiore su un gambo spezzato»).

Mi verrebbe da dire che il linguaggio di Finché dura la colpa sia “curiale”, nel significato di uno stile da tribunale, avvocatesco, non tanto perché fumoso o tortuoso, ma in quanto si colloca su questa linea del non basso e del non alto, e del voler essere alto senza esserlo.

Alcune recensioni hanno chiamato il linguaggio di Dentello un «linguaggio ’900», credo per porre l’attenzione su un livello di scrittura che si potrebbe definire “colto”. Però qui la cultura è quella di colui che non dice «arrivare» ma «giungere», non dice «casa» ma «magione», non dice «camminare» ma «incedere», non dice «nascosto» ma «larvato» e via di questo passo.

Il secondo laccio che soffoca il romanzo è il lato dichiaratamente “romanzesco”, se così lo possiamo denominare. Se la vena d’oro che attraversa il romanzo è un’intima e stravolgente espressione di emozione e passione, disturba, invece, un certo strizzare l’occhio alle mode imperanti che chiedono thriller e suspense, scomparse e agnizioni. Dentello inserisce ingredienti che vogliono rendere il romanzo più digeribile e accessibile. E così lo rende debole.

 

(Crocifissio Dentello, Finché dura la colpa, Gaffi, 2015, pp. 243, euro 16,90)
Copertina di Le cose che restano di Jenny Offill

“Le cose che restano”
di Jenny Offill

Quali sono Le cose che restano? Almeno per me, non quelle dimesse, orchestrate con cura nella quiete più tonda. Le frattaglie impiegatizie, piene di cassetti e di bucati estivi.

Quelle sono fatte per evaporare, sono panchine in attesa dei graffi. Ogni esperienza chiama ferite, così come leggere. E questa storia mi ha sfregiato, nel petto pieno delle mie vacanze. Le cose che restano (NN Editore, 2016), primo romanzo Jenny Offill, già uscita in Italia con Sembrava una felicità, non disattende il suo titolo.

È Grace a parlare, bambina fiorita da una famiglia allergica agli stereotipi, figlia di due insegnanti, due menti bollenti e diversissime. Un padre ragionato, accogliente, regolatore di ritmi e scadenze. E Anna, la madre, perno e demiurgo di tutta la trama.

Questo è il ritratto di una diade, dove non c’è ruolo per l’affetto ben stirato e appeso al sole. Chi si aspetta d’incassare fragranze da forno e carezze impiattate, sacrifici materni e copioni domestici, qui non troverà di che nutrirsi. È un rapporto affilato, costantemente in bilico.

Grace adora sua madre, la sua bellezza sciatta e ancora sveglia da viaggiatrice eterna. Lei che studia i volatili, che conosce gli umori dell’Africa e la sommerge di favole selvatiche. Grace costeggia il lago cercando con lei la punta di un mostro, ascolta di quando «Dio aveva chiamato il pipistrello per dargli una cesta da portare sulla Luna», resta abbagliata dalle sue scaglie radioattive. E poi la teme, in una costante funambolica tensione tra l’accudimento e l’abbandono.

Anna allestisce per la figlia una stanza di soffitti neri per spiegarle la nascita del mondo, un calendario cosmico dove l’uomo sbuca come una spina solo la notte di Capodanno e quello che resta è già compiuto. Anna la istruisce, la elettrifica d’immagini e alfabeti segreti, vuole condurla a capire, ma è incapace di capirla. Così, all’improvviso, la trascina in una fuga immotivata tingendo di rocambolesco la sua disperazione e nel nocciolo più denso del deserto non esita a lasciarla sola, quella figlia sbriciolata che sembra tutta intera e spera che Anna torni. E che infine è costretta ad alzarsi per ripescarla mentre vaga.

Per Grace sua madre è alba e tenebra, capace di ogni prodigio e di vita nottambula, è un mistero smisurato quanto l’universo e il suo cuore di bambina innamorata non è che una scatola sofferta. Un’asola annodata dove di tutta quella stranezza non s’infila neanche un artiglio.

Anna è una creatura del disagio, una madre borderline dilaniata dal suo essere sul filo. E da quel cratere dilaga una bellezza da scoppio primordiale. Il Big Bang della sua luce.

E di quel buio che la ingurgita oltre il collo. Lo stesso esatto buio che fruga nel sonno di Grace: «… il buio s’infilava nel mio letto e mi si avvolgeva intorno ai piedi, toccandomi con un suono basso, quasi un fruscio. Poi mi strisciava fino al petto e rimaneva lì, sfidandomi a respirare. Se ci provavo mi avrebbe ucciso, questo era il patto tra di noi». Un buio che fa da lenzuolo, per bendare il destino di entrambe.

Non ci sono premi di consolazione, ravvedimenti, restaurazioni del focolare. L’amore chiede il sangue e non può che ottenerlo. È una maternità scavata nell’ombra, nelle fitte più ottuse del fosso. Nella follia di una mente che detta la musica.

Jenny Offill tratteggia, con innesti di fiabe e d’incanto, un personaggio malato e magnetico, che risucchia nell’orbita ogni sua emanazione, bambina inclusa.

Le cose che restano, grazie a una delicatezza armata e spiazzante, riesce a bruciare probabilmente uno degli ultimi tabù esistenti, la roccaforte del rapporto madre-figli, che spesso si glorifica a prescindere, per biologico dovere di felicità. Ma per fortuna scrivere sconfessa. Lo hanno fatto ultimamente Merritt Tierce con Carne viva, Violaine Bérot con Le parole mai dette e anche Elizabeth Strout in Mi chiamo Lucy Barton.

Per fortuna alcuni libri inchiodano il coraggio. E si accollano il marcio del vero. Quale? Accettare che spesso salvarsi non serve, nel nostro squittire da pianeti minuscoli, che dire il male è indispensabile. E lasciarsi annegare una risposta possibile. Perché quello che resta è un infinito andarsene.

 

(Jenny Offill, Le cose che restano, trad. di Gioia Guerzoni, NN Editore, 2016, pp. 240, euro 17)
Copertina di Tuffo dei Mary in June

“Tuffo” Dei Mary In June

Un flusso di coscienza rabbioso spezza l’aria rarefatta che mi circonda.  Scivolo in una densa bruma. Apro gli occhi, emergo da un mare vischioso e profondo. Ho appena finito di ascoltare Tuffo (V4V-Records, 2016), album d’esordio dei Mary in June, gruppo attivo dal 2010 e già noto nell’ambiente indie di Roma grazie all’EP Ferirsi del 2011.

Confesso che tutto il mio iniziale scetticismo è stato brutalmente spazzato via. Temevo un’imbarazzante banalità e, invece, mi sono ritrovata io ad essere imbarazzata per non averlo ascoltato prima. Quindi non fate come me, non domandatevi perché questi quattro ragazzi abbiano scelto un nome così improbabile. È superfluo e vi farà solo perdere tempo.

Le dieci tracce che compongono Tuffo sono grumi di rabbia che esplodono e sorprendono per la loro intensità. I testi rivelano la volontà di costruire una poetica ricercata e i versi, spesso reiterati, ne amplificano la portata emozionale. Alcuni termini, poi, come mare, orizzonte, oceano e luna si rincorrono per tutto l’album modulando una coerenza interna perfettamente armonica. Ogni pezzo è il preludio del successivo e ogni nuovo ascolto rivela delle sfumature di significato rimaste celate fino a quel momento. Ne deriva, quindi, una struttura circolare perfetta che, con ogni probabilità, vi farà ascoltare l’intero album in loop, per giorni.

Sullo sfondo una discrasia urbana decadente a cui si oppone l’evocazione costante di elementi sensoriali che sospingono le emozioni fino a farle traboccare del tutto. Con Tuffo, dunque, i Mary in June costruiscono un vero e proprio racconto, di cui è parte integrante l’immagine scelta come copertina dell’album. Quest’ultima, infatti, emana uno strano languore, quasi soffocato, ma pur sempre magnetico che attrae e impedisce di distogliere lo sguardo.
L’acqua si trasforma in uno specchio dove veder affiorare i propri demoni. Le canzoni cancellano l’indifferenza di tutti i giorni e per una volta possiamo abbandonarci a noi stessi senza filtri. I Mary in June urlano e lo fanno anche per noi.

Poster del film Tommaso di Kim Rossi Stuart su Flanerí

“Tommaso”
di Kim Rossi Stuart

A dieci anni di distanza dal molto più che convincente esordio alla regia con Anche libero va bene, Kim Rossi Stuart, uno dei migliori attori del cinema italiano di oggi, ha presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia Tommaso, la sua opera seconda seguito ideale del primo film con al centro lo stesso protagonista, Tommaso Bennati, e di nuovo l’abbandono come tema principale.

Certo, Tommaso è molto cresciuto rispetto al primo film. Lì aveva undici anni, qui ne ha quaranta e il volto e il corpo di Rossi Stuart che nel primo film gli era padre, ma il personaggio è lo stesso.

Dopo le continue fughe della madre che ne avevano segnato l’adolescenza, Tommaso è diventato un uomo incapace di gestire una relazione sentimentale. È fidanzato da anni con Chiara ma da tempo non la sopporta più. Passa le giornate a fantasticare su altre donne viste per strada o in farmacia, senza il coraggio di porre fine alla sua storia per affrontare la libertà. Quando è Chiara a lasciarlo, Tommaso si trova proiettato in un baratro di solitudine, incapace di sfruttare quella libertà tanto desiderata. Si mette insieme a Federica, e presto ricade nelle stesse dinamiche del rapporto con Chiara. Intanto sogna di esordire come regista e si interroga sulla sua carriera da attore, da troppo tempo ferma.

Se con Anche libero va bene Rossi Stuart si era rivelato come una (forse) inaspettata voce nuova per il cinema italiano, capace di guardare con delicatezza all’infanzia, alle dinamiche familiari e anche al mondo dello spettacolo, con Tommaso l’ex ragazzo dal kimono d’oro fa un passo indietro che ha dell’incredibile. Il tentativo, piuttosto evidente a chiunque, è quello di rifare il Nanni Moretti degli anni Ottanta, quello di Sogni d’oro e di Bianca, quello delle ossessioni cinematografare e del pensiero femminile. Non è solo un punto di riferimento stilistico, o tematico. Kim Rossi Stuart finisce per imitare Moretti, o meglio Michele Apicella, anche sul piano estetico, nei capelli, nella barba, nell’abbigliamento. C’è un’unica differenza, fondamentale. Moretti è Michele Apicella al netto delle esasperazioni narrative, Kim Rossi Stuart non è Apicella, né tantomeno Moretti.

La maschera Apicella è sempre stata credibile per l’umorismo drammatico che il personaggio di Moretti portava dentro di sé. È come per i personaggi di Woody Allen: li vedi e riconosci tutto un mondo di tic e nevrosi. Tutto quello che non è Kim Rossi Stuart.

Nello sforzo di replicare un modello troppo distante, Tommaso finisce per vagare a vuoto come il suo protagonista alla ricerca di un’identità, di un linguaggio in cui riconoscersi. Dieci anni dopo, tutta l’originale potenza della voce che Rossi Stuart era riuscito a trovare per parlare di Anche libero va bene si è persa in derive oniriche, in pianti davanti all’analista, lungo il crinale incerto che separa la commedia dall’introspezione.

Con solo cinque film all’attivo (come attore) negli ultimi dieci anni, e una serie di incidenti e vicende personali che sono arrivate anche alla cronaca , Kim Rossi Stuart ha sbagliato mira per il suo ritorno da protagonista assoluto (è anche sceneggiatore, di nuovo con Federico Starnone). È un peccato che quello che è uno dei migliori attori in circolazione lavori così poco. E così male.

(Tommaso, di Kim Rossi Stuart, 2016, commedia, 97’)

Riducendo tutto all’osso

Quando ho letto per la prima volta alcune pagine di quello che sarebbe diventato La vita felice di Elena Varvello (Einaudi, 2016) l’estate era finita da un po’ ma le giornate erano ancora lunghe e miti. Dovevo preparare un esame universitario e avevo deciso di trasferirmi a studiare sull’amaca del giardino. Va da sé che poi, una volta che quelle pagine finirono tra le mie mani, lo studio tramontò e mi ritrovai immobile a immaginare il seguito, desiderosa di andare avanti e, allo stesso tempo, di trattenermi ancora un po’ insieme a quei luoghi e a quei personaggi.

 

Partiamo dalla struttura: un prologo intitolato Nei boschi, e poi trentacinque capitoli in cui due storie diverse – il racconto di un’estate e quello di un rapimento – si alternano. Infine un epilogo, in cui Elia, il protagonista, si ritrova adulto. Ad alternarsi, però, non sono solo due storie, ma quasi due generi letterari, a cui corrispondono inevitabilmente due stili. Se ci affidiamo alle etichette, diremmo che da una parte c’è il romanzo di formazione, dall’altra il noir.

In effetti il libro è queste due cose di cui parli tu. Allo stesso tempo, il racconto dell’estate di Elia, capitoli distesi e lenti che seguono il passo dell’estate, lenta e calda, e poi il racconto di una notte precisa. La scansione, da un punto di vista strutturale, era necessaria, perché io non avevo idea di cosa sarebbe successo alla ragazza; nasce dall’esigenza di rallentare il più possibile la storia: non conoscevo il seguito e ne avevo molta paura. Quello che viene fuori è una notte che si allunga tantissimo, perché tutto è frazionato, brevi capitoli inseriti tra pagine più dense, una sorta di thriller involontario.
Nel rapporto tra queste due parti, mi premeva fosse chiaro che il racconto della notte è una storia narrata da Elia; voglio dire, lui non sa nulla di cosa sia successo. Ciò che fa è immaginare la storia di suo padre, nei primi capitoli con una certa distanza, poi si spinge così in là da diventare suo padre. Raccontando la storia di se stesso e di quell’estate, dell’amicizia e dell’amore, racconta la storia di suo padre. Nel senso che la immagina. È un libro anche sul raccontare le storie, su noi stessi e sul valore che le storie hanno: sull’afferrare ciò che è inafferrabile.

 

A proposito del rapporto tra immaginazione e realtà, i due capitoli che aprono e chiudono il romanzo, esclusi il prologo e l’epilogo, sono intitolati Verità. Ma questa parola torna più volte: è il titolo delle lettere che il padre scrive a destinatari ignoti ed è il tema di cui si parla, per opposizione, nell’epigrafe del libro: «In talking about the past we lie with every breath we draw». In qualche modo, la verità è uno dei grandi argomenti di La vita felice.

In La vita felice la parola verità assume almeno tre sfumature. Tutto comincia proprio dall’epigrafe, che è venuta subito ed è rimasta in tutti e sei gli anni necessari alla stesura del romanzo: volevo fondare la storia sul fatto che Elia fosse un narratore inaffidabile. Il modo più diretto per dirlo è stato inserire una citazione che rivela che quando parliamo del passato mentiamo in ogni nostro respiro. Eppure io sono convinta che i narratori inaffidabili siano i più affidabili: voglio dire, dichiarando di non esserlo, non pretendono di esserlo e lo diventano.
Poi ci sono i due capitoli che incorniciano la storia e che portano lo stesso titolo. La scelta non è casuale, ma segnala uno scarto. In Verità 1 si parla della ricerca di verità da parte di Elia: s’intende la verità dei fatti, ciò che egli non sa e vorrebbe scoprire. Verità 2 sposta la questione su un altro piano. Dalla verità dei fatti si passa a quella su noi stessi: una verità molto più ambigua che risponde alla domanda ma io chi sono. E allora sì, c’è il titolo delle lettere, che è Verità, unito al pronome Io. Ettore cerca la verità su se stesso, eppure, nel momento in cui spinge il figlio a conoscere le lettere, è come se il pronome Io passasse da lui a Elia. La domanda diventa Dimmi chi sono. In fondo quante volte affidiamo la verità di noi stessi a un altro?

 

Hai fatto riferimento a Ettore, a Elia. A quale personaggio è stato più difficile dare voce?

A Ettore, il padre, probabilmente per una questione di equilibro. Avevo la sensazione di muovermi su un crinale sottilissimo: non volevo cadere nella visione del padre mostro, folle, o del padre padrone. Così tutto quello che Ettore dice risponde sempre al tentativo di stare in equilibrio.

 

Il personaggio di Marta è quello a cui sono affidate le frasi più belle.

Con la madre di Elia ho dovuto avere pazienza. Le ho assegnato il senso della storia, ma non poteva rivelarlo nelle prime pagine: così ho cercato di trattenerla dal dire subito quello che aveva già capito, e a cui si poteva arrivare solo gradualmente. Anche da lettori con lei bisogna pazientare. So che per molte pagine potrebbe non essere compresa, ma basta aspettare: alla fine è un personaggio che brilla. La trattengo, in parte la soffoco nel dirle “aspetta, non ancora”, ma poi esce.

 

E poi c’è il paesaggio, che nei tuoi libri è sempre un altro personaggio, perché gli stati emotivi interiori si riflettono all’esterno, attraverso i luoghi:

Per me è impossibile immaginare una storia se prima non compaiono i posti. Voglio dire, prima del furgone nel bosco, c’è il bosco (nei miei libri tornano spesso i boschi e la provincia). I luoghi sono rappresentazioni fisiche dei caratteri, quasi correlativi oggettivi. Così, in La vita felice, il bosco è Ettore, il padre, e al vento corrispondono le parole di Elia quando dice: «avevamo la percezione di poter fermare il tempo». Il vento è il tempo, che sospinge tutto avanti. Poi c’è il giardino di Santo Trabuio, con la carcassa dell’automobile che probabilmente è lui stesso. C’è il gabbiotto soffocante, gli alberi scheletrici che compaiono la prima volta che è presentata Anna. E tutto questo avviene a Ponte, il paese in cui la storia è ambientata, luogo che puoi attraversare per andare altrove o percorrere per tornare indietro.

 

Sul blog della casa editrice Sur di recente è stata tradotta un’intervista di Mark O’Connell a Don DeLillo, realizzata in occasione dell’uscita di Zero K. O’Connell propone a DeLillo alcune corrispondenze tra l’ultimo romanzo e i grandi capolavori precedenti, Rumore Bianco, Libra e via dicendo. In risposta DeLillo afferma di avere un ricordo molto vago delle sue storie, sostiene di non rileggerle e di dimenticare, dopo tanti anni, i nomi di alcuni protagonisti. In un primo momento ho pensato fosse una risposta spiazzante, per certi versi anche triste, poi però mi sono detta che questo avviene perché sono gli autori al servizio delle storie, e non viceversa, e la cosa mi ha rincuorato. Con La vita felice è capitato ti chiedessero come fosse possibile che una donna s’immedesimasse in un ragazzo. Hai risposto che quando si scrive si perde ogni connotato personale, anche di genere, e questa affermazione mi riporta allo stesso principio: sei tu, l’autrice, al servizio della storia di Elia e di suo padre, non il contrario.

Esattamente, il punto è questo. Quando si ragiona su un libro si tende a focalizzare l’attenzione su due componenti: l’autore e i personaggi. Si dimentica sempre il terzo attore, cioè il narratore. Che sia uomo, donna, cane o cinghiale (pensa a Meacci), non ha alcuna rilevanza: ogni storia ha un narratore che si presenta ed è la sua storia. Quello che spetta all’autore è semplicemente trascriverla, scegliere da che posizione raccontarla. Non ho mai capito perché ci si stupisca del fatto che uno scrittore scriva una storia narrata da una donna o viceversa. Non bisogna schiacciare la figura del narratore su quella dello scrittore, si rischia di comprimerla. Lo scrittore deve solo trovare le parole giuste per dare voce a quelle di qualcun altro, per esempio di Elia, nel mio caso, e per questo è possibile che DeLillo non si ricordi più i nomi dei suoi personaggi: li ha conosciuti, per un anno si sono incontrati tutti i giorni, poi non più. È passato tanto tempo, si è dimenticato il loro nome e la loro faccia.
Comunque, per tornare al discorso uomo-donna: è curioso che se sei una donna e scegli un personaggio maschile, gli uomini, soprattutto se scrittori, ti danno più rilievo rispetto a una donna che ha a che fare con personaggi femminili. Sembra strano, ma all’improvviso si accorgono di te, parlano del tuo libro, decidono che puoi fare parte anche tu dello spogliatoio.

 

Ci sono modelli letterari italiani o stranieri di La vita felice? Nel risvolto di copertina si parla di Io non ho paura di Ammaniti e di Settimana bianca di Carrere.

Qualcosa di Ammaniti c’è, e penso anche a Come dio comanda. La settimana bianca è un libro duro che mi ha molto colpita. Spesso hanno accostato certi aspetti di La vita felice alla scrittura di McCarthy o ai racconti di Carver. Eppure, se devo immaginare un riferimento nordamericano, penso soprattutto a Richard Ford. E poi, tornando in Italia, a Goffredo Parise: una delle scritture più icastiche che abbia mai incontrato. Comunque, quando un autore italiano lavora con rigore stilistico si fa troppo spesso riferimento alla letteratura statunitense, come se gli scrittori e le scrittrici italiani fossero necessariamente barocchi o pressappochisti. Invece c’è un rigore estremo nella nostra letteratura del Novecento: pensa ai Sillabari, a Una questione privata di Fenoglio, a Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Il rigore è un’eredità che ci portiamo dietro: i racconti di Fenoglio non sono da meno rispetto a quelli di Hemingway. Credo che si tratti di una forma di debolezza non riconoscere questo nostro tratto caratteristico. Voglio dire, se in La vita felice compare un fiume o un torrente, dovrebbe venire in mente la montagna di Silvio D’Arzo, la vecchia che in quel racconto va a lavare i panni al fiume, non solo Stephen King. I miei luoghi sono tutti italiani. C’è una miniera di pirite, un cotonificio: spazi fisici che appartengono al nostro passato e ai nostri territori. Soffriamo di un senso così profondo di dipendenza dalla letteratura nordamericana che ci dimentichiamo dei nostri luoghi, delle nostre province.

 

Il tuo romanzo precedente, La luce perfetta del giorno, aveva una lingua più densa, la frase era spesso più elaborata, come se la storia, rispetto a La vita felice, dipendesse maggiormente dal linguaggio. In questo romanzo, invece, è il non detto ad avere più valore: conta ciò che è appena evocato, ciò che è omesso, ciò che è soltanto immaginato.

Qualche giorno fa, su Sfide, ho visto una puntata dedicata a Zoff e alla sua carriera. A un certo punto gli viene chiesto: cosa c’era dietro alle tue parate? Zoff risponde: «Io cercavo la semplicità. Avevo l’impressione che più le mie parate fossero state semplici, più mi sarei avvicinato alla perfezione». Ecco, probabilmente dalla mia prima raccolta di racconti a quest’ultimo romanzo, passando per La luce perfetta del giorno, sto mettendo a fuoco un mio personalissimo principio: il tentativo di ridurre tutto all’osso, arrivare al massimo possibile di semplicità, che dal mio punto di vista corrisponde al massimo possibile di complessità. La mia esperienza narrativa è un movimento verso la riduzione, perché ho come l’impressione che soltanto attraverso la scarnificazione sia possibile portare la vita dentro il libro. So che molti autori vanno nella direzione opposta: alla complessità della vita corrisponde per loro la complessità del linguaggio. Per me è il contrario: vorrei arrivare a scrivere un libro che sia ancora più essenziale.

 

E a proposito di essenzialità, il finale di La vita felice si compone in pochissime frasi, spesso nominali, che cadono sulla pagina come pennellate: brevi ed ellittiche. È un lavorio fine, che ha a che fare con il ritmo e la precisione tecnica, ma risponde soprattutto al tentativo di condensare sulla pagina, in pochissime righe, un significato molto grande.

È proprio quello che desideravo: condensare in poche righe qualcosa che sentivo come necessario e, nello stesso tempo, così difficile da raccontare. Il senso di una vita, i nostri ricordi, il bene che riceviamo nonostante tutto, la possibilità di perdonare. Cosa significa davvero essere felici. Non c’era niente di più importante, allora, che trovare le parole giuste, e solo quelle. Ma è sempre la cosa più importante, in fondo.

 

(Elena Varvello, La vita felice, Einaudi, 2016, pp. 200, euro 18,50)

“Il cielo sopra Lima”
di Juan Gómez Bárcena

Nel 1904 Lima è una città febbricitante, alle prese con un intenso processo di gentrificazione sociale. La modernità irrompe chiassosa nelle tradizionali distinzioni di classe, modificandone i confini fino a renderli permeabili in entrambe le direzioni. Il nuovo porta alla luce la povertà di uomini dal nobile passato mentre eleva la posizione di intraprendenti borghesi arricchitisi con i commerci.

Il cielo sopra Lima di Juan Gómez Bárcena (Edizioni Frassinelli 2016) è uno squarcio sottile su un’epoca confusa, in cui la coesistenza tra passato e futuro stenta a trovare un equilibrio duraturo.

Juan Gómez Bárcena tratteggia la storia di due giovani e abbienti limegni, José e Carlos, amici, resi inseparabili dalla comune passione per la poesia. Quella struggente e malinconica di Juan Ramón Jiménez, celebre poeta spagnolo d’oltreoceano, i cui versi sanno scuotere la loro indolenza emotiva. La facoltà di giurisprudenza, con la sua implicita carriera da avvocato, è un’oppressione atroce a cui i due ragazzi si sottraggono senza troppi sensi di colpa. Ciò che vogliono veramente è una copia dell’ultima e introvabile raccolta di Jiménez, Arie tristi. Ecco dunque comparire un nuovo personaggio, Georgina Hübner, modellata sui ricordi dell’infanzia solitaria di Carlos. Dapprima una signorina impacciata ed esitante, Georgina non riesce a camuffare la propria goffaggine, solo l’oceano che la separa dal grande poeta le impedisce di far trapelare la sua inesistenza. Poi, invece, la dama, dalla consistenza di un esile foglio, acquisisce un tale spessore carnale da trasformarsi nella musa di Jiménez.

Bárcena, dunque, tenta di dare vita a una finzione letteraria coinvolgente prendendo spunto da un aneddoto riguardante il grande poeta spagnolo, purtroppo però il risultato è alquanto approssimativo. Il romanzo, infatti, appare carente sotto molti punti di vista. Deludente la costruzione dei personaggi che appaiono troppo spesso grossolani, così come la stessa struttura narrativa, dominata da un fastidioso narratore onnisciente, risulta essere incompleta. Pochi gli spunti interessanti o i passaggi ironici riusciti, l’elemento principale che emerge dalle pagine di Il cielo sopra Lima, dunque, è il tedio più assoluto.

 

(Juan Gómez Bárcena, Il cielo sopra Lima, trad. Enrica Budetta, Sperling & Kupfer Editori per Edizioni Frassinelli, 2016, pp. 324, 19,50 euro)

“Mailand”
di Nicola Pezzoli

Quando inizio a leggere Mailand di Nicola Pezzoli (Neo Edizioni, 2016), una voce si fa più certa e riconoscibile attraverso l’inesauribile tela del racconto, come la luce sull’elmetto del minatore svela la realtà prima avvolta dalla penombra.

La voce è quella di un vecchio amico, Corradino, che con questo romanzo chiude la trilogia di formazione iniziata con Due soli a motore e poi proseguita con Chiudi gli occhi e guarda, qui soprannominato Konrad dai suoi coinquilini, Marco, il belloccio emiliano «ciulaciornie», da cui è attratto, e Beniamino, «brutasél» ma intelligente e ironico: «Eravamo molto diversi. Un longobardo, un bolognese e un siciliano…roba da barzellette popolari».

Pezzoli si trova qui a reinventare un nuovo punto di vista del suo protagonista sul mondo. Stavolta, dopo il racconto della sua infanzia in campagna a Cuviago e dell’adolescenza filtrata dal ricordo di un’estate al mare, Corradino è ormai un ventenne, universitario fuoricorso in trasferta a Milano. Anzi, Mailand, Milano in tedesco, per sottolineare il suo smarrimento nella “Milano da bere” anni Ottanta, una città «a misura duomo».

Siamo infatti nel 1987. Il benessere e la tecnologia stanno cominciando ad imprimere alla vita una velocità destinata a gettare i più deboli in un disorientamento generale.

Konrad in questo non fa eccezione. La sua bussola appare completamente impazzita. Gli piace scrivere, vorrebbe fare il corrispondente dall’estero ma ha finito per iscriversi a una «fuck-oltà», Scienze politiche che non lo soddisfa: «…tratto in inganno dal nome altisonante, l’avevo creduta una facoltà chic, frequentata da gente a metà fra il rampollo di diplomatico e l’idealista riformatore. E magari ragazzi così ce n’erano. A me non riuscì mai di incrociarne mezzo. Mi ritrovai intruppato in una banda di nullafacenti che miravano solo a posticipare la naja, e ogni entusiasmo scemò».

A casa, dove tornava ogni venerdì, era da una parte accolto dall’amorevole mamma, dall’altra bacchettato dalla nonna bigotta: «Fu solo, quando quella vita da predestinato fuoricorso mi fece sentire abbastanza in colpa nei confronti della mamma che presi la decisione di trovarmi un lavoretto».

Come diceva Walter Benjamin, il labirinto è la via di chi non vuole arrivare alla meta, così Corradino rinvia in continuazione il suo appuntamento con il futuro è trova impiego in una bizzarra Agenzia per Biglietti di Suicidio aperta da un altrettanto enigmatico personaggio, Alfredo Valeriano Dupré, stesso volto di Romain Gary, «stessi occhi malinconici, eppure attraversati da lampi di pura ironia».

Tra gag esilaranti con i clienti aspiranti suicidi e partite infinite a Risiko con Marco e Beniamino, Corradino continua però a portarsi sulle spalle un gravoso carico di angosce paralizzanti circa il suo orientamento sessuale. Si sente «un alieno in cerca dei suoi simili sul pianeta delle scimmie» in anni in cui omosessualità e Aids diventano sinonimi. Konrad si definisce bisessuale: «Perché non riesco a decidermi tra maschi e femmine? Servisse a godere il doppio, questa disorientante polivalenza. Invece raddoppia solo i patimenti». A elevare la tensione contribuiscono anche una serie di lettere anonime che contengono pagine di un vecchio diario del liceo e introducono un elemento giallo nel romanzo.

Come si vede dal neologismo «monosessualità» e dall’espressionismo verbale, per Pezzoli contano le parole, «il lato interno delle parole» (quasi una dichiarazione di poetica), non le cose. La cura dell’impasto linguistico, fatto lievitare con l’uso del dialetto, neologismi e giochi di parole, rende empatica la lettura di quello che vede e sente Konrad, il suo essere un sismografo umano, sensibile alle scosse non immediatamente percepibili della vita.

 

(Nicola Pezzoli, Mailand, Neo Edizioni, 2016, pp. 184, euro 14)

“Topkapi”
di Eric Ambler

«In fin dei conti, se non fossi stato arrestato dalla polizia turca sarei stato arrestato dalla polizia greca. Non avevo scelta: potevo fare solo come mi diceva lui, Harper. È successo tutto per colpa sua».

Già solo per questa voce meriterebbe di essere letto, Topkapi, romanzo di Eric Ambler, datato 1962, e ritradotto per Adelphi da Mariagrazia Gini (c’era stata un’edizione del 1990). La voce di un mentitore patologico e ruffiano come tanti ne abbiamo conosciuti in letteratura.

Ma qui siamo di fronte a un intrattenimento di alta qualità: Topkapi è un romanzo che tiene del thriller e della spy story – Ambler è stato uno dei maestri in materia – ma la quantità di cose che lo scrittore inglese riesce a mettere insieme appare davvero memorabile: prima ancora dell’intrico di peripezie, ricatti, rovesciamenti di prospettiva, godibilissima è la definizione dei personaggi implicati nell’avventura – specie il protagonista, un povero cristo abilissimo nell’arrangiarsi fregando il prossimo, specie gli sprovveduti turisti che si avventurano per Atene, fino a quando questo A.A. Simpson si trova dentro una storia più grande di lui. Una storia di ladri, polizie e controspionaggio, in cui l’uomo finisce per collaborare con la seconda.

La costruzione dei personaggi passa attraverso una prosa insieme asciutta e sontuosa, specie nei dialoghi, vera ossatura del libro. Spesso lunghi, articolati in un ritmo e una brillantezza senza posa, ci dicono caratteri e tratti psichici, ne fanno sentire paure e desideri, spesso giocando con tono impassibile sulle loro ambiguità, ma contribuiscono anche a fare la storia. Probabilmente un qualsiasi editore italiano oggi li riterrebbe eccessivi e troppo simili a una sceneggiatura – laddove rappresentano un esempio di scrittura drammaturgica di rara perizia: come ispirati da una matrice bellica improntata a una incrollabile eleganza. Certo, l’efficacia costante paga il pegno di un’omogeneità indifferente al singolo eloquio di ognuno, ma probabilmente ciò ebbe il suo peso allorché si decise di ispirarsi al romanzo di Ambler per un film che avrebbe poi avuto un discreto successo – ne firmò la regia Jules Dassin (e Ambler lavorò a lungo nell’ambiente del cinema).

I dialoghi sono scortati da una scarna quanto riuscita ambientazione, sospesa fra Grecia e Turchia (una Istanbul lontanissima da quella sciagurata di oggi, esotica senza smancerie – il libro conta più di mezzo secolo alle spalle), e percorrono la strada di una vicenda rocambolesca, segnata dalla paradossale seduttività di un protagonista repellente, laido quanto geniale (a suo modo spiritoso).

Senza giustapporre elementi narrativi estranei al racconto fatto in prima persona da Simpson, conosciamo anche il contesto politico dell’epoca – cui il disincantato narratore è idealmente indifferente. Forse si comporta con il lettore un po’ alla maniera furfantesca e paracula che ha tentato “in vita” con gli altri – ma, lo si diceva all’inizio, con la sua voce ti prende subito e non ti molla più.

 

(Eric Ambler, Topkapi, trad. di Mariagrazia Gini, Adelphi, 2016, pag. 241, euro 18)

“Discorso sul romanzo moderno”
di Alfonso Berardinelli

In un momento culturale in cui il romanzo, genere caratteristico della modernità letteraria, si veste sempre più di forme che si allontanano dal canone tradizionale per costruire oggetti narrativi sempre nuovi e di difficile catalogazione, appare necessario e doveroso riflettere su di esso, studiarlo, interrogarlo, per capire come pian piano abbia mutato la propria connotazione. Ne sente la necessità anche il critico Alfonso Berardinelli, che nel Discorso sul romanzo moderno (Carocci, 2016) ha cercato di ricostruire il percorso seguito da questo genere letterario, il quale grazie al genio di diverse personalità si è arricchito di elementi diversi e originali, che costituiscono i singoli tasselli di una storia piuttosto lunga. Il sottotitolo da questo punto di vista è eloquente: Da Cervantes al Novecento. Ma già anticipiamo che di Novecento, Svevo a parte, c’è ben poco. È tuttavia con gli occhi, la maturità e la prospettiva novecentesche che l’analisi viene condotta.

La trattazione ripercorre la storia del romanzo, cui non si può affiancare alcun aggettivo che ne identifichi una provenienza geografica: non si tratta di fatti del romanzo francese, tedesco, americano, inglese stricto sensu, né tantomeno di un romanzo europeo. Sarebbe forse più giusto parlare di romanzo occidentale, essendo l’Occidente il serbatoio che ha permesso la maturazione di idee diffusesi su larga scala, Italia compresa. Ed è singolare che escludendo le 19 pagine dedicate alla Coscienza di Zeno e qualche accenno a Manzoni, del romanzo italiano si parli pochissimo.

Ora, Berardinelli – che fa sapiente riferimento ai maggiori studiosi del romanzo, da Bachtin a Lukács, da Watt a Šklovskij, da Praz a Debenedetti – ritiene che il romanzo nasca ed esista solo in rapporto alla realtà. È vero che «il romanzo è finzione, ma è quel tipo di finzione che se non siamo interessati alla realtà non riesce a funzionare. […] Non solo il romanzo deve fingere la realtà per essere se stesso e per essere avvincente: ciò che fin dalle sue origini e negli episodi salienti della sua storia abita il cuore della narrazione romanzesca sono esattamente le peripezie del rapporto fra ciò che gli esseri umani inventano o credono e ciò che in realtà accade nella loro vita. Nel romanzo, infine, niente è più romanzesco, imprevedibile e vincente di quella cosa indomabile che è la realtà (quasi un altro nome di Dio)». E proprio dal legame del romanzo con la realtà parte il critico, analizzando anche il rapporto che i personaggi romanzeschi hanno intrattenuto con essa.

In principio era Don Chisciotte, nella cui storia la realtà diventa una «costruzione culturale», seguito da Robinson Crusoe, catapultato al di fuori della propria realtà, e da Jean-Jacques Rousseau, che introduce nel romanzo l’ingrediente dell’“io”. Non mancano poi le eccezioni: «le troveremo dove una cultura, un pensiero, una filosofia morale, una fede religiosa, un fine pedagogico, una visione della Natura e del Fato tendono a restaurare quel quadro ordinatore dell’esperienza umana e che il romanzo aveva infranto». Qui viene inserito il nostro Manzoni, i cui Promessi Sposi affiancano la balena di Melville e il Werther di Goethe. Si prosegue poi con i grandi realisti francesi, Balzac e Flaubert, senza dimenticare i russi Dostoevskij e Tolstoj, con cui il romanzo raggiunge il suo apice.

Il canone che si viene così a delineare, prettamente euro-americano, non è ovviamente scelto a caso, ma studiato con attenzione: proprio da esso, infatti, è germogliata la nostra (moderna) idea di realtà.

 

(Alfonso Berardinelli, Discorso sul romanzo moderno, Carocci, 2016, pp. 124, euro 13)