copertina di I Poveri di Vollmann

Lo sguardo di Vollmann dopo quello di Parise

È l’agosto del 1968 quando Goffredo Parise racconta sulle pagine del “Corriere della Sera” la fame del Biafra. A colpire la sua attenzione nell’ospedale di un campo profughi è un bambino di due anni, con il corpo così gonfio da prevederne la fine: seduto in un lettino sta formando delle palline di farina di yam, che saranno il suo pasto. Parise lo osserva a lungo e ne descrive i gesti, lenti, composti, imparati da poco, ma già corrotti dalla fame. È solo la presenza della madre, una ragazza, a interrompere la scena: seduta accanto a suo figlio, non ha occhi che per il cibo: sperando di non essere vista, lo ruba, mangiandolo voracemente: il bambino si ritrae, indifferente, come se quel pasto fosse, ormai, del tutto superfluo; consapevole che la salvezza non esiste e che, se esistesse, non si troverebbe in quel letto.

La cronaca che ne fa Parise è asciutta, limpida, priva di commenti morali. La povertà raccontata dallo scrittore vicentino in Biafra è una creatura immobile, nuda e straordinariamente cosciente. I corpi di uomini, donne e bambini, piegati dalla fame vagano senza meta e senza parole: Parise si sofferma a lungo sul loro sguardo, stanco, rassegnato: «uno sguardo non triste, non disperato, non affamato, non impaurito, bensì calmo e quasi sereno, distaccato, contemplativo: della totale e definitiva intelligenza delle cose di questo mondo, della perfetta coscienza della solitudine e del dolore dell’uomo». (Guerre politiche, Adelphi, 2007).Ciò che resta, incancellabile in chi legge anche a distanza di cinquant’anni, è una disperazione immensa, concreta, più reale e crudele di qualsiasi fotografia.

Perché, come ci ha insegnato Susan Sontag, le immagini hanno un grande potere, ma non sono in grado di farci comprendere del tutto il dolore del mondo, o almeno non quanto la scrittura.

È questa la premessa da cui partire per leggere I poveri dell’autore americano William T. Vollmann (minimum fax, 2020, traduzione di Cristiana Mennella). Sembrerebbe un paradosso, considerato che l’opera si conclude con una corposa appendice fotografica e che si senta il bisogno continuo, quasi ossessivo, di andarla a sfogliare per scrutare i volti delle persone ritratte dallo stesso Vollmann, cercando di individuare i segni ostensivi della povertà. Non solo per riconoscerli nelle vite altrui, ma soprattutto per il timore di ritrovarne traccia nei nostri corpi: un altro paradosso se si pensa con quanta indifferente tenacia evitiamo ogni giorno di incrociare quelle stesse tracce.

La povertà custodisce dei segni premonitori? È solo una delle tante domande complesse, imbarazzate e colpevoli, che saremo costretti ad affrontare leggendo questo libro, spesso senza ottenere risposte convincenti o, al contrario, con risposte talmente logiche da avere la certezza che non ci sia più niente da comprendere.

Io sono povero? È la prima domanda che ci poniamo di fronte a un titolo così esplicito. Vollmann conosce le nostre riprovevoli debolezze (perché sono anche le sue), e toglie ogni dubbio nell’introduzione, riportando la tabella delle entrate giornaliere delle persone intervistate in questi reportage. Ma forse non basta, perché il tarlo della povertà si è già insinuato in noi: il dato economico perde il suo valore assoluto e non ci rassicura abbastanza. Il lavoro e il denaro, infatti, non sono condizioni del tutto sufficienti ad allontanare lo spettro della povertà. Ed è esattamente qui che lo scrittore americano vuole condurci: essere poveri significa anche averne consapevolezza? E cosa accade se chi è povero non ne è cosciente?

Dallo Yemen al Messico, dall’Afghanistan agli Stati Uniti, dal Giappone alla Colombia: ovunque la domanda che Vollmann rivolge a ognuno di loro è sempre la stessa: «Perché sei povero? Perché i poveri sono poveri?». È destino, risponde qualcuno; «Non lo so», dice Oksana, 81 anni, intervistata in Russia del 2005. «Forse a un certo punto abbiamo sbagliato qualcosa. Non siamo il genere di persone abituate a chiedere l’elemosina, la corrente della vita ci ha semplicemente portati qui». La rassegnazione è uno degli elementi che contraddistingue la povertà, o almeno è ciò su cui riflette lo stesso Vollmann. Lui sa benissimo che chi è povero non lo è per un capriccio del destino (che pure esiste: e da buon americano ne è quasi ossessionato), ma perché schiacciato dalle forze economiche, dimenticato dalle politiche sociali e vittima di una disuguaglianza tanto radicata da essere ormai accettata a ogni latitudine. Il punto è se chi è povero sa di esserlo. E se è in grado di raccontarlo, di ricostruire la sua storia, gli eventi che lo hanno portato dove si trova. Ma raccontare è un privilegio, ci dice Vollmann; persino ricordare è un lusso che chi vive nella miseria non può permettersi di avere. I poveri mentono (esattamente come i ricchi): a volte le loro storie sono piene di buchi, di incongruenze, di false piste: alcune delle persone intervistate hanno creato una finta memoria da tirare fuori all’occorrenza, talvolta per impietosire, per sedurre, per rendere più accettabile agli occhi altrui il loro dolore, per essere viste e ricordate.

«Un mendicante deve innanzitutto seguire con insistenza e intercettare i ricchi, con discrezione o in maniera aggressiva, in modo da farsi notare»: persino la povertà è costretta a seguire le leggi del marketing.

Essere invisibili è una salvezza o una condanna? Si chiede Vollmann, visitando l’Afghanistan nel 2000 e interrogandosi sul ruolo della donna solo un anno prima dell’11 settembre. E oggi, di fronte ai manichini femminili decapitati per ordine dei talebani, l’eco di questa domanda sembra perdersi nel vuoto.

Così come si sono perse nel vuoto le storie laceranti raccolte nello stesso anno in Kazakistan, Paese sconosciuto alla maggior parte del mondo occidentale e benestante. Se non fosse per le rivolte sanguinose di inizio anno, sarebbe solo uno dei tanti territori dell’ex Unione Sovietica di cui non si conoscono né i confini né le abitudini. Lo sa bene anche Vollmann che nel suo capitolo dedicato alle persone del «nono paese più grande al mondo», parte dagli Stati Uniti, dall’aumento del prezzo della benzina nella sua provincia, per poi ritrovarsi ad Atyrau, una delle più importanti città petrolifere kazake, in cui uomini, donne e bambini sono costretti a barattare la loro salute con la possibilità di vivere.

Ma la povertà non è altrove, ci ricorda lo scrittore americano negli ultimi tre capitoli: è qui, lungo la strada, dietro la porta di casa, tra le persone che dormono nel parcheggio, in un fatiscente palazzo di New York.

E se Parise aveva il difficile compito di portare la fame e le guerre nelle nostre case, Vollmann sembra compiere, invece, un movimento dialettico e costante (quasi hegeliano, se non fosse che lui stesso si dichiara marxista, pur rifiutandone alcuni aspetti) di avvicinamento e allontanamento dalla povertà.

Alla fine di questo lungo e potente viaggio, profondamente “politico” – aggettivo che forse non avrebbe convinto del tutto Parise – non ricorderemo nessuno dei ritratti in bianco e nero che pure abbiamo scrutato a lungo. Ricorderemo, invece, la storia del senzatetto giapponese assoldato dalla criminalità locale per essere un finto sposo in un finto matrimonio, e così permettere a una bella ragazza di ottenere il visto: una doccia, un vestito nuovo, il sorriso immortalato in uno scatto lo hanno trasformato per un attimo infinito in un marito felice. Non ha più rivisto la sua sposa, ma conserva ancora la foto di quel giorno.

«Io e te siamo ricchi. Gli altri sono poveri», ci dice Vollmann, «qualunque sia la conoscenza della povertà racchiusa in questo libro, la loro sarà senz’altro più autentica, più profonda, sebbene meno estesa».

Dal canto suo Parise ci ricorda che l’ingiustizia appartiene a tutte le guerre, che l’«orrore» possiede molte forme, ed è inscindibile dal «dubbio». «Il mio impegno, quando pensavo di essere impegnato, era questo: credere fermamente che, con le mie parole scritte, avrei informato e forse coinvolto nella sorte di alcuni ragazzi di quindici sedici anni, mandati a fare la guerra e disperatamente morti, alcuni lettori».

Copertina di Rogozov di Maraschi

“Rogozov”, un romanzo inaffidabile

Rogozov di Mauro Maraschi (TerraRossa Edizioni, 2021) riporta la vicenda umana di Ruggero Gargano, fervente  oppositore della medicina occidentale che per sé e per la figlia Ania sposa il credo dell’autoguarigione, della cucina macrobiotica e della Natura idealizzata come via di fuga  dall’opprimente miseria metropolitana che lo circonda.

Nel 2022, un esordio che  parla di complottismo e di sfiducia nella scienza non può che destare attenzione. Ma Rogozov è molto di più. È un romanzo che racconta il peso delle maschere che indossiamo, l’incapacità di sostenere genuinamente le nostre convinzioni, l’inganno al quale ogni giorno ci sottoponiamo per non correre il rischio di cestinare buona parte della nostra esistenza. Descrive tutto ciò con salomonica spietatezza, senza giudicare una parte o l’altra, o forse condannando entrambe. Ne abbiamo parlato con l’autore.

 

Nonostante il libro tocchi argomenti di grande attualità, mi dicevi che Rogozov ha avuto una lunga gestazione e ha subito numerose revisioni. Quali sono gli aspetti sui quali hai sentito la necessità di intervenire maggiormente? Quanto c’è del Gargano “della prima stesura” in questo prodotto finale? Il tuo sguardo nei confronti del personaggio è in qualche modo cambiato nel tempo?

La prima stesura risale al 2015, ma non sosterrei mai che il romanzo ha richiesto sette anni di lavoro. Per lunghi periodi è rimasto a riposare, mai accantonato. Buona parte del lavoro di revisione è stata incentrata sulla costruzione del personaggio, della sua voce e della specifica qualità della sua contraddittorietà. Tutto il lavoro sulla trama è stato secondario, perché a me delle trame non importa nulla (arriverà il giorno in cui ne farò a meno), ma penso anche che un autore debba accettare un compromesso: soltanto i Maestri possono fare a meno della trama e dar vita ad antiromanzi memorabili, mentre gli altri farebbero meglio a procedere per gradi, o quantomeno questo è ciò che ho deciso di fare io. Ma – di nuovo – a me della trama in sé non importa nulla, mi serviva come contenitore per altro: riflessioni, giochi metaletterari e, appunto, la costruzione di un personaggio originale. Gargano è stato Gargano fin dall’inizio, l’idea era chiara e l’ho perseguita ciecamente, con un’unica differenza sostanziale: nella prima stesura Gargano era molto più virile, sessista, laido, squallido e violento, un vero delinquente. Avrei voluto instillargli quella muscolarità ritrovata, per dirne uno, in Estate crudele di Bertante, ma – molto semplicemente – mi sono reso conto di non riuscirci, per una carenza diciamo personale, la mia totale mancanza di confidenza con l’aggressività. Gargano spaccone risultava fasullo, e così nel corso delle stesure ho censurato fino a renderlo un ibrido, un personaggio tragicomico, dostoevskijano (anche se finora nessuno ha percepito l’influenza di Dostoevskij nel mio romanzo).

 

Ci troviamo al cospetto di una voce narrante apparentemente affidabile che riporta la versione di Gargano, un narratore apparentemente inaffidabile. Tale meccanismo ci induce a dubitare dei propositi dei personaggi e dei fatti così come sono da loro presentati. Per quale motivo hai deciso di costruire questo “doppio filtro”?

All’inizio il romanzo era in prima persona, per cui il lettore si trovava in balia di un narratore inaffidabile, condizione che di norma trovo snervante. La soluzione mi è arrivata da Thomas Bernhard, che ricorre spesso a quella che io definisco «poetica del riferito» o ancora meglio, con una formula che mi è stata suggerita, «narrazione de relato»: prendi un personaggio cavo e gli fai riferire le affermazioni del personaggio che davvero ti interessa fino a trasformare il personaggio cavo in una cassa di risonanza, con il vantaggio dell’apparente filtro dell’affidabilità (si pensi all’assistente di Roithamer in Correzione). Non so quanto sono riuscito a farlo funzionare in Rogozov, ma non ho dubbi che questo meccanismo sia la mia strada, la mia modalità da qui alla morte.

 

È molto complicato decifrare le reali intenzioni di Gargano, innanzitutto perché lo conosciamo per interposta persona, ma anche perché, da un lato, mi sono spesso sorpreso a condividere alcune sue convinzioni assai radicali, dall’altro, a diffidare della spontaneità con la quale compie certe “buone azioni”. Che idea ti sei fatto sul suo conto?

Posso provare a spiegare in due parole la sua contraddittorietà: i pensieri di Gargano sono coerenti tra loro, ma Gargano dice in parte ciò che pensa, in parte ciò che crede che gli altri si aspettino da lui e in parte ciò che reputa utile a instradare il pensiero altrui. È, in tal senso, un manipolatore, anche se incapace. Per farla breve: non gli va di lavorare (ma a chi va?), è un vittimista, è un pigro, e per legittimare queste caratteristiche socialmente negative ha costruito un castello ideologico talmente monumentale da non riuscire a tenerlo in piedi nel corso di un monologo. Uno dei miei intenti era proprio quello di spingere il lettore a rispecchiarsi in alcune affermazioni sconvenienti, estreme, provocatorie, e a prenderne le distanze subito dopo, magari inorridito: perché tutti abbiamo pensieri atroci, il pensiero è capace di tutto, soltanto che noi per tutta la vita ci impegniamo a essere annoverati tra i buoni, ricacciamo nell’inconscio i pensieri atroci, e infatti siamo delle mine vaganti.

 

In coda al libro è presente un’appendice con lettere, interviste, trascrizioni, discorsi che espandono l’universo narrativo di Rogozov. All’interno del testo viene fatto riferimento a un documento che poi ritroviamo in forma integrale in appendice, unico spazio dove i personaggi “secondari” possono prendere autonomamente parola. Qual è la funzione di questo apparato? E come mai hai deciso di collocare in fondo al libro un elenco di citazioni, una per ogni capitolo?

Le appendici sono un gioco: il romanzo finisce quando finisce la narrazione, il resto sono approfondimenti per chi si è affezionato al testo, e che gli altri possono ignorare. Rogozov è il primo tassello di un progetto molto ampio. Le citazioni in coda sono lì per non distrarre il lettore: avrei potuto collocarle all’inizio di ogni capitolo (che rappresentano con discreta precisione), ma in quel modo avrei tradito la natura finzionale del testo, che è quella di un resoconto redatto dal suddetto personaggio cavo, il riferente o riferitore, un personaggio che non ha alcun intento creativo o letterario.

 

Nel romanzo si parla molto di dipendenza – affettiva (il rapporto tossico tra Gargano e la madre di sua figlia; la responsabilità dell’essere genitore, che in questo caso vincola un padre in tutte le sue scelte), economica (il rapporto ambiguo tra Gargano e le sue tre fonti di sostentamento), psicofisica (l’alcolismo) –, a cui viene più volte contrapposto un desiderio di completa autosufficienza, una solitudine quasi ascetica, che prevede l’emancipazione dagli altri, oltre che dai principi sui quali poggia la società occidentale odierna (la stabilità economica, la medicina, lo stile di vita ecc.). Questa emancipazione somiglia molto a una sorta di autoemarginazione. Ritieni che sia possibile, oggi, perseguire modelli di esistenza alternativi senza finire per essere ghettizzati o per ghettizzarsi?

Conosco molte persone che vivono serene ai margini della socialità, e le invidio. Vivere un’esistenza alternativa non impone di autoghettizzarsi. Può essere una liberazione dalle pressioni sociali, la conquista di una maggiore autonomia. Dico soltanto che non tutti sono capaci di farlo. Molti si prendono in giro, si autoingannano. Vanno a vivere in campagna e poi impazziscono o si deprimono. Hanno crisi d’astinenza dalla socialità, che di certo provoca dipendenza come tutte le sostanze stimolanti usate male. In generale il tema della dipendenza mi sta a cuore. Il terrore di ammettere che possiamo fare a meno di tutto, anche della vita. Quel terrore che ci spinge a fare mille cose per non pensarci, a lasciarci ossessionare da cose frivole come l’amore romantico, a inseguire ideali preconfezionati.

 

Dall’altro lato, gli ideali e le posizioni personali non sembrano più orientare ma rappresentare completamente le persone. Mi ha colpito a tal proposito questo passaggio: «Ti fissi con un’idea, pensi che sia buona, ci investi tempo e denaro, la sostieni per anni e anche quando capisci che forse non era poi così valida a quel punto non hai più il coraggio di ammetterlo, perché ormai ti rappresenta, è diventata tutto, per te. Tutti abbiamo bisogno di un’idea che ci rappresenti». Il problema è la società che pretende il conformismo o l’individuo che investe troppa parte di sé nei suoi valori senza essere disposto a rinegoziarli?

La società non può imporre né pretendere niente. Le posizioni ottuse attuali prima o poi spariranno (e magari quelle oggi liberali risulteranno arretrate e indesiderabili in futuro, e così via, ad libitum). Io credo che buona parte di ciò che facciamo non sappiamo perché lo facciamo. Continuiamo a farlo perché lo facciamo da troppo tempo per interromperlo. Più a lungo facciamo una cosa, più tempo ci abbiamo investito, più ci sentiamo male all’idea di abbandonarla, ma non perché sia così importante o perché ci siamo affezionati, quanto per la sensazione di aver sprecato anni a inseguire una cosa, considerandola vitale e rappresentativa della nostra esistenza, quando avremmo potuto inseguirne un’altra e non sarebbe cambiato niente a nessuno. Faccio una cosa indecorosa, mi autocito: «Che poi è quello che facciamo tutti, speriamo che la perseveranza possa sostituirsi alla fede e portare agli stessi risultati, ed è per questo che le cose durano sempre più del dovuto, i lavori, i matrimoni, le tradizioni, portiamo avanti le nostre cose non perché ci crediamo ma perché altrimenti non ci rimarrebbe che ammazzarci». Metti il Festival di Sanremo: se sparisse per sempre, ma senza clamore, senza polemiche, senza dibattiti in tv, non se ne accorgerebbe nessuno, la gente non scenderebbe in piazza a manifestare; oggi se dichiari che non segui Sanremo passi per uno snob, è come se avessi l’obbligo morale e nazionalistico di guardarlo o quantomeno di rispettarlo, non ti è concesso di disprezzare le istituzioni che esistono “da sempre” per il solo fatto che esistono“da sempre”. C’è gente che parla del caffè italiano nei termini di un credo religioso estremista.

 

Descrivi una civiltà terrorizzata dalla malattia (il famoso “brutto male”), che profonde grande impegno nel far finta che la morte non esista. Allo stesso tempo, però, metti in luce anche l’ossessione che le persone nutrono nei confronti della malattia, una volta che questa si manifesta.

Non abbiamo confidenza con la morte. Facciamo di tutto per non pensarci. Non è tanto che ci spaventa morire, quanto che vorremmo saperlo con il giusto anticipo, per chiudere in bellezza, salutare tutti, fare un viaggio in Islanda. Siamo terrorizzati dall’eventualità di una morte improvvisa. Una vita di sacrifici per comprare una casa, mettere su una famiglia, farsi un nome, costruirsi una carriera, e poi dall’oggi al domani sparisce tutto. E la malattia è un’anteprima della morte. Negli ultimi vent’anni, grazie a Internet, ci sentiamo tutti «un po’ più consapevoli, quasi dei medici», ma la verità è che del nostro corpo e della salute ne capiamo meno che in passato. Lo vediamo come una macchina scissa dalla nostra personalità ormai virtualizzata, da un nostro avatar immortale.

 

Come è stato abbondantemente sottolineato, il titolo del libro fa riferimento a Rogozov, un medico russo che negli anni Sessanta si auto-operò di appendicite che tu citi soltanto in un’occasione. Spiegaci il motivo.

Quando l’ho adottato immaginavo un impatto simile a quello del Limonov di Carrère, ma prima ne sono venuti molti altri, di titoli, e nessuno mi ha mai convinto. Li odio, i titoli. Mi sembrano tutti buffi, delle caricature. Spesso penso: «I titoli sono finiti, sono rimaste le parafrasi». Per cui alla fine ho optato per un titolo che mi piacesse almeno dal punto di vista estetico, per quanto non dica molto al lettore. Va detto anche che nelle stesure precedenti Rogozov, il chirurgo, aveva più spazio, e così tutto il discorso sui medici, che invece con il tempo è finito in secondo piano.

 

Un concetto importante del libro mi sembra essere quello di miseria (intellettuale, economica, umana).

Sì, certo, è fondamentale, anche se non avrei molto da aggiungere alla tua domanda. Quando vivevo in Inghilterra mi dicevano spesso «Don’t be miserable», me lo dicevano ogni volta che non mi divertivo come tutte le persone che mi circondavano, eventualità piuttosto frequente, perché io sono una persona poco divertente già in Italia, figuriamoci in UK. «Don’t be miserable», mi dicevano, e io pensavo: «Ma come faccio? Intorno a me vedo soltanto miseria». Che poi è invidia. Chiamo miseria la facile felicità di quasi chiunque altro, l’ilarità incontenibile, la capacità di stare nelle cose. Mi sembra che si accontentino tutti delle apparenze e della superficie, ma di nuovo, è soltanto invidia, perché per me quelle apparenze e quella superficie sono più inarrivabili degli abissi. E così scrivo di miseria, sempre, perché è tutto ciò che vedo, probabilmente attraverso un filtro deformante. E poi, aggiungo, la miseria è quello che cerco dalla letteratura, sarà un approccio infantilmente decadente, ma la letteratura che dà conforto mi repelle, il conforto o il sorriso li ricevo volentieri dai film o dai fumetti, mentre – mea culpa – la letteratura mi piace cupa.

 

Concludiamo con un esercizio di immaginazione: come vivrebbe questo periodo storico Gargano e come si comporterebbe?

Non sarebbe un no-vax. Più probabilmente avrebbe fatto di tutto per prendersi il Covid in forma leggera e ottenere così il green pass, una, due, tre volte. Questo è più nel suo stile. Non è uno da manifestazioni, men che mai un hater da social. Vorrebbe soltanto essere lasciato in pace, a costo di suicidarsi pur di non essere strangolato dalla società.

 

(Mauro Maraschi, Rogozov, TerraRossa Edizioni, 2021, 246 pp., euro 16, 50, articolo di Martin Hofer)
Copertina di Altre aspettative di Schreiner

Una vita da mediano

Altre aspettative (Ensemble, 2021) è il primo romanzo di Alessio Schreiner, sceneggiatore romano classe ’71 che ha pubblicato racconti sulle riviste «Effe», «Achab», «Nuovi Argomenti», «Oblò» e nelle antologie Vinyl e E poi ci troveremo come le star (Morellini Editore). Racconta la storia di Andrea, personaggio specchio che racchiude, nel breve spazio della narrazione, una serie di interrogativi, tentennamenti e incertezze che ne fanno una sorta di Zeno moderno.

Andrea ha quarant’anni ma gira ancora in motorino, anzi, quando è in aria di conquiste romantiche si presenta a un appuntamento con il secondo casco nel bauletto «come quando al liceo qualcuno metteva un preservativo nel portafogli in vista di una serata».

È un autore televisivo ma lavora al Parsley Pub, assieme a ragazzi troppo piccoli per ricordarsi come fosse il mondo prima del divieto di fumare nei locali pubblici. Gli sembrano candidi, interessanti, con tutti i loro sogni e aspettative sul futuro. Quando è in buona riesce a impressionarli tessendo su misura storie assurde. È pur sempre uno sceneggiatore, anche se ha rinunciato al suo lavoro dopo il fatto di Federica, la sua compagna. Che non c’è più.

Ora Andrea ha una routine abbastanza noiosa, segna con un cerchietto i prodotti in sconto sui volantini pubblicitari, temporeggia tra porno e social (solo Facebook), quando sente mordere l’istinto sessuale va a correre a Villa Pamphili dove le femmine lo guardano ancora, forse un pochino, o se lo è immaginato?

È un tipo vintage, che come sex symbol di riferimento è rimasto a Bogart e alle sue Marlboro, e ha in camera un «apparecchio telefonico, con tanto di fax» dai tempi in cui ha iniziato a lavorare per la televisione. Quando chatta con le sue ex cotte dell’università, scrive ancora «bacio ;-)». E, anche se nel libro si nominano i «vocali» e WhatsApp, Andrea non dà segno di sapere cosa sia Instagram.

Schreiner crea una carrellata di capitoli brevi, gioca coi salti temporali, chiude i capitoli a effetto, in un andamento che potremmo accostare a delle rapide e incisive puntate. Propone scene di semplice fruizione, dove la complicanza sta nel rimescolamento dei piani cronologici, o nell’intersecarsi di verità e finzione, anche grazie al filtro del protagonista, del tutto inattendibile. Inoltre alcune situazioni ricorrenti, se aumentano l’effetto di familiarità, danno anche vita a un sottile disorientamento, un effetto di “già successo”, come nei frequenti sogni, i cui dialoghi sfumano nella realtà.

Anche la casa, vissuta come rifugio dal mondo esterno, ricorre nella sua veste di “cosa viva”, misteriosa: «Più il tempo passava, più aveva l’impressione che quell’appartamento si stesse restringendo. Come se le pareti convergessero in un unico punto, avanzando giorno dopo giorno di qualche millimetro».

Ritornano delle fissazioni, dei trip: quello della posta, quando Andrea si blocca a pensare in maniera ossessiva a cosa potrebbe accadere se una lettera destinata a lui si smarrisse o venisse recapitata al destinatario sbagliato (in una girandola sempre più nevrotica di variabili e ipotesi), quello degli esami medici, attivato dal semplice intervento di un esperto in tv («Dopo due ore di diligenti ricerche su internet, Andrea aveva tirato giù una lista di esami vivamente raccomandati per il post quarantenne maschio generico in buona salute»), oppure quello dell’infanzia, un leitmotiv che collega gli episodi di vita dell’Andrea adulto ai ricordi dell’Andrea bambino caratterizzandolo come un eterno Peter Pan, che rimpiange «il bar coi videogiochi, la caserma dei pompieri, i giardinetti, il campetto […]. Era il mondo dei loro pomeriggi dopo la scuola e aver fatto i compiti. […] Un mondo di madri che quando uscivi si limitavano a raccomandarti di stare attento e che quando rientravi ti dicevano di lavarti le mani perché era quasi pronto, e dopo qualche minuto anche i padri rientravano dall’ufficio. Un mondo perduto e lontanissimo, in cui la felicità era avere mille lire e non vedere l’ora di andare dal giornalaio per comprare dieci pacchetti di figurine».

Quella di Altre aspettative sembra unatmosfera leggera, disimpegnata, da commedia all’italiana. Per i dialoghi, le scene, l’immaginario, sembra di essere dentro Notte prima degli esami o Come tu mi vuoi. È pieno di Lidie, Giulie, Tiziane, di amiche di amiche, in questo mondo della romanità televisiva che fa gli aperitivi nei locali giusti e dà feste in balcone a casa di quel vecchio contatto delle superiori che ha appena firmato un copione importante.

Per queste feste ormai Andrea ha perso interesse, inutili palcoscenici per mettere in mostra i successi professionali; i single vanno a caccia; si chiacchiera e si fuma, si flirta a bassa intensità, ma è «tutto diventato molto freddo, quasi un esercizio di stile», non come i tempi del liceo, quelli pieni di batticuori e imprevisti e coppiette che di colpo spariscono per appartarsi nella camera col lettone mentre tutti, giù di sotto, ballano.

Andrea è una persona insicura, un narratore inattendibile, quel che racconta va costantemente soppesato. La sua insicurezza è generata dall’aver giocato sempre in riserva nella vita, sin dalle medie, dove i ragazzini “popolari” lo prendevano di mira, oppure dal fatto di non essere mai stato apprezzato dal padre Franco, o ancora dal divorzio dei genitori.

Franco, automobilista aggressivo e appassionato di New Wave inglese, gli ha lasciato in dote un subliminale senso di inadeguatezza, e passa le sue giornate da vedovo progettando precisissimi plastici in cui ricostruisce le più importanti battaglie storiche, come ad esempio una immensa Waterloo… dove Napoleone è vincitore. Ma la vita non funziona così, pensa Andrea, non si può riscrivere modificando quello che non ci piace. Sarebbe una enorme mistificazione.

La nota di fondo è la malinconia. Tutto sembra perennemente affiorare, come galleggiasse poco sotto la superficie. Non ci sono capitoli della vita di Andrea davvero chiusi, si viaggia in una bolla in cui ricompaiono ex, amici di scuola, del mare, situazioni vissute a diciotto-vent’anni: di qui la sensazione irreale, un po’ dolciastra e trasognata, che si ha dell’esistenza del protagonista. Come se si muovesse avviluppato in una nuvola di zucchero filato, mischiata all’occorenza con Xanax.

La rinuncia di Andrea alla socialità, «un’autarchia alcolica punteggiata da singhiozzi di rabbia e frustrazione e semi svenimenti sul divano», ricorda una versione maschile di Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh; per la prima volta il discorso degli psicofarmaci, del desiderio di murarsi in casa anestetizzando tutte le responsabilità, è declinato al maschile. In questi anni sono molte le scrittrici che si sono concentrate sul tema del disturbo depressivo, ma sempre da un punto di vista femminile. Approcciandolo in chiave meno approfondita, Schreiner attribuisce questo tratto al suo protagonista: un uomo ancora giovane, del tutto incapace di prendersi in mano, paralizzato da una sensazione di non saper fare, anche negli scambi con le donne.

Nonostante la protagonista di Ottessa Moshfegh sia molto più pericolosa e metodica nell’assumere psicofarmaci di ogni genere e voltaggio, anche Andrea scivola nella tranquillità indotta dai farmaci. «Con lo Xanax era più sciolto, predisposto a un approccio più morbido e rilassato verso qualunque situazione dovesse affrontare».

La vita di Andrea, sia online che offline, è una soap dove si materializzano «ragazze irraggiungibili, cotte segrete di cui non aveva mai avuto nemmeno il numero di telefono». Incoerente, si dispera per la perdita di Federica, eppure passa le successive pagine a desiderare ogni singola donna che attraversa il suo campo visivo.

Significativo lo spettro della vecchiaia. «Qual era lo scopo se a un certo punto il tempo avrebbe iniziato comunque a cannibalizzarti, come uno di quegli scooter abbandonati di cui alla fine resta solo il telaio e una ruota legata con una catena a un palo?», si chiede accorgendosi che la sua barba è color della cenere. E così la vita di Andrea procede, a sprazzi di passato nel presente, in un continuum di birre medie, correzioni di bozze di copioni, ragazze che “ciccano” per terra all’ingresso dei ristoranti e crisi improvvise con conseguente distruzione dei mobili di casa.

E anche Altre aspettative si sfoglia così, come un telefilm, ben orchestrato e in punta di piedi, tra flussi di coscienza, momenti di vita quotidiana e riflessioni, frasi a effetto e scene in presa diretta, rivelando senza eccessivo pudore tutte le velleità e le fragilità, i meccanismi mentali e le sconfitte, gli impulsi e i pensieri di un uomo contemporaneo di quarant’anni, che ha vissuto una vita ordinaria fatta delle piccole cose di cui è fatta ogni vita, e che per un momento ha creduto di poterla rendere straordinaria.

 

(Alessio Schreiner, Altre aspettative, Ensemble, 2021, 188 pp., euro 15, articolo di Teodora Dominici)

 

Copertina di Invisibili

Se i numeri ignorano le donne

«Vedere nel maschio l’essere umano predefinito è uno dei fondamenti della struttura sociale umana».

In tutti i campi di ricerca, dalla medicina all’antropologia, dalla storia ai sistemi di sicurezza, i dati raccolti dagli studiosi parlano chiaramente dell’uomo, quasi mai della donna. Predomina l’idea che raccogliere dati sugli uomini, senza disaggregarli per genere, sia equivalente a raccoglierli per tutta la popolazione, femminile compresa. Questo però è fortemente discriminante, e porta a ignorare le esigenze della popolazione femminile ogni volta che differiscono da quelle del campione di base, maschile o a maggioranza maschile.

In Invisibili (Einaudi Stile Libero, 2020) Caroline Criado Perez in chiama maschile-ove-non-altrimenti-indicato questa mancanza di dati di genere. Mancanza che azzera di fatto gli studi circa l’effetto dei medicinali sull’organismo femminile, le necessità di sicurezza delle donne alle fermate dei bus, l’importanza delle donne nel ruolo di raccoglitrici e allevatrici per lo sviluppo della civiltà umana, l’effetto delle cinture di sicurezza sui corpi femminili, e così via.

I dati possono sembrare universalmente oggettivi, eppure anche negli elenchi, nelle percentuali e nelle statistiche c’è una componente che si caratterizza in modo culturale: varia a seconda dell’estrazione di chi li interpreta, del modo in cui i dati sono presentati, dell’attenzione a diverse caratteristiche del campione. Non solo è rilevante il modo in cui vengono interpretati, ma anche come, quando e da chi vengono raccolti. Criado Perez mostra come tutti questi elementi distorcano i risultati e le conclusioni di analisi che perciò si rivelano spesso parziali, pur essendo alla base di scelte politiche, umanitarie e sociali.

Invisibili è dunque un libro prezioso, che parte dai numeri per dare loro significato, spessore civile e politico e costruire una narrazione in grado di fotografare la società che ne emerge. Dà alle statistiche respiro internazionale, transculturale e storico; si interroga non solo sul significato dei dati, ma anche sul modo in cui sono stati raccolti e perché – soprattutto, perché si decide di non raccoglierne altri. Qualche esempio emblematico: perché abbiamo così poche statistiche sui lavori svolti dalle donne, sulle reazioni del corpo femminile ai farmaci nelle varie fasi del ciclo mestruale, sulle necessità sociali delle donne? O ancora: perché i dati raramente sono disaggregati per genere, cosa che permetterebbe di comprendere meglio le discriminazioni e le differenze?

Un altro pregio del libro è la prospettiva molto ampia: non indaga la discriminazione solo nel mondo cosiddetto occidentale, o nelle sue manifestazioni borghesi. Il discorso di Criado Perez comprende i soliti temi ormai cari ai giornali e al dibattito politico europeo e nordamericano, come il lavoro dipendente, le politiche sociali e la definizione della violenza di genere, ma prende in considerazione anche i problemi specifici della popolazione femminile dei paesi in via di sviluppo e delle fasce di popolazione che lottano ogni giorno contro la povertà assoluta. Troviamo ampi e fondamentali capitoli dedicati all’accesso a servizi igienici e alle cure ginecologiche, all’assistenza durante il parto, come anche all’importanza dei programmi di aiuto che tengano in considerazione il ruolo di cura e gestione della vita familiare delle donne.

Il quadro tracciato da Criado Perez è piuttosto chiaro: una società ancora smaccatamente a misura di maschio, nella quale le donne, quand’anche vengano prese in considerazione, sono appiattite sul modello maschile. Ne deriva una cultura in cui il pregiudizio di genere è predefinito e inevitabile, e nella quale la preferenza per il maschile è «al tempo stesso causa e conseguenza del vuoto dei dati di genere». La prospettiva maschile e bianca è diventata la norma, al punto che ci si dimentica che anche maschio e bianco rappresentano la specifica identità di una minoranza. E presupporre che i dati si riferiscano a maschi bianchi, a un “uomo” tipo che è minoranza, è la radice di svariate discriminazioni.

Nelle parole dell’autrice: «La storia del genere umano. La storia dell’arte, della letteratura, della musica. La storia dell’evoluzione. Ci sono state presentate come fatti oggettivi, ma in realtà nascondono un inganno, giacché sono distorte dalla mancata percezione di metà del genere umano, e persino dalle stesse parole che vorrebbero esprimere quelle mezze verità. Una mancata percezione che ha creato vuoti informativi, che ha alterato ciò che pensiamo di sapere su noi stessi e alimentato il mito dell’universalità maschile». Le donne sono metà della popolazione, ma sono state per secoli, e sono ancora in larga parte del mondo, escluse dai ruoli di potere, dall’accesso alla cultura, dalla rappresentazione nell’arte e in ambito culturale. Quel che si sottovaluta è che la scomparsa del femminile ha portato alla predominanza del maschile anche nelle statistiche e nella scienza.

Invisibili, racconta con dovizia di particolari ed esempi spiazzanti «quel che succede quando ci si dimentica di prendere in considerazione metà del genere umano», soffermandosi sui danni concreti che l’assenza di dati di genere provoca «lungo il corso più o meno normale della vita di ogni donna». Ma è anche un appello al cambiamento, uno strumento per comprendere meglio il nostro mondo, nella sua interezza, e per cominciare a cambiarlo a partire dalla consapevolezza.

Per risolvere la mancanza di dati di genere, e la cecità nei confronti del femminile, si può sì intervenire sul modo in cui i dati vengono raccolti e sull’attenzione che viene posta dai singoli, ma è molto più importante colmare il divario di rappresentanza che porta la storia umana a essere identificata come storia dei maschi bianchi. Perché «quando sono coinvolte nei processi decisionali, nella ricerca scientifica, nella produzione di conoscenza» conclude Criado Perez, «le donne non restano nell’oblio».

Semplicemente, «Basta chiedere alle donne».

 

(Caroline Criado Perez, Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano, trad. di Carla Palmieri, Einaudi, 2020, pp. 460, euro 19,50. Articolo di Elisabetta Sangiorgio)

The Dream, il nuovo album degli Alt-J

Rimarrà sempre un mistero l’enorme successo di An Awesome Wave, soprattutto per quanto riguarda parte di una critica alla spasmodica ricerca di un grande gruppo pop inglese che potesse spaccare la musica degli anni ’10.

Sembrava roba sofisticata, ma portava con sé intrinsecamente dei bug artistici a cui diversi gruppi si aggrappavano (già passati per un periodo alt trasformato poi banalmente in pattume) e a cui venivano aggiunte componenti finto-raffinate vagamente hip hop e una vocazione soul che nascondevano una predisposizione all’appiattimento mainstream (“Breezeblocks“, sì). Solo che loro erano all’inizio e già ci eravamo passati. Altro che Coldplay indie, insomma.

Mistero soprattutto se paragonato a un gruppo come gli Everything Everything che due anni prima faceva uscire un album, Man Alive, che suona ancora adesso come un grande capolavoro dimenticato (ma per dimenticarlo bisognerebbe almeno farlo conoscere) e che nel discorso sui gruppi indie-inglesi di quegli anni viene regolarmente bypassato. Certo, non è  colpa degli autori di “Matilda” se la band di Manchester sia rimasta impolverata in uno degli angoli remoti del mercato musicale. Però una riflessione in merito sarebbe da fare.

A parte questo: dopo un primo album del genere, ne esce un secondo, This Is All Yours, che è come il primo ma meno ispirato e poi, cinque anni fa tirano fuori Relaxer che già al primo ascolto faceva capire che le cose stavano cambiando. Maturando, quantomeno. Gli Alt-J si stavano emancipando dagli Alt-J? Non proprio. Quell’effetto Alt-J c’era sempre, ma usciva più come questione artistica e non come una cosa da corso di marketing.

Ora, nel 2022, esce il quarto album della oramai old next big thing Alt-J, The Dream, (e infatti non c’è stato quel clamore -pre che aveva caratterizzato le uscite precedenti) e la sensazione di fondo, ascolto dopo ascolto, rimane comunque sempre quella di un gruppo alla perenne ricerca di qualcosa. E suona paradossale, verissimo, perché hanno sicuramente trovato qualcosa: il suono Alt-J, il brand Alt-J, è super riconoscibile. Meno sensazionalismo degli esordi, ma anche qui un’idea più artistica su cui lavorare.

The Dream ha degli spunti interessanti. Prendo il trittico “Chicago“-“Philadelphia“-“Walk a Mile“, che sembra uscito dalla testa di Sufjan Stevens ed è roba neilyoungiana con sonorità contemporanee) o anche “Happier When You’re Gone” (un pezzo davvero Alt-J che sembra mischiarsi a “Tender” dei Blur), ma non riesco  mai a vederli ruotare attorno qualcosa di preciso perché alla fine nulla sembra mai ruotare attorno agli album e alle canzoni stesse degli Alt-J: forse è anche questa la loro peculiarità, quella di cammuffarsi, nascondersi, mimetizzarsi, non essere mai la stessa cosa pur essendo sempre la stessa cosa.

I tre di Leeds si stanno stabilizzando su un’altezza, come nel precedente sono usciti dalla confort zone che li ha protetti per anni, non hanno quella finta-freschezza degli esordi. Non c’è una direzione che un album pop necessita, ma non è neanche un lavoro di rottura, qualcosa con uno sguardo che possa andare oltre. Ma nonostante sembra un pasticcio di sensazioni e di suggestioni,  c’è un sentore  per cui valga la pena, anche solo per un po’, approfondire il discorso.

Forse gli Alt-J non capiranno mai cosa saranno. E forse non sarà necessario. Senza le pretese con cui pubblicità e parte della critica li hanno definiti e plasmati, il fenomeno Alt-J può ridursi e viaggiare su binari più gestibili. Magari il tutto sarà meno ambizioso, ma magri più credibile.

 

Copertina di Lampreht di Kolar

La voce della notte

«Non ci spaventiamo più a morte, andiamo alla morte. Le malattie sono per l’uomo la strada più breve per tornare a se stesso». Così afferma il principe Sarau in Perturbamento, romanzo di Thomas Bernhard. Nelle opere dell’autore austriaco, la malattia assume centralità in quanto lente attraverso cui analizzare la realtà e proteggersi dalla stessa, essendo questa spesso connotata in termini negativi.

Sembra aver letto Thomas Bernhard anche l’autore sloveno Kazimir Kolar, che arriva in Italia per i tipi di Wojtek Edizioni con il romanzo Lampreht. Nelle sua pagine, infatti, si ha l’impressione di sentire un’eco dello scrittore austriaco, perché al centro del romanzo vi è una malattia che diventa strumento di analisi della contemporaneità, ma anche scudo dalla pressione a cui le convenzioni sociali ci costringono.

Il protagonista è Kazimir Lampreht, detto Mirko, perché Kazimir «è solo il mio nome di battesimo, non è il mio vero nome». Egli è affetto da psicosi, che si presenta sotto forma di voci «da qualche parte sopra di me, strane voci, gonfie di confusione, e mi pare che chiamino qualcuno per nome»; questa si manifesta anche nel continuo passaggio da un lavoro all’altro, segno di un’evidente scissione dell’identità e al contempo di una certa difficoltà nello stare in società. Lampreht, infatti, è stato guardiano notturno, professore di storia e ostetrico. Tutto questo, poi, ci viene raccontato dalla fine all’inizio, ovvero dal momento in cui la psicosi ha raggiunto il suo culmine fino al principio della stessa. Se l’inversione temporale, che sembra derivare dal malessere psichico del protagonista, diventa paradossalmente una maniera per invertire il senso comune, allora è proprio la malattia l’unico modo per Lampreht di reagire di fronte alle storture della società in cui vive.

Per comprendere al meglio questo romanzo, bisogna soffermarsi sul titolo originale, ovvero Glas noči, che in sloveno significa “la voce della notte”. Se il titolo italiano si concentra soprattutto sulla persona di Lampreht, conferendogli centralità e dignità in quanto individuo, quello originale rende meglio l’idea della psicosi del protagonista, della sua posizione nel mondo e della sua voce: una voce che viene dal buio, dai margini della società, espressione di un individuo che va incontro alla morte in un vortice ipnotico e regressivo, senza sosta, precipitando infine negli abissi della sua coscienza ma allo stesso tempo della nostra, meschina, indifferente e malata quanto la sua.

All’interno del romanzo sono molti gli elementi e le espressioni che rimandano all’idea della notte e dello smarrimento, come i «corridoi bui e oscuri», la «lunga ombra della sera», piuttosto che i richiami al sonno, al tema della fine e al volo degli uccelli . Quest’ultima immagine è un riferimento alla citazione di Hegel che l’autore pone in esergo: «La nottola di Minerva inizia il suo volo solo sul far del crepuscolo». Se per il filosofo tedesco la nottola di Minerva è la metafora della filosofia che comprende le cose soltanto una volta che sono accadute, per Kolar la psicosi è un modo per il protagonista di prendere atto di una condizione generalizzata di spaesamento senza via d’uscita. Indice di ciò è il modo in cui il libro è strutturato: questo si suddivide in quattro capitoli intitolati “Io”, “Gli altri”, “Il mondo” e “Lo spirito”, a riprova del fatto che il malessere di Lampreht coinvolge anche tutti coloro che gli stanno intorno, cosicché la sua malattia diventa anche la nostra.

Per poter criticare un ambiente malato come quello in cui vive il protagonista, Kazimir Kolar racconta di Lampreht riducendolo a un “grado zero sociale”, ovvero allo stato di “inutile”, condizione che gli permette di raccontare senza remore i suoi disturbi e di contestare liberamente la propria realtà. Lampreht riesce a fare ciò perché, essendo ritenuto inaffidabile dagli altri, si trova in una posizione tale che nessuno può condannarlo. La sua inaffidabilità è presente da subito, soprattutto nel momento in cui intraprende la sua seduta di psicoanalisi. «Non mi capisce», dice allo specialista, «ma non c’è bisogno che mi capisca. Non sto cercando di convincerla di niente, non le voglio stare a spiegare un bel niente. Io voglio solo raccontare». Nel fare ciò, Lampreht vuole quindi ridursi al nulla, di modo da poter criticare chiunque rientri nei suoi pensieri:

«Col cazzo che ero normale. Sangue dal naso, allucinazioni, caduta di capelli. Tutto questo mi succedeva. Unghie spezzate. Minzione dolorosa, costipazione. Alito cattivo, piressia, tremori. Ciondolavo intere giornate al centro commerciale BTC, immaginandomi fantasma. Ero diventato bravissimo, si comportavano tutti come se non esistessi. Proprio quello che all’epoca volevo».

Lampreht vive con l’idea di non avere valore, e si autoconvince di questa verità che gli è stata indotta, tanto da essere incapace di migliorare la sua situazione: il protagonista «vuole correre a tutti i costi», ma «inizia a sprofondare in basso, invece di procedere in avanti», confermando così la convinzione che la sua vita non abbia alcun senso. Egli si sente sempre più «una specie di animaletto abbandonato» che «si propaga per i corridoi bui e oscuri», perché «è una povera anima abbandonata, un naufrago».

La condizione di naufrago esistenziale, allora, lo mette nella posizione di abbandonarsi alla sua regressione, ignorando l’invito dello psicoanalista di smetterla di parlare ad alta voce e di usare parolacce. Il giovane «non può smettere di parlare. È tutto a puttane», in quanto la società in cui vive è malata tanto quanto lui, come dimostra questa sua riflessione dal tono e dal ritmo molto bernhardiani, fatta di pensieri che si accumulano in un flusso ininterrotto:

«Dove ci porterà tutto questo? Tutti odiano tutto. Il lupo è un uomo per l’uomo. L’uomo è un lupo per il lupo. Lupa ex fabulo. Fabulus ex lupo. Lupare de fabulo. Fabulare de lupo. Finisce che m’innervosisco. Finisce che mi sfracello. Nel fiume vado a finire. Sotto la riva. Sono nervoso. Voglio prendere a schiaffi qualcuno. Lo voglio colpire. Lo voglio ammazzare. Cantando. Ne voglio bere il sangue, me lo voglio spalmare in faccia. Mi ci voglio rinfrescare il corpo. Chi l’ha aperto il finestrino? Chi non l’ha aperto il finestrino? Perché non ci sopportiamo? C’è qualcosa di malato in noi. […] Noi non siamo un paese normale. Autodistruzione, cinismo. Ignoranza».

Lampreht sembra riprendere quanto affermava Thomas Hobbes: homo homini lupus, l’uomo è un lupo fra gli uomini. Il suo mondo è pieno di indifferenza, ignoranza e cinismo. Ognuno è contro tutti, e proprio per questo il protagonista ha fatto sua la psicosi: per sprofondare sempre più in sé stesso, perché non c’è salvezza e si può solo precipitare verso la fine.

Ed è allora che si scaglia verso tutti. Rinnega, ad esempio, il nome di battesimo derivato dal nonno, sopravvissuto ai campi di concentramento, riguardo ai quali sostiene che i libri di scuola nascondono la verità – «il mondo è dissimulato», afferma – e si lascia andare a osservazioni di un sarcasmo spinto all’estremo. Per lui un adulto che si avvicina a un bambino automaticamente ci vuole fare sesso come nei film, mentre un bambino che sta per nascere si immagina un paradiso di dolore, sofferenza e «forse una guerra mondiale, lo scontro tra le civiltà», e le colleghe sono «vecchie cornacchie» o «cessacce infami» ostili e vendicative che possono disporre di lui come gli pare e piace perché «fa parte anche questo della punizione: il fatto che nessuno sappia cosa farsene di te. Sei inutile, privo di valore. Chiunque può mandarmi dove gli pare e piace».

La voce della notte di Kazimir Lampreht grida senza peli sulla lingua – con un sarcasmo rabbioso e acido, ironico e spietato fino all’esagerazione come il miglior Bernhard – una verità che nessuno vuole riconoscere: «Il mondo non offre possibilità, è teso, gravido di pettegolezzi metafisici e di citazioni deleterie. Se affogo […], se recuperano il mio cadavere dal fiume, certo non lo fanno per compassione o per timore di un castigo, ma per ordinaria trivialità». Malato, dunque, non è solo Lampreht, ma lo siamo anche tutti noi, con l’unica differenza che il protagonista di questo libro non ha paura di ammetterlo, e così facendo si dimostra più sano degli altri.

 

(Kazimir Kolar, Lampreht, trad. di Lucia Gaja Scuteri, Wojtek Edizioni, 2022, 120 pp., euro 14, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
Luce e colori Flaneri

Luce e colori in Faulkner, Joyce e Camus

In tempi di progressiva marginalità e perdita di prestigio della critica letteraria, al cui orizzonte di esplicitazione e coscienza spesso si preferisce sostituire il ruolo subalterno e inappropriato di supporto del mercato, mera ratifica e amplificazione pubblicitaria di un rassicurante già detto, vale ribadirne la funzione che anzitutto le è propria, quella cioè di analisi di forma e contenuto del testo, dunque a uno stesso tempo di studio sia del cosa che del come di cui è costituito. A questo fine, tra le diverse metodologie critiche l’approccio semantico si rivela particolarmente utile quando si voglia mettere a confronto autori e opere molto distanti tra loro, come nel caso di Gente di Dublino (1914) di Joyce, Luce d’agosto (1932) di Faulkner e Lo straniero (1942) di Camus. Se, infatti, la letteratura è strumento di comprensione del mondo attraverso il linguaggio, l’uso della parola non può esaurirsi nel suo essere esplicitazione di questo o quel concetto ma si fa veicolo del non detto, vale a dire di ciò che di più prezioso giace tra le sue righe e ne rappresenta la differenza qualitativa.

Tuttavia, l’incapacità di uno sguardo approfondito da parte di critici o editori non appartiene unicamente alla storia recente, poiché sarà proprio il raffinato sottotesto della raccolta di racconti Gente di Dublino a causare le ritrosie degli editori Maunsel e Roberts, portando nel 1907 alla rottura del contratto e al definitivo distacco di Joyce dall’Irlanda, cui per la delusione non farà più ritorno. È sorprendente, ma l’autore riuscì a pubblicarla presso l’editore americano Grant Richards solo sette anni più tardi, al prezzo di umilianti clausole e peraltro grazie all’intervento e al continuo incoraggiamento di Ezra Pound, senza i cui sforzi «io sarei rimasto probabilmente quello scribacchino sconosciuto che lui scoprì», come ebbe ad ammettere lo stesso Joyce nel fitto epistolario che si scambiarono. All’intercessione del grande poeta, che tra l’altro si batté faticosamente per riuscire a far pubblicare sulla rivista The Little Review i primi capitoli dell’Ulisse (1925), dobbiamo infatti con gratitudine la fortuna letteraria di uno dei massimi scrittori del Novecento.

In Gente di Dublino, apparentemente semplice a una lettura di superficie, il colore costituisce uno dei tanti sistemi di segni che frangono la parola nelle immagini archetipiche di un universo mitico e allegorico. Qui il verde non rimanda all’isola di smeraldo di San Patrizio, col suo sottinteso di rigenerazione spirituale, né al simbolo nazionale del trifoglio, quel fortunato shamrock usato come logo di squadre sportive e associazioni di vario tipo. Lontano dall’essere emblema dell’Irlanda nei suoi connotati vitali e positivi, è piuttosto la tinta verdastra della marcescenza e della putredine, proiezione della morte sulla vita e, assieme al marrone – che ritorna anche nei nomi di alcuni personaggi come per esempio il signor Browne – nonché in contrasto al blu liberatorio del mare, è il tono dello stallo, del gorgo paludoso che si riavvita su se stesso, addirittura della pazzia e della perversione, come «gli occhi verde bottiglia» dell’ambiguo vecchio satiro che, in Un incontro, gira in tondo il suo monologo tra mania feticistica, intransigenza bigotta e sadismo.

La Dublino di Joyce è quella di una società stagnante volta alla paralisi, dove l’alone giallastro delle vecchie foto, il cupo rossiccio dei mattoni dei quartieri periferici, la nera terra cimiteriale e la patina brunastra degli edifici riflettono per osmosi l’incapacità di rinascita della piccola, minuta borghesia dei personaggi, come in Un caso pietoso il viso dell’accidioso Duffy ne possiede «la tinta scura delle strade». Ma alla grandezza di Gente di Dublino non corrisponde tanto la sintesi tra l’eredità naturalistica di Flaubert o Zola e quella simbolista di Hauptmann e W.B. Yeats, quanto l’ironico distacco che Joyce riserva a entrambe. Nell’apparente linearità dei racconti, infatti, il mondo al contempo reale e metaforico dei dublinesi si apre a una dimensione ironicamente allegorica della condizione umana, come testimonia l’ultimo e più celebre dei racconti, il magistrale I morti, definito una parodia funeral o meglio funferal, come annotò lo stesso autore con un divertito gioco di parole tra fun (buffo, divertente) e funeral (funerale).

Ma se il tempo assoluto dei vivi e dei morti dublinesi, cristallizzato nel racconto finale dall’obliosa distesa della neve dai «fiocchi argentei e scuri» cadente «su tutto l’universo», tuttavia aspira alla Grazia, in Camus non c’è possibilità di una trascendenza che riunifichi l’irrimediabile scissione di senso tra uomo e natura, e l’ironia joyciana per la sorte umana cede il passo all’amara consapevolezza della sua sconfitta. L’immobilità dell’eterno presente di Meursault, il piccolo impiegato che, ne Lo straniero, dopo un banale litigio con uno sconosciuto incontrato per strada lo uccide, spalanca ai lettori l’inferno di uno stato di cose senza speranza né riscatto. Là dove la simbologia legata all’ovest, dunque al tramonto e ai suoi colori indicava sia il moto centripeto della società dublinese quanto la decadenza della civiltà occidentale, ne Lo straniero la posizione del sole sembra quasi non toccare punti cardinali, onnipresente e spietata presenza che col suo calore diventa l’ossessione, tanto intollerabile quanto perenne, di una sorta di beffarda divinità mitologica.

Non a caso durante il processo, di fronte ai giurati sbigottiti, Meursault alla domanda sul perché del suo atto risponde: «a causa del sole». Non vi è un ovest rappresentativo del morire al quale contrapporre l’alba della rinascita di un favoleggiato est, come in Arabia, perché nemmeno la cultura orientale offre la seduzione di un’alternativa al nulla dell’esistenza. Differentemente che in Joyce, per Camus l’uomo è condannato a morte dalla natura, e a questa premessa non vi è scampo. La sabbia rovente sulla quale avanzano verso di lui i due arabi gli appare, per un’allucinazione, rossa come quel sangue che tra poco verserà, gesto di morte gratuito e assurdo quanto la stessa vita. Il sole feroce, che rende «inumano e deprimente» il paesaggio, cade «quasi a piombo sulla spiaggia», premonitore dei quattro colpi che a breve esploderà dalla pistola decretando così la sua sventura. Se i personaggi della Dublino di Joyce sono intrappolati nell’inazione, per il protagonista de Lo straniero ogni azione è vana, perduta nel limbo atemporale dell’impossibilità. Il modesto dipendente Meursault è un Titano non solo consapevole della sconfitta, ma anche nei suoi confronti tragicamente indifferente.

Quanto diverso dall’implacabile sole di Camus che non getta ombre è quello di Luce d’agosto, dove i raggi dell’estate che mettono a nudo i lati oscuri tuttavia lasciano posto al domani e alla speranza. «Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica» commentò Faulkner a proposito del titolo, cambiato da Dark House in quello che conosciamo dopo una casuale osservazione che gli rivolse la moglie: «hai mai notato come la luce in agosto sia diversa da ogni altro periodo dell’anno?». Di fatto, se il dualismo oppositivo della natura equivoca di Joe Christmas, l’uomo dalla pelle «color pergamena» ma «sangue negro» nelle vene, contrabbandiere d’alcool e assassino della donna bianca che amava, lo spinge verso il destino ineluttabile dell’eroe di una tragedia greca, il sistema cromatico di segni che affida il candore di Lena Grove agli spietati riverberi estivi quanto a «una sorte di luce interna di calma, tranquilla irragionevolezza e di distacco», amplia la dimensione mitica del romanzo alla metafora della Grazia.

Là dove l’omicidio per mano del Meursault de Lo straniero è il focus dell’opera, la dualità epica e antica di Joe Christmas, col suo essere mezzo bianco-mezzo nero, è superata dall’aura luminosa a tutto tondo di Lena, che non fortuitamente apre e chiude Luce d’agosto. In lei che povera, scalza e sola, attraversa a piedi l’Alabama fino al Mississippi in cerca del padre del bambino che porta in grembo, vive inattaccabile la speranza, la fede nel futuro, la possibilità di riscatto di un’umanità che oltrepassa la morte. Se l’ateismo di Camus condensa la luce sulla lama d’acciaio scintillante del coltello in mano all’algerino, «spada ardente» che perderà Meursault inchiodandolo nell’istante eterno in cui reagirà sparando, in Luce d’agosto l’accecante fulgore estivo accompagna grandiose tragedie, tuttavia disponibili a simbologie salvifiche. In questo che di Faulkner, debitore dello sperimentalismo europeo joyciano, è il testo meno criptico, l’utilizzo significante della luce e del colore non è dissimile dalla tensione alla trascendenza – intesa come superiore senso unificante – di cui si intesse la simbologia cromatica di Gente di Dublino.

Qui, dove ne Il giorno dell’edera nell’ufficio elettorale il falò e le metafore che vi si legano sono il corrispettivo di un Paese alla deriva, per riconnettersi in finale di racconto con l’immagine della fenice che risorge dalle proprie ceneri, l’implicito rimando al rosso, alla luce e al calore è quanto di più distante dalle fiamme paralizzanti di Camus, cui non segue alcuna trasformazione: «mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua larghezza per lasciare piovere fuoco», dice Meursault un istante prima che il grilletto si muova, condannandolo. Ciò che fa di questi tre testi opere che sopravvivono al tempo, è il quid nascosto nel sole crudele che acceca il travet di Algeri, nella sua cieca assurdità al pari di lui né colpevole né innocente, nella luce d’agosto che disarma le ombre dello squallore morale, nell’inafferrabile «grigio mondo impalpabile» della nevicata in cui, ne I morti, svanisce l’identità di Gabriel, richiamato dall’immensa «esistenza area e incorporea» di quanti non ci sono più, il cui stesso mondo materiale pian piano si dissolve e confonde con i fiocchi di neve.

Copertina di Sistema nervoso di Meruane

Il paese del presente e il paese del passato

Il primo passo per conoscere Lina Meruane è leggere Lame di rasoi, un racconto brevissimo che parla di ragazzine, rasoi, pelle, lame e scoperte reciproche. È contenuto nell’antologia Tintas. Tredici racconti dal Cile edita da Gran Vía, che raccoglie racconti brevi di quella che è considerata la nuova generazione della scrittura cilena – di poco successiva a Bolaño, apprezzata e considerata promettente anche da lui – costituita da nomi ormai noti anche in Italia come Benjamín Labatut, Nona Fernández, Alejandra Costamagna, Alejandro Zambra e, appunto, Lina Meruane.

Nata a Santiago del Cile nel 1970, Meruane vive ora negli Stati Uniti, dove insegna Scrittura creativa e Letteratura latinoamericana alla New York University. È autrice di diverse opere – racconti brevi, romanzi, pamphlet, non tutti ancora disponibili in italiano –, ma soprattutto è autrice capace di stili diversi e di linguaggi sempre nuovi che utilizza per raccontare temi ricorrenti delle opere tradotte e pubblicate da La Nuova Frontiera: le donne, il dolore, il corpo.

Nel suo primo romanzo, Sangue negli occhi, la protagonista una sera diventa improvvisamente cieca, con tutti i possibili sentimenti che vanno dalla rabbia, all’incredulità all’esasperazione dell’attesa. Segue nel 2019 Contro i figli, pamphlet sulla maternità e sulla non maternità, sulla scelta di se e come usare il proprio corpo, nel quale dà voce ai diversi punti di vista sul tema senza dare nulla per scontato, semplicemente aprendo le proprie pagine alle battaglie femministe, ai desideri differenti di ogni donna, alle scelte di artiste e scrittrici come Emily Dickinson, Jane Austen e Emily Brontë, o le italiane Elsa Morante e Oriana Fallaci.

Attraverso ogni suo libro è possibile seguire una sorta di filo conduttore, che ogni volta prende la forma della sofferenza o della malattia tramite il linguaggio universale e sempre diverso dei corpi umani.

Anche Sistema nervoso (La Nuova Frontiera, 2021), la sua ultima opera, è pieno di male fisico e di vere e proprie malattie, utilizzate nella narrazione, attraverso l’alternanza di due mondi speculari, passato e presente, come elementi fondamentali, quasi indizi per poter riscostruire la storia intera di una donna, di una coppia, di tutta una famiglia.

Il romanzo ha inizio con un blackout assorbito dalla crisi personale e professionale della protagonista, una donna che insegna astrofisica a ragazzi dalle mille domande e che per riuscire a completare la propria tesi ha bisogno di tempo, un pretesto, una scusa che le consenta di dedicarvisi completamente, una malattia seria ma non troppo, sufficiente a giustificarla ma insufficiente a devastarla.

«Ammalarsi: l’avrebbe chiesto alla madre che l’aveva partorita, la madre genetica e ormai defunta. Quella che non aveva conosciuto. La invocava sempre per le cose difficili. Accendendo un incenso le chiese di farla ammalare di qualcosa di grave ma passeggero. Non di morire come la madre, in modo repentino. Quanto bastava per un semestre di congedo senza dover dare tutte quelle lezioni di scienze planetarie a tanti studenti distratti che bisognava istruire valutare dimenticare immediatamente, soltanto un congedo temporaneo da quel lavoro mal pagato per potersi dedicare a un altro che non pagava affatto».

Il pensiero diventa reale, l’auspicio prende forma, il corpo risponde alla mente e Lei – donna senza nome – scivola sempre più velocemente in uno dei buchi neri di cui parla a lezione, che non danno risposte, che non forniscono soluzioni.

La discesa è camminare all’indietro verso il passato, ritrovare persone che ora vivono in altri mondi, fare i conti con l’infanzia, la crescita, l’adolescenza e chi la popolava insieme a Lei. Ogni genitore, ogni fratello, la donna stessa, una cugina, hanno un passato in cui hanno vissuto con il proprio corpo ed è da quello che ogni storia prende vita, fino alla creazione di una biografia medica e familiare che galleggia in un universo fatto di pianeti e di memorie.

Proseguendo il romanzo scopriamo infatti i vari personaggi attraverso le malattie di cui soffrono e i loro complessi e malfunzionanti sistemi – nervoso, psichico, immunitario. Oltre alla protagonista, c’è Lui, antropologo forense e compagno di Lei che perde l’udito a causa di un incidente sul lavoro. Ci sono gli altri pezzi della sua famiglia: un fratello con le ossa rotte e l’osteoporosi, una Madre che supera i problemi oncologici grazie a una gravidanza gemellare, un Padre medico che sembra avere fiducia solo in piccoli e malmessi ospedali.

Ognuno di questi personaggi, ogni loro storia, è un piccolo sistema a sé stante che non può evitare di intersecarsi con gli altri, come un sistema solare, come un sistema famiglia.

«Bisognerebbe sistemare questo pianeta, non andarcene in un altro dove ripeteremmo gli stessi errori. Gli stessi errori, ripete il Padre, quali errori potremmo riparare?, da quale cominceresti tu?, chiede con lo sguardo perso, chiudendo gli occhi trasognati anemici agnelli da sgozzare.»

 

(Lina Meruane, Sistema nervoso, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, 2021, 256 pp., euro 17,90, articolo di Francesca Ceci)

 

La musica ha perso

Circa due settimane fa Neil Young comunica il suo ultimatum a Spotify: o me, o Joe Rogan. L’artista canadese chiede di rimuovere il suo intero catalogo nel caso Spotify continui a fare da piattaforma al podcaster Joe Rogan, reo di avere avuto come ospiti alcune personalità vaccino-scettiche o anti-vax, e quindi di aver contribuito a disinformazione pericolosa per la salute delle persone. Spotify, con cui Rogan ha da poco firmato un contratto di 100 milioni di dollari per l’esclusiva sui suoi contenuti, rimuove Neil Young.

La protesta di Neil Young innesca un limitato effetto a catena. Anche Joni Mitchell in solidarietà, abbandona Spotify. Apparentemente, il 19% degli utenti Spotify dichiara l’intenzione di cancellare l’abbonamento al servizio (per andare dove, verrebbe da chiedersi). Le piattaforme rivali non perdono tempo: Amazon, per esempio, posiziona Young e Mitchell sulla homepage della sua funzione “Rediscover“. Abbandonare Spotify senza ripercussioni è facile, scrive il Washington Post, e spiega anche come farlo. Per coincidenza, il Washington Post è proprietà di Jeff Bezos, che è anche proprietario di Amazon Music.

Mi interessa poco stare a dibattere qui su chi ha ragione e chi no, elaborare sul personaggio di Joe Rogan, pontificare sulla libertà di parola e decostruire lo scetticismo che mina la scienza. Quello che per me è importante è che la musica, in questa controversia, ha perso. E lo ha fatto contro un avversario formidabile: il podcast.

Il ‘formato’ podcast, in cui la gente discute problemi, ripercorre storie, scherza, o semplicemente ciarla, ammette come elemento costitutivo la disinformazione. Immaginatevi di stare in un bar: sappiamo come funziona, no? La forma del podcast è esattamente quella di un bar su una piattaforma da cui vi possono sentire tutti. Come Rogan ha detto, il podcast lo fondò nel 2009 con un amico per “sparare cazzate di fronte al PC”. Tredici anni più tardi, The Joe Rogan Experience è il podcast più seguito non solo su Spotify, ma al mondo: annovera circa 1700 episodi, per un totale di un miliardo e mezzo di visualizzazioni (prima che da YouTube si trasferisse su Spotify). Forse è per questo che Spotify se lo coccola. Se Rogan fosse stato un banalissimo aspirante influencer, Spotify l’avrebbe probabilmente depiattaformato con un clic. Spotify, così come tutte le altre big tech che popolano i nostri giorni e immaginari, ha una sola etica: quella del profitto. Neil Young, con tutto il rispetto, non porta loro gli stessi soldi.

La realtà è un triste problema di contenuto: nell’economia dell’attenzione, podcast e musica si trovano in conflitto. E il podcast sta rubando il tempo della musica: anche se dall’inizio della pandemia ascoltiamo più contenuti audio, il consumo di podcast è cresciuto in maniera esponenziale, molto più rispetto a quello musicale. È estremamente probabile che quando il nostro consumo audio diminuirà con il normalizzarsi della situazione, a farne le spese sarà la musica. In altre parole, il podcast continuerà a mangiarsi fette di territorio musicale, e nella competizione con formati audio non musicali, la musica è destinata a cadere in secondo piano.

Perché? Forse che ascoltare delle persone ‘sparare cazzate’ è diventato più interessante che ascoltare musica? Non è poi passato così tanto tempo da quando Thom Yorke, leader dei Radiohead, chiamò Spotify “l’ultima disperata scorreggia di un cadavere” (riferendosi all’industria musicale e al tentativo delle major di mantenere potere e controllo a tutti i costi). Yorke predicava un’interazione diretta tra musicista e ascoltatore, e per questo dette la possibilità ai fan di scaricare In Rainbows a donazione libera direttamente dal sito della band. L’esperimento fu un successo. Yorke, però, ometteva che per arrivare nella posizione di pubblicare un album in self-release ne aveva già pubblicati sei con una major, la EMI, la quale gli aveva garantito visibilità planetaria (provate domani, da artisti emergenti, a pubblicare il vostro album nello stesso modo – attenzione, segue spoiler). Ma soprattutto Yorke si sbagliava perché il cadavere non era l’industria musicale e le sue strutture di disuguaglianza, bensì la musica stessa.

La rivoluzione dello streaming ha portato alcuni effetti di democratizzazione nella produzione musicale e condotto a una densa cultura partecipatoria. Secondo il libro Music by Numbers, redatto da due accademici inglesi, Richard Osborne e Dave Laing, nel 2000 vennero pubblicate circa 300.000 canzoni. Nel 2010 questo numero era salito a 900.000 (in media 2.465 al giorno). Nel 2020, sono state pubblicate 21,9 milioni di canzoni (60.000 al giorno). Un’esplosione di creatività, nel segno del ‘chiunque può farlo’ e in faccia all’elitismo del sistema. Mai come ora musicisti senza etichetta possono svilupparsi nel mercato senza bisogno di strutture intermedie, ma andando direttamente dal produttore al consumatore. Il 2020 ha infatti segnato una crescita senza precedenti per gli artists direct, musicisti che producono e distribuiscono musica da soli.

Tuttavia, gli artists direct molto spesso rimangono nel sottosuolo del sistema. Nel 2018, per esempio, 3,7 milioni di artists direct si sono spartiti circa 643 milioni di dollari in proventi, per un totale annuo di 173 dollari ciascuno (150 euro). La ristretta minoranza (il famoso 1%), formata da artisti a contratto con le major, continua a essere saldamente all’apice della piramide e a spartirsi circa il 70% dei proventi di tutta l’industria musicale su scala globale. Lo streaming non è poi così rivoluzionario: secondo un autorevole studio, nel 2020 i proventi medi per i cinque millioni di artists direct (nel frattempo sono cresciuti), sono stati di circa 240 dollari a artista/gruppo (210 euro). Solo lo 0,05% di questi artisti vive con i guadagni della musica: “molti di quei sogni”, conclude il rapporto, “rimarranno irrealizzati”.

Più musica prodotta significa anche più musica inascoltata. Forgotify, parola-macedonia composta da ‘forgotten’ (dimenticato) e Spotify, fu un’app lanciata nel 2014 per dare dignità a tutte le tracce che su Spotify non avevano mai ricevuto un singolo ascolto. Secondo il team di sviluppo dell’app, a quel tempo le tracce inascoltate erano all’incirca 4 milioni, e sui 20 milioni disponibili costituivano il 20% del catalogo. Se le proporzioni sono rimaste le stesse, significa che sugli 82 milioni di tracce presenti oggi su Spotify, circa 16 milioni non hanno ricevuto nessuna attenzione da parte di nessuno. Purtroppo, non lo sapremo mai con certezza: la nobile idea di Forgotify non funzionò, e Forgotify, ironia della sorte, fu dimenticata anch’essa.

Chi trae beneficio dalla sovrapproduzione, inoltre, è in primo luogo la piattaforma ospitante. Infatti il CEO di Spotify, Daniel Ek, non ha nessun problema a dichiarare che per i musicisti pubblicare un album ogni 3-4 anni non è ormai abbastanza. L’artista ha bisogno di produrre con continuità. Per Spotify, più uova fa la gallina, meglio è. La sovrapproduzione e la precarietà musicale che ne deriva non sono cose che riguardano né tantomeno nuocciono alla piattaforma. Il tuo tempo è limitato, ma lo spazio nel loro catalogo no. L’importante è essere ispirati e ispirare.

L’illusione delle opportunità ha anche portato alla managerializzazione del musicista. In tutte le conferenze dell’industria musicale il mantra è uno solo: puoi scrivere la migliore musica al mondo, ma se non sai come diffonderla, se non sai come adoperare gli strumenti digitali, se non hai una presenza sui social media, se sei negato con il networkingin sostanza, se non sai come venderti – non potrai mai viverci. Questo significa che la qualità della musica è secondaria alla sua pubblicità e alle capacità imprenditoriali del musicista. La scala dei valori viene alterata e la promozione del contenuto diventa più importante non solo del contenuto, ma della creazione stessa.

Non c’è tempo da perdere, e quindi bisogna tagliare il superfluo: il gruppo, per esempio. Non è un caso che i gruppi stiano scomparendo, rimpiazzati da artisti singoli che compongono musica nella loro cameretta. Essere in un gruppo comporta continua negoziazione: organizzare le prove, suonare una nota anziché un’altra, arrangiare in un modo oppure in un altro, provare diverse strutture, litigare, fare pace, e così via. Alcuni direbbero che il gruppo è una scuola di vita, un’esperienza formativa non solo per un musicista ma per una persona in generale, tramite cui si impara ad ascoltare gli altri e a scoprire sé stessi. Questa esperienza però, richiede tempo e energia. La tecnologia digitale, così come favorisce l’invasione dello spazio privato ai danni di quello pubblico e demolisce la nostra capacità di comunicare, facilita anche l’ascesa di artisti che sostituiscono le dinamiche di gruppo con un lavoro creativo atomizzato.

La logica neoliberista non vuole collettività, bensì atomizzazione, e non solo nei produttori, ma anche nei consumatori, in modo da poter poi fornire un falso senso di sicurezza. Da qui il boom di playlist ‘umorali’ e ‘rilassanti’ sulle piattaforme streaming. Gli algoritmi del mood e del chill sono importanti per consolare il lavoratore afflitto, per condurlo a fine giornata e farlo addormentare affinché possa riprendere la sua routine produttiva il giorno dopo. La musica, in questo senso sostituisce (o meglio, affianca) antidepressivi e tranquillanti. Questa musica la sentiamo dovunque, dal supermercato alla caffetteria, dal centro commerciale al ristorante. È memetica in natura, creata quasi da uno stampo atemporale. È una musica la cui mediana nasce dalle nostre ansie: una sorta di dance triste che però non è proprio dance e non è proprio triste. Breve, sui 3 minuti, dall’intro quasi nullo, con il ritornello nei primi 40 secondi e una classica struttura ABABCB (strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello). Se include delle parole, queste raccontano una storia d’amore finita male che però porta al potenziamento individuale, in linea con la logica tardo-capitalista di resilienza.

L’intensificazione di contenuti memetici oggi non vale solo per il pop o per generi commerciali. Vale anche (e soprattutto) per i generi alternativi. “L’indie da discarica” degli ultimi 20 anni, per esempio, presuppone una clonazione in serie senza interventi ritmici o sonori. Anche qui possiamo già sentire la canzone tipo, una specie di incrocio tra Kings of Leon e Mumford & Sons: batteria con cassa in quarti, chitarrine vagamente taglienti, riffetto veloce, voce maschia e ritornello con cori smarmellati. Anche qui si parla di amori poco fortunati ma c’è un pizzico di cinismo in più. Il risultato è che si può ascoltare una compilation di canzoni di diversi gruppi ingannandosi che sia uno solo.

Tuttavia, come in un cameo digitale, gli artisti pubblicano un album, o anche solo un EP, poi scompaiono, non avendo avuto tempo per svilupparsi fuori dalla macchina. Essendosi plasmati su di essa e avendone anticipato le esigenze, ne vengono inghiottiti. E quindi, se la mercificazione un tempo avveniva nella fase di impacchettamento della musica come prodotto per il pubblico, ora avviene alla fonte, quando il musicista accende il computer per comporre la sua prossima hit. Verrà accettata dall’algoritmo? Diventerà un meme? Quali 15 secondi prenderanno? Nei numerosi manuali di istruzioni su come creare la perfetta canzone virale su TikTok si parla proprio di questo: ci vuole un certo bpm, un certo livello energetico, e una certa tempistica nell’azzeccare il trend giusto. Alla fine, memetico è il contenuto e memetico è l’uso.

Non romantizziamo: non c’è mai stato un tempo in cui la musica non sia stata mercificata dall’industria culturale e venduta come bene di consumo. Già negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, Adorno muoveva le critiche più veementi, e sinora più perspicaci, all’industria culturale. La produzione di massa di artefatti musicali tutti uguali, diceva Adorno, mira all’abbrutimento dell’ascoltatore e alla sua regressione. Il circolo è vizioso: la passività e l’acriticità portano al consumo seriale di artefatti musicali tutti uguali. Alla fine, concludeva il filosofo tedesco, la canzone “sente per l’ascoltatore”.

Adorno però non aveva previsto che di lì a poco la musica leggera, soprattutto il rock, si sarebbe interrogata su sé stessa, sul proprio ruolo nella società e sulla propria serietà, sperimentando in multiple direzioni, raggiungendo a pieno diritto di essere considerata musica colta, e dando voce a disagio e rabbia generazionali. Certo, in tutto questo la musica era sempre anche merce, prodotta dall’industria musicale e indicizzata in base ai soldi che poteva fare. Ma questo non ne escludeva il valore sociale. La differenza era nella pervasività del processo di mercificazione, nello stadio in cui avveniva, e nel valore del consumo che ne faceva il pubblico.

La crisi economica e contenutistica della musica ha come prodotto di scarto un’allarmante disgiunzione cronologica. Nonostante le migliaia di tracce pubblicate ogni giorno, se si va in un club indie oggi, si ballerà la stessa musica che si ballava una quindicina di anni fa. Il fatto che Is This It è uscito 22 anni fa e Unknown Pleasures ha 43 anni è subordinato al nostro morboso rifiuto di crederci. Da qui il lungo revival del post-punk: la mancata innovazione culturale ha portato a una perenne risurrezione del passato. Dagli Interpol ai Molchat doma, sono almeno venti anni che la musica cerca di tornare negli anni ’80. Cosa c’era allora che adesso non c’è? Oppure, cosa non c’era allora che adesso c’è? Di sicuro, non c’era la “fine della storia”, come la chiama il politologo americano Francis Fukuyama per descrivere il collasso del socialismo e il trionfo del neoliberismo, e non c’erano nemmeno i vicoli ciechi della disattesa utopia digitale.

Forse quello che c’era, invece, corrispondeva all’idea, seppur pallida e problematica, di futuro. Se il primo post-punk (dai Joy Division agli Smiths, per intenderci) raccoglieva i cocci lasciati dal fallimento del punk per costruire, come lo definisce Simon Reynolds, un nuovo spazio di possibilità, il post-punk post-2000 raccoglie i cocci dei cocci per costruire un museo. La critica anticapitalista di Jameson e Fisher l’aveva capito sin troppo bene che nel postmoderno il pastiche e il revival sono le uniche forme di cultura possibili. La linea di sviluppo si trasforma in cerchio e l’imperativo dell’arte diventa preservare un ricordo di ordine. Il passato si può ora esplorare come terra straniera per scacciare un presente che non ci piace e un avvenire che ci dà ansia. Ah, se fossimo ancora negli anni ’80, tutto sarebbe diverso. Libertà di parola, fede nel progresso, fede nella scienza, nessuna catastrofe ambientale, niente social, niente precarietà, niente pandemia o vaccini obbligatori, eccetera, eccetera. Manuel Agnelli cantava che non si esce vivi dagli anni ’80. Di sicuro non se ne esce con una concezione lineare del tempo. Ad incapsulare il nostro presente ci sono le GIF, e per descrivere il ruolo della musica, i 15 secondi in loop di TikTok.

In questo contesto, l’ascesa del formato podcast non sorprende. Anzi, può essere vista quasi come una forma di protesta. Se la musica è questa, se è un sottofondo tutto uguale, se non articola una ribellione alla funzione di puro intrattenimento che le è stata assegnata, se nell’oceano di suoni non si riesce a distinguere nulla di innovativo, tanto vale sentire delle voci discorrere di qualche tema: almeno si impara qualcosa, o ci si fa una risata.

La musica, entrando nel digitale, non solo ha esaurito la capacità di rinnovarsi e di immaginare un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo, ma ha anche accettato con entusiasmo di darsi come algoritmo. La musica non esplora più le possibilità di frizione tra le generazioni, ma balbetta l’assenza di futuro. Non è la colonna sonora di una protesta, ma il rumore di fondo della tecnocrazia. Certo, possiamo ancora tenerla alta nella nostra scala di valori, come in una teca impolverata, ma possiamo anche cambiare canale irritati. Il podcast, almeno, è genuino nella sua mancanza di pretese: per quanto i podcaster possano essere informati, in fondo, quello che offrono è una chiacchierata tra amici.

 

 

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Copertina di L'anima delle città di Brokken

La forza commovente della verità letteraria

«I luoghi che in un modo o nell’altro ti attirano hanno sempre qualcosa a che fare con un’esperienza precedente». E se la stessa affermazione può valere per i libri, forse risiede proprio in questo ciò che attrae il lettore verso le opere di Jan Brokken: quell’indefinita sensazione di entrare in contatto con qualcosa che ci riguarda, più o meno da vicino, e che in qualche modo fa parte del nostro passato.

Dopo Anime baltiche e Bagliori a San Pietroburgo, Brokken torna con L’anima delle città (Iperborea2021) a raccontarci storie conosciute, sconosciute, dimenticate. La struttura narrativa è sempre la stessa: racconti brevi che aprono finestre sulla vita di personaggi in grado di segnare il mondo con il loro passaggio. Ogni racconto è un varco su uno spazio fisico e su una dimensione temporale – che sia la spiaggia di Arcachon nel primo Novecento, la regione della Curlandia negli anni della Cortina di ferro, o i due centri della città di Bergamo agli inizi dell’Ottocento –, poi lo spazio e il tempo si allargano, per connettere luoghi ad altri luoghi e far emergere i molteplici fili rossi che tengono unite le persone.

Oltre alla struttura narrativa, non cambia neppure l’atteggiamento dell’autore nel modo di addentrarsi nelle vite dei suoi personaggi: Brokken maneggia con cura e rispetto il materiale biografico che deposita nei suoi libri, e nel momento in cui decide di entrare nell’intimità di un personaggio non lo fa scegliendo di utilizzare la porta principale, ma quella sul retro, in silenzio, per non disturbare.

Anime baltiche, Bagliori a San Pietroburgo e L’anima delle città sono tre libri imparentati tra loro, generati dallo stesso seme che ha fatto germogliare in Brokken la costante voglia di viaggiare, visitare posti e congiungere la propria anima con l’anima dei luoghi su cui posa lo sguardo e, in particolar modo, con l’anima delle persone che lì hanno abitato le loro vite. L’atteggiamento è quello del viaggiatore d’altri tempi, un viaggiatore in grado di procedere con lentezza. Citando Proust, per il quale «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi», Brokken sottoscrive il suo manifesto di flâneur.

A differenza però dei due libri precedenti, in cui l’area dei pellegrinaggi è in qualche modo circoscritta e dichiarata fin dal titolo, L’anima delle città si espande e nei dodici capitoli-racconti è possibile vagabondare in Olanda, in Germania, in Francia, in Italia, e persino arrivare nel lontano Giappone, anche se il baricentro della narrazione resta imperniato sull’Europa. 

È impressionante constatare come la fatica documentaria che sta dietro a questi racconti sembra non gravare minimamente sull’autore, che mantiene una freschezza di penna corroborante. Sembra quasi che il tempo trascorso a consultare documenti, gli appunti presi, la gran quantità di immagini impresse nella mente si espandano in modo fluido, e il tutto appaia come una chiacchierata tra vecchi amici, tra un “Sai che…” e un “Ti ricordi?”

Alberga in Brokken un patrimonio genetico prettamente russo, e la conseguente e connaturale capacità di narrare storie si potrebbe definire quasi un’esigenza. A questo si associa una capacità di ritrarre i personaggi con la stessa sincerità fiamminga di Memling o di Vermeer.

Dei personaggi da lui raccontati alcuni sono noti ai più, altri meno, ma di tutti vengono messi in luce aspetti sfuggiti alle irrigidite biografie ufficiali. E nel caso in cui la storia fosse già conosciuta, di sicuro è nuovo lo sguardo di tenerezza che Brokken posa su ciascun personaggio a cui decide di fare visita. È proprio lì che risiede l’immensa ricchezza che i libri di Brokken donano a chi si accosta a loro: attraverso la rispettosa narrazione di queste storie si ha la possibilità di scoprire e, perché no, di innamorarsi, che sia la Lakštingala di Čiurlionis, o le geometrie arboree dell’Orto botanico di Cagliari, opera di Eva Mameli Calvino.

Brokken ci racconta che si può amare una città anche senza amarla, amandone solo l’idea, o un suo dettaglio, proprio come accade a Mahler che di Amsterdam ama la disciplinata maestria dell’orchestra del Concertgebouw. Oppure in una città uno può mettere in pratica l’inno epicureo del λάθε βιώσας, lathe biosas, che vede la solitudine come strada per assaporare il piacere della vita: è quanto accade a Giorgio Morandi nella sua personalissima Bologna.

«Nei miei libri ho sempre cercato di raccontare la grande storia, dandole un viso e personificandola in persone note o sconosciute. […] È un gioco di prospettiva: cerco di allargare la storia mondiale per restringerla, arrivando a quella personale, per poi riallargarla di nuovo abbracciando quei temi universali, dalla libertà all’amicizia». Questo è quanto afferma lo stesso Brokken durante l’intervista che concede a Maria Ducoli, in occasione del festival “Incroci di civiltà”, organizzato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. Con L’anima delle città, quindi, l’autore ci regala dei viaggi immersivi per dare nuovi volti a realtà storiche e geografiche che già conosciamo, e che lui ci aiuta a vedere riflesse sui visi della gente.

Sta al lettore trovare la chiave di lettura, e capire in fin dei conti qual è l’anima delle città. Le risposte possono essere molteplici, e non ci sono risposte errate. È indiscusso che le anime sono tante, come tante sono le persone che hanno attraversato le città visitate dai racconti di Brokken, o più in generale le città del mondo. «Mi piace pensare che nessuno scompare senza lasciare in eredità un’orma, un’impronta digitale o un’idea». Potrebbe essere questa la frase a sigillo dell’opera di Brokken e una possibile spiegazione del suo lavoro di scrittore di storie. 

Quale che sia la risposta che uno abbia trovato, una volta conclusa la lettura di L’anima delle città, ciò che appare ormai come granitica certezza è di aver trovato in Brokken un autore entusiasta di mostrare il vero nella letteratura, proprio perché, affidandosi alle parole illuminate di Jean Cocteau, «solo la verità, anche quando è ben nascosta, possiede la forza di commuovere».

 

(Jan Brokken, L’anima delle città, trad. di Claudia Cozzi, Iperborea, 2021, 352 pp., euro 19, articolo di Giulia Eusebi)
Copertina di Il femminismo è per tutt*

Sono le nostre mamme a insegnarci il patriarcato

Il gioco grafico della copertina del libro Il femminismo è per tutt* lascia intravedere una i infondo al titolo, tratteggiata da un raggio esterno, come fosse la sagoma di un’ombra. bell hooks ripone grande attenzione al linguaggio e alle sue strutture di potere, per esempio rifiutando lei per prima la maiuscola nel suo nome. Per questo il titolo è inconcluso, sollevato dal binarismo di genere. È così che la Tamu Edizioni ha voluto pubblicare un manifesto che celebra l’intersezionalità del pensiero femminista, dimostrando la sensibilità di quello che verrà raccontato nel testo già dal disegno grafico. bell hooks ha sentito l’esigenza di scriverlo dopo anni di militanza, dopo anni di ricerca di un testo di alfabetizzazione per chiunque fosse curioso del tema. Un testo che spiegasse che il femminismo non risponde alle esigenze di una parte della società: si tratta piuttosto di politica, che come tale mira alla collettività, a tutte e tutti. Ha deciso allora di spiegarlo e di scriverlo lei stessa, il libro che aveva sempre cercato.

Il paradosso di inserire “tutti” al maschile nel titolo avrebbe portato a escludere le donne come destinatarie dell’opera, e in generale della sua idea di femminismo, ma la scelta di non usare “tutte” evidenzia un passaggio storico nello sviluppo del pensiero femminista. Infatti, il femminismo ha bisogno di rivolgersi a un pubblico trasversale e dare risposte alle domande più scomode che la società impone. Ci si potrebbe aspettare allora che con l’apertura del femminismo agli uomini il manifesto di bell hooks si concentri principalmente sullo spiegare come mai una simile lotta e politica li possa interessare. Invece, in un gioco di specchi e ribaltamenti, si sviluppa principalmente intorno alla disamina di come le stesse donne siano state le prime portatrici delle istanze patriarcali.

Molte donne hanno voluto massimizzare il loro ruolo nel femminismo quale possibilità di emancipazione di classe nel sistema vigente. Il fatto invece che il femminismo sia nato con l’autocoscienza dimostra proprio come l’obiettivo fosse smantellare per prima cosa il patriarcato interiorizzato: non ci si può dire femministi senza questo passaggio. Il confronto e l’autocoscienza hanno permesso di riconoscersi come agenti di alcuni dettami dell’oppressione e non più esclusivamente vittime, perché la sorellanza femminista si occupa di lottare contro l’ingiustizia patriarcale, qualunque forma assuma. Da quando invece, con gli anni Settanta, il femminismo è stato riconosciuto come materia di studio, i manuali e le discussioni si sono spostate sempre di più nell’accademia, non solo perdendo il legame con la realtà, ma anche limitando l’accesso alle persone estranee al mondo universitario. Il lessico specializzato che ne è nato e lo sviluppo della materia in un luogo intrinsecamente classista e bianco ha deviato dall’obiettivo cardine per cui il femminismo era nato. Di fatto, molte donne bianche appartenenti al corpo docente si sono appropriate di un gergo femminista mentre continuavano a perpetuare lo stesso identico esercizio di potere dei loro colleghi maschi. Non è che uno dei tanti esempi che bell hooks riporta per sottolineare i rischi delle derive femministe: la focalizzazione di alcune donne sul carrierismo e il conseguente accesso a ruoli importanti non significa che le donne come gruppo sociale stiano acquisendo potere.

Il libro si sofferma allora sul cosiddetto sessismo interiorizzato, analizzando il modo in cui le donne possono essere nemiche del femminismo. Questo non si è verificato solo in ambito accademico o quando il femminismo si è istituzionalizzato, ma anche all’interno dello stesso movimento. La mancata decolonizzazione del pensiero ha portato sì le donne bianche a liberarsi dal lavoro casalingo, ma invece di ripensare i rapporti di cura e di educazione nella famiglia, la gestione delle faccende domestiche è stata delegata alle donne nere o immigrate. È avvenuto perché, quando il movimento è nato, si affrontavano principalmente i problemi delle donne bianche istruite. Ma adesso, ci dice bell hooks, per la lotta è arrivato il momento di diventare trasversale, e per il pensiero femminista di assumere al proprio interno le istanze di donne che hanno un altro colore della pelle e un’altra appartenenza di classe. Bisogna tentare di capire come alcuni diritti delle donne bianche siano stati raggiunti solamente grazie all’oppressione delle donne nere. Questo, comunque, non significa escludere che la lotta possa essere condivisa: bisogna solo fare lo sforzo di comprendere in che modo si manifesti in gruppi e classi sociali differenti.

La pratica sessista nei confronti dei corpi delle donne è interconnessa a livello globale: per esempio, è fondamentale capire che la mutilazione dei genitali femminili è l’altra faccia della medaglia rispetto ai disturbi alimentari, potenzialmente mortali, di cui il mondo occidentale e bianco soffre. L’ideale di magrezza oggi imperante, infatti, non è che una nuova versione del metodo di controllo del corpo che il sistema patriarcale ha sempre manifestato nei confronti delle donne. Il corpo è sempre stato al centro del discorso femminista, e dobbiamo indagare come oggi questa forma di oppressione sia mutata, magari in maniera meno visibile ma ugualmente opprimente. C’è bisogno insomma di «rispettare i nostri corpi in maniera antisessista».

Se il sessismo è oppressione per le donne di tutto il mondo, spesso purtroppo lo è anche la stessa risposta femminile agli abusi. Tra le donne ci sono state e continuano a esserci donne maltrattanti, e talvolta le donne hanno sbagliato le pratiche da adottare per combattere il patriarcato, rendendosene alleate. Per esempio, in merito alla sessualità ci sono stati atteggiamenti opposti e contraddittori; bell hooks afferma che «la lezione che tutte noi abbiamo imparato è che una pratica sessuale trasgressiva non ti rende politicamente progressista». È del tutto plausibile che in un rapporto lesbico si verifichino gli stessi identici meccanismi di potere delle coppie etero, perché il fatto che il soggetto sia femminile non garantisce che attui pratiche e abbia valori femministi. Questo è possibile perché molte donne hanno introiettato il sessismo e l’abuso di potere, e proprio le dinamiche che hanno sempre sofferto sono diventate insegnamenti trasmessi ai loro figli. Se da una parte gli uomini sono visti come i nemici indiscussi e l’enfasi è stata posta tutta sulla violenza maschile, dall’altra parte non è stata posta la stessa attenzione sulla violenza femminile che le donne compiono sui loro figli o su altre donne, nonostante il tipo di oppressione sia il medesimo. Che i genitori di sesso femminile abbiano trasmesso il pensiero sessista è stato possibile anche perché non sono stati scritti testi femministi che permettessero di capire come educare i figli e creare identità fondate su valori diversi da quelli considerati da sempre accettabili.

Soprattutto quando si è avvicinato agli uomini, il femminismo è stato rappresentato come un movimento politico fondato sull’odio anziché sull’amore. Ma il femminismo, invece, include molto più di quello che la parola sembrerebbe lasciar intendere: perché si occupa di educazione, di razza, di classe, di rapporti di cura e di uomini. Infatti «le femministe visionarie hanno sempre saputo che era necessario convertire gli uomini. Sappiamo che tutte le donne del mondo potrebbero diventare femministe, ma se gli uomini continuano a essere sessisti la nostra vita sarebbe ancora la norma. Le attiviste femministe che rifiutano di accettare gli uomini come compagni di lotta – che nutrono la paura irrazionale che, se gli uomini traggono un qualche vantaggio dalla politica femminista, le donne perdono – hanno sconsideratamente aiutato il pubblico a vedere il femminismo con sospetto e disprezzo. […] è urgente che gli uomini sposino la causa del femminismo e sfidino il patriarcato».

Il femminismo non è oppositivo, è una proposta di pratica politica nuova, aperta a includere tutt*, come i margini sfumati di quella i nella copertina lasciano intendere: un lampo pronto a espandersi per intercettare, includere. Una politica per le esigenze di tutt*.

 
(bell hooks, Il femminismo è per tutt*. Una politica appassionata, trad. di Maria Nadotti, Tamu Edizioni, 2021, pp. 204, euro 14. Articolo di Anita Fallani)
Il cinema francese attraverso i film di Tinazzi

Di esclusioni, abbandoni e tradimenti. Soprattutto tradimenti

Tutto ha inizio da una banconota falsa, messa in circolazione quasi per scherzo, e finisce con un massacro in una casa di campagna: il tempo che separa i due eventi è la dimostrazione che il mondo è un susseguirsi irreparabile di azioni, senza giustizia e senza speranza. È il 1983 e Robert Bresson, esponente del cinema minimalista, crea L’argent, il film tratto dal racconto di Lev Tolstoj Denaro falso, di cui il regista francese, però, conserva solo i tratti essenziali.

Per Bresson, infatti, togliere, spogliare le cose e restituirle a uno spettatore indifeso non è un esercizio di stile, ma l’essenza stessa del cinema e della vita. A parlarne approfonditamente è Luciano De Giusti, in un saggio dedicato proprio a L’argent, nel terzultimo capitolo di una raccolta di qualche anno fa, Il cinema francese attraverso i film curata da Giorgio Tinazzi (Carocci, 2011).

Il lavoro di Bresson ci costringe a fare uno sforzo cognitivo, ad abbandonare il linguaggio rassicurante e ad accettare l’inevitabile: i presagi del riscatto che aspettiamo e che una buona parte del cinema americano ci ha abituati a cogliere, anche laddove non sembrava possibile, non esistono nel suo mondo. Se non fossimo davanti a uno schermo, potremmo pensare di trovarci in una storia scritta da Leo Perutz (che fu, in realtà, a lungo corteggiato da Hollywood) o da Franz Kafka: ma i dettagli scomposti sui quali siamo costretti a posare lo sguardo impediscono di sovrapporre le parole allo stile squisitamente visivo di Bresson.

Il denaro è l’origine del male, come ha insegnato timidamente un altro regista francese, più compreso e amato dal grande pubblico rispetto al suo connazionale: L’histoire d’Adèle H. (1975) di François Truffaut (a dispetto del titolo italiano Adele H. – Una storia d’amore) è anche un film sul denaro, sul suo potere e le sue ombre, come ci svela una delle scene più amare, in cui la protagonista, pallida e sconfitta, interpretata da Isabelle Adjani, offre dei soldi all’uomo perduto pur di riaverlo.

Tutta la filmografia di Truffaut è infatti costellata di esclusi e dimenticati, di abbandoni, di illusioni. E di tradimenti. Come quello che commettiamo noi stessi nei suoi confronti (e nei riguardi di tutto il cinema francese d’autore) non ricordando, ad esempio, il susseguirsi degli eventi raccontati in I quattrocento colpi, ma solo il doloroso fermo immagine finale del giovanissimo Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud che, dopo una corsa a perdifiato su una spiaggia in bianco e nero, guarda dritto in camera, tradendo anche lui, per un attimo infinito, l’illusione del cinema. E proprio quel tradimento, sfacciato e imperdonabile, avrebbe segnato l’inizio di un nuovo modo di fare e di guardare i film e, soprattutto, di osservare il mondo.

In questo volume, però, non c’è traccia né della storia lacerante di Adèle Hugo, né dell’indimenticato Antoine: appare invece un altro film di Truffaut, che segnò l’allontanamento definitivo del regista parigino da quel canone che lui stesso aveva contribuito a creare, come spiega Antonio Nepoti. Effetto notte (La nuit américaine, 1973) è la storia di un altro tradimento, forse il più crudele: l’inganno del cinema (o meglio, di un certo tipo di cinema) con le sue notti che son solo giorni modificati attraverso un filtro.

Di esclusi e traditi è piena la tradizione d’oltralpe, come capiamo anche da questa raccolta, da questi dodici film che apparentemente seguono percorsi e identità diverse. Non sono I dimenticati di Preston Hughes, piuttosto una versione speculare ed europea dei Misfits raccontati da Arthur Miller: «Gli inadatti», come li chiama Leonardo Sciascia nel testo I miti del cinema, (in Questo non è un racconto, Adelphi, 2021), sollevando perplessità sulla scelta italiana di tradurre l’opera dello scrittore americano (trasportata poi sul grande schermo da John Huston nel 1960) con il titolo Gli spostati.

È un’estraneità, quella che ritroviamo anche nei personaggi di Dulac, Clair, Renoir, Carné, Clouzot, Tati, Resnais, Godard, Truffaut, Bresson, Rohmer e Cantet, che invade ogni cosa: persino gli oggetti e i luoghi mostrano il loro distacco dagli uomini. Le cose, come spiega Alberto Scandola a proposito di Vite vendute diretto da Clouzot (Le salaire de la peur, 1953), sono dotate di vita propria, hanno scopi e identità: «Forse dimenticheremo l’obiettivo del viaggio di queste vite vendute. E invece, chissà, ricorderemo il cigolio di una ruota, una gamba sporca di petrolio e una mano aperta, sporca di sangue, inerte: quella che abita l’ultima inquadratura».

O come accade nel film Sotto i tetti di Parigi (Sous les toits de Paris, 1930) di René Clair, in cui una Parigi archetipica osserva indifferente le vicissitudini dei protagonisti, ricordando a tutti noi che la vita dei luoghi esiste anche senza la felicità dei suoi abitanti. Non è un caso che proprio a Clair, alla sua morte e al suo film su Parigi, Sciascia dedichi due saggi del già citato volume sulla settima arte. Spettatore dapprima onnivoro e appassionato, lo scrittore siciliano si allontanerà dal cinema in età adulta, per rifugiarsi solo nel conforto della memoria, come scrive lui stesso, e ricordando pochi, grandi film tra cui proprio il capolavoro di Clair.

Sono “inadatte” anche molte delle donne raccontate da Claude Chabrol, grande assente nel libro Il cinema francese attraverso i film, forse perché troppo ingombrante per essere contenuto in una selezione che, per quanto precisa, nasce, per sua stessa natura, parziale. Come spiega nella prefazione il curatore Giorgio Tinazzi, la scelta è ricaduta, inevitabilmente, su quei registi ritenuti indicativi di epoche e stagioni precise. E se il dibattito sull’esistenza o meno di un’identità francese (culturale, sociale e perché no, anche politica) è ancora aperto e insoluto, viene da chiedersi che senso abbia analizzare oggi film che abbracciano ottant’anni (dal 1928 al 2008), ossia dall’avvento del sonoro, fino al lavoro quasi sociologico di La classe (Entre les murs, 2008), in cui lo sguardo del regista Laurent Cantet si posa sul microcosmo scolastico.

E se oggi molti di questi classici della cinematografia francese pagano il prezzo di un certo fascino intellettuale che li condanna a riduzioni stilistiche e visive, a diventare semplici immagini feticcio esibite sui social, occorre ricordare quanto, invece, siano lontani dalla rassicurante perfezione ossessivamente ricercata nei nostri giorni.

 

(Giorgio Tinazzi, Il cinema francese attraverso i film, Carocci, 2011, 280 pp., euro 22, articolo di Elisa Carrara)