“Gli ultimi ragazzi del secolo”
di Alessandro Bertante

Arriva sempre un momento nella vita in cui si avverte il bisogno di occhiali nuovi, di un nuovo metro per misurare il mondo, di uno sguardo anche un po’ sbilenco, un prisma attraverso il quale rileggere la propria esistenza.

Il metro che ha restituito allo scrittore piemontese Alessandro Bertante, autore del Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti, 2016), le giuste proporzioni ai suoi bianchi e ai suoi neri, ai suoi successi e ai suoi fallimenti, è stata una città, Sarajevo, un luogo dove ancora si sentivano sibilare le pallottole dei cecchini appostati sulle montagne, dove le macerie stavano lì a testimoniare la crudeltà umana, dove il coprifuoco parlava di un difficoltoso ritorno alla normalità dopo la guerra: «…abbiamo sempre vissuto in un paesaggio umano scolpito dal privilegio. Per capirlo siamo dovuti ripartire, vedere da vicino cosa significava essere vittime, essere braccati da un nemico che non concede quartiere».

È così che la vacanza in Croazia dell’estate 1996 diventa, per Alessandro e un amico, l’occasione per fare un’indagine sull’identità di un’intera generazione, quella nata alla fine degli anni Sessanta e che si ritrova ventenne negli Ottanta, un decennio di grandi trasformazioni che idealmente si estende fino a metà del decennio successivo.

È stata una generazione arrabbiata e ribelle in anni in cui cambiano l’immaginario e i segni estetici. Una generazione straziata dalla propria solitudine e dalla nevrosi autodistruttiva (eroine, Aids), da una sfiducia logorante che produce solo orrore per se stessi e per le proprie azioni in un’epoca in cui tutto diventa oggetto di consumo (nascita della tv commerciale, dilagare dei brand).

Assistiamo a quello slittamento emotivo che avviene ogni volta che esperienze e memorie di ciascuno diventano di tutti perché ognuno può rispecchiarsi nell’altro.

Allora l’incontro con quattro ragazzi bosniaci, devastati nel corpo e nell’anima dai segni del recente conflitto, che li esortano a partire per Monstar, si fa necessità irrefrenabile di abbandonare l’atmosfera vacanziera dell’isoletta croata. È un’esigenza capace di mettere in discussione ogni scelta compiuta nell’arco della propria esistenza.

Nel luglio 1996 erano passati solo sei mesi dagli accordi di Dayton e Monstar era ancora zona di guerra, soprattutto di contrasti tra croati e musulmani. Prima del conflitto, la Jugoslavia era una nazione composta da sei stati, cinque culture, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un unico partito. Convivevano insieme serbi, sloveni, croati, montenegrini, macedoni e bosniaci. Poi i venti del nazionalismo revanscista e gli interessi economici si sono fatti tempesta, distruzione, morte, pulizia etnica: «Per quanto riguarda l’ex Jugoslavia, l’odio etnico è diventato una semplificazione retorica che nasconde una precisa strategia politica».

Gli ultimi ragazzi del secolo non è solo un memoir ma ha anche una forte impronta autobiografica, ma in una direzione che si fa ragionamento e scrittura, perché, oltre a raccontarci il viaggio che mostra ciò che di catastrofico c’è dietro una guerra, fa affiorare frammenti dell’adolescenza dell’autore, giovane ribelle della Milano metropoli degli anni Ottanta. Conoscere è conoscersi, è interrogarci per scoprire chi siamo, quanto è come ci cambiano le cose che accadono.

Passato remoto e recente si fondono nella concezione del tempo incentrata su un’idea di cambiamento che investe non solo la società ma l’esistenza stessa. Bertante mette in atto una narrazione diacronica capace di spiegare il passato attraverso il presente e viceversa a seconda dei condizionamenti emotivi dell’io narrante, procedendo per flashes, a intermittenza, come del resto fa la memoria, sempre incoerente.

Le macerie di Sarajevo sono il prolungamento memoriale della guerra, medicina che distilla dal dolore contemplato e risuscita il disagio di un adolescente alle prese con microcriminalità e droga, potente antidoto per mantenersi in un mondo d’illusioni e vacuità al fine di dribblare la consapevolezza della verità umana. La coscienza della vanità della vita si risolve in un’adesione alla vita così com’è, presente e inesplicabile, senza avere mai la pretesa di possederla.

 

(Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, Giunti, 2016, pp. 218, euro 16)

Cinque consigli di lettura per l’estate

Sarà capitato a molti di entrare in libreria in questi giorni, in fretta e furia, magari a poche ore dalla partenza, per scegliere il libro da portare con sé in vacanza. Una serie di titoli fino a poco prima chiari e nitidi nella mente, diventano improvvisamente un grumo di parole indistricabile. Calma, ci siamo qua noi. Ecco cinque titoli che per un verso o per un altro vi potranno salvare dall’apatia del caldo estivo o dal caos da spiaggia.

 

L’uomo che veniva da Messina di Silvana La Spina (Giunti, 2015)
Siamo nella seconda metà del ’400, periodo di grandi eventi, d’illustri personaggi, di potenti signorie. Ma anche d’intrighi, di catastrofi e insidie di ogni genere, non ultima la peste, che imperversa in Italia. Antonello da Messina, il protagonista del romanzo, giace sul letto di morte. Mentre il prete gli impartisce l’estrema unzione, egli rievoca i tanti momenti, per lo più tragici, della sua esistenza: l’infanzia di stenti, le fughe, i soggiorni in varie città italiane ed europee.
Nella sua agonia, in cui momenti d’incoscienza si alternano ad altri di lucidità, egli immagina di interloquire col suo antico e venerato maestro Colantonio, a cui affida le sue impressioni e descrive le sue vicissitudini.
Si affacciano alla sua mente numerosi personaggi, i più disparati: pittori, signori, servi, che hanno accompagnato la sua travagliata esistenza: Pisanello, Piero della Francesca, i fratelli Bellini; e poi ancora Nannarella, la nana innamorata, il buffone Cicirello.
Su tutti campeggia il nonno, don Michele, gran viaggiatore, uomo di mare e donnaiolo, il solo che sognava per il nipote un destino diverso da quello ordinario, a cui sembrava destinato.
E poi c’è Griet, la figlia bastarda del pittore Van Eyck, l’unico amore nella vita del protagoniste, a cui però egli dovrà necessariamente rinunciare.
Dal contesto emerge il ritratto di un uomo dalla personalità complessa e contraddittoria, consumato dalla volontà ossessiva dell’arte e dal desiderio di conoscere tecniche sempre più innovative, per cui è disposto a ogni rinuncia.
Fluida e agile si presenta la trama del romanzo, con gli avvenimenti che si succedono e s’intrecciano abilmente, su un susseguirsi di continui flashback, che rendono la lettura piacevole e tengono avvinto il lettore per tutto il racconto.
Dario De Cristofaro

 

Riparare i viventi di Maylis de Kerangal (Feltrinelli, 2015)
Cosa sia un cuore umano che batte, quale significato possa avere farlo battere ancora, sebbene in un altro corpo, sebbene quel corpo non sia più quello pieno di vita di un figlio ma dovrà essere quello di qualcun’altro, di qualcuno più fortunato, che potrebbe ancora farcela. Non come lui, non come il tuo povero ragazzo stroncato dopo una giornata di surf. È il dramma di una famiglia, di due genitori posti di fronte alla responsabilità di scegliere se far vivere ancora quella libbra scarsa di carne. Con Riparare i viventi, Maylis de Kerangal ci sospende, ci porta in quelle stanze d’ospedale dove vita e morte si toccano, con il solo sdrucciolevole appiglio che vivrà ancora qualcuno nel mondo in grado di custodire quel preziosissimo tesoro che è il cuore di un giovane, in un gesto che potrebbe riconnettere il «singolo alla società mettendolo al servizio di tutti». Ma che possa bastare come consolazione, in tutti gli anni in cui quel figlio non ci sarà più, ognuno di noi dovrà deciderlo per sé.
Gabriele Sabatini

 

Primo non nuocere di Henry Marsh (Ponte alle Grazie, 2016)
Non avevo in mente chi potesse essere Henry Marsh fino ai primi giorni di marzo quando, per caso, ho visto in libreria il suo Primo non nuocere. Non so se esista un termine adatto per descrivere ciò che mi è successo in quell’istante ma, nonostante sia un ipocondriaco rinomato, ho provato una fortissima attrazione per quell’oggetto: in copertina c’era scritto «Storie di vita, morte e neurochirurgia». Ora, io non sapevo e non so tutt’ora nulla di neurochirurgia, ma scoprire che qualcuno che sa di neurochirurgia si metta a parlare della propria esperienza nel campo della neurochirurgia, beh, mi pare eccezionale – traslando il discorso nella neurologia, si può tirare in ballo il pluricitato Oliver Sacks. In pratica, da buon ipocondriaco, ero rimasto attratto con ferocia da ciò che razionalmente volevo (e voglio) evitare: parlare/ascoltare/discutere di malattie. Quindi ho comprato il libro e sono tornato a casa. Dopo aver passato due giorni intensissimi con Primo non nuocere, posso dire chi è Henry Marsh, oltre un famoso neurochirurgo: uno scrittore meraviglioso. Ogni capitolo del suo libro è un’esperienza con una malattia diversa: piano piano parole come Pineocitoma, Tic Doloureaux, Emangioblastoma, Papilloma Del Plesso Coroideo, Meningioma, Mutismo Acinetico, diventano più chiare, paradossalmente meno paurose, quasi familiari. La grande capacità di Marsh sta nell’esser riuscito a trattare temi complessi e sconosciuti ai più, ma nell’immaginario collettivo comunque inquietanti – perché ovviamente legati alla morte –, calibrando alla perfezione dosi di distacco ed empatia. Ha il grande merito di non spingersi mai oltre la soglia dove risiedono i grandi scrittori. Nessun giudizio, nessuna morale. Marsh si è palesato per quello che è: un essere umano e per questo fallibile. Non so ancora bene come – non mi ci troverò mai, io, con la vita di un altro in mano, e ancor meno avrò mai la sua scatola cranica aperta di fronte ai miei occhi in una sala d’ospedale –, ma mi ha fatto capire quanto possa essere struggente il peso immenso delle responsabilità di un neurochirurgo: ho sentito scendere ogni goccia di sudore sulla faccia, tendere ogni muscolo del corpo per la troppa tensione, tremare le gambe per la paura di fallire.
Tutto questo non per merito mio, ovviamente, ma per merito suo.
Luigi Ippoliti

 

Mailand di Nicola Pezzoli (Neo edizioni, 2016)
Quando inizio a leggere Mailand di Nicola Pezzoli, una voce si fa più certa e riconoscibile attraverso l’inesauribile tela del racconto, come la luce sull’elmetto del minatore svela la realtà prima avvolta dalla penombra.
La voce è quella di un vecchio amico, Corradino, che con questo romanzo chiude la trilogia di formazione iniziata con Due soli a motore e poi proseguita con Chiudi gli occhi e guarda, qui soprannominato Konrad dai suoi coinquilini, Marco, il belloccio emiliano «ciulaciornie», da cui è attratto, e Beniamino, «brutasél» ma intelligente e ironico: «Eravamo molto diversi. Un longobardo, un bolognese e un siciliano…roba da barzellette popolari».
Pezzoli si trova qui a reinventare un nuovo punto di vista del suo protagonista sul mondo. Stavolta, dopo il racconto della sua infanzia in campagna a Cuviago e dell’adolescenza filtrata dal ricordo di un’estate al mare, Corradino è ormai un ventenne, universitario fuoricorso in trasferta a Milano. Anzi, Mailand, Milano in tedesco, per sottolineare il suo smarrimento nella “Milano da bere” anni Ottanta, una città «a misura duomo».
Tra gag esilaranti con i clienti aspiranti suicidi della bizzarra Agenzia per cui lavora e partite infinite a Risiko con Marco e Beniamino, Corradino continua però a portarsi sulle spalle un gravoso carico di angosce paralizzanti circa il suo orientamento sessuale. Si sente «un alieno in cerca dei suoi simili sul pianeta delle scimmie» in anni.
La cura dell’impasto linguistico, fatto lievitare con l’uso del dialetto, neologismi e giochi di parole, rende empatica la lettura di quello che vede e sente Konrad, il suo essere un sismografo umano, sensibile alle scosse non immediatamente percepibili della vita.
Con Mailand la vena immaginifica e umoristica dell’affabulatore Nicola Pezzoli, dal linguaggio formalmente spericolato, entra ancora più in diretta sintonia con i suoi lettori, quale generatore inesauribile di sincere e contrastanti emozioni.
Chiara Gulino

 

I tempi non sono mai così cattivi di Andre Dubus (Mattioli 1885, 2015)
Leggere racconti è un esercizio molto più complesso di quello che un lettore si possa aspettare. Si dice che per gli scrittori scrivere un racconto compiuto sia molto più difficile che terminare un romanzo. Ecco, per il lettore è una cosa simile. Non è che la forma breve renda le cose più semplici, anzi. Richiede una capacità di cogliere i particolari nascosti in ogni singola parola. È un’attività complessa, ma estremamente appagante. Quest’anno ho letto, tra le altre, tre raccolte di racconti che mi hanno colpito in particolare. La prima, in ordine cronologico, è I tempi non sono mai così cattivi di Andre Dubus, la seconda è Il paradiso degli animali di David James Poissant, l’ultima è Trilobiti di Breece D’J Pancake. Sono tre autori statunitensi, di età ed epoche diverse, con stili nettamente diversi l’uno dall’altro. Eppure in tutti e tre ho trovato quello che mi colpisce ogni volta davanti ai grandi racconti: la capacità di rinchiudere un mondo in una parola.
Dubus diceva – è riportato nella Lettera a uno scrittore di Nicola Manuppelli a fine libro – che non bisogna mai cercare simboli in quello che si legge, che non servono. Basta l’evidenza delle parole. È quello che questi tre libri confermano.
Francesco Vannutelli

le streghe di lenzavacche cover su Flnaerí

Diversità come libertà

Devo dirlo, quando mi arriva una mail da un mittente ignoto, la prima cosa che spero è che non si tratti di un virus o di spam, la seconda è che non sia una scocciatura. Sapere che qualche sconosciuto mi stia cercando e abbia bisogno di parlare con me, raramente mi pone in un atteggiamento di disponibilità, soprattutto perché credo di non avere tempo, di non avere mai tempo. Deve essere per colpa di questo mio atteggiamento che mi sono stupito nel leggere lo schietto ed entusiastico messaggio con cui Simona Lo Iacono, autrice per e/o di Le streghe di Lenzavacche, tra i dodici finalisti del Premio Strega 2016, ha risposto alla mia richiesta di intervista, rendendosi disponibile fin da subito a patto che le spedissi prima un sms, in modo da potersi liberare e dedicarmi tutta la sua attenzione. Una tale apertura mette al bando la misantropia.

E non è un caso se l’apertura è un tratto caratteristico di protagonisti di Le streghe di Lenzavacche : apertura alla vita, ad affrontarla senza mai perdersi d’animo, con la consapevolezza che si può anche essere streghe, si può anche essere emarginati dalla popolazione di quel piccolo paese siciliano in cui è ambientato il libro, ma non si può mai perdere la gioia di vivere. Farlo, a Lenzavacche, è un esercizio che le streghe compiono da quattrocento anni, e la loro ultima erede, Rosalba, riesce a portarlo avanti persino di fronte alla difficoltà di avere un figlio disabile, malfermo sulle gambe e incapace di eseguire i gesti più semplici in autonomia. Felice, è il nome di questo piccolo. Ma sono almeno altre tre le tematiche che accompagnano tutto il corso della lettura: la diversità, il ruolo sociale del libro, la predestinazione.

 

Partiamo dalla prima. Felice è un bambino sfortunato, che porta addosso tutte le fatiche di una grave disabilità motoria. Nascere negli anni Trenta – in una società che di lì a poco avrebbe adottato le leggi razziali –  farlo in un paesino della più remota provincia siciliana, svilisce molte delle possibilità di essere accettato e di imporsi come individuo. Ma questo bimbo non è solo, sua madre Rosalba, la nonna (strega) Tilde, lo stravagante farmacista Mussumeli, sono tutti personaggi che contribuiscono a dargli la possibilità di affermarsi, di essere appunto un individuo. Insomma, tanta parte del romanzo ruota attorno al rapporto tra l’infanzia innocente di un bambino disabile e un mondo che, secondo le leggi che quel mondo si è dato, non dovrebbe accoglierlo.

Sì, il tema principale di è proprio quello della diversità; ed è una diversità che tocca prima di tutto Felice, non a caso il contesto storico all’interno di cui si muove è quello del ventennio fascista. E ho cercato di caratterizzarlo al massimo proprio per mettere in rilievo la diversità del bambino. Sono gli anni delle leggi razziali, ma è anche il periodo in cui in Europa si dibatteva, quando non si praticava, l’eugenetica, con i suoi programmi di soppressione dei disabili, degli affetti da Corea di Huntington, dei sordomuti, dei non vedenti. Felice nasce in un contesto storico fortemente caratterizzato dalla mancanza di accoglienza nei confronti della diversità, che è una caratteristica non solo sua, ma anche degli altri protagonisti, come le streghe, e arriva sino a un altro personaggio, il maestro Mancuso, che ha un’idea di insegnamento sovversiva. Tocca persino il farmacista del paese, Mussumeli, che ha opinioni del tutto originali sull’amore, sull’amicizia, sulla pietà umana. Quindi, certamente il libro ruota tutto attorno all’idea della diversità, ma è declinata come qualcosa che sfugge innanzitutto ai luoghi comuni e al potere costituito. Questo romanzo è pensato anche come un libro sui rapporti tra potere e libertà e paradossalmente la diversità di queste creature, si trasforma nell’affermazione della loro libertà. A scapito di qualunque idea di potere rigido, contro la quale, naturalmente e fatalmente, i personaggi si scontrano.

 

Mi accennavi, prima di cominciare l’intervista, che nell’ideazione del libro c’entra il tuo lavoro di magistrato. Ti sei imbattuta in un caso concreto che ha ispirato il racconto di come i parenti del bambino Felice facciano di tutto affinché il piccolo possa venire iscritto a scuola.

Spesso mi succede di partire da una scoperta. In questo caso una scoperta avvenuta durante un processo a carico di un professore che ebbe una disavventura con una ragazzina disabile. In quella occasione ho rintracciato un decreto legislativo, ancora in parte in vigore, risalente al 1925: studiando la normativa, mi sono accorta che in quel testo si prevedeva l’inserimento di invalidi e disabili all’interno di classi differenziate. Dato che l’anno del decreto era appunto il 1925, quindi sotto un regime non aperto nei confronti della disabilità, mi sono incuriosita. È una norma che rappresenta ancora oggi l’ossatura della legislazione scolastica in materia, ma che pur passata sulla carta non fu allora mai applicata, e mai invocata da qualcuno. E da lì mi è venuta l’idea: mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se i genitori di almeno un bimbo avessero fatto ricorso alla legge, come sarebbe andata se almeno uno di questi bambini ce l’avesse fatta ad andare a scuola sfruttando una legge che era stata promulgata in realtà a esigenze di propaganda. Ed ecco il personaggio di questo bimbetto.

 

La nonna Tilde, erede della tradizione delle streghe di Lenzavacche che ricerca anche nelle pozioni la soluzione ai problemi dello sfortunato nipote, a un certo punto dice che «le norme esistono per aiutare gli uomini, non gli uomini per aiutare le norme». Questo è uno dei compiti fondamentali del legislatore.

Nonna Tilde, in modo molto semplice perché lei è una donna semplice, coglie il cuore della legge. La legge è al servizio dell’uomo, non è il contrario. Quando avviene il contrario accade che la legge diventa strumento del potere, e non delle effettive esigenze dell’uomo. Tilde dà voce a una delle vocazioni più alte, più sacre della legge, che è quella proprio di creare armonia nella società, di sedare i contrasti, di andare incontro ai bisogni soprattutto degli ultimi, dei deboli, degli emarginati. La legge ha questa vocazione. Quando accade il contrario, e quindi ci troviamo di fronte a norme pretestuose, sono gli uomini a essere al servizio della norma. Purtroppo in questa epoca di evoluzione frenetica stiamo stravolgendo le regole fisiologiche dei rapporti fra esseri umani. Stravolgendo questi rapporti, non soltanto la società si complica e perde di vista certi valori, ma si mette al servizio di un talune di forze, che invece di aiutarla – al contrario – la involvono. Peraltro la strumentalizzazione della legge è un meccanismo molto abusato, anche oggi, come ai tempi del fascio, persino quando una legge può sembrare in parte giusta: quella legge del 1925 affermava dei concetti corretti, ma non lo faceva con le motivazioni giuste, non lo faceva per mettersi al servizio dei più deboli, ma solo per fare propaganda. Il rischio della strumentalizzazione è quindi sempre in agguato.

 

Diversi episodi di Le streghe di Lenzavacche sono dedicati ai libri, alla loro forza, alla loro capacità di essere sovversivi e magici. L’incontro fra Rosalba e l’arrotino padre di Felice avviene attraverso un libro, la stessa nascita delle streghe di Lenzavacche origina dalla passione che una donna del 1600 ha per la lettura. Passione che la condanna a essere allontanata dal marito. Insomma, a tratti hai scritto una celebrazione del fare e del godere della letteratura.

Il libro è sovversivo per eccellenza, in effetti, perché non è solo un vaso che raccoglie le storie; è uno strumento di conquista di sé stessi e della vera dimensione dell’esistenza. È un mezzo di grande libertà, ed è capace di mettere in vera comunicazione, in vera relazione gli uomini. Non è un caso se Rosalba, l’arrotino, e le vecchie streghe comunichino anche attraverso i libri. Una storia, un racconto, una narrazione è portatrice di senso, di significato, e quindi contiene un sé un percorso, che è anche un percorso di natura morale, e come tale è uno strumento pericolosissimo che va contro il potere precostituito e contro qualunque genere di costrizione. Da qui, il potenziale del libro. In tutto il romanzo, il fatto di amare la lettura è un elemento dirompente nella vita dei personaggi. Ma come può essere dirompente, allo stesso modo può unire i destini. Accade dunque che le storie servano a creare delle relazioni positive. Come avviene per Rosalba e per gli altri personaggi, le storie salvano da un destino anche molto difficile. E quindi sono uno strumento oltre che di rivoluzione anche di speranza.

 

Il giovane maestro Mancuso è l’estensore delle lettere che chiudono ogni capitolo, indirizzate a una zia di cui nulla sappiamo fino alle ultime pagine. A lei narra la sua esperienza a Lenzavacche. Predilige una didattica inconsueta: entra in classe e comincia a leggere storie. Di nuovo la forza terapeutica e pedagogica del racconto, anche se molti di questi bambini muoiono di sonno in classe, perché quando sono in famiglia debbono aiutare i genitori, magari nel lavorare la terra. Si impegna, Mancuso, con passione ma in un modo assolutamente non ortodosso e lo scontro col direttore dell’istituto sarà inevitabile. È da questo scontro che tratteggi uno spaccato di cosa volesse dire fare l’insegnante in epoca fascista, quali le direttive, quali gli obblighi: una pregressa attività di ricerca documentaria deve esser stata necessaria.

C’è certamente tutta una ricerca sulle circolari ministeriali del tempo. Documenti nei quali non vi erano soltanto delle istruzioni di natura organizzativa, ma tutto un decalogo sul metodo di insegnamento per l’indottrinamento. Lo scopo, naturalmente, era quello di far sì che ciascuna materia, in un modo o nell’altro, contribuisse nell’inculcare ai ragazzi i valori fascisti. Tutta la storia era vista come una preparazione all’avvento dell’era fascista, e testimone ne è la nuova numerazione del calendario. Quindi ogni materia concorreva a questa strumentalizzazione, ai fini di una crescita dell’individuo finalizzata all’acquisizione definitiva di quel genere di valori. Qualunque materia, compresa l’educazione fisica, doveva esaltare il regime. Mancuso intacca questo equilibrio e la sua classe, inizialmente composta da trenta elementi, si spopola man mano, perché i genitori cominciano a ritirare i ragazzi. Questi erano incantati dai racconti di Mancuso e sentono una forte intimità con l’arte della narrazione, ma non possono proseguire quelle lezioni perché costretti a obbedire ai genitori.

 

L’intreccio narrativo ci dirà come Mancuso opporrà resistenza a tale giogo e quale aspetto del suo passato lo leghi a Rosalba e alle streghe. Linguisticamente, in Le streghe di Lenzavacche ci troviamo di fronte a tre registri: il primo che si incontra leggendo l’incipit è quello intimo e dolcissimo di una madre che narra direttamente al proprio figlio i primi anni della sua vita: «La prima volta che ti vidi eri talmente imperfetto che pensai che nonna Tilde avesse ragione». Ogni capitolo, dicevamo sopra, è chiuso da una lettera che Mancuso invia a una zia, nelle quali la scrittura si fa più adulta, più descrittiva, non priva di afflati, ma certamente meno intima. E infine, tutta la seconda parte del volume è uno strappo stilistico con le pagine precedenti: una scrittura testamentaria del ’600 che richiede più impegno nella lettura: «Io, Assennato Corrada, nel pieno delle capacità mie di donna maliarda, et sanzo peccato, avendo ricevuto sacramentum riconciliationis».

L’idea è che la voce sia al servizio delle storie. E cioè, non è tanto lo scrittore che imprime il proprio modo di scrivere alla storia, ma è la storia che chiede di essere scritta in un certo modo. Quindi l’autore è una sorta di interprete, che si deve adeguare a ciò che la storia richiede. E allora, quando a parlare è Rosalba, ho cercato di fare in modo che il suo racconto trasmettesse tutta la passione che la spinge verso il figlio e verso l’arrotino. Mancuso ha uno stile epistolare. Quando viene alla luce questo testamento del ’600, ho adottato uno stile simile a quello dei documenti dell’epoca, sebbene levigandolo un po’ per non rendere davvero difficoltoso riuscire a seguire gli eventi, ma l’ossatura rispecchia lo stile dei notabili di allora. Anche la numerazione dei fogli ripete e ricalca quella in uso in età moderna, necessaria non solo per evitare che qualche pagina venisse sottratta, ma anche per calendare i fatti descritti in ciascun capitolo in base all’argomento trattato (Folius primus di folii dieci. Come sarìa che Corrada Assennato decise di farsi letterata). Il costrutto sintattico, la promiscuità con il latino, sono frutto di un lavoro di analisi di testi come il Codice rosso di Sortino, che raccoglie i banni e i comandamenti d’ordine dei feudatari dei dintorni di Siracusa. Si tratta di una quantità di editti che questi signori emettevano nei confronti dei propri sottoposti e quindi forniscono una serie di dettami e ammaestramenti rivolti a chi amministrava le loro terre. Ed erano dei più vari tipi: riguardavano la caccia, la pesca, la moneta da utilizzare, ma anche questioni di vita quotidiana e sociale, come per esempio i costumi delle donne. Ho attinto a piene mani da questo documento per appropriarmi di un linguaggio che chiaramente è molto lontano dal nostro. Il testamento posto nella seconda parte del volume deve dare la sensazione di tornare veramente indietro di quattrocento anni. Perché è con questo salto nel tempo che si spiegano molte delle cose che coinvolgono i protagonisti. E quindi la lingua è al servizio di questa strategia temporale, se vogliamo: necessitavo di uno stacco molto forte fra la prima e la seconda parte del romanzo e tale stacco sarebbe dovuto passare anche attraverso la lingua.

 

Dunque, i tasselli del mosaico, separati e anche molto lontani nella prima parte, si ricompongono nella seconda. È una partita in cui il destino ha un ruolo fondamentale e resta la sensazione che i personaggi poco possano contro di esso: Tilde che cuce la propria coperta di morte, il padre di Felice, l’arrotino, che incontra Rosalba e capisce da subito di non poter sopire quel legame anche se sarà un legame di sofferenza, lo stesso Mancuso è in Sicilia non solo per insegnare, ma anche per rispondere al richiamo di un suo misterioso passato.

Ma è un destino che offre una seconda possibilità. Ciò che la storia ha ferito in passato può essere ribaltato, e quel che si è perduto può essere recuperato in un momento successivo. Nei fatti, tutta la vita di Felice e di Rosalba, che noi vediamo nella prima parte del romanzo, è un ripianamento di ferite che erano state inferte alle streghe nel 1600, come se queste ferite potessero cicatrizzarsi solo ritornando su loro stesse. Rosalba ricuce il rapporto strappato con gli uomini, che nella prima parte della storia sono stati profondamente violenti nei confronti delle donne; il maestro Mancuso riscopre un particolare fondamentale del suo passato proprio a Lenzavacche, e le streghe tutte hanno una possibilità di riscatto. Questo destino offre una rinascita, una rivisitazione. Quello che si tenta di suggerire è proprio questa seconda opportunità.

 

La chiacchierata con Simona Lo Iacono prosegue, e si finisce a parlare di processioni cristiane, di qual è il confine settentrionale dell’Italia meridionale, di Roma, delle dimensioni spropositate di questa città, del traffico e del fatto che qui gli arrotini hanno il disco registrato e girano su delle Peugeot 206, ma questa è evidentemente un’altra storia.

 

(Simona Lo Iacono, Le streghe di Lenzavacche, edizioni e/o, 2016, pp. 160, euro 15)
L’arte della guerra zombie copertina su Flanerí

“L’arte della guerra zombi”
di Aleksandar Hemon

Aleksandar Hemon è un cantore dello smarrimento. I suoi personaggi principali sono esuli, immigrati, uomini soli in terra straniera – veri e propri spaesati ,“nowhere men” – alla costante ricerca di un sentiero chiaro e percorribile. Ma la vita, per l’autore nato a Sarajevo, è un labirinto narrativo in cui gli uomini si perdono, vittime di circostanze più forti di loro.

Per la prima volta nella sua carriera, Hemon dà alla luce un dedalo differente dai precedenti, nonostante lo sfondo resti la sua Chicago e le anime che lo popolano siano, ancora una volta, emigrati bosniaci alle prese con la cruda realtà dell’American Dream. Joshua Levin, protagonista accidioso di L’arte della guerra zombi (Einaudi 2016), non è un esule geografico-linguistico (sebbene sia di origini ebraiche), bensì un aspirante sceneggiatore che sopravvive alla sua stessa vita con stordita inerzia, tentando di godere delle gioie (soprattutto carnali) e di proteggersi dalle percosse che gli piovono addosso da ogni lato. Joshua vorrebbe che a liberarlo dall’impasse di cui è preda fosse l’arte, la sua, ma i brevi quanto improbabili soggetti cinematografici che egli abbozza rubando frammenti di realtà al mondo non sono in grado di condurlo a Hollywood. Come fare, dunque, per trovare l’incidente scatenante e raggiungere il climax di un’esistenza bloccata e scevra di possibilità?

«Scrivere non è altro che portare il tremendo, massacrante fardello di decisioni prive di conseguenze», recita l’incipit del romanzo. Joshua scoprirà col passare delle pagine, suo malgrado, che nella vita le cose vanno diversamente, nonostante finzione e realtà possano in alcuni casi somigliarsi parecchio o, addirittura, scambiarsi caratteristiche e fondamenti. Quando il protagonista decide di seguire finalmente una pista creativa – il copione di un kolossal in cui il tenace Maggiore Klopstock tenta di sopravvivere all’ormai arcinota apocalisse zombie – la sua esistenza inizierà una parabola discendente a spirale satura di situazioni paradossali, sferzate impietose del destino, violenza cinematografica e vicende degne del miglior film d’avventura metropolitana. E così, mentre le scene di Guerre Zombi si alternano alle peripezie scatenate da fidanzate indiavolate, reduci bosniaci fuori controllo e bizzarri individui armati di katana, Joshua Levin vedrà scorrere sugli schermi televisivi le immagini della guerra in Iraq – siamo nel 2003 –, distanti anni luce eppure così simili ai disastri che egli crea sulla carta e a quelli con cui deve, volente o nolente, fare i conti sul palcoscenico del mondo reale.

Appare dunque chiaro come un altro grande tema caro a Hemon, la guerra, costituisca il substrato anche di questa nuova opera. In filigrana, essa è presente nei ricordi dei reduci, nei telegiornali, nel copione di Levin, nel passato dei bosniaci e, ovviamente, nella vita del protagonista, il quale è costretto a sperimentare sulla propria pelle una vera e propria escalation, un crescendo di tensione che trasforma la sua esistenza in un campo di battaglia, con tanto di duelli, feriti e caduti. Il finale a cui si giunge, infatti, non può che essere un vero e proprio ribaltamento: se nella vita reale il conflitto è arrivato a essere l’unica realtà esistente (nella vita di Levin come nella realtà geopolitica internazionale), nella finzione si assiste al trionfo della pace e dell’happy ending hollywoodiano, quest’ultimo capace ormai di infettare anche pellicole apocalittiche a tema zombie, con buona pace di George Romero e Richard Matheson.

L’arte della guerra zombi corre a cento all’ora, forte di una prosa funambolica e fumettistica, capace di generare momenti a dir poco esilaranti pur restando affascinante per profondità e ricchezza di stile. Leggendo Hemon è davvero impossibile rimanere indifferenti, specialmente girando le pagine di un lavoro come questo, in cui gli episodi tragicomici costituiscono il perno su cui ruota ogni singolo capitolo. Lo scrittore di Sarajevo è riuscito, ancora una volta, a spostare l’asticella di una tacca, confezionando un’opera di alta caratura letteraria grazie alla quale ogni lettore può trovare soddisfazione: chi vuole ridere, chi vuole assaporare la bella scrittura, chi – amante di Max Brooks, di Resident Evil o di The Walking Dead – necessita degli zombie per vivere, chi è appassionato della diatriba realtà-fiction, e chi, come il sottoscritto, ama alla follia questo autore venuto dai Balcani che vive a Chicago, che scrive in inglese (sua seconda lingua) e che ha una predilezione per coloro che hanno perso la strada ma che, nonostante tutto, un modo per sbarcare il lunario e andare avanti, verso risposte più o meno chiare, lo trovano sempre.

 

(Aleksandar Hemon, L’arte della guerra zombi, trad. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2016, pp. 280, euro 19,50)

 

The Bride Cover su Flanerí

“The Bride”
di Bat For Lashes

Il nuovissimo The Bride, l’ultimo lavoro di Natasha Khan, più nota come Bat for Lashes, è forse uno dei lavori musicali più tristi che sentirete quest’anno (anche se porre dei limiti all’infelicità dei cantautori potrebbe rivelarsi un grosso errore). L’album, presente sugli scaffali dal primo luglio, racchiude il solito sound elettronico à la Kahn, ammorbidito da romantiche melodie ad archi e immerso nel suo caratteristico elettro/dream pop dalle atmosfere fantastiche e irreali. Il pianoforte, saltuario accompagnatore dei groove metallici, aiuta nella rievocazione delle cascate di lacrime già promesse dalla trama del disco.

The Bride è infatti un unico lungo lamento, la narrazione in prima persona di una sposa il cui marito muore in un incidente sulla strada verso la cerimonia nuziale. La sposa-vedova, interpretata dalla voce di Natasha (un soprano che si districa soavemente tra sussurri e grida), racconta attraverso tredici tracce la sua solitaria e struggente luna di miele, intrapresa nonostante la prematura dipartita del consorte, strutturando il disco come una specie di romanzo a immagini. L’elaborazione del lutto scorre tra il dolore, i dialoghi con l’amato defunto, i monologhi della vedova, fino a un accenno di speranza finale che fa da capitolo conclusivo all’opera. Tra l’altro, l’intero album prende le mosse dal cortometraggio I Do – anche il titolo del brano introduttivo del disco –diretto dalla stessa Khan e presentato ad aprile di quest’anno al Tribeca Film Festival di New York.

The Bride si apre subito con “Joe’s Dream” e “In God’s House”, forse tra le tracce più immediatamente approcciabili del disco. Con quei groove martellanti lì a fare da anima e cuore al testo – ugualmente ritmato in ripetizioni di parole, versetti e armonie di sottofondo –, Bat for Lashes lascia poco spazio alla suspense, accompagnandoci per mano nel bagno di mestizia che ha preparato giusto per noi: «Through this veil tehy can’t see/The fog of death unveil me». In “Widow’s Peak” lo scroscio di sottofondo rievoca un animismo antico, lo sposo sembra ascoltare le parole della donna manifestandosi come pioggia sul davanzale. Si tratta di un’ode all’amore spirituale, un dialogo continuo tra sposa terrena e sposo celeste reso perfettamente dall’uso del sintetizzatore, un espediente che, tra l’altro, crea inquietanti rimandi ai lungometraggi horror–psicologici di matrice nipponica. Pezzo davvero interessante.

L’ultima parte del disco è dominata dalla speranza – o quasi. “If I Knew”, decisamente una delle tracce più pop, e “I Will Love Again”, con le sue arie in crescendo tipiche del baroque , prendono le distanze dalle robuste e ritmate prime canzoni dell’album, accompagnandoci delicatamente verso le battute finali della sofferenza. Degne di nota le performance canore di “Close Encounters” e “In Your Bed”, che confermano ancora una volta, e ancora di più, le capacità tecniche della cantautrice di Wembley.

The Bride è in definitiva il risultato dell’unione di diverse influenze e generi: lo stile del folk (o meglio, dell’electro–folk) nel timbro narrativo, il dream pop e il baroque per la creazione dell’atmosfere. Il lavoro riesce così bene nel suo intento illustrativo che probabilmente non passerà molto tempo prima di sentire una traccia di The Bride in qualche film (scommettendo, si potrebbe azzardare “Joe’s Dream” o “Land’s End”, ottime per tristi flashback holliwoodiani). Natasha subisce da sempre il fascino del cinema e non è nuova a collaborazioni di questo tipo. “Let’s Get Lost”, composta con Beck, fu inserita nella colonna sonora del film Twilight.

Nonostante il disco funzioni dal punti di vista dell’appeal, non si può ancora una volta fare a meno di crearsi una tela di rimandi durante tutto l’ascolto. Tracce di Björk e Kate Bush, così come di Robert Smith dei The Cure, rimangono ancora troppo marcate. È pur vero, però, che i talenti non crescono isolati, e che i fuoriclasse lasciano orme indelebili nei generi musicali che gli appartengono.

Poster di Ghostbusters di Paul Feig su Flanerí

“Ghostbusters”
di Paul Feig

Comunque andrà, Ghostbusters, il nuovo film di Paul Feig, reboot del film culto del 1984 di Ivan Reitman, è già nella storia. Certo, lo è per tutto quello che gli sta succedendo intorno e non per i suoi meriti, ma è già qualcosa.

Quando la Sony comunicò l’intenzione di realizzare un nuovo film della serie degli Acchiappafantasmi, a più di trent’anni dal primo, in molti avevano scosso la testa. Quando poi la notizia è diventata ufficiale, il web e tutto quello che si muove intorno è esploso. Non era tanto la lesa maestà il problema, l’aver osato toccare qualcosa di intoccabile per i fanatici della nostalgia. Era la scelta del cast a lasciare tutti delusi. La vecchia squadra, quella con Bill Murray, Dan Ackroyd, Harold Ramis e Ernie Hudson, non ci sarebbe stata più e non ci sarebbero stati i loro personaggi. I Ghostbusters sarebbero diventati delle donne, scelte tra alcune delle attrici comiche di maggior successo della televisione e del cinema statunitense. Il panico.

Da una parte si è iniziato a gridare allo scandalo per l’operazione commerciale, dall’altra ogni critica al casting veniva accusata di sessismo. Il risultato è che prima ancora che fosse stato depositato un copione, il nuovo Ghostbusters era già diventato uno dei film con i voti più bassi della storia degli aggregati di recensioni come Imdb o Rotten Tomatoes. Quando il primo trailer del film è arrivato su Youtube è diventato uno dei video con il maggior numero di commenti negativi (pollici in giù) di sempre.

Alla prova dei fatti, o della sala, questo Ghostbusters al femminile non è nient’altro che una commedia action con una buona dose di catastrofismo che condivide molto poco con lo spirito del film originale. Assomiglia di più a uno dei tanti film nostalgici usciti negli ultimi anni, tipo Pixels di Chris Columbus con cui si provava a puntare forte sulla mania per il retrogaming.

Per parlare della trama, Abby Yates ed Erin Gilbert, due ricercatrici, hanno pubblicato insieme un libro scientifico sui fantasmi per poi prendere strade diverse. Una ha continuato le sue ricerche sul paranormale, l’altra è diventata una stimata accademica. Le due si incontreranno di nuovo per dare la caccia ai fantasmi che hanno iniziato a invadere New York e formeranno una squadra di Acchiappafantasmi.

Cosa manca rispetto al Ghostbusters originale? Fermo restando che non è necessario fare un confronto con un film del passato per giudicare un film contemporaneo (ma è il rischio a cui ti esponi quando vai a scomodare titoli di culto), manca l’intelligenza, il carisma, l’ironia, la semplicità. Gli elementi, in sostanza, che avevano reso indimenticabile l’originale di Ivan Reitman.

Questo reboot a firma Paul Feig conferma il regista come punto di riferimento della commedia al femminile di Hollywood, dopo il grande successo di Le amiche della sposa. Qui, ancora una volta, dimostra la capacità di saper coniugare azione e leggerezza come aveva già fatto in Spy, ma la verità pura e semplice è che questo Ghostbusters non offre niente di più di qualche risata e un po’ di spettacolo. Solo a tratti si intravede un potenziale che avrebbe meritato di essere sfruttato di più. Perché, se da un lato Feig ha deciso di non insistere troppo sul pedale della nostalgia proprio per potersi sottrarre al confronto con il passato, è quando il film parla al contemporaneo che sembra possa venire fuori qualcosa di davvero interessante.

Le Ghostbusters caricano le loro ricerche su youtube e poi si dicono l’un l’altra di lasciar perdere i commenti degli utenti perché internet è pieno di cattiveria gratuita. È lì, quando il film parla a chi del film ha iniziato a parlare male, che sarebbe stato interessante andare a scavare, così come Bill Murray, il più scettico del cast originale all’idea del reboot, che si è prestato nel ruolo di uno scienziato anti-acchiappafantasmi. Insomma, sarebbe stato davvero originale vedere un cortocircuito tra realtà critica e critica della realtà.

Invece, il nuovo Ghostbusters è un film i cui eventuali meriti artistici verranno molto presto dimenticati. A rimanere, soprattutto, sarà il rumore che c’è stato tutto intorno.

(Ghostbusters, di Paul Feig, 2016, commedia, 116’)

Alfabeto mondo copertina su Flanerí

“Alfabeto Mondo – Romanzo abbecedario”
di Tito Pioli

Un sovversivo, per certi versi esiliato dalla scena culturale. Uno che ha avuto la menzione al Premio Calvino lo scorso anno e uno che ha scritto racconti per Guanda e per Giulio Perrone Editore ma che decide di non fare troppo clamore.

Tito Pioli è uno che si definisce narratore, perché a lui la parola romanziere o scrittore sta in effetti stretta assai. E in questo suo modo – tutto schivo e tutto riservato – c’è per la verità un poeta che decide di farsi da parte. Un po’ per osservare il mondo, un po’ perché questo mondo non gli appartiene.

Alfabeto Mondo – Romanzo abbecedario (Diabasis, 2015) è un libro portentoso. Recita la quarta di copertina: «Il giovane Mammamia, innamorato di Alessandra la buddista, non può sollevarsi dal letto. Un grave incidente gli impedisce di muovere il corpo. Il suo mondo è una piccola camera, le voci sono quelli dei vicini di casa che arrivano dalla finestra. Il tempo è quello passato nella lettura di un abbecedario. Giorno dopo giorno, mentre la madre ne sfoglia le pagine, Mammamia può contemplare le lettere dell’alfabeto, ricostruendo con esse i diversi particolari di un mondo mai vissuto: gli alberi, la notte, i giocattoli, i suoni. Il risultato è un repertorio di immagini straordinarie, dolci, tristi, malinconiche».

La quarta di copertina non dice, però, che il romanzo – ambientato a Lucca – è il grimaldello narrativo necessario a Tito Pioli – uno che sta sempre e comunque dalla parte dei deboli – per portare la grammatica ad annullarsi, per riempire ogni lettera dell’alfabeto con l’emozione di chi impara a compitare attraverso l’emozione, di chi scandaglia l’animo umano attraverso la bontà. Le voci di questo abecedario diventano così una specie di stazione della Via Crucis, qualcosa che si legge solo se animati da pietas cristiana, anche se la prospettiva è quella del ribaltamento anarchico.

Diario, antiromanzo, cahier de doléance, raccolta di mini-racconti: questo lavoro di Tito Pioli si pone nella scia dei poeti italiani, della grande poesia italiana e delle opere monumentali dei grandi narratori europei.

Tito Pioli è uno che scrive ancora come si faceva un tempo, usando la penna e annotando tutto su fogli. Lo fa perché forse c’è una sacralità della parola che – ci ricorda – deve essere coltivata e preservata: anche per questo motivo Alfabeto mondo è un libro insostituibile. Al quale si spera che, molto presto, si aggiunga un secondo tassello.

 

(Tito Pioli, Alfabeto Mondo – Romanzo abbecedario, Diabasis, 2015, pp. 176, euro 15)
Copertina di Tra me e il mondo Flanerí

“Tra me e il mondo”
di Ta-Nehisi Coates

Questo libro, Tra me e il mondo, è una parola. Tra tutte, al di là di tutte. Ne dischiude parecchie, altre le lascia contratte, a contarsi i granelli. Ma il gomitolo di ognuna e la matassa verso cui sfilano, chiedono solo di sfociare in lei. E la parola è “corpo”. Salmodiata come un mantra, con una lingua di scalpello e di troppe cicatrici. Dotazione innata, scenografia più o meno involontaria delle nostre ombre, il corpo, quello stesso corpo scontato che appanna i riflessi di tutti i minuti, quel corpo che molti credono soltanto uno spartito da riscrivere, per altri è un privilegio al vento. Per altri, è un rischio pari al proprio peso.

Ta-Nehisi Coates, giornalista afro-americano di Baltimora, sa che sul corpo si disputa l’insieme di quello che ha da dire. E lo fa con Tra me e il mondo (Codice Edizioni, 2016, traduzione di Chiara Stangalino), vincitore del National Book Award. E lo fa innanzitutto per suo figlio. Perché Samori ha raggiunto quindici anni e tanti altri ne dovrà scalare, rammendarsi le briciole e ricominciare. Coates dipana una lettera con le stoffe che ha addosso, strattonate e ricucite a forza, cardate con pazienza e poi con la foga di chi non aspetta. E minacciate milioni di volte.

Coates parla del corpo perché in un Paese come l’America, come il suo, farcito di altari e di corredi leggendari, il corpo di alcuni non è garantito. La sua integrità è frutto di un complesso algoritmo, in cui sbavare un passaggio falcia ogni soluzione. Per il popolo nero, quello a cui anche qui si è inframezzata una g di disprezzo tramutando un termine antropologico in uno schiaffo vocale, l’America non è un posto sicuro. Perché lo stesso agglomerato di Stati che si giurano Uniti ed esportatori all’ingrosso e al dettaglio della migliore merceologia democratica, non fa altro che raccontarsi un Sogno. Cesellando la Storia a proprio favore. Trascurando di essere nato da un furto. Espropriando terra e vita a chi esisteva e prosperava in quel Continente prima del civilissimo sbarco europeo.

L’America imbottisce se stessa e chiunque di quell’identica collaudatissima favola. I Pionieri inseguiti dai perfidi indiani, che avevano anche l’ardire di difendere la propria casa, che sono stati  contagiati di sano vaiolo, stuprati e convertiti perché il loro culto non era all’altezza di quello appena approdato. Ma sempre in nome della libertà. E sempre e soltanto per onorarla sono stati deportati circa dodici milioni di africani, prelevati e barattati come minerali per imbrattare di sangue il loro bianchissimo cotone. Sudare e non chiedere, sperando nella giusta razione di frustate, quella che forgia senza farti crollare. Uomini scuri, forti come bestie e per questo simili a loro. Meno delicati, quindi meno umani, spezzabili, intercambiabili. Per accrescere beni e piantagioni. E la costante sensazione di agire per il meglio.

«L’oblio è un’abitudine, una delle componenti necessarie del Sogno. Hanno cancellato dalla memoria l’enormità dei loro saccheggi; il terrore che ha permesso loro, per un secolo intero, di falsificare i risultati delle urne, la politica di segregazione, la realizzazione dei loro sobborghi. Hanno dimenticato, perché ricordare tutto questo li risveglierebbe bruscamente dal Sogno, e dovrebbero vivere con noi, qui sotto nel mondo». E invece è più facile eleggere un nemico, il lercio, il compromesso, l’avanzo scalcinato di quel brutale esistere che è meglio stia lontano. Il nero come categoria epidermica del mostro. O soltanto del perdente.

È più facile recintare il suo raggio d’azione, relegare crescita, istruzione, declinazioni del futuro in quartieri del disagio, dove qualunque mossa può tramutarsi nell’ultima. Così si è ancora più convinti che fosse quello il solo sbocco inciso. Coates ha vissuto negli intestini urlanti di una città operaia, dove tanti ragazzi neri sono morti senza troppi motivi, dove guardare un istante di più, camminare su un certo marciapiede significava sfidare il proprio corpo a restare in piedi, autorizzare qualcuno a poterlo smidollare, anche e soprattutto quel qualcuno incaricato di proteggere i comuni cittadini. Ovviamente quelli più meritevoli, ovviamente i Bianchi, che hanno sempre bisogno di sceriffi implacabili per sentirsi al riparo.

Samori ora respira i suoi anni in un posto diverso, l’America non è identica a quella di suo padre. Ma è importante comunque che sappia quanto ancora il suo Paese sia schiavo di quel Sogno, quanta fatica ha cosparso la sua strada e quanta altra ancora potrebbe servirne. È importante preservarsi, ma ancora di più leggere, comprendere, ascoltare, solleticare il dubbio e non sorseggiare storie predigerite per sciacquarsi la sete, scegliere un «costante interrogare, fare domande come si compie un rituale, fare domande come forma di esplorazione e non come ricerca di certezze».

Il corpo si scorta capendo, si rafforza anche dei colpi schivati e non solo di quelli inghiottiti. È un atto di consapevolezza quello che Coates intesse per suo figlio, ovvero della forma più alta d’amore, l’onestà di chiamare le ingiustizie per nome e non sottrarre mai chiarezza e ribadire che comunque non sarà abbastanza. «Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile», scriveva C.S. Lewis.

Quel tanto d’ineffabile che forse resterà sempre, per Samori come per i suoi figli, per i marginalizzati come per chi si giura incluso. L’oppio del dominio sui corpi vulnerabili. L’inganno di chi vince per sentirsi libero. E resta con le zampe incastrate nel suo Premio.

 

(Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, trad. di Chiara Stangalino, Codice edizioni, 2016, pp. 216, euro 16)

 

“Like A Rolling Stone” Bob Dylan cover su Flanerí

“Like A Rolling Stone”
di Bob Dylan

Il 20 luglio del 1965 l’intera eredità musicale americana veniva presa e lanciata come un sasso sui vetri delle camere e delle auto di tutto il paese. Un fiume in piena stava penetrando nei varchi aperti rimescolando violentemente le carte in tavola e spazzando via i resti di una sbiadita visione del mondo. Bob Dylan aveva creato “Like A Rolling Stone”.

“Like a Rolling Stone”, singolo estratto dall’album Higway 61 Revisited, è semplicemente impossibile. È una sintesi perfetta tra passato e futuro che si manifesta in un’esplosione a cielo aperto. È la cometa del rock degli anni sessanta, l’astro guida su una strada che non porta a casa, che ha per essenza il cammino e non l’arrivo. Nel brano c’è la polvere delle arterie principali degli Stati Uniti che collegano l’estremo nord all’estremo sud; c’è tutto il blues del Mississippi River, quello intenso di Chicago e quello squarciante di Memphis; c’è l’eclettismo culturale esplorato dal Wyoming alla Lousiana, con Duluth per epicentro.

Tutta la mistica esperienza attraverso la Blues Highway è srotolata lungo le nove tracce di Highway 61 Revisited, incontenibile seguito di Bringing It All Back Home registrato pochi mesi prima, e profezia del successivo Blonde on Blonde, simbolo definitivo di tutta la furente gloria dylaniana che ormai era arrivata a permeare qualsiasi espressione di rock’n’roll.

“Like a Rolling Stone” è la raccolta della semina, è la gravante eredità del folk e del blues inserita nella grande ricetta rock degli anni Sessanta. Tutti i generi cullati nell’umida e fertile terra americana vengono caricati in un unico sacco sulle spalle di Dylan, pronto a distribuire al mondo i suoi frutti maturi.

La canzone iniziò a prendere forma il 15 giugno del 1965 negli studi della Columbia Records, quando Dylan cominciò a lavorare all’album con Mike Bloomfield alla chitarra (coprotagonista un mese dopo al Folk Festival di Newport,  lo storico live della svolta elettrica), Al Kooper all’organo, Paul Griffin al piano, Joseph Macho al basso, Bobby Gregg alla batteria e Bruce Langhorne al tamburello.

Il testo, altro fondamentale aspetto della rivoluzione dylaniana (mai prima d’ora una lirica aveva avuto così tanta importanza all’interno di un brano rock), è composto da quattro strofe e un ritornello, ma non è che una spremuta finale di un lungo lavoro. Il testo originale era lungo più di venti pagine, composte di getto in aereo e destinate al progetto del romanzo Tarantula. «Fu come un lungo conato di vomito. Tutto il mio persistente odio era talmente diretto da essere sincero. Alla fine non era odio. Vendetta era il termine più appropriato. Non avevo scritto niente di simile prima , e all’improvviso compresi che era quello che dovevo fare. Dopo averla scritta non mi interessava più scrivere un romanzo o un dramma. Perché era una categoria completamente nuova. Voglio dire che nessuno prima aveva veramente mai scritto delle canzoni».

Tutta la potenza degli strumenti elettrici alimentava come una bufera il fuoco delle ciniche figure retoriche del Menestrello. Per la prima volta, letteratura e rock’n’roll si trovavano a condurre insieme – e in perfetta armonia – un valzer di sei minuti e dieci secondi. Da quel momento in poi le cose non sarebbero state più le stesse. Se alcune schiere di appassionati del folk gridarono al tradimento, i migliori artisti del genere accolsero come una rivelazione il messaggio lanciato dal brano – e da tutto Highway 61 Revisited.

Nemmeno a dirlo, i Beatles (che avevano già incontrato Dylan due anni prima e al quale dovevano – tra le altre cose – l’iniziazione alle droghe) furono tra i primi a capire la portata del cambiamento inaugurato dal cantautore americano, e, a dicembre dello stesso anno, regalarono al mondo Rubber Soul. “Nowhere Man”e “Norwegian Wood”, due delle tracce più imponenti dell’album, incarnavano il benedicite dei Fab Four all’evoluzione incontenibile della musica verso il decennio successivo.

Dylan aveva ammonito e risvegliato le anime dell’aristocrazia del rock. Probabilmente per rendere giustizia a un brano del genere sarebbe necessario un libro intero anziché poche righe. La verità è, però, che nessuno può spiegare a parole “Like a Rolling Stone” e tutto il lavoro di Dylan di quegli anni; potremmo fornire dettagli su dettagli del come e del quando, potremmo trascrivere in parafrasi i versi e isolare tutti gli strumenti per studiarne le più intricate sfumature, ma non arriveremmo ad esaurire nemmeno la metà dell’essenza del brano. «Quello che faccio adesso è tutta un’altra cosa. Non suoniamo rock, non è un sound duro. Certa gente lo chiama folk-rock, il che è un termine piuttosto semplicistico, buono forse per far vendere più dischi; per quel che mi riguarda, non so proprio di cosa si tratti, so solo che non può essere chiamato folk–rock. Rappresenta tutto un modo di fare le cose». Cosa intende dire lo si capisce senza dover aggiungere nient’altro a quello che ci ha già detto Dylan stesso attraverso la sua lirica. “Like A Rolling Stone” è guardarsi e annuire in silenzio; è la risposta ad una domanda che avevamo smesso di porci: «How does it feel?», Come ci si sente?

Copertina di Andarsene di Rodrigo Hasbun su Flanerí

“Andarsene”
di Rodrigo Hasbún

«Non è vero che la memoria è un posto sicuro. Anche lì le cose si deformano e si perdono. Anche lì finiamo per allontanarci dalle persone che più amiamo».

Allontanarsi, fuggire, demolire, ricostruire, arrendersi. Queste le parole per descrivere Andarsene (Sur, 2016), il romanzo del giovane scrittore boliviano Rodrigo Hasbún. Un’opera breve, quasi un soffio di lettura, diverse voci narranti, una storia che dipana, lentamente, le vicende dei protagonisti. Drammi personali acquisiti a graduale rilascio, convergenti verso un unico finale: la frammentazione e dispersione di una famiglia.

La miseria della condizione umana, o meglio degli animi inquieti dei personaggi, sempre mancanti di qualcosa che possa conferire loro pienezza, gratificazione, gioia, trova totale corrispondenza nello sfondo storico e nelle atmosfere cupe degli ambienti molestati dalla guerra.

Per la famiglia Ertl, il trasferimento in Bolivia, dopo la fine della seconda guerra mondiale, avrebbe dovuto rappresentare una rinascita, una seconda possibilità di vita, ma i sogni sono destinati a infrangersi contro un’altra cruda realtà: la rivoluzione comunista guidata da Che Guevara che, in modo inaspettato, travolgerà e stravolgerà l’esistenza degli Ertl.

Di particolare interesse sono, all’interno del romanzo, le figure femminili cui Hasbún ha dato vita: tre sorelle e una madre le quali, costrette a subire le decisioni di un capofamiglia anticonformista e autoritario, reagiranno ognuna con atteggiamenti differenti per difendersi e affrancarsi da una figura maschile prepotente e soffocante.

Spicca nel romanzo, quasi rappresentandone il fulcro, il difficile rapporto tra Monika, la figlia primogenita, e suo padre Hans, soprannominato il Tedesco. Hans, sempre in disaccordo con la figlia maggiore, nella quale intravede le potenzialità di un se stesso più giovane, arriverà a ripudiare la sua prediletta paradossalmente perché più coraggiosa e temeraria di lui. Le qualità che il Tedesco ha sempre amato di sua figlia, diventeranno, infatti, il motivo di un distacco totale e irrecuperabile.

«Sei solo un lacchè dei potenti, un fascista schifoso, fu l’ultima cosa che disse Monika prima di andare in camera a prendere le chiavi, lo zaino e la pistola e uscire senza salutare.

Quei minuti lo avrebbero accompagnato per il resto della vita. Se li sarebbe ripetuti, migliaia di volte, ossessivamente: la sua amata figlia che lo insultava, il suono del motore della sua macchina che si perdeva in lontananza.

Quando la rivide fu su un manifesto a La Paz. L’esercito offriva centomila pesos per lei, viva o morta».

 

(Rodrigo Hasbún, Andarsene, trad. di Giulia Zavagna, Sur, 2016, pp.115, euro 15)
La figlia sbagliata, copertina su Flanerí

“La figlia sbagliata”
di Raffaella Romagnolo

Com’è possibile vivere, darsi un presente e persino un orizzonte in assenza di una vera speranza? Com’è possibile dare credito all’esistenza quando quel credito di felicità viene negato?

La felicità è un rebus. La soluzione è spesso sbagliata. Nel nuovo romanzo di Raffaella Romagnolo di sbagliato c’è una figlia per una madre, ossessionata dalla presenza dell’altro figlio che però si fa vuoto. Al rebus rimanda la copertina di La figlia sbagliata (Frassinelli, 2015), incluso nella dozzina del Premio Strega 2016, che da subito mette alla prova il lettore.

La scrittrice piemontese dissemina una serie d’indizi per costruire la sua storia drammatica ma lontano dal dolorismo di tanta narrativa italiana contemporanea, utilizzato consapevolmente e cinicamente per fini narrativi. Il libro si rivela invece una profonda e lucida analisi che apre uno squarcio sulla verità delle cose, sull’illusione della volontà, della libertà, del senso dell’esistenza e dell’amore all’interno di una famiglia disfunzionale.

In primo piano, dunque, c’è il paesaggio interiore, quel groviglio di emozioni tra timore e desiderio che da sempre caratterizza la giovinezza, quell’impasto ogni volta irripetibile fra il proprio essere e i modelli che uno si dà, molto spesso in contraddizione con il mondo in cui ci si trova a vivere.

La Romagnolo rappresenta quello che può accadere se quell’oscuro ed enigmatico meccanismo di corrispondenza alle aspettative materne e paterne si inceppa per paura di fallire o per spirito di ribellione. Molti genitori non sanno che è proprio il timore che i figli sbaglino a condannarli all’infelicità.

La figlia sbagliata non è un libro sulle cause, ma sulle conseguenze e sulle ricadute di un amore squilibrato: quello di una madre, Ines Banchero, che investe tutte le proprie energie creative e ambizioni frustate, sintomo di una vezzosa rinuncia, sul figlio Vittorio, il prediletto; quello di un padre, Pietro Polizzi, che delega totalmente alla moglie qualsiasi responsabilità nel rapporto affettivo e autoritario con i figli; quello di Vittorio, talentuoso nel nuoto e nello studio, che pagherà cara la sua pavida scelta di rinunciare ai propri desideri.

In questa famiglia dall’appartenente normalità piccolo borghese, l’unica persona dotata di un certo equilibrio e di una propria personalità è Riccarda: «Riccarda è un nome orrendo, pensa. Da maschio. Il nome di una che, come viene al mondo, è già sbagliata».

La vicenda si svolge in quattro giorni durante i quali è tutta la storia della famiglia Polizzi che viene raccontata con una grammatica di natura emotiva, una sintassi dalle immagini che, improvvisamente risvegliate dalla vista del marito prostrato da un infarto sul tavolo della cucina, si fanno in Ines, tra rancori e rabbia trattenuta, ricordo e immaginazione.

Mentre l’acqua scorre nella quotidianità di un dopo cena e la televisione rimanda le insensate parole di un popolare show, ci si chiede: perché Ines non interviene? Perché non chiama i soccorsi? Perché rimane indifferente agli evidenti segni della morte sul suo compagno da quarantatré anni?

È proprio l’incapacità di discriminare il reale dal surreale, ciò che rende la scrittura dell’autrice così palpitante, come se in ogni singolo ricordo fosse nascosta una questione di vita o di morte.

 

(Raffaella Romagnolo, La figlia sbagliata, Frassinelli, 2015, pp. 170, euro 15)

 

“Terapia di coppia per amanti”
di Diego De Silva

Cosa fareste se la vostra amante vi chiamasse ripetutamente nel cuore della notte mentre voi dormite spensierati nel letto accanto a vostra moglie? E se, per giunta, fosse vostro figlio a rispondere al telefono? A queste e a tante altre domande prova a rispondere Diego De Silva nella sua ultima, riuscitissima fatica letteraria: Terapia di coppia per amanti (Einaudi, 2015). Avete letto bene: ci prova. Quello dello scrittore napoletano, infatti, non è il racconto pretenzioso di chi cerca di spiegarvi come va il mondo, ma è piuttosto un testo maieutico, che, attraverso l’efficace alternanza dei punti di vista – quello del protagonista, Modesto, e della sua amante Viviana, che si dividono un capitolo a testa (o quasi) – si propone di vivisezionare il complesso universo delle relazioni affettive alla ricerca di una verità sempre in bilico tra razionalità, pulsioni e minaccia della routine, senza per questo rinunciare a una tesi di fondo, proposta fin dall’incipit del libro: «Se pensate che gli amanti siano partigiani della felicità; gente abbastanza disillusa da aver capito che l’unico modo per resistere all’andazzo mortifero della vita matrimoniale sia farsene un’altra in cui negare ideologicamente le norme vigenti nella prima, e dunque abolire ogni ruolo, ogni dovere, ogni ambizione di stabilità in nome di un unico fine superiore (il solo che poi conta veramente), quello di vedersi quando si ha voglia di aspettarsi dall’altro più di quanto ti dà; bene, se è questo che pensate, allora lasciate che vi dica che non avete la benché minima idea di cosa state parlando».

Per dimostrare che avere un amante non significa affatto sbarazzarsi degli aspetti più fastidiosi della vita di coppia, ma crearne di nuovi, De Silva ci racconta la storia di Modesto – musicista, sposato e papà di un figlio di vent’anni – e di Viviana, amante appassionata e vagamente nevrotica, entrambi impegnati in uno snervante e a tratti claustrofobico percorso di analisi dei propri sentimenti e delle reciproche reazioni ai piccoli eventi di una vita quotidiana vissuta costantemente con il piede in due staffe. La scrittura di De Silva, capace di alternare momenti di estrema sincerità e spunti lirici di grande raffinatezza, è prima di tutto molto divertente. Fin dalle prime pagine ci immergiamo nelle “pippe mentali” dei due protagonisti – il racconto è sempre in prima persona, a parte alcuni capitoli in seconda persona –, nei loro ragionamenti tanto credibili quanto comicamente intricati – fondamentale il ruolo che giocano le lunghe frasi tra parentesi, quasi un romanzo nel romanzo –, fino all’inevitabile rivelazione: l’uomo e la donna vivono su due pianeti diversi e i loro meccanismi cerebrali, il modo in cui ciascuno interpreta e reagisce ai gesti dell’altro, appartengono a due linguaggi talmente differenti da rischiare una desolante incomunicabilità.

Ma nel romanzo non c’è spazio solo per i due protagonisti principali. Attorno a loro, infatti, ruotano vari personaggi che, malgrado una psicologia piuttosto monodimensionale, risultano tutti funzionali nel marcare in maniera ancora più efficace – laddove ce ne fosse il bisogno – le doti comiche del racconto, incarnando a meraviglia la funzione proppiana degli “aiutanti”. Tra questi va sottolineato il ruolo del padre di Modesto, un vecchio tombeur de femmes cinico e senza scrupoli, ma soprattutto il simbolo di un uomo “all’antica” che probabilmente non esiste più e per cui la vita – forse – era molto più semplice.

 

(Diego De Silva, Terapia di coppia per amanti, Einaudi, 2015, pp. 288, euro 18)