Io sono vivo, voi siete morti copertina su Flanerí

“Io sono vivo, voi siete morti”
di Emmanuel Carrère

C’era già in Italia una traduzione di Io sono vivo, voi siete morti, il libro che molti anni fa Emmanuel Carrère dedicò a Philip Dick, ma una nuova edizione targata Adelphi con la copertina di Robert Crumb ci ha spinto a tornarvi sopra. A Crumb, celebre fumettista (nonché musicista), noto già negli anni gloriosi dell’underground americano, dobbiamo anche la copertina dello spassosissimo Karoo di Steve Tesich. Qui invece troviamo una tavola tratta da Religious Experience of Philip K. Dick. E questo, trattandosi di un libro di uno scrittore su un altro scrittore, significa aggiungere suggestioni a un racconto che ne è già pieno: dentro ci sono infatti Timothy Leary, I Ching, i freak di San Francisco, gli anni Sessanta e Settanta, letture teologiche e scientifiche, l’ambizione frustrata per una scrittura mainstream, cui per fortuna alla fine Dick seppe (o fu costretto a) rinunciare, la fatica per portare il genere fantascienza ai piani nobili dell’estetica letteraria (a prescindere dalla qualità convenzionalmente ritenuta non straordinaria della scrittura di Dick).

Leggiamo di Dick ma leggiamo ovviamente anche di Carrère che ci avvertiva già in Il Regno delle connessioni fra l’ossessione per lo scrittore americano e la sua stessa crisi religiosa.

La storia di una vita singolare (di cui molto si può sapere attraverso svariate fonti) adombra in realtà un asse concettuale preciso: l’eterna questione della realtà e della sua rappresentazione – faccenda capitale per tutti, per Dick in primo luogo e tema onnipresente della poetica di Carrère. Sì che una vita come quella di Dick era già spuria nel racconto che egli ne faceva a se stesso. Parliamo di un conclamato paranoico e consumatore compulsivo di pillole assortite ingoiate come caramelle, presunta vittima di complotti di ogni genere, alle prese con problemi psichiatrici, costantemente sull’orlo del collasso psichico (la prima esperienza con l’Lsd non fu esaltante: era già fatto di suo) – in maniera che nei personaggi dei suoi libri diventa apocalittica, come ognun sa.

Carrère peraltro non può dirsi un autore discreto – qui, in una biografia romanzata quante altre mai, il tono, lo scarto drammatico o al contrario la venatura comica di una situazione sono assai “interpretate”.

In Io sono vivo, voi siete morti, Carrère non nasconde di evincere circostanze biografiche (e umori soprattutto) dai romanzi del suo scrittore. Il rimando fra opere e biografia dunque è continuo. Capitolo donne, cinque mogli, capitolo religione alla ricerca di un senso che mettesse ordine all’enorme caso di allucinazioni incubi proiezioni, capitolo letteratura legato a una fantascienza a suo modo “politica” – e capitolo esoterico (?): dal momento in cui Dick scopre l’I Ching non fa più una scelta che non sia dettata o suggerita dal grande libro cinese (in un universo che di razionale non ha nulla, l’I Ching gli appare come una macchina in grado di comprenderlo interamente). E lo aiuta anche nelle situazioni d’impasse creativa, nelle direzioni da far prendere a una storia.

Pian piano, a partire da La svastica sul sole, il borderline incompreso e un po’ buffo comincia a conoscere il successo vero. Pian piano Dick si convince di essere un profeta, si appesantisce – pare creare intorno a sé un’enorme bolla di nevrosi misticheggiante nella quale sarà Carrère a dover galleggiare, non solo per descriverla, ma per uscirne vivo egli stesso, negli anni futuri, nel tentativo di prendere la distanza da una mente che troppo assomigliava a una parte della sua, come dimostreranno i libri successivi, fino all’impresa recente de Il Regno. Con un libro del genere, sotto il sole o l’ombrellone, lette tre pagine i turisti in costume appariranno per ciò che sono – extraterrestri.

 

(Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti,  trad. di Federica e Lorenza Di Lella, Adelphi, 2016, pp. 351, euro 19)

 

“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero cinque

Uno street artist di fama internazionale (Andreco), otto illustratori e otto narratori – alla prima pubblicazione, emergenti o inclusi nella rosa finale del premio Strega (nel 2014 Antonella Cilento, nel 2016 Demetrio Paolin) – si sono dati appuntamento all’interno dell’uscita estiva di effe – Periodico di Narratività. Nei racconti di questo numero cinque leggerete di conigli massacrati, di sensi di colpa, di pezzaiuoli fantasiosi, di pellegrini di stanza a Lourdes, di antieroi irrimediabilmente sudamericani, di scarafaggi francesi, di sopravvissuti al Terremoto e di accompagnatori di volo con l’ossessione per gli Usa: storie e illustrazioni inedite narrate attraverso stili diversi e diversi respiri ma accomunate dalla voglia di rendere omaggio alla narrativa di qualità e al genere del racconto.

 

I racconti inediti sono di:
Cristiano Denanni, Elena Chiattelli, Demetrio Paolin, Valeria La Rocca, Renzo Vinzio, Gessica Franco Carlevero, Davide Franchetto, Antonella Cilento.

E le Illustrazioni sono di:
Daniela Tieni, Soniaqq, Silvia Rocchi, Carol Rollo, Patrizio Anastasi, Kero, Alessandra De Cristofaro, Paolo Cattaneo, Andreco.

 

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero cinque

 

  • Coincidenze e altri misteri di Roberto Bioy Fälsher
  • Santiago di Cristiano Denanni (ill. di Daniela Tieni)
  • A casa ne parliamo di Elena Chiattelli (ill. di Soniaqq)
  • Il sermone di Tobia di Demetrio Paolin (ill. di Silvia Rocchi)
  • Il cane non ha colpe di Valeria La Rocca (ill. di Carol Rollo)
  • Lourdes di Renzo Vinzio (ill. di Patrizio Anastasi)
  • Attese di Gessica Franco Carlevero (ill. di Kero)
  • Conigli di Davide Franchetto (ill. di Alessandra De Cristofaro)
  • Scisciano Paradise di Antonella Cilento (ill. di Paolo Cattaneo)

 

Qui è possibile acquistare online effe #5 e consultare l’elenco delle librerie in cui il volume sarà disponibile a partire dal 18 luglio.

Per maggiori informazioni: periodico.effe@42linee.it

C’era una volta un passero, recensione dei racconti di Costamagni su Flanerí

“C’era una volta un passero”
di Alejandra Costamagna

Alejandra Costamagna è una valorosa scrittrice cilena, classe 1970, di cui il lettore italiano appassionato delle cose dell’America Latina può ora gustarsi C’era una volta un passero (Edicola, 2016), brevissima raccolta di tre racconti di squisita lettura che fanno dell’assenza, intesa come elemento principale di una narrazione ellittica che vuole rendere conto di una realtà altrettanto ellittica, la base fenomenica per una metodologia narrativa votata essenzialmente alla sottrazione.

I tre racconti appena pubblicati nella traduzione di Maria Nicola dalla piccola casa editrice italo-cilena Edicola, lungi dall’essere storie chiuse e tra loro separate, vivono, invece, di una solenne ma garbata coerenza corale in cui personaggi estremamente simili, dalla ventura pressoché identica, cambiano il nome ma non le inclinazioni e buona parte della psicologia che li sorregge e struttura. Protagonista di ognuno dei tre racconti, nonché voce narrante dell’ultimo dei tre (che dà il titolo alla raccolta), è una bambina prossima all’adolescenza che vive, tramite le incomprensibili vicende minime della propria famiglia, incomprensibili perché calate in un silenzio selettivo onnipresente, in una serie di continue omissioni e in un’omertà costitutiva e all’apparenza ineludibile, la vicenda più grande che genera e sovrasta il palcoscenico su cui si svolgono gli avvenimenti narrati: la dittatura cilena degli anni Settanta del Novecento. In questo quadro il non detto, l’assenza cui ci si è appellati in apertura, vivendo prima di tutto come dato inestinguibile di un menage familiare tormentato (la bimba vede e sente cose che non capisce o che capisce poco, facendo buon viso alle spiegazioni di circostanza che gli adulti le offrono per dare un senso agli accadimenti), si estende all’ordito della realtà nella sua interezza: una realtà funestata dagli efferati capricci di enormi e plurimi carnefici che, come i fantasmi e i licantropi della letteratura gotica, vivono nell’ombra, mai nominati né sbadatamente evocati da nessuno, come se soltanto pronunciarne il nome possa significare dare concretezza alle terribili istanze di cui loro stessi si fanno portatori nella pratica di quella violenta asimmetria golpista che è servita (che serve) per raggiungere e conservare il potere, per soggiogare i popoli.

In tale enorme vuoto che esiste ma che concretamente non si vede, in tale varco profondo messo a separare due generazioni a consapevolezza e responsabilità variabili, prolifera quella costante tensione narrativa che nei racconti di Costamagna accompagna il lettore mettendolo in guardia circa una questione nient’affatto secondaria: quanto si trova alle spalle dell’agile C’era una volta un passero è un mondo complesso e impronunciabile, ovvero il mondo del terrore.

Eppure, al di là di questa voragine occulta (e allo stesso tempo manifesta data la consapevolezza che noi lettori abbiamo dell’entità del funesto sottraendo), tramite lo sguardo della bimba protagonista dei suoi racconti, Costamagna erige una struttura narrativa piuttosto efficace, secca ma dettagliata, che dirige con coerenza ed esaustività le trame di un mondo stabilizzatosi nell’incertezza, un mondo in cui a regnare è proprio l’assenza, il vacuo testimoniale di un contesto fuggevole popolato da antagonisti contumaci e adagiato sulle trame esoteriche degli adulti. È in questo quadro che s’inscrive il rivolgimento talvolta quasi autistico cui la nostra piccola protagonista si lascia andare cercando di dare un senso alle cose grazie al suo sguardo recalcitrante ma prossimo all’adattamento. Perché anche durante le epoche più oscure si cresce, quando non si ha la sventura di morire.

 

(Alejandra Costamagna, C’era una volta un passero, trad. di Maria Nicola, Edicola, 2016, pp. 80, euro 10)
The Getaway copertina album Red Hot Chilli Peppers su Flanerí

“The Getaway”
dei Red Hot Chili Peppers

Cos’hanno in comune Detroit e i Red Hot Chili Peppers? Più o meno quello che la Motor City ha in comune con chiunque altro abbia avuto successo nella vita: il dover fare i conti con l’inevitabile parabola discendente. Lo conferma The Getaway, l’ultimo album in studio della band di Anthony Kiedis. Sono gli stessi musicisti di Los Angeles a scoprire il fianco per l’accostamento, e nella traccia Detroit – appunto – il pugno sbatte sul tavolo e si alza la protesta: «Can you see the rising of the old yesterday’s remains?/ Riesci a vedere la rinascita dei vecchi resti di ieri?». Ma proprio come il cielo pallido tiranneggia ormai inamovibile sull’ex capitale dell’auto americana, il grigio pian piano si è impossessato della musica dei RHCP (e dei loro capelli). La vera domanda è: c’è davvero qualcosa che potrà rinascere?

The Getaway assume la forma della continua lotta tra energia e declino, carica e malinconia, ritmo e melodie, giovinezza ed età adulta: una negazione di resa costantemente tradita dal sincero filo rosso della confessione, che spontaneamente si manifesta in versi sparsi tra le varie tracce e nell’anima grigio–azzurra degli strumenti. L’impressione è che a frenare la deriva acustica attorno al fuoco di ferragosto ci sia niente di più che la paura di indici puntati e di grida al tradimento. Tutto il lavoro sembra dire: siamo noi, è certo che siamo noi, ma non siamo più quei noi; a chi interessa ascoltare come siamo diventati?

“Dark Necessities” esce come singolo, e non a caso. Bisognava lanciare un amo, un’esca da mandare avanti. Il riff iniziale è un rassicurante specchietto per le allodole, la voce è proprio quella di Kiedis, rifinita qui e lì, che culla la canzone intera. A fare da sfondo c’è il timbro irrinunciabile del basso di Flea. Della trappola, però, se ne accorgono un po’ tutti. Il pezzo non sbalordisce, del tipo che comunque speri passino in radio quando sei in macchina. L’idea dietro è quella di Californication, ma è sbiadita da diciassette anni di ruggine.

In The Getaway John Frusciante è di nuovo fuori, ma se c’è Flea il danno è a metà: lo scheletro dell’album vibra dell’energia inconfondibile di Balzary, che salva e coordina l’intero disco (e, per l’ennesima volta, tutto il lavoro) della band. Anche Rick Rubin è uscito dal gruppo, e al suo posto in cabina produzione sale Danger Mouse (Brian Joseph Burton), affiancato da Nigel Godrich al missaggio, forte della sua lunga esperienza con i Radiohead. Rimane stabile, invece, il sodalizio con la Warner che dura ormai dal 1991 – anno d’oro della band.

“We Turn Red”, terza canzone dell’album, è una traccia confusa, ma è l’essenza degli attuali RHCP: è un crossover rivisitato, un mix di melodie e distorsione, è spiaggia californiana e atmosfere urbane nello stesso campo visivo. Il funk metal cede a tratti all’alternative e al soft rock, e quando la canzone finisce rimane un punto interrogativo – lo stesso che chiude l’intero album – lasciandoci con l’ennesima domanda: era necessario? Forse no, per alcuni di noi, ma decisamente sì per loro, che abbracciano definitivamente (a cinque anni da I’m With You) il naturale corso della vita, pur se ancora con qualche resistenza (esplicita nel tentativo di ritorno al ritmo in “This Ticonderoga” e “Go Robot”). Con “The Longest Wave” il sipario cala sulla messinscena, ed è per questo che il pezzo risulta tra i più riusciti del disco:  «Poppies grow tall / Then say bye bye /The wave is here». La chitarra (non importa che sia di Josh Klinghoffer), ormai soffusa, sta lì a chiedersi se ci sia ancora posto per lei.

The Getaway è l’inevitabile malinconia di quattro adulti sulle porte dell’estate, l’inevitabile tristezza degli amanti di Blood Sugar Sex Magik davanti a una California tanto poco erotica quanto enormemente sentimentale. Insomma, la grande massima welshiana che ha tolto il velo di Maya sulla testa di tutti i nostri miti adolescenziali, ritorna come la solita epifania in tutta la sua semplicità – e ovvietà: «beh, a un certo punto ce l’hai, poi lo perdi».

 

Il cinghiale che uccise liberty valance, copertina su Flanerí

“Il chinghiale che uccise Liberty Valance”
di Giordano Meacci

Il cinghiale che uccise Liberty Valance è il primo romanzo di Giordano Meacci, 45 anni, già autore per minimum fax di una raccolta di racconti (Tutto quello che posso, 2005) e di un saggio su Pasolini insegnante (Improvviso il Novecento. Pasolini professore, 2000, poi di nuovo 2015). Nell’ultimo anno, Meacci è stato un nome importante anche al cinema per aver scritto, insieme a Francesca Serafini e al regista, la sceneggiatura di Non essere cattivo, l’ultimo film realizzato da Claudio Caligari prima della morte.

Il cinghiale è stato accolto molto bene dalla critica, se ne è parlato tanto, soprattutto per la capacità di Meacci di creare un linguaggio completamente nuovo. Finora, ha vinto il premio Lo Straniero, fa parte dei finalisti del premio Procida – Isola d’Arturo – Elsa Morante, ed è entrato nella cinquina dei finalisti del Premio Strega 2016.

Meacci ha immaginato un paese tra Toscana e Umbria, Corsignano, sospeso insieme ai suoi abitanti tra il 1999 e il 2000, in un continuo oscillare del tempo, e un cinghiale, Apperbohr, che d’improvviso inizia a capire il linguaggio degli uomini e ad avere coscienza di sé e della propria esistenza.

Abbiamo deciso di affrontare Il cinghiale che uccise Liberty Valance con una lettura doppia. Francesco e Luigi lo hanno letto in contemporanea e si sono scambiati impressioni usando i messaggi del cellulare nel corso della lettura. Lo hanno fatto mesi fa, ma poi non hanno avuto la costanza di tirare fuori un articolo. Hanno ripreso a farlo adesso, per arrivare a delle conclusioni prima dell’annuncio del vincitore del Premio Strega.

Francesco: È passato un bel po’ di tempo ormai da quando ho finito di leggere Il cinghiale. Ho letto molti altri libri nel frattempo, ma posso dire tranquillamente che riprendendolo in mano mi accorgo che ho ritrovato subito le sensazioni che avevo provato leggendolo la prima volta. Da un lato c’è ammirazione e meraviglia per la capacità di inventare uno – o più – linguaggi, costruire un mondo, muoversi avanti e indietro sul piano temporale tenendo insieme una massa di fatti, personaggi e storie intrecciate tra di loro. Dall’altro, un fastidio profondo per quello che comunque mi continua a sembrare, a tratti, un puro e semplice sfoggio di talento, un’ostentazione narcisistica di stile.

Luigi: Sì, stesse sensazioni, anche se nel tempo non sono riuscito a non apprezzarlo. Ho ricordato quante volte ho letto le prime pagine, e non perché mi piacessero particolarmente. Non capivo nulla. Proprio nulla. Leggevo cinque, dieci pagine e mi dicevo: «Ma che roba è questa? Perché mi vuoi prendere in giro, Meacci?» Ho pensato di lasciar perdere più volte, ero affranto. Mi sembrava di leggere in una lingua studiata male al liceo.

Francesco: Esatto. Le prime pagine sono state le più dure da mandare giù. La sensazione era quella di essere di fronte a qualcosa di inutilmente complicato.

Luigi: La domanda è, allora: perché lo abbiamo continuato a leggere? Forse, nonostante tutto, avevamo captato qualcosa di estremamente valido nel Cinghiale. Altrimenti non si spiega, no?

Francesco: Io sono andato avanti con la lettura perché non ho mai lasciato un libro a metà. È un discorso di principio, posso sempre trovare qualcosa, anche solo una parola usata bene, che possa giustificare il tempo che dedico a un libro. Poi c’è un discorso che possiamo chiamare di aspettativa sociale, o culturale. L’entusiasmo generale intorno al libro – era tutto un articolo dopo l’altro di elogio – ha spinto la curiosità oltre la fatica. E senza dubbio ne è valsa la pena. La parte che ho apprezzato di più in assoluto è stata quella centrale, quando ormai mi ero abituato allo stile e avevo iniziato a perdermi appresso a cinghiali e corsignanesi.

Luigi: Io ne ho lasciati molti di libri a tre quarti, metà, un quarto. Però questo, non so. È vero, se ne parlava molto. Moltissimo. E forse questa cosa ha influito sulla mia resistenza. Dopo diverse riletture iniziavo a intravedere degli spiragli di luce. Mi accorgevo che iniziavo a capire. Non so come, ma capivo il senso di quelle strutture grammaticali strambe e di quel lessico un po’ folle. Iniziavo a capire Il cinghiale. Ancora oggi non so come, ma appena è scattato quel qualcosa nella mia testa, ho iniziato a leggerlo realmente.

Francesco: Però per me il momento d’oro si è esaurito dopo un po’. Facendo un discorso semplicistico di quantità, Il cinghiale ha circa 450 pagine. Diciamo che le prime 150 le ho lette con fastidio crescente. Cercavo di capire dove volesse andare a parare, perché se ne parlasse tanto bene ovunque, cosa fosse che non capivo per farmi unire al coro degli entusiasmi. Tutto sommato, la sensazione prevalente era quella di essere preso in giro da un esercizio intellettualoide che in qualche modo aveva raggiunto il consenso quasi unanime della critica dei lettori forti. Poi, scavalcato il primo terzo del libro, l’opinione è cambiata: ho iniziato ad apprezzare le sfumature, ad addentrarmi nella trama, a voler tornare indietro per capire meglio cosa non avevo ancora capito. In sostanza, mi sono piacevolmente perso nella lettura. Non sono arrivato all’entusiasmo, quello no, ma ho iniziato a capire un bel po’ di cose del consenso generale. Solo che poi l’incanto si è rotto di nuovo andando avanti. Non sono tornato indietro, alla sensazione di essere preso in giro, alla distanza tra il libro e la lettura, ma è tornato a prevalere il fastidio per qualcosa di esagerato, a tratti gonfio.

Luigi: Io l’entusiamo l’ho provato almeno una volta: quando Apperbohr prende coscienza di sé come essere pensante. Quando cerca, attraverso il linguaggio, di formulare concetti. E lo strazio di trovarsi a metà tra i suoi simili, i cinghiali, e gli uomini: non è né uno, né l’altro. Lì Meacci mi ha steso.

Francesco: Effettivamente la scoperta della coscienza di Apperbohr è un momento emozionante. Mi ha fatto venire in mente un filosofo francese che avevo studiato per laurearmi, Maurice Marleau-Ponty, e i suoi studi sulla percezione del sé nel mondo. Quello, sì, è un grandissimo momento.

Luigi: Meno entusiasmo, invece – molto meno –, l’ho provato durante le disquisizioni su L’uomo che uccise Liberty Valance di Fabrizio e Walter. Non che in paese bisogna essere per forza ignoranti, per carità, però la qualità di quei discorsi sembrava fuori contesto. Non potevano appartenere davvero a quelle persone. Tra l’altro: io e te abbiamo anche visto insieme il film di Ford. Hai più ripensato per quale motivo Meacci abbia scelto proprio quel film?

Francesco: Il problema di immergere cultura alta in contesti non adeguati, secondo me, è un problema comune a tanta parte della letteratura italiana contemporanea, che parla a se stessa e di se stessa, quindi dà per scontato che la gente passi le notti a guardare e riguardare i film di John Ford analizzandoli fotogramma per fotogramma.
Poi, perché Meacci abbia scelto quel film non lo so. Forse mi viene da dire che il personaggio di James Stewart è l’equivalente del cinghiale nel romanzo. Entrambi sono personaggi esterni al contesto in cui vivono, di cultura e coscienza superiore, ma che alla fine sono costretti comunque a misurarsi con la componente istintuale e più primitiva di loro stessi. James Stewart accetta il duello con Liberty Valance suo malgrado, pur non ritenendola una forma di giustizia, così come Apperbohr guida la rivolta, chiamiamola così, dei cinghiali, pur non volendo la violenza.

Luigi: Certo, a pensarci bene pensiamo che sia più credibile che un cinghiale prenda coscienza attraverso il linguaggio che due ragazzi di paese siano in fissa con un film di John Ford. Non ci avevo pensato fino a ora.

Francesco: Il discorso che fai è giusto fino a un certo punto: la rivelazione di Apperbohr è l’unico elemento fantastico, o irrazionale, in un romanzo comunque attento a mantenere l’aderenza al reale. Quello che dico e che pensiamo entrambi è che il reale va benissimo, ma perde di credibilità nel momento in cui inserisce un livello culturale fuori registro nei dialoghi, siano le disquisizioni maniacali sul film o i due cugini, Andrea e Durante, che fanno a gara a chi sa più cose.

Luigi: Non capisco se è un limite o un pregio. Il momento di Apperbohr è molto più reale, molto più intriso di realtà, dei due ragazzetti malati di western o di quegli altri due che parlano in greco antico. Forse in questo si riassumono le difficoltà che ho avuto e ho con Il cinghiale – sintassi e lessico a parte.
A proposito: ricordi quando ti dicevo che Il cinghiale era Gadda scritto da Ammaniti (e viceversa)? Inizialmente pensavo di averla sparata grossa, sul versante Gadda, e forse lo penso ancora: però secondo me può rendere l’idea di che tipo di libro è. Ricordo anche che tu non l’avevi presa molto bene questa definizione, no?

Francesco: No no, io l’avevo presa bene, ci sta tutta come sintesi iperbolica. Anche perché il linguaggio è la cifra più evidente del libro. Tu dici Gadda – e io ti do ragione come se avessi letto mai qualcosa di più di qualche pagina del Pasticciaccio brutto –, altri tirano in ballo Calvino, Cassola, Faulkner, Cortázar. Nel commentarlo si sono soffermati tutti quanti sul linguaggio, che è l’aspetto più potente del libro, sia esso quello di Apperbohr che si approccia al mondo degli umani, sia quello degli uomini, quella fusione di dialetti che appunto fa molto Gadda.
Giorgio Vasta, nella sua recensione su Il Manifesto, ha paragonato Apperbohr a San Paolo sulla via di Damasco: «La luce che lo abbaglia non lo redime ma lo precipita nel baratro del linguaggio», e questa cosa qui, del baratro del linguaggio, è molto bella, «Perché il presentimento della lingua – la possibilità che i suoni significhino e che in ogni loro miscuglio ci sia l’ambizione (se non la tracotanza) di estrarre dal mondo qualcosa di comprensibile – non potrà che essere per lui gloria e tormento, ciò che suo malgrado lo separa da tutti, siano essi cinghiali o umani, costringendolo in un punto intermedio, a metà del guado, uno spazio-tempo minuscolo e insieme smisurato in cui non può stare nessuno se non lo stesso Apperbohr e la sua esperienza delle parole».
Questa lettura mi fa pensare a una visione cristiana del Cinghiale: non punto di incontro tra umano e divino, come il figlio di Dio, ma tra umano e bestiale e di conseguenza incastrato nella distanza immensa tra i due mondi tra cui è ponte.
Forse, tornando indietro al perché Meacci abbia fatto girare tutto intorno al film di John Ford, una risposta la si può cercare nella portata iconoclasta del film sull’immaginario western, nello sguardo diverso sul mito della frontiera, rinchiusa con Liberty Valance tutta nella cucina di un saloon, che il personaggio di James Stewart portava contrapposto alle dinamiche abituali dell’eroe – John Wayne – e dell’antieroe – Liberty Valance.
Stewart è un personaggio esterno, un uomo di città, di legge, che osserva e inquadra il mondo del West rivelandone le illogicità. Allo stesso tempo, però, comprende i limiti del mondo di diritto che rappresenta, così come Apperbohr, comprendendo all’improvviso l’uomo, si trova a essere in mezzo alle due condizioni, senza riuscire a essere nulla, né uomo né animale. Anche il cinghiale guarda dall’esterno l’uomo e ne capisce la natura molto più di quanto possa fare l’uomo stesso, con la potenza rivelatrice delle prime volte che questa sua Epifania sensoriale scatena.
Per rimanere sul cinema, c’è un film di Robert Bresson completamente folle, Au hasard Balthazar, del 1966. Il protagonista è un asino. Non è uno di quei film con gli animali parlanti o tipo 4 cuccioli da salvare. È un asino che passa per vari proprietari e finisce sempre peggio. Anche qui il punto di vista animale serve a inquadrare l’umanità nelle sue miserie, come ha fatto Meacci con Apperbohr.

Luigi: Allora: non come risponderti, nel senso che mi sembra una tesi intrigante e possibile – per quanto non conosciamo ovviamente l’intento di Meacci –, ma io credo che tutto ruoti attorno alla lingua come plasmatrice della realtà, infatti Apperbohr prende coscienza di sè quando si accorge di sviluppare idee e concetti. Si trova di fronte a un altro mondo, derivato proprio dalla nuova lingua. Ma non sono un filosofo, quindi evito di addentrami in un discorso eccessivamente complesso.

Francesco: Quale sarebbe la tesi intrigante?

Luigi: Quella del cinghiale cristiano. Probabilmente una cosa non esclude l’altra

Francesco: Vabbè ogni figura di eroe ha in sé l’elemento del Cristo, pure Jon Snow. Non è che volevo dire che è un libro cristiano, solo che la rappresentazione del cinghiale può essere accostata a quella di Gesù. Comunque, provando ad arrivare a delle conclusioni, a riparlarne adesso a mesi di distanza dalla prima lettura, mi rendo conto di quanto Il cinghiale che uccise Liberty Valance sia il classico libro “importante”, quello di cui si parla, lo si analizza e se ne discute.

Luigi: La sensazione, infatti, per me è che, comunque la si pensi, si parla di letteratura di un certo livello.

Francesco: Forse dico una fesseria, ma mi sa che era dai tempi di Vasta e di Il tempo materiale che non c’era qualcosa del genere nella letteratura italiana. Forse Luciano Funetta quest’anno, forse in misura minore La ferocia lo scorso anno.

Luigi: Non voglio addentrarmi nel discorso Funetta, ma secondo me non sono comparabili.

Francesco: Perché non sono paragonabili? Io non parlo del libro, io parlo del tipo di portata che hanno avuto nel dibattito critico.

Luigi: Sì, da questo punto di vista certamente.

Francesco: Questo comunque non toglie che lo Strega lo vincerà Albinati con La scuola cattolica. È il classico libro che vince un premio come lo Strega.

Luigi: Pure per me – ce l’ho sulla scrivania ma ho paura di leggerlo. Volevo iniziare un discorso sul fatto che gli Strega di solito sono libri più o meno commerciali, ma mi sa che andiamo fuori tema.

Francesco: Diciamo che se vai a vedere gli ultimi, che ne so, dieci anni si sono alternati successi commerciali a libri fatti apposta per i premi letterari, ma non diciamo altro. Certo che Il cinghiale, per quanto se ne è parlato, e per quanto se ne è parlato bene, potrebbe essere una novità di un certo peso

Luigi: minimum fax ha mai vinto? Anche da quel punto di vista lo sarebbe.

Francesco: No, credo che sia addirittura la prima volta in cinquina, ma lasciamo perdere che rischiamo di fare un discorso sul fatto che vincono sempre le case grandi eccetera che non ci riguarda neanche.

Luigi: Infatti.

(Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance, minimum fax, 2016, pp. 452, euro 16)
Se Avessero, copertina del libro di Vittorio Sermonti su Flanerí

“Se avessero”
di Vittorio Sermonti

C’è un vortice. Un occhio a spirale venato di marmo che ingolla nel gorgo tutto lo sguardo. Fino al nucleo notturno della pupilla. La copertina di Se avessero (Garzanti, 2016) di Vittorio Sermonti, tra i cinque finalisti del Premio Strega di quest’anno, è una vertigine di scala a chiocciola, una conchiglia di ringhiera che rappresenta al meglio il ventre del racconto. Un mulinello di forze in cui si sale e si scende nei pianerottoli della memoria.

A prima vista un modulo ucronico. Cosa sarebbe successo, si chiede l’autore, se avessero sparato a suo fratello, FM, il frater maximus, rincasato dopo la guerra e incappato in tre partigiani col mitra molto attento sullo stomaco? Quello non era un momento qualunque, era una fase spartiacque, un lembo di Storia allo sbando nel maggio spossato del ’45. FM è un nemico, con la zavorra fascista sulle spalle, una fresca militanza nella Repubblica Sociale e tutto il corrente costante pericolo di vedersi morire dentro uno sparo. Ma ciò non avviene, i tre non agiscono, i tre si congedano perché non conviene, perché sono uomini che inalano pietà e in quello scarto di eventi sfumati confluisce la slavina dei ricordi.

Quell’istante sottratto all’appello dell’accaduto è un giro di chiave per accedere a tutto quello che invece è successo, rotolando tra i giorni di Vittorio. E il romanzo si snocciola come un memoir, un rovistare vorace nei quartieri adolescenti.

Vittorio è un ragazzo di quindici anni, contornato da una famiglia abbondante di nove persone impreziosita dal «privilegiato ceppo» di un nonno avvocato penalista «che è stato il primo lui a farsi uscire di bocca la parola “mafia” per l’occasione d’un celebre processo chiamato Notarbartolo».

Aveva tre piani di casa a Roma Vittorio, ma la guerra ha sparigliato i destini di ognuno di loro, pressandoli in un’avara abitazione milanese in zona Fiera che impiega cinque pagine a descrivere con il computo accorto di tutte le porte. Ed è avvezzo a rinunciare, si abitua con naturalezza a viversi ristretto, a ritagliarsi «il lusso di aver perso qualsiasi lusso e di verificare che non ci fai nessuna malattia, come un vero principe ereditario quando si trova fatta la Repubblica».

L’Italia ondeggia, l’Italia è spazzata in quell’anno finale d’orrore e tutti quei milioni di cittadini asserviti e sedicenti fascisti si sfaldano al sole di nuovi obiettivi.

Che fare? Resistere o fuggire? Partire o cambiare partito? Vittorio intanto s’innamora, di una ragazza deliziosa confinata a Como, si dibatte, si amareggia per non averla mai abbastanza, per crogiolarsi col fantasma del suo rossetto vicino alla bocca.

Piovono storie di amici, come Groucho e Saverio, di teatro, di letture, di musica e di sport che hanno condito, rammendato, intarsiato i pensieri di Vittorio.

La lingua è meticcia, zuppa di turbamenti giovanili e di bordi di autentica maestria. È un flusso imponente di coscienza a ritroso. Si fa fatica spesso ad arrivare al capolinea, nella girandola potente d’incidentali concentriche e illusioni dismesse di Sermonti, e anche per questo si respirano densi il senso e il volume espressivo di uno scrittore eclettico, critico, dantista, intellettuale tondo e ancora fresco dei suoi 86 anni.

Sono tempi editoriali di memoir importanti, dall’oceanico La mia battaglia di Karl Ove Knausgård, a Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart fino a Le serenate del Ciclone di Romana Petri e al di là dell’esito del Premio, quello che si annuncia come «opera ultima» dell’autore è un atto letterario di valore effettivo, capace di restituire l’orma del singolo calpestata da milioni di altri passi. Eppure sempre unica. Eppure ancora viva.

 

(Vittorio Sermonti, Se avessero, Garzanti, 2016, pp. 224, euro 18)

“Minor Victories” dei Minor Victories

Ve lo dico fin da subito: sapevo che Minor Victories sarebbe stato un grande album ancora prima di ascoltarlo. No, non posseggo doti di preveggenza e non ho avuto nessuna soffiata da chi era già informato sulla vicenda. Ho semplicemente letto le notizie sulla collaborazione e con quei nomi chiamati in causa mi sono subito entusiasmato. All’appello abbiamo: Stuart Braithwaite dei Mogwai alla chitarra, Justin Lockey degli Editors alle chitarre e parti elettroniche, Rachel Goswell degli Slowdive e Mojave 3 alla voce e il film–maker fretello di Justin, James Lockey al basso. Uniteli e avrete un supergruppo battezzato Minor Victories e l’annessa prima fatica discografica omonima uscita il 3 giugno 2016.

La formula è semplice nell’impostazione e perfetta negli esiti: ogni musicista ha portato le sue doti, le proprie caratteristiche, miscelandole alle perfezione con quelle degli altri “colleghi”, creando un contesto sonoro davvero prezioso e importante e se amate gli Slowdive e contate i giorni sul calendario nell’attesa del loro annunciato ritorno, sarete molto lieti di ascoltare quanto sia ancora ammaliante ed emozionante la voce di Rachel Goswell.

In Minor Victories l’ascoltatore riesce a perdersi fin da subito nel vortice di questi brani suggestivi e coinvolgenti, prodotti in maniera impeccabile da Tony Doogan. “Give Up The Ghost” è l’inizio perfetto: batteria pulsante, voce soffusa e poi l’arrivo delle chitarre a sfociare nell’abbraccio caldo del ritornello. Di seguito, la base elettronica ci introduce “A Hundred Ropes”, il primo singolo e annesso video rilasciato dalla band. Pezzo notevole in cui spiccano anche gli archi. E poiché non c’è due senza tre, ecco quella che a mio avviso è la canzone simbolo di Minor Victories , e molto probabilmente il pezzo più bello (sicuramente il mio preferito): “Breaking My Light”, brano dalla struggente bellezza e dall’impatto immediato. Brividi.

E per non farsi mancare nulla il nostro supergruppo ha coinvolto due guest di caratura molto alta: James Graham dei Twilight Sad per duettare in “Scattered Ashes (Song For Richard)” e un certo Mark Kozelek. L’ex–Red House Painters e attuale Sun Kil Moon spezza la composizione sonora del disco con la scarna e intensa “For You Always”.

Minor Victories  si chiude con due pezzi molto lunghi in cui la matrice showgaze prende il sopravvento, ovvero “The Thief” e “Higher Hopes”. Finito l’ascolto, non si può non rimanere estremamente appagati dal risultato attenuto dalla combriccola Braithwaite–Lockey–Goswell. Con classe e estrema intelligenza questi musicisti hanno messo a completa disposizione la loro bravura immensa riuscendo a combaciarlo con le esigenze e le particolarità degli altri membri, fornendo un disco dove le singole peculiarità rimangono intatte ma si riesce comunque a percepire la linfa di un progetto nuovo e diverso. Un supergruppo per un superdisco, insomma. E noi non possiamo che essere estremamente lieti.

Grandi momenti Krauspenhaar copertina su Flanerí

“Grandi momenti”
di Franz Krauspenhaar

«La cosa che più mi sconcerta è che, pur ripassando le fasi salienti della mia vita dal 1984 ad oggi, […] io non trovo nulla di veramente importante». È Franco Scelsit a parlare, l’io narrante protagonista di Grandi momenti(Neo Edizioni, 2016), alterego dell’autore Franz Krauspenhaar. Ma non bisogna cadere nella tentazione di interpretare malinconicamente questa sentenza: Scelsit, scrittore cinquantenne reduce da un infarto, non guarda al passato attraverso la prismatica lente del rimpianto, lo fa invece convinto che tutto quello che l’uomo è stato in grado di produrre dopo gli anni Ottanta (la musica, la letteratura, il cinema, le automobili di cui il protagonista è appassionato) semplicemente non esiste, non ha riflessi nella sua vita. Del resto, «il mio immaginario è incastrato laggiù. Le mie giornate le vivo oggi ma con le modalità, i colori e i sapori di ieri».

Mediante una narrazione ironica, a tratti introspettiva ma mai esasperata, Krauspenhaar consente di entrare rapidamente in confidenza con il protagonista, a patto che si accettino, anche senza approvarle, le categorie con cui egli guarda il mondo. Partendo da quelle generazionali. Avere vissuto i vent’anni nella Milano di un decennio in cui l’Italia vinceva i Mondiali, sembrava dimenticare il terrorismo, si cimentava nelle speculazioni di borsa, e in cui l’affermazione di un adolescente passava tramite il tepore di un Moncler, lascia il segno: quale ventenne di allora avrebbe sospettato che gli anni Ottanta sarebbero stati – per dirla con un laterziano saggio di Paolo Morando – L’inizio della barbarie? Il personaggio Scelsit conferma la propensione di Krauspenhaar a raccontare il paese che è appena stato con gli occhi di un artista; questa volta si tratta di uno scrittore, ma il soggetto evoca di primo acchito il Fabio Bucchi di Le monetine del Raphaël (Gaffi, 2012).

Generazione, sì, e anche genere. Grandi momenti è un romanzo declinato al maschile, in cui si erge la bella figura del fratello, confidente e intimo terapeuta di Scelsit, custode e sodale della più profonda ferita: l’abbandono di quel padre che li ha lasciati prima che diventassero uomini, e che sotto le sembianze di una lepre, animale in fuga per eccellenza, abita le molto frequenti allucinazioni di Scelsit. È il nodo irrisolto, quello che nell’immaginario di lettore potrebbe configurare il motivo per cui il protagonista non abbia una compagna, non abbia figli, viva con la madre così come il fratello.

Altri uomini si aggiungono al mosaico sociale di Grandi momenti. Sono i compagni di riabilitazione, sono gli editori; a ognuno di loro Scelsit racconta qualcosa delle sue perturbazioni, col piglio sornione di chi sembra vivere nello sceneggiato di se stesso. Emerge, tuttavia emerge e non può mancare, una figura femminile verso cui il protagonista convoglia razionale gratitudine e viscerale risentimento; un’anziana signora dalle trecce come Pippi Calzelunghe: la madre; il “colonnello”, come viene definita, antagonista e piantagrane, forse solamente rea di non aver dato ai due giovani Scelsit quel senso di colpa e di inadeguatezza in cui il padre in fuga li ha piombati.

Da adulto non ha veri padroni, Scelsit. Vive di scrittura. E se quella firmata col proprio nome non gli consentirebbe altro che tirare a campare, la capacità di sfornare i romanzi da “autogrill” gli permette, sotto pseudonimo, anticipi invidiabili. Sembra aver trovato un modo per farcela, anche se l’infarto è qualcosa cui dover render conto e che viene sfidato approfittando di qualche birra in più, psicotonico di rapido consumo. Eppure, è un ben arduo destino per uno il cui «tacito obbiettivo è sempre stato quello di arrivare al contrario, operando delle scelte stilistiche e di struttura romanzesca piuttosto d’avanguardia, quindi vecchie perlomeno sessanta anni. Ciò comporta una narrazione frammentata e aderente al pensiero umano, ma per niente fedele al modo didascalico di raccontare di oggi».

E dunque, più che il grande cuore della copertina, la vera sfida che Franco Scelsit affronta si rintraccia sullo sfondo, ed è l’inconsueta geometria della mente; quel quotidiano gioco di prestigio fra la bruma dentro e il piacere minuto di una birra.

 

(Franz Krauspenhaar, Grandi momenti, Neo Edizioni, 2016, pp. 160, euro 13)
Il bambino nella neve, copertina su Flanerí

“Il bambino nella neve”
di Wlodek Goldkorn

È un concerto per voce sola, per una voce che vuole tornare nel suo passato, in una terra dalla quale la sua infanzia si era nascosta per fuggire a qualcosa d’inspiegabile, osceno, pericoloso. Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore, sembra quasi sdoppiare la sua voce per usare un tono distaccato, quasi da cronista: è in questo modo che si affaccia sul baratro della Storia provocato dallo smottamento delirante di un nazismo che ha travolto la sua vita.

Perché Il bambino nella neve (Feltrinelli, 2016) non è soltanto un titolo forte, ma l’episodio che apre le pagine di questo libro: la zia Chaitele, cugina del padre, ebrea, durante la seconda guerra mondiale si nasconde nei boschi quando arrivano i tedeschi e lei abbandona nella neve un bambino. E quel bambino è proprio l’autore, cresciuto nella Polonia del dopoguerra da due genitori comunisti ed ebrei, che scappano in Russia dopo che la stessa Polonia scopre di essere antisemita a sinistra. Più che altro una storia che sembra una storia apolide, irregolare che ben rispecchia la struttura del libro: saggio, pamphlet, racconto, storia, romanzo, pezzo di cronaca, riflessione, romanzo on the road (struggenti le pagine del suo viaggio, a ritroso anche nel tempo, dentro i campi di sterminio che descrive come un visitatore informato).

Quello che Wlodek riesce a raggiungere è un risultato molto importante: se da un punto di vista letterario, questo libro s’inserisce nella narrativa di Primo Levi e di Eli Wiesenthal, da un punto di vista meramente narrativo l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un monologo teatrale. È per questo motivo che la voce dell’autore bascula tra la spiegazione di quelli che sono i risultati della Shoah e l’inevitabile distacco che ne segue. In questo senso Il bambino nella neve – a leggerlo – rivela un effetto straniante, di quelli che un signore come Bertolt Brecht avrebbe richiesto per rappresentare un’odissea del genere. Un’odissea umana, storica e letteraria.

Ogni pagina, ogni riga di questo libro, ogni virgola che Goldkorn ha scelto di sistemare in Il bambino nella neve è ponderata, voluta e scelta con determinazione. Una scelta oggettiva, dettata da un’urgenza reale, quella di una sete di dolcezza che cosparge le pagine di questo volume.

«La memoria dei ghetti e dei campi teatro della Shoah non serve a niente se non a promuovere e difendere, ovunque e nel concreto, le istanze di emancipazione. È comodo pensare di essere vittime e poi pranzare in famiglia, leggere libri, scrivere sui giornali, fare viaggi esotici. Non sono vittima, ma soggetto della storia», dice Goldkorn. E a sentirla bene la sua è una voce potente perché delicata.

 

(Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, trad. di N. De Benedetti, Feltrinelli, 2016, pp. 202, euro 16)

 

Nè in cielo né in terra, copertina su Flanerí

“Né in cielo né in terra”
di Paolo Morelli

Paolo Morelli, artista poliedrico, ex jazzista, sceneggiatore, regista, critico cinematografico e letterario, ma soprattutto scrittore romano, in Né in cielo né in terra (Exòrma, 2016) ci catapulta in una sorta di aldilà che è ancora un aldiquà, declinando la sua pervasiva ironia in giocosità e humour ma anche in amarezza, smarrimento e attesa.

Cartesio immaginò un Genio Maligno pronto a ingannarci sistematicamente, facendoci credere di vivere nella realtà mentre invece stavamo solo sognando.

Né in cielo né in terra sceneggia le sue vicende in un vecchio palazzo decadente in zona Trastevere a Roma. Da subito il lettore capisce di trovarsi in un mondo fuori asse e un po’ bizzarro, proprio come Alice di Lewis Carroll quando precipita nella tana del Bianconiglio. Solo che qui non ci sono Regine di cuori, Cappellai matti o altri strambi personaggi ma un gruppo di persone sospese tra la vita e la morte. La loro essenza sta in un’ineliminabile provvisorietà, la loro stessa presenza è un mistero. Ci si palesa davanti un teatrino di cartapesta con tutte le ambiguità, le luci e le ombre che portano con sé dei fantasmi. Sono parvenze d’identità derelitte. Le loro storie s’intrecciano con situazioni beckettiane con in più lo spirito di contraddizione e il lassismo tipicamente romanesco: «…ecco il punto, noi qui sappiamo di non essere altro che comparse […] Dicesi romano vero chiunque, essendo nato a Roma, subisca in maniera continuativa, e reagisca sostanzialmente avvertendone poco o niente, a volte pure accorgendosene poco, come se tanto livore gli sia quasi dovuto in virtù di una superiorità fatale…».

La voce che ci parla, ci richiama all’attenzione e a volte ci interpella direttamente è quella di un ghostwriter che decide di venire in aiuto di «uno scrittore di memorie che dice di chiamarsi Cesare se ne sta davanti allo schermo azzurrognolo ma non gli viene in mente niente». Quello di Augusto (così lo appella Cesare ma non è il suo vero nome…) si presenta sin dall’inizio come un compito improbo. L’obiettivo dello strano condominio è quello di scrivere un libro di successo così da guadagnare i soldi necessari per evitare lo sfratto dall’antica palazzina di Trastevere. L’occasione è quella per l’autore di far rivivere le anime di amici precocemente scomparsi.

Paolo Morelli per questo suo romanzo si è dichiaratamente ispirato a un film di Antonio Pietrangeli del 1961 con Mastroianni, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo e Sandra Milo, Fantasmi a Roma. Il film parla di quattro fantasmi, tutti vittime di morte violenta, antenati del principe di Roviano con il quale vivono in un antico palazzo di Roma. Tutto trascorre tranquillo fino alla morte del principe provocata dallo scoppio di una caldaia, quando su tutti incomberà la minaccia dello sfratto.

L’autore eccelle nelle invenzioni funamboliche. Più che la sostanza, ciò che conta è il suono di certe parole che si dissolve nell’aria in un ghigno dissacrante. Persino i nomi dei personaggi sono parlanti: Cesare, Vibenna, Musonio, Ottavia, etc.

Ridere è spesso l’arma degli sconfitti dal senso comune e dal dilagante conformismo ipocrita. La prosa ha in sé una natura divagatoria, tanto che è stata accostata a quella di Paolo Nori. Tale natura l’ha nello stile e nella lingua. Quando una prosa del genere prova a raccontare, lo fa in modo centripeto per cui ogni divagazione torna sì sul tema ma allo stesso tempo, a partire da una situazione che apparentemente non lo riguarda per niente, racconta di nuovo tutto da capo quel tema. Ciò che ritorna è l’idea del rimpianto come condizione permanente dell’essere umano.

 

(Paolo Morelli, Né in cielo né in terra, Exòrma, 2016, pp. 240, euro 12,50)
Pastorale americana, il poster USA su Flanerí

Da “Pastorale americana” a “La profezia dell’armadillo”

Pochi giorni fa è stato pubblicato il primo trailer di Pastorale americana, esordio alla regia dell’attore Ewan McGregor e, soprattutto, trasposizione al cinema di uno dei romanzi più famosi e celebrati di Philip Roth, l’eterno candidato al Nobel per la letteratura, probabilmente uno dei più grandi scrittori viventi.

Il rapporto Roth-cinema non è mai stato dei migliori. Ci sono stati vari tentativi, il primo, nel 1969, con La ragazza di Tony, tratto da Addio, Columbus, altri più recenti e ugualmente trascurabili con La macchia umana, nel 2003, con Anthony Hopkins e Nicole Kidman, e L’animale morente, trasformato per il cinema in Lezioni d’amore, nel 2008.

Le prime immagini di Pastorale americana fanno sperare di essere di fronte a una trasposizione quanto meno degna del materiale narrativo.

Certo, ci sono tutte le incognite legate all’esordio dietro la macchina da presa di McGregor, che non verranno sciolte fino a fine ottobre, quando il film arriverà nelle sale USA. Se dovesse andare male con Pastorale americana gli appassionati di Roth potranno sempre puntare su un’altro film-da-libro in arrivo: Indignazione, tratto dal romanzo pubblicato nel 2008 e appena uscito nelle sale statunitensi. La critica, per ora, ne sta parlando piuttosto bene e il doppio passaggio per il Sundance Film Festival prima e per Berlino poi ha fatto crescere le aspettative. Per l’Italia non c’è ancora una data di distribuzione, ma dovrebbe arrivare.

Potrebbe essere l’anno di Philp Roth al cinema. Sicuramente sarà una stagione, quella 2016/2017, con molta letteratura trasformata in immagini.

Se parliamo di best seller, bisogna sicuramente partire con Inferno. Dal romanzo stravenduto di Dan Brown arriva il terzo film firmato Ron Howard con Tom Hanks nei panni del professor Langdon, di nuovo in Italia, a Firenze questa volta, che dal 13 ottobre verosimilmente occuperà gran parte degli schermi italiani.

L’eterno bestseller La ragazza del treno diventerà film grazie a Tate Taylor, già regista del candidato all’Oscar The Help, e da inizio ottobre proverà a replicare il successo del libro nelle sale USA puntando sulla lanciatissima Emily Blunt. Il romanzo sentimentale Me Before You, invece, arriverà nelle sale italiane il primo settembre con tutto il carico di curiosità di vedere Emilia Clarke, la Daenerys Targaryen di Il trono di spade, in un ruolo romantico, senza draghi o Terminator intorno.

Sempre a settembre arriverà il nuovo Ben Hur, girato come il classicissimo del 1959 a Cinecittà (e a Matera, e a Gravina di Puglia), che riporta le bighe e la storia di amicizia tradita tra un nobile giudeo e un romano indietro al romanzo di Lew Wallace.

Sicuramente è un film letterario Genius, bio-pic su Max Perkins, l’editore che per primo pubblicò gente come Hemingway, Scott Fitzgerald e Thomas Wolfe. È passato a Berlino senza troppo successo, non ha ancora una distribuzione italiana ma può comunque contare su un cast che mette insieme Colin Firth, Jude Law e Nicole Kidman.

Martin Scorsese, invece, ha deciso di portare sul grande schermo il libro Silenzio del giapponese Shusaku Endo, pubblicato in Italia da Corbaccio, incentrato sulla persecuzione di due padri gesuiti nel Giappone del Seicento. Il film, che annovera nel cast Liam Neeson, Andrew Garfield e Adam Driver, ed è atteso anche in prospettiva Oscar, continua a non avere una data certa di uscita a causa di alcuni ritardi di produzione. Si dice che a novembre dovrebbero esserci le prime proiezioni negli Stati Uniti.

Le attese maggiori, Oltreoceano, le sollevano però i film tratti da libri per ragazzi, che quest’anno promettono meraviglie.

Quando è stato presentato a Cannes fuori concorso, GGG, il nuovo film di Steven Spielberg tratto da Il grande gigante gentile di Roald Dahl, ha fatto gridare al capolavoro praticamente tutti. Da noi arriverà in tempo per Natale.

Tim Burton prova a tornare grande tornando a rivolgersi ai più piccoli con La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, tratto dal romanzo di Ransom Riggs, pubblicato in Italia da Rizzoli, che mette insieme adolescenza e magia, con il sottofondo della Seconda Guerra Mondiale. Nel cast del film, che sarà in Italia a dicembre, tra gli altri, anche Eva Green, Judi Dench e Samuel L. Jackson.

Non ha ancora una distribuzione italiana A Monster Calls di Juan Antonio Bayona, tratto dal romanzo Sette minuti dopo la mezzanotte di Patick Ness, pubblicato in Italia da Mondadori, la storia del dodicenne Conor che, costretto ad affrontare la malattia della madre e il bullismo dei compagni di scuola, si rifugia in un mondo popolato da creature fantastiche.

L’attenzione dei fan, però, è tutta concentrata su Animali fantastici e dove trovarli, tratto dall’omonimo libro di JK Rowling edito da Salani. Il libro, scritto dal “magizoologo” Newt Scamandro, è uno dei testi fondamentali su cui studiano i giovani maghi di Hogwarts e di cui si parla già nel primo libro della saga di Harry Potter. Il film, diretto da David Yates e sceneggiato dalla stessa Rowling, segue le avventure di Newt Scamandro interpretato da Eddie Redmayne nella New York degli anni Venti. Il film lancia una trilogia di spin-off dedicata al mondo di Harry Potter.

Sempre in tema di saghe, è altissima la curiosità per il primo film tratto dai libri di La Torre Nera di Stephen King. Non si sa ancora nulla di preciso, se non che arriverà nelle sale statunitensi a febbraio 2017 e che vedrà Idris Elba nei panni del Pistolero e Matthew McCounaghey in quelli dell’Uomo in nero. Se tutto va bene, il film inaugurerà una trilogia con annessa serie tv parallela.

A proposito di serie tv, è molto attesa anche Purity, la serie tratta dall’ultimo romanzo di Jonathan Franzen. Per ora si sa solo che le riprese inizieranno nel 2017, che sarà una limited series di venti episodi, senza seconde stagioni e cose simili. La regia sarà affidata a Todd Field e a scrivere la sceneggiatura ci penserà lo stesso Franzen con il drammaturgo David Hare. Per il cast è arrivata una sola conferma, niente male: Daniel Craig.

E in Italia come siamo messi? Abbastanza bene, pare. Partendo dalle serie tv, si sa per certo che nel 2017 Suburra vivrà lo stesso destino già toccato a Romanzo criminale e Gomorra, completando il passaggio romanzo-film-serie tv. A guidare il progetto, come è ovvio, ci sarà Stefano Sollima, ormai deus ex machina assoluto delle serie tv italiane. L’unica cosa che cambia rispetto ai precedenti è il mezzo. Suburra la serie, infatti, andrà in onda su Netflix e non su Sky, interrompendo un sodalizio che finora aveva portato ottimi risultati in termini di qualità e ascolti.

La casa di produzione Wildside è a sua volta molto attiva nella produzione di serie tv. La più attesa, senza dubbio, è quella tratta dai romanzi di L’amica geniale di Elena Ferrante, trentadue episodi, otto per libro, di cui si sa ancora pochissimo, se non che Ferrante stessa sarà coinvolta nella produzione. Gli altri progetti di Wildside puntano a Anna, l’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, e Limonov di Emmanuel Carrère.

Al cinema, invece, due grandi registi come Marco Bellocchio e Gianni Amelio hanno deciso di guardare ai best seller nazionali per i loro nuovi film. Del Fai bei sogni di Bellocchio, tratto dal romanzo autobiografico di Massimo Gramellini e interpretato da Valerio Mastandrea, Berenice Bejo e Fabrizio Gifuni, si sa già quanto si sia discostato dal libro dopo la presentazione alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes. Al cinema dovrebbe arrivare a settembre.

Amelio, invece, ha deciso di puntare su La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone, pubblicato da Longanesi. Le riprese sono terminate da poco e non si conoscono ancora i dettagli dell’uscita. Il cast, oltre a Elio Germano, ha una forte presenza femminile con Greta Scacchi, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti.

Continua, invece, lo strano rapporto tra i romanzi di Nick Hornby e il cinema italiano. Dopo il terrificante È nata una star? di Lucio Pellegrini nel 2012, adesso Andrea Molaioli sta terminando la produzione di Tutto per una ragazza, tratto dal romanzo pubblicato nel 2010, con la storia di Samuele spostata a Roma dall’Inghilterra.

Infine, continua a esserci il più assoluto mistero su La profezia dell’armadillo, l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea tratto dal romanzo a fumetti di Zerocalcare. In pratica si sa solo quello che ha annunciato Zerocalcare nel 2014, ossia che l’hanno scritto lui e Mastandrea insieme a Johnny Palomba e Oscar Glioti, che non ci recita nessuno dei due e che c’è stata molta riscrittura. Per il resto è mistero.

Il bazar dei brutti sogni copertina del libro su Flanerí

“Il bazar dei brutti sogni”
di Stephen King

Una delle opere che più amo di Stephen King è Stagioni diverse, una raccolta di quattro racconti lunghi del 1982 talmente bella da generare tre film cult: Le Ali della libertà, L’allievo e Stand by Me. Appena leggo un nuovo libro di King mi torna in mente quel titolo. Dall’adolescenza fino alla soglia dei trent’anni ogni stagione della mia vita ha avuto come compagnia un lavoro dello scrittore del Maine. Ogni anno un libro diverso, partendo dai capisaldi – Shining, Le Notti di Salem, It– fino agli ultimi Doctor Sleep, Mr. Mercedes, 22/11/63 . Che esista tale rapporto cadenzato negli anni tra il lettore-fan e King, a quanto pare ne è perfettamente consapevole anche quest’ultimo e la bellissima “Nota d’autore” di Il bazar dei brutti sogni (Sperling & Kupfer, 2016) lo dimostra.

In maniera estremamente confidenziale e diretta il Nostro si rivolge al Fedele Lettore accennandogli come alcuni dei racconti che occupano questo volume siano già usciti anni fa e la cosa «più fica» (cito testualmente) è proprio che nonostante il tempo passi ci sia ancora un King che scrive e un fan che lo legge.

Molto succosa l’introduzione de Il bazar dei brutti sogni: come per A volte ritornano, per fare qualche nome, lo scrittore americano usa questo spazio per un mini trattato sulla letteratura horror e sull’annessa produzione. Qui si sofferma sul suo rapporto con la forma narrativa breve, sulle potenzialità del racconto e sulle modalità di nascita e lavorazione. Allo stesso tempo si prepara il lettore allo scenario che lo attenderà in questo bazar infestato.

Ne Il bazar dei brutti sogni King racconta e si racconta: ogni opera è preceduta da una premessa in cui l’autore dichiara la genesi del racconto e come sia sopravvenuta l’ispirazione, fornendo aneddoti e sentiti scorci biografici. Dall’incontro ravvicinato – e quasi mortale – con un camion nel 1999 (da cui è stato poi sviluppato “Il piccolo dio verde del terrore”) al tragitto in macchina che ha ispirato “Miglio 81” non mancano i momenti in cui il vissuto dell’autore ha generato le sue celeberrime quanto inquietanti opere.

A dire il vero, di orrore in Il bazar dei brutti sogni ce ne è poco. L’antologia presenta per lo più racconti ispirati e suggestivi ma quasi mai legati all’horror. E questo non è un male, anzi. King svaria dalla post-apocalittico al thriller passando addirittura per la poesia, piazzando sempre delle taglienti zampate da vecchio leone quale è: “Il bambino cattivo” cattura e inquieta, “Aldilà” (forse il più bello) ci invischia in un torvo gorgo di peccati, “Ur” ci mostra tutto il genio dell’autore (un racconto fantascientifico basato su Kindle!) e “Mr. Yummy” emoziona (alla maniera nera di King, ovviamente). Venti racconti per una media qualitativa alta, un qualcosa di gradevole da leggere prima di andare a dormire, un pretesto per una biografia in racconti da leggere senza freni. Alla prossima stagione, Stephen King. È tutto ancora molto fico.

 

(Stephen King, Il bazar dei brutti sogni, trad. di L. Lipperini, Sperling & Kupfer, 2016, pp. 506, euro 19,90)