“Appunti da un bordello turco”
di Philip Ó Ceallaigh

«Se ti vuoi fare un’idea di come se la passa una città devi andare a vedere i suoi margini. Il centro ti dirà che va tutto bene. La periferia ti dirà il resto».

Appunti da un bordello turco (Racconti Edizioni, 2016), esordio letterario di Philip Ó Ceallaigh, gratta via lo sporco patinato sotto cui Bucarest nasconde i suoi sterminati quartieri in serie. Il centro della città è posto a margine della narrazione, fiaccato e sconfitto dalla violenza sensoriale che domina l’intera periferia.

Pigri operai, infatti, hanno modellato il cemento in grigi edifici di dieci piani e li hanno disposti ordinatamente lungo viali senza nome, lasciando così al tempo il compito di customizzare queste alienanti propaggini urbane. La periferia di Ó Ceallaigh è uno spazio fisico ed emozionale ambivalente, un microcosmo autonomo solo apparentemente piatto. Lo scrittore irlandese, infatti, decide di correre un bel rischio rivestendo ogni racconto di uno spesso monocromatismo cinereo, eppure la narrazione si mantiene perfettamente fluida e i personaggi sfuggono alla trappola della bidimensionalità cartacea.

Le esistenze solitarie dei protagonisti di Ó Ceallaigh non rimangono confinate nei loro monolocali asfittici ma sono calate nel procedere caotico della città. Si scontrano con la folla nervosa e il traffico incessante, uscendone vinte il più delle volte.

La città, dunque, appare come un’enorme ferita purulenta a cui si potrebbe contrapporre la consueta immagine salvifica della campagna. Ó Ceallaigh lo sa, per questo motivo non tralascia nulla e compie delle incursioni nelle zone rurali poste subito fuori Bucarest. Il risultato, tuttavia, è deludente. Non esiste idillio, la campagna è una terra povera e agonizzante, quasi del tutto disabitata. Solo i vecchi sono rimasti a guardia dei propri ricordi e segreti.

Lo smarrimento dei personaggi dunque, è completo ma non definitivo. La catarsi avviene inaspettatamente, in punta di piedi, e chiosa con sorprendente dolcezza una narrazione cruda dell’abbrutimento umano.

 

(Philip Ó Ceallaigh, Appunti da un bordello turco, trad. Stefano Friani, Racconti Edizioni 2016, pp. 343, 16 euro)
Una somma di piccole cose cover album di Niccolò Fabi su Flanerí

“Una somma di piccole cose”
di Niccolò Fabi

Lo avevamo lasciato in compagnia dei suoi compagni Max Gazzè e Daniele Silvestri in Il padrone della festa. Per tornare a qualcosa di integralmente suo, bisogna guardare al 2012 con Ecco, dove spiccava la splendida “Una buona idea”. Oggi, a quattro anni di distanza, Niccolò Fabi torna con Una somma di piccole cose.  Una micro rivoluzione all’interno dell’immaginario di Fabi e, di riflesso, della musica italiana a cavallo tra il mainstream dei Negramaro e l’underground de I Cani (sempre se si possa ancora parlare di underground per la band di Contessa). Una micro rivoluzione che sa, paradossalmente, di involuzione.

Spieghiamoci bene: Una somma di piccole cose è un album molto bello.  Profondo da un punto di vista testuale (specialmente “Facciamo finta”, splendido, dove la somma di piccolissime cose viene esaltata in maniera esemplare), con una coerenza stilistica da lode, omogeneo. Impacchettato per bene. Nel titolo e nei suoi contenuti può ricordare lo splendido Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù. Ma è un album che abbiamo già ascoltato. Sono pezzi di cantautorato anglo-americano di questi ultimi anni  che ha un riconoscibilissimo guru in comune: Bon Iver.

In un’intervista a Repubblica ha detto di essersi ispirato, oltre al cantante del Wisconsin, a Ben Howard e a Sufjan Stevens. La domanda, dunque, che ci si pone anche solo dopo qualche minuto di ascolto è: cosa spinge un cinquantenne italiano a fare le cose alla maniera di un trentenne americano – oltre al fatto che ciò che fa quel trentenne americano sia indiscutibilmente valido? La globalizzazione, certo, l’americo–centrismo, sicuramente.  Forse l’ingenua convinzione che questo tipo di cantautorato sia ciò che tira oggi, nel 2016; pensare che strizzare sempre gli occhi agli americani, agli inglesi, faccia bene; rendere partecipe il pubblico che si conoscono correnti o pseudo correnti musicali che oggi o in un passato più o meno prossimo vanno o sono andate per la maggiore, quando all’orecchio un po’ più scafato un esperimento del genere suona solo come un qualcosa di molto triste:  l’auto-convincimento  che si stia cavalcando un’onda – quel new folk fatto di chitarre sussurrate e ambienti incorporei, di orsi, di boschi, di barbe – che in realtà si è già infranta sugli scogli  qualche anno fa. Forse niente di tutto questo, ma la sensazione di disagio rimane comunque. Il disagio derivato dalla sensazione che qui si sia andati ben oltre la semplice e innocua ispirazione.

Una somma di piccole cose viaggia dunque su binari già battuti da altri, in altri lidi. Oltre a Bon Iver che, appunto, ritroviamo sparso un po’ ovunque, ci sono Iron & Wine, James Vincent McMorrow, Damien Jurado,  l’iperminimalismo alla Keaton Henson (“Vince chi molla”) fino addirittura ai The National (“Non vale più”, ma anche l’impostazione pianistica di “Una mano sugli occhi” può ricordarli).

Fa sinceramente rabbia quest’album: a ogni ascolto è impossibile non pensare a quanto tutte le canzoni – fatta eccezione forse per “Le cose non si mettono bene”, che risulta quasi banalotta, specialmente nel ritornello – siano semplicemente belle; ma proprio in quel momento, quando il corpo è propenso ad abbandonarsi e a godere,  segue, immediato, un ulteriore pensiero: perché mi prendi in giro, Niccolò?

Insomma: Una somma di picccole cose è il bellissimo album di Niccolò Fabi scritto da qualcun altro. Peccato.

Ancóra di Hakan Günday, copertina su Flanerí

“Ancóra”
di Hakan Günday

Profugěre in latino significa “cercare scampo”. Le pagine della Storia del Terzo millennio sono continuamente riscritte dalle storie di milioni di profughi in fuga da lotte intestine, persecuzioni e carestia. Il mare ormai quotidianamente inghiotte e rigurgita centinaia di corpi sulle coste libiche o cretesi. Imbarcazioni fatiscenti e stracariche di uomini, donne e bambini percorrono ogni giorno la rotta balcanica che si è trasformata in un sentiero di morte. Il Mediterraneo è diventato l’orizzonte di un desolato presente e l’Europa un posto dove si arriva morendo.

Questa è la realtà che ci sbatte in faccia Hakan Günday, lo scrittore turco, 39 anni, della generazione successiva a quella dei grandi Orhan Pamuk ed Elif Shafak, in Ancóra (Marcos y Marcos, 2015). Grande osservatore dell’umanità, a Istanbul, la città dove vive, pur essendo nato a Rodi (è figlio di diplomatici), invece di frequentare i corsi di Scienze politiche, si fermava spesso in un caffè davanti all’università, a guardare la vita che gli scorreva davanti.

Ancóra è il suo secondo romanzo con cui ha vinto il Prix Mèdicis 2015. Gazâ, questo il nome del protagonista, ha vissuto una vita durissima senza madre e con un padre, Ahad, trafficante di migranti, un passeur, ovvero un trasportatore di persone disperate in un camion fino agli imbarchi sulle rive dell’Egeo. «Uno dei mestieri più infami del mondo».

Per Ahad non sono persone ma merci. Li carica sul furgone e li nasconde sottoterra nella cisterna del suo giardino controllata da Gazâ. Ed è questa umanità dolente, terribilmente attuale, al centro del romanzo. Sono i profughi che sbarcano in Turchia e si disperdono in Europa. Sono rassegnati, umiliati, disumanizzati. La Turchia è divenuta negli ultimi anni, soprattutto a seguito della guerra in Siria, uno dei principali gestori dei flussi migratori da Asia e Medioriente verso l’Europa: «La differenza fra l’Oriente e l’Occidente è la Turchia. Non so se sia il risultato della differenza tra Est e Ovest, ma la distanza fra di essi è grande quanto la Turchia […] Il nostro paese è un ponte antico, con un piede scalzo a Oriente e l’altro infilato in una scarpa a Occidente, da cui transita qualsiasi merce illegale. Per il nostro ventre passa ogni cosa. Specialmente gli uomini chiamati clandestini…E noi facciamo del nostro meglio…Li ingoiamo e, per non strozzarci, li mandiamo via. Là dove devono andare…».

Sono afghani, pachistani, siriani e iracheni, che in turco conoscono una sola parola, Daha, “Ancóra”, ancora acqua, ancora cibo, ancora aria.

Il libro è stato pubblicato in Turchia nel 2013, quando le cose atroci che lo scrittore ha immaginato sembravano solo fiction. La realtà ha di molto superato la fantasia come possiamo quotidianamente vedere in tv. A offrire lo spunto per Hakan Günday sono state poche righe di un giornale sull’arresto, in una piccola città turca affacciata sul mar Egeo, di una banda di malfattori. Fabbricavano giubbotti di salvataggio pieni di segatura, che non potevano galleggiare, per venderli alle famiglie di clandestini che cercavano di raggiungere la Grecia su imbarcazioni di fortuna.

È una storia di puro orrore, narrata con lucida ferocia, dove non si trova altro che buio, una storia piena di puntini di sospensione per la materia scivolosa e inenarrabile che tratta. La realtà è oscena. La deriva non risparmia nulla e nessuno, una realtà pesante come l’aria da respirare di una speranza guasta. In questo contesto il protagonista cresce, travolto e contaminato dal male e dalla violenza. Chi intende fare la sua conoscenza si troverà di fronte a uno degli sguardi più visceralmente cinici e gelidamente accurati che nella letteratura attuale si posa sull’inconveniente di essere nati.

Perché il male è irresistibile? Perché tutti mentono, tradiscono, corrompono, evitano responsabilità e si fanno complici di delitti?

Gazâ è senz’altro anche una vittima: vissuto senza madre, fin da bambino è stato costretto dal padre Ahad (daha al rovescio) ad aiutarlo nel commercio di esseri umani. È cresciuto in un ambiente completamente permeato dalla violenza, quella fisica esercitata sui migranti e quella psicologica esercitata su di lui. Ma è anche un terribile carnefice: in una scena minaccia di annegare tutti i clandestini nascosti nella cisterna installata nel suo giardino pur di ottenere un rapporto sessuale con la profuga più bella del mondo: «Loro pensavano che io fossi un mostro e io lo diventai».

L’unico gesto di umanità proviene da Cuma (“Venerdì” in turco, che richiama non tanto il personaggio di Daniel Defoe quanto quello di Celine), un prigioniero afghano ucciso per asfissia da una dimenticanza del ragazzo (si accorge di non aver acceso il ventilatore nel camion che lo doveva trasportare verso la salvezza, ma ormai è troppo tardi per evitare la tragedia). Prima di partire, l’uomo gli aveva regalato un origami, una piccola rana di carta che farà da guida a Gazâ durante la sua odissea, verso una possibile redenzione da tutto il male fatto e subito. La voce di Cuma, portavoce della coscienza del protagonista, costringerà Gazâ nei momenti più duri della sua esistenza a confrontarsi con se stesso, in un dialogo che si svolge tutto all’interno della sua testa.

Ancóra è un ininterrotto monologo, quasi urlato, cosparso come è da punti esclamativi, dove Gazâ si confessa usando un linguaggio furioso. Tutto il racconto non concede nulla all’empatia, anzi è respingente e a volte insopportabile. Sono pagine sconvolgenti, eppure terribilmente efficaci. L’unico interesse che il ragazzo nutre per quell’ammasso di carne umana è puramente scientifico.

In realtà, Gazâ non è affatto un bruto ignorante come il padre. È intelligente e bravo nello studio. Il suo desiderio è fuggire per andare a studiare all’università in Inghilterra. Ma Günday manda in frantumi il classico schema del ragazzo che si salva attraverso l’istruzione. Al contrario, la sua genialità e la sua sete di conoscenza lo portano ad essere persino peggiore del padre: «Non c’era alcuna differenza tra me e Ahad. Non mi importava niente di ni niente, proprio come a lui. Mi ci voleva un po’ di tempo per accettare questa realtà, tutto qua. Ci vuole tempo per abituarsi non solo al mondo esterno, ma anche a sé stessi».

È un vortice di Male che si autoalimenta. Costringe gli uomini e le donne rinchiusi a una specie di mostruoso esperimento sociologico, registrandone con cura, attraverso un sistema di telecamere, proprio come un entomologo osserverebbe un formicaio, le reazioni di fronte a situazioni di pericolo di esseri umani talmente disperati da rinunciare ai propri diritti più elementari pur di fuggire dall’orrore e la povertà sofferte in patria, dilaniata da decenni di guerra civile, per capire come si comportano gli esseri umani e quanto riescano a sostenersi o a scannarsi. Ne ricava persino un saggio dal titolo paradigmatico La forza del potere, ossia il potere di vita o di morte in mano ad un adolescente. Da questo campo di osservazione antropologica privilegiato, giunge dunque a una cruda filosofica visione della società come hobbesiana guerra di tutti contro tutti, dove la sottomissione al dominio è fondata sulla paura.

È a questo punto del romanzo che la tensione accumulata esplode. Gazâ precipita insieme al padre con un carico di clandestini in un precipizio. Muoiono tutti tranne lui che rimane per 13 giorni sepolto da quegli stessi corpi che aveva imprigionato. È l’inferno. Quando si risveglia in un letto di ospedale e apprende della morte del genitore, capisce di essere finalmente libero e di poter così iniziare una nuova vita. Ma il livello di corruzione morale raggiunto sembrerebbe non consentire il lieto fine. Gazâ impazzisce. Nell’ospedale psichiatrico in cui viene rinchiuso, il suo vicino di letto Şeref gli chiede: «Quindi quand’è che il male si trasforma in bene? Dove? Perché il male si trasforma in bene, giusto? Secondo te non è così?». Günday non fornisce risposta a queste domande. L’esergo di Rimbaud («L’unica cosa insopportabile è che nulla è insopportabile») rivela che di intollerabile a questo mondo non c’è proprio nulla, che ci si adatta anche alle atrocità più impensabili, che persino un bambino può diventare un mostro.

 

(Hakan Günday, Ancóra, trad. di Fulvio Bertuccelli, Marcos y Marcos, 2016, pp. 500, euro 18)
L’uomo del futuro di Eraldo Affinati copertina su Flanerí

“L’uomo del futuro”
di Eraldo Affinati

Quando lo scorso 15 giugno è stata votata a Casa Bellonci la cinquina finalista del tanto prestigioso quanto dibattuto Premio Strega, Eraldo Affinati e il suo L’uomo del futuro (Mondadori, 2016) si sono guadagnati la seconda posizione con ben 160 voti a favore, tutti meritati. Sì, perché si tratta di un libro narrativamente innovativo, che s’innalza rispetto al vasto mare di tanta narrativa odierna che fa della spettacolarizzazione del sentimento il proprio cavallo di battaglia. E in questo caso, di materia del genere ce ne sarebbe stata fin troppa.

L’uomo del futuro che declama il titolo a caratteri verdi è il celebre don Lorenzo Milani; Affinati ha cercato di ricomporre il puzzle della sua esistenza inseguendo i luoghi che lo hanno visto crescere, lavorare, dedicare la vita agli altri e a Dio: dalla natia Firenze alla Milano degli anni Trenta, dal periodo in cui manifestava le sue velleità pittoriche alla vocazione, dalle sfarzose ville di campagna di Montespertoli e Castiglioncello all’esperienza clericale presso San Donato di Calenzano e Barbiana, per ritornare poi a Firenze, l’ultimo tassello che chiude il cerchio della vita del sacerdote proprio nel punto in cui si era aperto.

Affinati arricchisce il suo già folto curriculum con un nuovo romanzo, che grazie all’uso di un’avvincente tecnica narrativa, che si può dire lo renda quasi un unicum nel panorama narrativo contemporaneo, non finisce per essere l’ennesimo saggio sul prete di Barbiana. Ciò che desta di più l’attenzione è l’uso magistrale di un narratore che espone le vicende in seconda persona, rivolgendosi direttamente a un “tu” che va alla ricerca del passato di don Milani. E se all’inizio si ha coscienza che questo “tu” sia proprio l’Affinati-personaggio, già alla decima pagina si avverte l’impressione che in realtà quel “tu” sia un “noi”, e il lettore inderogabilmente diviene il personaggio di una storia che vive indirettamente.

L’autore, ripercorrendo le tappe più significative della vita di don Milani, chiama a testimoni le persone che gli sono state vicine, sia studenti che colleghi, i carteggi, depositari dei rapporti più intimi e privati, nonché le opere del prete stesso, che più di tutto rendono giustizia al suo credo, sia religioso che umano. Figura ribelle sin da bambino, che non riusciva a vestire i panni dell’uomo rispettoso delle regole, ha votato la sua vita agli altri, fino all’ultimo respiro, quando al capezzale ha voluto attorno a sé i suoi ragazzi, perché si trovassero faccia a faccia con la morte, preparandoli così alla vita.

E oggi la Barbiana dove ha operato Lorenzo esiste ancora, ma «non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è una comunità musulmana, Barbiana è nell’America latina», è anche a Roma, dove in nessuna parrocchia si riesce a trovare un’aula in cui insegnare l’italiano a chi ne ha bisogno: sono tutti quei luoghi difficili che Affinati racconta in capitoli alternati a quelli dedicati alla ricerca di don Milani.

Dopo tutti questi discorsi, facciamoci una domanda che sicuramente ci siamo posti sin da quando abbiamo squadrato la copertina: perché pubblicare un libro su don Milani l’anno precedente al cinquantesimo anniversario della morte? Perché non aspettare un altro po’? E diamoci anche l’unica risposta possibile, la più semplice: per l’urgenza della materia, per la necessità di raccontare un’esperienza passata che possa aiutare ad affrontare il futuro. Qui e ora, quando ne abbiamo più bisogno.

 

(Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, 2016, pp. 180, euro 18)
L’addio di Antonio Moresco copertina su Flanerí

“L’addio”
di Antonio Moresco

«Mi chiamo D’Arco, e sono uno sbirro morto». L’eroe fragile dell’ultimo romanzo di Antonio Moresco, L’addio (Giunti, 2016), primo degli esclusi dalla cinquina del Premio Strega 2016, non senza polemiche, si presenta con poche e apparentemente lineari parole, ma bastano alcune pagine per accorgersi che quella linearità è fugace e ingannevole, e che la posta in gioco è un’altra. Ed è vertiginosamente alta, perché in L’addio c’è un concetto di tempo che si avvolge su se stesso, la duplicità della città – dei vivi e dei morti – e un male incistato che non ha soluzione. Moresco si getta nell’abisso dell’uomo che genera una violenza tanto intensa da essere esasperante per gli stessi carnefici; in una malvagità intrinseca che auspica il proprio sfogo nella macabra macchina di uno sterminio fisico, ma anche sessuale e psicologico, sistematico e organizzato. E questa volta le vittime non sono “altro dai persecutori”, non un popolo, non i fedeli di una religione: le vittime sono quei bambini che ogni giorno incontriamo in strada, sono i nostri figli. Letteralmente, perché nella scrittura di Moresco nemmeno le madri hanno minori colpe. Il mondo di L’addio è una megalopoli planetaria di un futuro non troppo remoto, in cui i lunghi viali soffocano sotto i grattacieli. La sensazione è che lo spazio per la vita serena venga a mancare, in questa megalopoli che si estende a perdita d’occhio, tutta tesa verso i quattro punti cardinali e stracciata verso l’alto. È ovunque, la città, anzi, le città, quella dei vivi e quella dei morti, con la seconda infinita e in continua crescita, come fosse un universo in espansione fatto di alveari di cemento, affollati e lugubri, in cui i defunti non hanno requie, perché la morte è un mondo identico a quello dei vivi. È questa l’eternità della condanna: la morte che è già nella vita.

E se davvero è così, cosa viene prima e cosa dopo? Dov’è l’origine del male? È nella vita o nella morte? O dalla morte torna nella vita? Sono queste le domande, continue, assillanti, che si trovano in quasi tutte le pagine del libro con una ridondanza tale da gettare nell’inquietudine, costringendo a una lettura tutta scatti e sussulti, che abbisogna di un fisico partecipe. Ma le domande restano sempre le stesse, ripetute come un mantra, come una litania laica che non ha pausa per respirare e farsi teorema. È difficile leggere L’addio se non si determina il limite preciso di tematiche gravi e profonde, al di qua delle quali esiste il personaggio D’Arco e la sua mai meditata, mai soppesata, e in qualche modo entusiastica scelta di prender parte a una missione sanguinosa: tornare nella città dei vivi e vendicare tutti quei bambini uccisi dalla barbarie. Una missione «senza speranza» nella quale si lancia con un’incoscienza insolita per un veterano, obbedendo alle indicazioni di un personaggio di cui il protagonista non conosce che la sagoma.

Senza speranza, si diceva, ma con un arsenale a disposizione che conta «due pistole, un fucile di precisione, un mitra con visore notturno e mirino laser, una mitragliatrice a canne rotanti su treppiede, nastri, caricatori, una balestra a infrarossi, frecce, un coltello e una spada corta, un gps con le tracce già caricate» e un cannone. È il menù di un libro rumoroso, che una volta chiuso costringe i timpani a vibrare oltre, per lo scoppio di migliaia di colpi di mitra e il diluvio di bossoli sul pavimento; un libro in cui si perde il conto dei morti ammazzati da D’Arco, uomini sorpresi nel compiere i loro riti barbarici, fulminati dalla rabbiosa disperazione del personaggio vendicatore. Li vediamo accasciarsi uno dopo l’altro, livello dopo livello, come in un videogioco. Assistiamo alla caduta del protagonista – che perde i sensi ferito – ma appunto come in un videogioco il combattimento non ha fine se non quando D’Arco, dopo aver attraversato disorientanti corridoi, incontra il mostro finale, l’Uomo di luce.

Non basta, dunque, rendersi conto che le parole dei singoli carnefici, se lette come un corpus unico, compongono la narrazione di un male sotterraneo che potrebbe erompere, prima di quanto si possa immaginare, nel nostro mondo: in quello spicchio di realtà che ogni mattina vediamo fuori dalla finestra. Si tratta di un male che si alimenta con l’idea che «i comportamenti delle donne e gli uomini di questa specie non sono diversi da quelli dell’ultima colonia di scimpanzé. […] Tutto il resto, quelle cose che hanno chiamato sentimenti, ideali, amore, sono solo chiacchiere di copertura e inganni su cui hanno costruito quella grande menzogna che hanno chiamato civiltà». Non basta rendersi conto che la città di Moresco è sì una megalopoli del futuro, ma non così dissimile dalle immense conurbazioni che già conosciamo. Non basta, se la gran parte della lettura è spesa rincorrendo raffiche di domande troppo uguali e corpi che cedono alla morte abbattuti da proiettili di un qualche calibro, o sviscerati da una qualche lama.

Sopito il caos della battaglia, spente le luci accecanti del videogioco, sopravvive la messa in guardia, l’allerta, il grido d’aiuto che l’autore lancia ai membri, ai custodi quali tutti siamo della nostra specie. È questo l’addio di Moresco, quello diretto al lettore a mo’ di prologo, e non è dato sapere se si trasformerà in un arrivederci, ma se così non fosse sarebbe allora un addio a una società che davvero non ha ragion d’essere: «Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come sono configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene immiserita e rimpicciolita, anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni anelito si trasforma in delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la ristrettezza di orizzonte, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione».

 

(Antonio Moresco, L’addio, Giunti, 2016, pp. 288, euro 15)
Il grande animale di Gabriele di Fronzo Flanerí

“Il grande animale”
di Gabriele Di Fronzo

In Il grande animale (Nottetempo, 2016), il romanzo d’esordio di Gabriele Di Fronzo, il protagonista Francesco Colloneve, tassidermista di professione, ha trasformato la sua casa in un laboratorio, imparando a imbalsamare, con i dovuti accorgimenti, tutti gli animali che gli vengono commissionati. Il suo lavoro, per riprendere le sue parole, «ha a che fare con la parte viva dei morti». È in questa frase si condensa il télos principale della storia: il tentativo di soffiare un po’ di vita nella morte per combattere l’inesorabile ingresso della morte nella vita.

Per questo motivo, su un primo piano narrativo – la storia di una vita e di un mestiere, quello del tassidermista – s’innesta una seconda storia: il rapporto con il padre. Aspettando di essere accolto in un centro di riabilitazione, il vecchio padre domanda al figlio di trasferirsi a casa sua, per «aiutarlo nel dispiegare la sua faticosa quotidianità»; e il figlio, eleggendo uno stanzino a nuovo improvvisato laboratorio, acconsente alla richiesta. Da qui in avanti i due piani s’incrociano e si inseguono, con punti di contatto che ne sfilacciano i contorni, favorendo slittamenti sinistri: «Fossi stato bravo» dice Colloneve a un tratto, immaginando il padre che gli vive accanto né più né meno che come uno dei suoi animali, «avrei conferito a mio padre la postura eretta da uomo adulto, fossi stato davvero bravo avrei fatto così».

Questo gioco di rincorsa non sarebbe possibile, però, senza chiamare in causa il terzo livello della storia: la scrittura. Il grande animale, infatti si dispiega attraverso una narrazione che procede per brevi paragrafi numerati, piccoli ritratti che richiamano, per accuratezza e ritmo, la serie di incisioni a cui il tassidermista si presta in fase di lavoro, quella «filiera organizzativa», per riprendere le parole di Colloneve, che egli conosce nei minimi dettagli e non esita a presentare. Quest’approccio narrativo da un lato priva il racconto di un unico ininterrotto respiro, dall’altro, però, è un’ulteriore chiave di accesso al mondo del protagonista, perché si adagia totalmente sul suo personaggio, sui movimenti e le idiosincrasie che gli sono propri: procede per enumeratio (l’elenco sul corredo usato dal tassidermista, su ciò che il padre tiene nella tasca dell’accappatoio, l’elenco delle volte in cui il padre, molti anni prima, ha inflitto su Colloneve bambino le sue frustrazioni, sono solo alcuni esempi) ed è costruito su una sintassi certosina, che talvolta chiede al lettore di fare uno sforzo, di non correre, di procedere con la lentezza del tassidermista, oltre che su un lessico esatto e a tratti desueto, come desueto è il campo di forza attorno a cui gravita la vita di chi racconta. C’è una ricerca enorme, dietro alla scrittura del Grande animale – leggetevi, se siete interessati, il pezzo che Di Fronzo ha scritto per Rivista Studio qualche settimana fa e che permette di entrare dietro le quinte del suo mestiere.

Quando, a circa due terzi del romanzo, i due piani narrativi collidono – e il punto di fusione non può non chiamare in causa la morte, umana però, prima che animale – Di Fronzo architetta con grande maestria l’ultima necessaria operazione. Per comprendere il grande movimento finale, il lunghissimo processo di spoliazione che investe le ultime sessanta pagine del romanzo, bisogna tornare, guarda un po’, alla prima incisione della storia: «Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c’era in precedenza, occorre sempre togliere: solo così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre».

Walter Benjamin, nel 1936, scriveva che nella coscienza comune l’idea della morte ha perso progressivamente la sua onnipresenza e la sua icasticità, e, allontanandosi da essa, l’essere umano, volente o nolente, ha preso le distanze dalla stessa idea di narrazione. E allora Di Fronzo, per tutta la lunghezza del romanzo, cammina con lentezza sul crinale sottile che unisce, e non separa, la vita dalla morte.

 

(Gabriele Di Fronzo, Il grande animale, Nottetempo, 2016, pp. 161, euro 12)
Poster di Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater Flanerí

“Tutti vogliono qualcosa”
di Richard Linklater

Richard Linklater ritorna a raccontare i momenti di svolta della vita con Tutti vogliono qualcosa, apprezzatissimo racconto di formazione, o coming of age, che segue il primo fine settimana al college di Jake Bradford e di quelli che presto diventeranno i suoi amici più cari.

Dopo il racconto fluviale del pluripremiato Boyhood, Linklater si concentra di nuovo su un momento di passaggio, tornando indietro nel tempo al 1993 di La vita è un sogno, il film che per primo aveva imposto il regista texano come grande narratore dei momenti di svolta.

In qualche modo, per come lo ha definito lo stesso Linklater, Tutti vogliono qualcosa è il seguito spirituale di La vita è un sogno: si passa dall’ultimo anno di liceo al primo fine settimana al college prima dell’inizio delle lezioni, dal 1976 all’estate del 1981, quando Jake Bradford (interpretato da Blake Jenner) si trasferisce alla Southeast Texas State University per iniziare il college. Andrà a vivere in una casa poco fuori dal campus insieme agli altri membri della squadra di baseball. Hanno tutti una borsa di studio, hanno tutti il potenziale, e l’ambizione, per diventare dei giocatori professionisti. La vita insieme è un concentrato di competizione e cameratismo, con il desiderio perenne di conquistare qualche ragazza e bere il più possibile. A Jake basta quel primo fine settimana, in attesa che la sua vita universitaria inizi veramente, per capire tante cose di se stesso e del mondo in cui sta entrando.

Se ci si ferma al primo livello di visione, Tutti vogliono qualcosa può sembrare tranquillamente una forma meno volgare dei college movie di culto di fine anni Settanta, Animal House in testa, o di quelle commedie adolescenziali di enorme successo che hanno trovato in American Pie il loro capostipite in tempi più recenti. Tra testosterone, ossessione per il sesso e per le ragazze, alcol, feste, deliri, sballi, annessi e connessi, siamo esattamente in quel territorio, solo che ci siamo in una forma, e con una sostanza, che ha molto di più da offrire di quello che può sembrare a una visione più distratta.

Richard Linklater si è confermato con Boyhood un maestro nella capacità di raccontare la vita per quella che è, senza bisogno di colpi di scena, per assurdo senza bisogno degli artefici cinematografici della costruzione narrativa. È il regista (e sceneggiatore) che più di qualsiasi altro oggi riesce a fondere l’immaginario statunitense classico con la sensibilità del cinema europeo, in particolare di quello francese di Truffaut o di Eric Rohmer. Le pagine su cui preferisce scrivere sono quelle dell’adolescenza, del passaggio dalla boyhood</> alla adulthood in cui tanti si perdono alla ricerca di un’identità.

In Tutti vogliono qualcosa i protagonisti sono tutti maschi di una certa bellezza, molto atletici e fisici, repliche di quell’immaginario portato avanti dal cinema a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta che ha consacrato il modello del “bravo ragazzo americano” e delle sue derivazioni machiste alla Burt Reynolds (e c’è il McReynolds di Tyler Hoechlin che ne è proprio il calco) o intellettuali (il Finnegan, alla Joyce, tutto pipe e pippe logorroiche, di Glen Powell). Il repertorio classico del college movie, però, serve a Linklater da pretesto per parlare di molto altro.

Siamo alla fine dell’estate del 1981, e non è un periodo scelto a caso dal mucchio degli anni. Pochi mesi prima, a giugno, si era insediato alla Casa Bianca l’ex governatore della California, ed ex attore, Ronald Reagan. Gli anni Settanta erano finiti, era finita l’epoca d’oro della disco music, il punk stava arrivando e la società statunitense era prossima a un cambiamento molto più profondo.

Gli anni Ottanta, soprattutto quelli degli Stati Uniti, sono gli anni dell’edonismo, della “Reagonomics”, dell’individualismo, gli anni degli yuppies rampanti, dell’American Psycho di Bret Easton Ellis, del successo cannibale, della spersonalizzazione, della fine delle ideologie, della spettacolarizzazione della cultura pop.

L’arrivo al college di Jake è un momento di svolta non solo per lui, ma per tutto il Paese. La competizione è il motore del cambiamento, l’unica vera forza per l’azione. Non c’è spazio per il passato per la lezione degli anni Settanta del pacifismo, degli hippie, c’è un cambiamento in corso in cui l’unica cosa che conta è essere i migliori.

I ragazzi di Tutti vogliono qualcosa vagano alla ricerca del loro posto, cambiando locali, generi musicali, look, cercando un’identità in un’epoca che ancora si deve definire esattamente come loro. Sono soli, ma sono soli insieme, e questa è l’essenza della vita secondo Richard Linklater.

(Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater, 2016, commedia, 116’)

 

Maria di Ísili copertina romanzo Flanerí

“Maria di Ísili”
di Cristian Mannu

Maria di Ísili di Cristian Mannu (Giunti, 2016) è una di quelle storie che intrecciano disperazione e lirismo in un connubio che mette di malumore. È una saga generazionale nella quale i protagonisti sembrano nati per l’infelicità, e coerentemente vivono gran parte della propria vita all’insegna della disgrazia, finendo per capitolare verso una morte in linea con il leitmotiv di dolore. A rendere ancora più sofferente la lettura, una narrazione a più voci, in prima persona e organizzata per flussi di coscienza, che costringe il lettore a numerose pause per riprendere fiato e dedicarsi ad attività che ne risollevino il morale.

Alcune premesse per un romanzo interessante, che ha convinto la giuria del Premio Calvino di cui Mannu è stato vincitore nell’edizione 2015, ci sono: una donna che in un periodo del Novecento imprecisato si trasferisce dalla Sicilia alla Sardegna, una fuga d’amore verso Cagliari per due amanti del Sarcidano, una ragazza milanese che torna a Ísili per mettere radici e ristabilire un po’ di equilibrio nel passato familiare fatto di memorie malsane. Ma un buon racconto dovrebbe dosare meglio la distribuzione dei sentimenti, e narrare la sofferenza mantenendo un tono di pathos costante è un espediente letterario un po’ disonesto. Alla letteratura spetta esplorare varie sfaccettature delle passioni umane, e quando si calca la mano solo sul lato oscuro dell’esistenza ne risulta una narrazione a metà, che non resta nella memoria perché non smuove la psiche su più piani.

Curiosi e coinvolgenti i riferimenti del libro alla comunità dei ramai di Ísili: di origine rom o ebrea, questi artigiani ormai stanziali parlano un dialetto peculiare, il romaniska, e per anni hanno venduto pentole e altri oggetti in rame su carri itineranti in giro per la Sardegna. Antonio Lorrài, lo zingaro bello che piace alle donne e sarà causa di amore e sventura per due di loro nel romanzo, rappresenta per molti aspetti lo stereotipo letterario dello spirito gitano, libero e passionale ma destinato alla rovina, sua e di chi lo segue.

A livello sintattico merita apprezzamento il cambio di registro linguistico che si adegua alla condizione sociale e caratteriale dei personaggi: dai toni popolari in italiano regionale della levatrice Salvatorica Carboni al ritmo poetico e forse troppo teatrale di Maria, ogni voce di questo racconto corale è stata limata e plasmata attorno all’idea dell’uomo o della donna che ne fa uso. Dietro questa scelta c’è uno studio attento, che garantisce una struttura stilisticamente coerente e ben pensata.

In Maria di Ísili, l’evoluzione verso il positivo delle ultime pagine non riesce comunque a compensare una trama eccessivamente squilibrata e appesantita dal patimento, e terminata la lettura resta un sapore amaro in bocca.

 

(Cristian Mannu, Maria di Ísili, Giunti, 2016, pp. 160, euro 14)
Goodness dei the Hotelier Flanerí copertina

“Goodness” dei The Hotelier

Qualche volta basta una fotografia a far partire tutto. In questo caso la copertina di un disco. Una casa bianca, pieno stile americano del Sud, un tetto blu scuro con il prato verde davanti. Sulla parte frontale una scritta in vernice nera: Home, Like No Place Is There, titolo del secondo – celebratissimo – disco degli Hotelier, The Hotel Year. Vidi lo scatto in un articolo straniero di qualche anno fa sulle più promettenti band americane in circolazione e fu amore a prima vista. O ascolto, fate voi. Spero sia una conoscenza gradita anche per voi, soprattutto alla luce della bellezza dell’ultimo Goodness.

Ora, non vi spaventate: se sono stato abbastanza bravo in questo articolo da farvi venir voglia successivamente di approfondire la tematica, vi accorgerete che gli Hotelier vengono considerati una band emo. Dopo troverete termini più gradevoli come punk o rock, ma inizialmente la parola è proprio quella. Non preoccupatevi: siamo lontani dalla scena di inizio millennio a cui tutti – giustamente –  pensiamo. Quel periodo è passato, quella moda commerciale costruita per sfruttare a livello di vendite di dischi il perenne disagio degli adolescenti non c’è più. I cantanti truccati (male) alla Robert Smith e le urla esagerata sono svanite, la patina oscura, il luccichio minaccioso e la plastica tetra sono andati via. È rimasta solo l’emo–tività. Per fortuna. Il termine non è più dispregiativo e molti colleghi degli Hotelier hanno creato una scena molto più intensa e piena di dischi importanti. Lontano dalle logiche delle major e dai bisogni del pubblico, esistono gruppi che con intensità e bravura raccontano tutte le piccole grandi tragedie dell’animo umano. I The Hotelier con il loro ultimo Goodness proseguono magnificamente il percorso.

L’impatto è immediato. Batteria, chitarra, voce punk-rock a livello musicale, case delle vacanze estive, storie finite male, incomprensioni e amare riflessioni a livello testuale. In Goodness c’è una canzone dal titolo molto significativo: “Opening Mail For My Grandmother”. Mi ci soffermo perché incarna alcuni aspetti molto significativi della band di Worcester, Massachusetts. Abbracciati da un suono estremamente gradevole nonostante la sua scarnezza, c’è quel recupero sentito ma mai banale dell’adolescenza, dell’infanzia, quel rifugiarsi nella fanciullezza per scappare da un mondo troppo adulto e sporco. L’aspetto che apprezzo molto del loro stile è che per quanto la parte strumentale sia ruvida, impetuosa ed essenziale questa si combina perfettamente con la delicatezza e quasi l’accortezza con cui i sentimenti e le emozioni vengono espresse.

Anche i The Hotelier spesso urlano (come nel finale di “Sun”), supportati da riff affilati, taglienti ritornelli e una batteria che non molla mai (sentite “Soft Animal” o “You In This Light”): ma non sono sfoghi senza senso, anzi, sono una dimensione necessaria, uno schiaffo, una protesta davanti all’incedere ingiusto della realtà. Una serie di brani diretti e sinceri per chi nonostante il sole, le spiagge e le vacanze ha sempre un po’ di tempo da passare in compagnia dei propri sentimenti. Lontani dai più immediati e sbagliati pregiudizi, avrete modo di conoscere e gustare un lavoro profondo, empatico e diretto, alternando momenti furiosi ad altri dove dovrete trattenere le lacrime.

P.S.: volete sapere come nasce lo scatto che fa da copertina a Goodness? Perfetto, basta vedere come va a finire il video del primo singolo–teaser “Goodness Part.1“.

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout Flanerí

“Mi chiamo Lucy Barton”
di Elizabeth Strout

È uscito all’inizio di maggio Mi chiamo Lucy Barton, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, la scrittrice premio Pulitzer nel 2009 per Olive Kitteridge, diventata nell’arco di cinque libri in diciotto anni uno dei più importanti punti di riferimento della narrativa contemporanea.

Per i lettori affezionati, la prima cosa che salta all’occhio di questo nuovo romanzo è il cambio di casa editrice, da Fazi a Einaudi. Per quelli più attenti, poi, si passa a notare il cambio di traduzione, affidata questa volta a Susanna Basso dopo che gli ultimi tre libri erano stati curati da Silvia Castoldi (il romanzo d’esordio, Amy e Isabelle, lo aveva tradotto Martina Testa). A non cambiare, ed è la cosa che conta, è la grandezza del materiale narrativo.

Lucy Barton è ricoverata da tre settimane in un ospedale di New York che affaccia sul Chrysler Building. All’inizio doveva trattarsi di una banale appendicectomia, poi ci sono state complicazioni, febbre e un’infezione, e il mistero su quando potrà uscire. Un pomeriggio, spostando lo sguardo dalla finestra al centro della stanza, trova sua madre seduta ai piedi del letto. Non si vedono da anni, ma basta un piede strizzato sopra il lenzuolo e un saluto, «Ciao bestiolina», per rimuovere il silenzio. Non c’è la distanza del tempo e dello spazio, tra Lucy e sua madre, quella che va da New York ad Amgash, la piccola comunità rurale dell’Illinois dove è cresciuta e dove la madre vive ancora, quella che separa la vita di una donna diventata adulta, con un marito e dei figli che la aspettano a casa, con un ambizione da scrittrice da coltivare, dall’infanzia di miseria che Lucy ha vissuto.

Non era una vita facile quella ad Amgash, in un garage senza riscaldamento, con un padre con accessi di violenza senza un motivo e la madre sempre pronta ad assecondarlo. «Come sai come sei fatto se l’unico specchio che c’è in casa è un caso piccolissimo impiccato sopra il lavello della cucina, o se non hai mai sentito anima viva dirti che sei bella»? Eppure bastano quei giorni insieme all’ospedale per rimuovere ogni ricordo doloroso. La vita di Lucy si è sempre accontentata di piccoli segnali di affetto per trovare l’amore nell’indifferenza, come quel piede strizzato, o trovare la sala tac nel labirinto dell’ospedale, o una mela candita in una fiera di paese.

La grandezza della scrittura di Elizabeth Strout, da sempre, è nelle piccole cose, nella capacità di elevare a simbolo il dettaglio più insignificante, nel riempire di storia il quotidiano. Mi chiamo Lucy Barton conferma la capacità unica della scrittrice del Maine di raccontare la vita nella sua forma più simile alla realtà.

Il conflitto è uno degli elementi fondamentali dei lavori di Strout e ancora una volta al centro del romanzo finisce un rapporto madre-figlio con tutte le sue difficoltà, nei silenzi che si accumulano lungo le distanze di tempo e strada. Il dubbio di Lucy è il dubbio di tutti i figli: è meglio tacere con i genitori, non far conoscere il proprio risentimento, o è meglio chiedere perché c’è stato il male, come è stato possibile. Nella letteratura di Elizabeth Strout i figli sono sempre vittime pazienti di genitori, basta pensare a Christopher, il figlio vittima di Olive Kitteridge.

Per la prima volta, Elizabeth Strout parla direttamente di scrittura e del mestiere di scrittore in uno dei suoi libri. Lucy è una giovane scrittrice con qualche racconto pubblicato. Quello che sa sulla scrittura lo impara (anche) grazie a una romanziera di successo, Sarah Payne, che incontra per caso «in uno di quei negozi di abbigliamento per cui New York è famosa» e poi partecipando a un suo seminario. È Sarah Payne a spiegare a Lucy come affrontare la scrittura, è lei a dire ai suoi studenti che ciascuno di loro «ha una sola storia», che scriveranno quell’unica storia in molti modi diversi. «Non state mai a preoccuparvi per la storia. Tanto ne avrete una sola».

Forse anche Elizabeth Strout scrive sempre la stessa storia, una storia di madri e figli e del loro rapporto difficile, di anni che aggiungono strati di distanza in cui è sempre più difficile scavare per raggiungersi. Ogni volta che lo fa è un capolavoro.

(Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2016, pp. 160, euro 17,50)

 

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La banda tevere copertina Flanerí

Roma è una città immaginaria: intervista a Yari Selvetella

«Che tu possa vedere nulla di più grande della città di Roma», si era partiti così. Che Roma sia grande, nessuno sembra averlo messo mai in dubbio. Da Goethe, che arrivando nella capitale del mondo disse di essere tranquillo e acquietato per tutta la vita. «Tutto è come lo immaginavo», diceva, «tutto è nuovo. Non ci deve abbattere il pensiero che la grandezza è passeggera». Oggi si parla della Roma delle periferie, della Roma slabbrata e incapace di contenere, della Roma abusata e del suo tramonto. Yari Selvetella (1976), giornalista e scrittore, ha raccontato la Roma del crimine con la trilogia saggistica composta da Roma criminale (Newton Compton, 2009) – scritto a quattro mani con Cristiano Armati –, Banditi, criminali e fuorilegge di Roma (Newton Compton, 2010) e Roma. L’impero del crimine (Newton Compton, 2011) e con i romanzi Uccidere ancora (Newton Compton, 2009) e La banda Tevere (Mondadori, 2015, pp. 246, euro 17). Protagonista dell’ultimo romanzo è Mario Urbani, detto Tevere perché un giorno si buttò nel fiume da ponte Sant’Angelo. Tevere ha cinquant’anni, è povero e fresco di galera. Ha tutta la voglia di vivere, finalmente, una vita pacata e tranquilla nella sua baracca a Tor de’ Schiavi, ma, per correre in aiuto al suo unico amore, la figlia Monya, dovrà reinventarsi e rimettere in piedi la vecchia banda. La banda Tevere è un romanzo che contiene in sé l’ironia della commedia italiana, la suspense del poliziesco e la nostalgia di Roma. Ho incontrato Yari per una breve pausa pranzo a Piazza Cavour.

 

Parliamo della tua città. Racconti la periferia, le borgate ai tempi della crisi. Ne metti in luce gli aspetti più cupi e logori. Un dipinto malinconico di quello che non è più, che vede solo antieroi e nessuna salvezza. Roma: amore o odio?

Ritengo che su Roma si siano stratificate delle narrazioni che hanno creato, come spesso accade, una città immaginaria, una nuova Roma degli scrittori che a differenza del passato – la Roma indolente, quella felliniana di La dolce vita, del “volemose bene” – si è ribaltata, tramutandosi in una Roma post-apocalittica. Con La banda Tevere ho voluto fare un’operazione di mediazione fra queste due città. Se ci pensi, L’orologio di Levi o La dolce vita e La grande bellezza non sono opere di romani. Roma è una grande metafora e ognuno ci proietta le proprie emozioni e debolezze. Roma è spesso un mezzo e raramente diventa un fine. Io ho creato dei personaggi e ho pensato di raccontarli non attraverso le tinte fosche ed eroiche che vengono normalmente usate per raccontare gli eroi neri della criminalità, ma tentando invece di restituire loro una verità attraverso il linguaggio della commedia. Così, ho voluto ambientare la mia storia in una periferia a ridosso del Raccordo Anulare, per raccontare di questa cintura di Roma.
Io la amo molto la mia città, ma sono arrivato a una sorta di saturazione. Tuttavia, nonostante la saturazione non riesco a non amarla. Il vero problema con Roma è che qualsiasi cosa tu voglia dire, è difficilissimo riuscire a non essere ridondanti. Mi piacerebbe togliermela dalla memoria e ricominciare a capirla adesso.

 

Gli scrittori raccontano la borgata nei propri libri, i registi vi ambientano i propri film. A volte sono focolai culturali, altre volte sono luoghi invivibili. Associazioni che aprono e associazioni che chiudono. Ultimamente Christian Raimo, con un articolo sulla Roma che muore, ha acceso un’intensa discussione sul tema. Sempre più spesso si parla delle periferie di Roma. Da dove nasce, secondo te, questa tendenza?

A settembre 2015 è uscito Non essere cattivo, poi Lo chiamavano Jeeg Robot e il film dei The Pills. Mi hanno fatto pensare che anche loro hanno guardato con un interesse più complesso le vicende della periferia e dei suoi personaggi. Sembra che uno sguardo su questi temi sia diventato necessario. Probabilmente, chi viene da fuori è in cerca di suggestioni che vengono dalla Roma di Pasolini, gentrificata, un po’ popolare e un po’ fighetta, sempre alla disperata ricerca di un’identità. A Roma c’è una scarsa consapevolezza di appartenere a una comunità. Proprio guardando a quest’altra Roma, penso che le possibilità di scolarizzazione, di vita sociale, di sport che vengono offerte siano sempre meno. Ci sono interi quartieri che vengono lasciati alla deriva. Chiude il teatro di Tor Bella Monaca ed è una perdita seria. Milioni di persone stanno crescendo analfabete, che ci sia un problema effettivamente è innegabile. Non c’è neanche un pubblico. Prima si era fatto un buon lavoro sui teatri di cintura, le biblioteche. Oggi, invece, la cultura è riservata a una piccola parte della città.

 

I luoghi di Roma che racconti: come li conosci?

Sono cresciuto a Due Leoni, quartiere di periferia attaccato a Tor Bella Monaca. Da ragazzi io e i miei amici avevamo l’idea di conquistarci Roma. Salivamo su uno di quegli autobus che ci mettevano due ore e mezza ad arrivare, ma almeno arrivavano. Oggi quest’idea non c’è proprio, in periferia c’è solo il senso dell’abbandono. Essendo di borgata, le borgate le conosco, la mia vera patria è proprio questo “non luogo”. La mia patria è la non patria. Ce ne stiamo sul confine, là dove la città comincia a essere composta da vuoti, ma allo stesso tempo ha un’identità forte.

 

Da dove nasce il tuo interesse per la criminalità?

Nasce tutto dall’ossessione per Roma. Non ero interessato alla cronaca nera ma pensavo che la storia del crimine fosse un modo per raccontarla. Quello che mancava a inizio degli anni duemila era una visione meno edulcorata di Roma. Della Roma criminale non si parlava mai. Roma era considerata città gaudente, sbracata, non si voleva raccontare del suo passato oscuro. Bracci ammazzata da un pedofilo, Giro Limoni, il caso Moro, le sorelle Cataldi: sono stati momenti in cui la città ha dimostrato qualcosa di sé. Io volevo raccontare la storia popolare di Roma e l’ho fatto attraverso il crimine.

 

Come è avvenuto il tuo passaggio dalla saggistica alla narrativa? Come nasce La banda Tevere?

Nel corso delle ricerche fatte ai fini di cronaca, alcune storie, anche storie marginali, mi hanno colpito talmente tanto che ho cominciato un po’ a vederle nella testa. Alcuni personaggi mi sono rimasti in mente per i loro nomi, per la particolarità delle loro vicende. Ho una lunga frequentazione di bar di periferia, di autobus, di persone che queste esperienze le hanno vissute davvero. Ho sempre cercato di non dimenticarmi mai dell’umanità, anche di chi sbaglia. Sono tutti dei falliti, ma sono anche tutte persone che, nonostante il fallimento, cercano una strada per darsi un’altra possibilità, un diritto che penso sia dovuto a ciascuno. E questa è la possibilità che ho dato a Tevere.

 

(Yari Selvetella, La banda Tevere, Mondadori, 2015, pp. 246, euro 17)
Magnifica copertina Flanerí

“Magnifica”
di Maria Rosaria Valentini

Cercavo un libro-tana. Sì, esattamente quello. Non un libro-scossa, e nemmeno un libro-ponte, uno di quelli pignora-pensieri che hanno solo il compito di traghettarti altrove. Cercavo la necessità di un bosco (non solo narrativo), le feritoie e gli orli di piante innominate e il bisogno infettivo di sentirmi analfabeta. Di stare ad ascoltare, arenata in mezzo ai rovi, un libro completamente amniotico, dove non dimenticarmi di niente, dove la perturbazione potesse accucciarsi e poi riecheggiare. E ho trovato Magnifica di Maria Rosaria Valentini (Sellerio, 2016). Matassa uterina. Storia composta da una donna e da tutte le donne di cui parla. Vicenda lunga, snodata su tre generazioni femminili.

Sul dorso appenninico, un paese imprecisato ospita a distanza di tre parti Eufrasia, Ada Maria e appunto Magnifica, che non è solo bella e deve per forza chiamarsi così.

La vita esterna in quello stomaco bussa a malapena: «Qualche acacia resiste ma a dominare è l’odore di calcinacci, di pietre, di sabbia, di terra franosa e di ferraglie. […] La fine della guerra è una curva quasi pigra di carri armati che se ne vanno,  mentre le vie tremano ancora. La gente ride e piange insieme. Alcune voci scoloriscono, altre riemergono da silenzi sotterranei». È un distretto indifferente, dipartimento di case avvizzite e vigili cortecce, dove è raro che ci si spettini d’ignoto. Ma non è vero che non succede niente. Succede quello che deve. Si continua a nutrire la regola.

A fare quello che natura si aspetta. Si nasce abbastanza da non svanire, si mangiano i giorni dentro le stesse scodelle, ci si consegna in fretta al destino di figliare e s’invecchia addosso alla stagione dei più giovani. Un passo più sfranto per ogni loro conquista. Eufrasia, il capitolo primo di una pista matrilineare, è una lisca appassita, una «spina christi». Moglie di Aniceto che l’ha sfiorata solo per ingravidarla, madre rassegnata di Ada Maria e di Pietrino.

Recintata di non detti, nei corredi minuti dei suoi gesti. Viene tradita e lo sa bene. E non fa altro che sentirsi sollevata, più leggera del suo peso quasi assente. Dispensata dall’onere d’incassare mani scomode per tutti i suoi angoli. Teresina, donna di polpa e d’amore più grasso, glorifica il compito di animare il suo letto. Ha conosciuto tanti uomini, ma ad Aniceto si dona davvero. Poi la morte arriva, quella stessa morte che Pietrino respira tra toraci di tombe, nel suo lavoro di custode al cimitero. La medesima ombra che falcia Eufrasia, incapace di svegliarsi dalle solite lenzuola.

Ora la strada è di Ada Maria e quella mulattiera la porta a La Faggeta: «…i faggi affiancati l’uno all’altro, disciplinati, muti, con i rami che abbozzano al verde di un nuovo fogliame». In mezzo agli spasmi di quelle creature, ce n’è una di stracci che aspetta lei. C’è un soldato tedesco fuggito da troppo tempo per ricordarsi quanto, c’è linfa di gambe e di baci impiastrata di siepi, quella che Ada Maria non ha mai sorseggiato.

C’è l’incontro che la fa adulta. Che la fa madre di Magnifica. C’è solo questo, il futuro nel ventre che mastica il seme. E il secondo capitolo sfocia nel terzo, ineluttabile come un giro di vento. Come una fioritura in quell’appuntito mese di cielo. Magnifica sboccia bianchissima e senza padre. La morte si siede sempre a tavola, in paese non c’è spazio per tanto altro: sepolture, appassimenti e poco più in là qualche germoglio.

Riti funebri e casse di legno, mantelline di pizzo e nuovi pianti da battezzare. E Magnifica è già grande, già in grado di r-accogliere. Non solo più funghi, muschi o vesciche. Ma un altro battito, un altro calore. La sequenza di donne si ferma qui, perché dentro Magnifica sta gemmando un maschio. Ma questa storia pulsa sempre di maternità: quella della terra, dell’umido benigno dei suoi frutti, dei suoi passaggi ineludibili. Quella cordonale, concepita nella carne e quella acquisita e cucita d’affetto, come nel caso di Teresina, che guadagna due figli per la docile forza di tenerseli accanto, anche se non sono suoi. È un romanzo femmina, di attraversamenti, sensi primordiali, testimoni in transito, come avviene per esempio in Ovunque io sia di Romana Petri, in Tanta vita di Alejandro Palomas, ne Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa o ancora ne Il cuore cucito di Carole Martinez, meraviglia attualmente fuori catalogo.

Un romanzo tutto scrittura, pastoso, vibrato, plasmato da un’autrice di poesia che traccia un fosso e lo riempie di foglie tiepide, di una voce che ti spiega gli alberi (siano cedri oppure arbusti), che sa leggere le vene dei cespugli. L’unica di cui a volte c’è bisogno, appena prima della pioggia.

 

(Maria Rosaria Valentini, Magnifica, Sellerio, 2016, pp. 274, euro 16)

 

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