Copertina di Puntazza di Simone Innocenti Flanerí

Inciampando sulla scrittura

L’ambizione di uno scrittore spesso è provare a consegnare al lettore, attraverso le sue opere, un mondo più complesso di quello da lui inizialmente immaginato. La narrativa trasmette emozioni, ci consola, ma nello stesso tempo, con la sua parola libera, interroga la complessità del reale e ci aiuta a comprenderla.

I racconti di Puntazza di Simone Innocenti (L’erudita, 2016), cronista del Corriere Fiorentino, appassionato d’arte e letteratura, colui che diffuse il 16 gennaio 2012 in anteprima mondiale il file audio «Vada a bordo, cazzo», pronunciato dal capitano De Falco rivolgendosi al comandante Schettino, a seguito del naufragio della Concordia, sono testi brevi ben congegnati, relativamente autonomi e compiuti, che mettono a fuoco la nostra società e ne compongono un quadro che, pur rimanendo fedele al dato sociale, si allarga a un orizzonte più vasto. Racconta la crisi antropologica di una cultura, la nostra.

 

Moltissimi sono i personaggi colti nel punto di inciampo, nell’atto del passo fatale o nel momento del crollo, diverso per ciascuno. Come sei riuscito a muoverti fra tante figure diverse (sensuali suore assassine, appassionati di tirwatching, trafficanti di animali, improbabili ladri di gratta e vinci, eredità inaspettate, gelosia, violenza, amore immortale)? È possibile rintracciare una cifra comune?

I miei sono personaggi assolutamente normali, quanto meno nella mia testa lo sono. Le mie esperienze di vita mi hanno messo a contatto con quelle che comunemente vengono definite situazioni estreme. Ho fatto molto volontariato in ospedali e nelle case di cura, ho visto la malattia vera e che fa paura; ho conosciuto persone massacrate perché non considerate normali soltanto perché – venti anni fa – essere omossessuali era un delitto; mi occupo da anni di crimini, di persone che uccidono, stuprano, ammazzano, sgozzano, accoltellano, rubano, delinquono; ho parlato con le vittime dei crimini, con i genitori di ragazze uccise, ho pianto con loro quando mi raccontavano le loro storie. La cifra comune è che i miei personaggi sono – nella mia testa – personaggi assolutamente comuni. Gente che puoi incontrare ovunque: a Puntazza, che è un giardino di un paese di provincia come pure in un parco giochi a Milano o a Roma. Io mi sono limitato a catturarli mentre li vedevo in azione nella loro normalità. E quindi facendoli inciampare sulla scrittura.

 

«Inciampando sulla scrittura», in sostanza, tu dipingi un affresco della società contemporanea ma anche un’indagine sul sé, sulla relazione tra l’io e l’altro, da cui emerge una crisi di coscienza e di valori. Mi sono appuntata alcune frasi che hanno la pretesa quasi di essere verità assolute in bocca ad alcuni personaggi: «La vita te la devi inculare perché se aspetti che smetta di incularti non hai capito proprio nulla»; «La loro vita una meta ben precisa non l’ha mai avuta»; «Posso solo arredare il vuoto, adesso. Lo posso arredare col vuoto che io sono». Cosa davvero conta e quale e quanto duraturo è il segno che l’uomo lascia dietro di sé?

Ogni frase pronunciata è assoluta, nel momento in cui una persona la pronuncia. L’altro da sé – per parafrasare Lacan – è un relativismo assoluto ma non quello che l’uomo pensa di sé. Credo ci sia un crinale molto difficile da tracciare, a proposito di segni. Il segno è – se vuoi – un qualcosa che include soltanto chi quel segno è in grado di percepirlo, una specie di gilda autorizzata. Il segno, a ben pensarci, è un qualcosa che ci circonda da sempre: la società contemporanea si basa su segni, che sono emoticon, segnali stradali, frecce, numeri. Quindi l’uomo fruisce di segni che qualcuno ha sdoganato nella quotidianità e che quindi hanno perso il senso più profondo del segno che include solo chi è in grado di essere incluso. Cerca quindi segni che lo contraddistinguono ma in maniera temporalmente definita: la morte incombe a ogni passo. Quello che conta davvero è un segno, un segno nuovo, che qualcuno lascia dietro di sé. Che sia un segno di amicizia o di lungimiranza narrativa non ha poi molta importanza. Gli sbirri la chiamerebbero traccia. Una traccia che non si riproduce, direi io. E in questo senso ognuno lascia una sua personale traccia.

 

È ormai diventato un luogo comune quello che il genere racconto venga sconsigliato da editori e agenti letterari che tentano di dissuadere gli scrittori dallo scriverne perché «il racconto non vende»…

Esiste una differenza tra lettori di romanzi e di racconti? Possono le parole cambiare in base alla lunghezza di una metrica? Esiste una differenza tra il Wallace dei romanzi e il Wallace dei racconti? O tra lo Svevo dei racconti brevi e quello di La coscienza di Zeno? Prendiamo il campo della musica, e in particolar modo della musica jazz. Prendiamo un mostro sacro come Keith Jarrett: esiste una differenza tra gli standard di 4 minuti e i “solo piano” che durano almeno un’ora e mezzo?

 

Quali sono le qualità dei tuoi racconti di Puntazza che pensi abbiano o possano catturare i lettori?

I miei racconti sono come gente di paese. Loro se ne battono il cazzo di piacere, se ne stanno al bar e raccontano storie e ti possono piacere o meno ma quelle sono le storie che raccontano. Usano parole forti, usano sguardi divertiti, usano – se vuoi – anche toni cattivi. Poi quando la storia finisce si beve una cosa, si fa amicizia o si fa a botte. I racconti di Puntazza sono genuini, non c’è nulla di artefatto, è presa diretta, è cronaca. Chi ha avuto voglia e tempo da dedicare a Puntazza è diventato a sua volta Puntazza. Ogni lettore è Puntazza. Puntazza è lo sguardo della professoressa di italiano, del maresciallo, dell’industriale, del cameriere. Puntazza è lo sguardo della normalità.

 

A questo proposito, quali sono, secondo te, gli ingredienti che rendono riuscita una storia di breve respiro?

Non credo ci siano ingredienti. Credo ci siano momenti e momenti in cui una persona scrive o si sente pronto a scrivere. Per esempio: Karl Kraus ha scritto aforismi che sono meglio di un trattato di storia o di sociologia o anche di romanzi, certe battute di Tibor Fischer sono poderose e valgono più di un saggio. Credo che l’unico ingrediente sia la chiarezza: una storia deve essere chiara, anche quando – apparentemente – non lo è.

 

L’essere passato dalla cronaca nera ti ha aiutato a “visualizzare” le tue storie?

Mi ha aiutato a non debordare ma non a visualizzare le mie storie. Non c’è nulla da visualizzare quando vedi bare bianche o senti il profumo del sangue o vedi un corpo martoriato dalle coltellate. Visualizzare è un verbo sterilizzato rispetto a chi certe scene le ha viste, ascoltate, odorate e vomitate per davvero. La cronaca nera non aiuta a visualizzare, è la molla che porta rabbia alla scrittura.

 

Mettendo invece da parte il giornalista, attento osservatore dei “fattacci” della nostra società, quali scrittori ami leggere e da quali autori trai ispirazione?

Da dove cominciare? Boris Vian, Chuck Pahalahniuk, Hunter Thompson, Carver, Cortazár, Calvino, Pavese, Pessoa, Yourcenar, Merini, William Lashner, Tibor Fischer, Ennio Flaiano, Giuseppe Genna, Kundera, Dino Campana, Federico Tozzi, Scerbanenco, Arlt, Paolo Sortino, Carlotto. La lista è immensa, comprende autori teatrali e poeti, ma anche pittori che hanno scritto come Lorenzo Viani.

 

(Simone Innocenti, Puntazza, L’Erudita, 2016, pp. 102, euro 13)
A Moon Shaped pool copertina album Radiohead flanerí

“A Moon Shaped Pool” dei Radiohead

I Radiohead da anni  non sono più i Radiohead.  Non sono più quello che si è sempre pensato quando si pensa ai Radiohead:  un gruppo di nicchia, per pochi.  Non sono più i Radiohead non da un punto di vista qualitativo,  bensì  dell’immagine. Di come e di quanto  se ne parla e se ne deve parlare. Ogni loro nuovo lavoro è occasione per aprire dibattiti, più o meno prolifici. Parlarne ancora come un prodotto per una cerchia ristretta, risulta limitante, quasi ridicolo. Anche se fosse ancora vivo un retropensiero per cui  i Radiohead sono qualcosa per eletti oggi, nel 2016, non ha più motivo d’essere – basta anche solo andare a un loro concerto per rendersene conto.
Quanto è successo prima dell’uscita di A Moon Shaped Pool, il loro nono lavoro in studio, ne è la testimonianza palese. Esser scomparsi da internet (fatta eccezione per Myspace, per quanto possa valere), ha scatenato una sorta di psicosi dove chiunque (o quasi) si è sentito tirato in causa di dire qualcosa. E bisognava farlo subito, immediatamente. E non che questo sia per forza un male, intendiamoci. Nell’iperdemocrazia da computer queste sono le regole. Chiaro è che ciò che è diventato internet, i suoi risvolti sociali, economici, politici, e tutti i suoi significati che ne derivano, ha enormemente enfatizzato il tutto, ingigantendo anche il senso della loro scomparsa – che è sembrata più materiale che immateriale.

Da qualsiasi punto di vista la si voglia mettere, che li si veneri o li si detesti, tralasciando le varie strategie di marketing (è indiscutibile che l’universo Radiohead sia sempre girato attorno anche alla capacità di saper vendere e proporre la propria immagine), resta indiscutibile un dato di fatto: in più vent’anni di carriera, non si sono mai guardati indietro, cercando sempre, se non di evolversi, di non soffocare nel proprio pantano. O meglio: prendendo A Moon Shaped Pool, si sono guardati indietro, molto, ma senza lo sguardo di quei gruppi a cui, arrivati a un certo punto della loro carriera, non è rimasto altro se non la possibilità di rispecchiarsi tristemente nel proprio passato.

Cinque anni sono passati da The King Of Limbs, lavoro che forse rimarrà sempre un po’ in ombra nella carriera dei Radiohead per alcune carenze strutturali – per chi scrive, la prima parte ha un una propria vita, una dimensione sonora viva e inquietante, un approccio nuovo; da “Lotus Flower” in poi si perde, raccontando qualcosa di già detto, con “Give Up The Ghost” che va a smorzare ogni possibile tentativo di ripresa. Questa doppia faccia, questi due lati dello stesso album, sono un chiaro–scuro che non ha mai convinto del tutto.
La questione attorno a The King Of Limbs, alla luce di questo nuovo disco, è sicuramente spiazzante. È sembrato palese quanto cinque anni fa sembrava che i Radiohead stessero per intraprendere un tipo di discorso – quello della prima parte dell’album – che invece probabilmente è confluito all’interno dei progetti solisti di Yorke. A dispetto della cronologia, A Moon Shaped Pool suona molto più come parente stretto – evoluto, colto –, anche se non strettissimo, di In Rainbows. Collegati da un ipotetico ponte alla cui metà si era in procinto di svoltare verso altri lidi, In Raibows e A Moon Shaped Moon hanno un comune denominatore nella ricerca esclusiva della musica come bellezza.

Ora, per quanto riguarda le direzioni intraprese, ci troviamo di fronte a una situazione complessa. La natura di quest’ultimo lavoro è di per sé eterogenea: non che i lavori precedenti non lo fossero – basti pensare ad Amnesiac – , ma qui è veramente difficile capire o tentare di capire quale sia il nocciolo narrativo, e quale sia il discorso musicale che i cinque vogliano portare avanti. C’è il pop, il kraut, la bossa, ci sono i cori, ci sono gli archi (London Contemporary Orchestra). Non è di certo un male, ma è quantomeno spiazzante. In definitiva, comunque, per quanto dia pochi punti di riferimento, A Moon Shaped Pool scorre in maniera fortemente coerente.
Il fatto che molti dei brani facciano parte del passato della band (“True Love Waits” ad esempio è un brano che gira dal 1995, inserito nell’album live I Might Be Wrong: Live Recording), per alcuni ha motivi che risiedono nella separazione, dopo ventitre anni, di Yorke dalla compagna Rachel. Una sorta di prendiamoci parte dei pezzi, parte del passato con cui giriamo da anni, e mettiamo tutto in questo lavoro. Potrebbe essere questo il nucleo narrativo? Forse, magari riduttivo per un gruppo del genere, ma con i Radiohead è sempre stato molto difficile capire chiaramente di cosa si parlasse (salvo forse solo il politico Hail To The Thief). E forse è anche in questa criticità che risiede la loro potenza comunicativa.

Da un punto di vista testuale, Yorke si conferma autore di flash, immagini, situazioni, oggetti, l’assurdo che si fa largo nelle dinamiche quotidiane e viceversa, il tutto al limite del cut–up in una continua paranoia claustrofobica. C’è sempre stata questa enorme possibilità di interpretazione, proprio perché nella maggior parte dei casi Yorke ha sempre raccontato micro–storie all’interno di storie solo all’apparenza più grandi. Micro–storie al cui interno potevano risiedere interi mondi.
C’è sempre stata quindi un’affascinante poca chiarezza nelle parole dei Radiohead (dagli «Unborn Chicken Voices» di “Paranoid Android”, al «I Get Eaten By The Worms»  di “Weird Fishes/Arpeggi” fino al «Low Flying Panic Attack» di “Burn The Witch”). E in A Moon Shaped Pool il tutto è ancora più palese: qui i testi, come la sequenza dei brani, sono nebulosi, grigi, e in questo c’è una forte coerenza.

Il brano che apre A Moon Shaped Pool è “Burn The Witch”, accompagnato dal video inquietante in stop motion diretto da Chris Hopewell e ispirato dalla crisi dei rifugiati, ma anche dalla serie inglese Camberwick Green e dal film The Wicker Man. Archi usati alla maniera classica contemporanea (si è letto di paragoni con “Viva La Vida” dei Coldplay: no, stiamo parlando di universi che non si sfioreranno mai), accompagnano un cantato brit pop dove Yorke angosciosamente, in falsetto, canta «Burn the witch / We Know where you live», mentre Colin Greenwood, durante le strofe si rifà al se stesso di Airbag. La tempesta di archi che chiude il brano in un crescendo ipnotico, si placa in “Daydreaming”, da cui è stato girato il video di Paul Thomas Anderson. Sembra una lunghissima sequenza onirica, dove Yorke vaga aprendo porte (ventitre per la precisione, e per chi intende A Moon Shaped Pool come concept sulla separazione di Yorke dalla sua compagna Rachel, questo potrebbe essere un dato a suo favore: avevano passato ventitre anni insieme), attraversando case e spiagge, dove i vari personaggi che si intravedono non sembrano accorgersi della sua presenza,  per finire rannicchiato in una grotta. Il brano è una ballata al piano – con alcuni rimandi alla loro “Last Flowers” – dove la forza e la magia arrivano dall’arrangiamento degli archi che sopperisce a una linea melodica che non rimarrà nell’olimpo  radioheadiano. “Decks Dark”, il pezzo più sensuale dell’album, sembra uscita da un mix perfetto di Ok Computer e Hail To The Thief e po’ di Amnesiac: l’apertura della batteria, accompagnanta dai cori, ha la classe di quella di “Pyramid Song” e la forza di quella di “Airbag”. “Desert Island Disk” è un pezzo che suona un po’ Nick Cave, un po’ “Dear Prudence” dei Beatles: una cosa mai sentita prima dai Radiohead. Qui finisce un primo blocco. Il contrasto con “Ful Stop” è netto. Il contrasto con il kraut di “Ful Stop e della sua ritmica ossessiva è netto. Ed è anche importante il contrasto con “Glass Eyes”, brano struggente, uno dei loro più intimi – dove Yorke suona il piano in una maniera completamente inedita per quelli che sono i suoi standard –,  in un binomio che può ricordare quello “The National Anthem”–“How To Disappear Completely” in Kid A, o quello “Myxomatosis”–“Scatterbrain” in Hail To The Thief.

Si prosegue con “Identikit”, pezzo che sarebbe potuto diventare – stando a come suonava durante il tour del 2012 – un pezzo tremendamente scanzonato. Invece dopo la lavorazione in studio ne esce fuori un pezzo pop raffinato, intellettuale, con l’azzardo dell’entrata del coro che, accompagnato dalle note di synth, continua a far storcere il naso di chi sta scrivendo. “The Numbers”, precedentemente conosciuta come “Silent Spring”, riferimento al libro ambientalista di Rachel Carson, con un finale brevissimo in un crescendo controllato da brividi, il testo vagamente retorico sull’ambiente,  suona come grande b-side mancata – sarebbe potuta essere la “Kinetic” di Kid A o la “Cuttooh” di Amnesiac. “The Present Tense” ha semplicemente una delle più belle melodie mai scritte da Yorke. Qui i Radiohead l’arrangiano come bossa nova, togliendo il dramma che scorreva viscerale nelle versioni live suonate solo da Yorke e capovolgendola, sorprendendo. “Thinker Taylor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief” è il brano più cupo dell’album, il cui titolo in italiano potrebbe essere tradotto con ambrabaciccicoccò. Un jazz nero, dove gli archi quasi cinematografici sarebbero andati a chiudere benissimo A Moon Shaped Pool. Invece a questo punto arriva l’unica nota stonata – seppur “True Love Waits” è e rimarrà per sempre una gemma.  Come già detto, il pezzo è vecchio ed è stato suonato suonato più volte solo da Yorke (durante i live, inoltre, la prima strofa è stata spesso usata  come intro a “Everything In Its Right Place”). Un pezzo talmente vecchio che ha creato una propria epica e che probabilmente andava lasciato stare tra gli incompiuti. E il problema, comunque, non è  il fatto che sia un pezzo vecchio – modus operandi consolidato negli anni da parte dei Radiohead, oltre agli esempi di quest’album, basti pensare a “Nude”, che veniva presentata già anni prima di In Rainbows con il nome di “Big Ideas”. Ma lì è contestualizzata, ha senso, vive. “True Love Waits”, in A Moon Shaped Pool, sembra buttata  per caso come traccia finale (mentre le tracce finali, per loro, sono sempre stati dei momenti fondamentali, catartici: “Street Spirit (Fade Out)”, “The Tourist”, “Motion Picture Soundtrack”, ad esempio). “Thinker Taylor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief”  avrebbe chiuso il discorso egregiamente. “True Love Waits”, in questo modo, suona come appendice, messa lì per coprire una spazio che in realtà non esisteva.

A Moon Shaped pool non sposta la musica – non è necessario che i Radiohead lo facciano sempre, e forse non bisognerebbe sempre aspettarselo. Forse aggiunge qualcosa all’universo e all’immaginario dei cinque dell’Oxfordshire. Di sicuro è il vestito elegante di cinque signori che ancora, a quasi cinquant’anni, riescono a dispensare bellezza come pochi al mondo. Solo e unicamente bellezza. E va bene così.

Now You See Me 2 poster italiano Flanerí

“Now You See Me 2”
di Jon M. Chu

Dopo il successo del primo film, tornano i quattro maghi cavalieri in Now You See Me 2, seguito del fortunato film del 2013 diretto da Louis Leterrier che fece parlare molto di sé per l’originale capacità di fondere insieme commedia, azione e thriller con l’aggiunta dell’ingrediente unico della magia.

I protagonisti tornano tutti, da Jesse Eisenberg a Mark Ruffalo, con Woody Harrelson, Dave Franco, Michael Caine e Morgan Freeman. Non c’è Isla Fisher, incinta al momento delle riprese, sostituita dalla Lizzy Caplan di Masters of Sex come nuovo Cavaliere, e c’è Daniel Radcliffe, che torna in un film di magia anni dopo essere stato Harry Potter, non più mago ma scienziato. Leterrier lascia la regia per la produzione esecutiva e al suo posto dietro la macchina da presa arriva Jon M. Chu, noto soprattutto per il cinema più caciarone di Step Up e G.I. Joe e per il recentissimo flop di Jem e le Holograms.

Il primo Now You See Me arrivava al cinema al culmine di un periodo di grande successo di cinema sulla magia. C’erano stati The Prestige dei Nolan, The Illusionist con Edward Norton e tutta la saga di Potter, anche se lì il livello si spostava verso il fantasy puro. Il film di Leterrier arrivava a spiegare i trucchi del mestiere al pubblico, rivelando i meccanismi dell’illusione in una struttura narrativa che già di suo era un inganno per lo spettatore.

Questo Now You See Me 2 parte un anno e mezzo dopo il primo film. I Cavalieri si sono dovuti nascondere dopo aver rapinato il miliardario Arthur Tressler ma continuano a organizzare i loro furti a metà strada tra criminalità e spettacolo. Insieme all’agente dell’FBI Dylan Rhodes, che si è rivelato come quinto Cavaliere, preparano un numero per smascherare il colosso dell’informatica OCTA che intende lanciare sul mercato un nuovo cellulare in grado di rubare tutte le informazioni agli utenti.

Come abbiamo detto, la qualità più grande del primo film era quella di sorprendere lo spettatore portandolo fuori strada esattamente come fa un grande prestigiatore. La verità è sempre lì sullo schermo, eppure non si vede. Mark Ruffalo, in questo, era il migliore dei maghi, capace di confondere tutti nei doppi panni dell’inseguitore imbranato e dell’ispiratore occulto. Now You See Me 2 prova a replicare la stessa struttura di meraviglia ma come capita spesso con i sequel che non possono essere nient’altro che superflui finisce per insistere sugli stessi meccanismi radicalizzandoli in una ripetizione che non riesce a centrare quello stesso bersaglio azzeccato da Leterrier.

Tutto sommato, nessuno sentiva il bisogno di un seguito per Now You See Me che era un film compiuto e andava bene così com’era. Certo, il successo del botteghino ha spinto all’invenzione di un seguito – e inevitabilmente ce ne saranno altri–, ma, come succede spesso, si è perso di vista l’essenza del primo film. C’era un giallo, c’era la commedia e c’era l’azione. Il colpo di scena finale garantiva la presa sul pubblico, riuscendo a far dimenticare anche le ripetizioni e i passaggi più deboli.

Now You See Me 2 ripete in una versione ingigantita i meccanismi del primo. Cercando di espandere a livello internazionale il successo del primo film, i quattro Cavalieri sbarcano a Macao per cercare di aggiudicarsi una fetta del mercato cinese che al momento è il più ambito dalle grandi produzioni di Hollywood. La meraviglia non c’è più, i colpi di scena diventano ridondanti e il carisma dei personaggi si disperde in una confusione generale di inseguimenti, identità ambigue e trucchetti di prestidigitazione.

Lo spettacolo non manca, come è ovvio che sia, ma quella capacità di sorprendere lo spettatore è rimasta da un’altra parte, nascosta nel primo film.

 

(Now You See Me 2, di Jon M. Chu, 2016, azione, 129’)

 

Lettere sugli scritti e il carattere di Jean Jacques Rousseau – Riflessioni sul suicidio

“Lettere sugli scritti e il carattere di Jean Jacques Rousseau – Riflessioni sul suicidio”
di Madame de Staël

Lo scorso 22 aprile ricorreva l’anniversario numero duecentocinquanta della nascita di Anne-Louise-Germaine Necker, la moglie dell’ambasciatore svedese a Parigi Erik-Magnus de Staël Holstein, meglio nota col suo nom de plum Madame de Staël; e per l’occasione la casa editrice Bibliosofica ha deciso di pubblicare in un unico volumetto le Lettere sugli scritti e il carattere di Jean-Jacques Rousseau e le Riflessioni sul suicidio, svelando un lato della scrittrice poco approfondito dalle nostre parti.

Innanzitutto, apre la trattazione un’esauriente introduzione di Livio Ghersi, che ci fornisce un ritratto a tutto tondo dell’autrice, dalla nascita alla morte, soffermandosi soprattutto sul suo interesse per la politica – fatto tutt’altro che normale per una donna che visse in età napoleonica – favorito «dall’essere nata in una famiglia facoltosa e dall’aver avuto due genitori entrambi davvero fuori del comune», e che le permise di assurgere a paladina della libertà; sulla sua fiducia nel progresso e nella continua «perfettibilità della specie umana»; sulla coraggiosa scelta che la vide protagonista – in una stagione politica tutt’altro che felice (ci troviamo nei primissimi anni del XIX secolo, quando la Francia era nelle mani del dispotico Napoleone) – tra la fedeltà alla Patria o ai propri ideali, optando per questi ultimi, motivo per cui riscosse grande fortuna presso gli antifascisti italiani.

Dopo l’abdicazione di Napoleone nel 1814, tornata a Parigi, Madame de Staël su richiesta dell’editore Nicolle dà alle stampe un libro che comprendeva appunto le Lettere sugli scritti e il carattere di Jean Jacques Rousseau (la cui prima pubblicazione è del 1788) e il saggio sul suicidio (scritto nel 1813). Le prime si possono definire a pieno titolo un esercizio di critica: si tratta di sei saggi incentrati ognuno su un’opera o un aspetto della produzione scritta del filosofo, dall’Eloisa all’Emilio, dal Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini alla Lettera al signor d’Alembert sugli spettacoli, dalle sue idee politiche al suo modo di essere. Il loro grande merito è stato di aver contribuito a diffondere a dieci anni dalla morte, in un momento in cui il filosofo ginevrino veniva considerato un pensatore pericoloso, l’idea che fosse un grande Autore, degno di essere letto e apprezzato.

Di tutt’altro spirito, invece, le Riflessioni sul suicidio: ispirandosi al suicido del poeta tedesco Heinrich von Kleist e della sua amante, l’autrice riflette sull’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte. Il suicidio è l’atto compiuto da un individuo nel pieno delle proprie facoltà, che riduce tutto il mondo a se stesso e alla propria infelicità: si tratta, insomma, di un atto egoistico, che si contrappone alla dévouement, la dedizione, al bene altrui o a una causa astratta tendente al bene comune; devozione intesa non solo in senso strettamente cristiano, ma legata anche alla libertà repubblicana, in cui bene comune e individuale finiscono per coincidere.

Tutti abbiamo conosciuto il nome di Madame de Staël sui banchi di scuola, poiché è con l’uscita sul primo numero della rivista milanese Biblioteca italiana di un suo articolo, intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, che la storiografia letteraria suole indicare l’inizio del Romanticismo italiano. E nell’immaginario collettivo, la conoscenza della de Staël si limitava a questo scritto. Invece proprio la pubblicazione di questi due saggi tradotti da Andrea Inzerillo ci regala un’immagine nuova della scrittrice, che veste in primis i panni di critica letteraria.

 

(Madame de Staël, Lettere sugli scritti e il carattere di Jean Jacques Rousseau – Riflessioni sul suicidio, trad. di Andrea Inzerillo,  Bibliosofica Editrice, 2016, pp. 168, euro 12)

“Chi di noi”
di Mario Benedetti

Si pescano frasi come conchiglie a volte. Scartabellando pagine che sembrano spiagge. In un pellegrinaggio, salmastro come tanti, sono atterrata in questo fossile: «Ogni triangolo (sia acuto, rettangolo o equilatero) ha un suo profumo spirituale. Paragonato ad altre forme questo profumo si differenzia, acquista delle sfumature, ma rimane fondamentalmente immutabile, come il profumo della rosa che non si può confondere con quello della mammola».

Lo afferma il matematico Michele Hemmer, che in quell’architettura d’essenza riesce a scorgere un odore irripetibile. Un accordo segreto di linee, combinate per mostrarsi semplici. E tradire per gli occhi comuni l’innata attrazione verso il tortuoso.

Chi di noi (Nottetempo, 2016), romanzo d’esordio dello scrittore uruguayano Mario Benedetti, pubblicato in Italia dopo più di sessant’anni, è la storia di un triangolo. Sicuramente scaleno. Si geometrizza così, fin dalla copertina. Una donna stilizzata, padrona solo di una bocca, una sontuosa acconciatura e un paio di orecchini. A pendere sospesi dai lobi inespressi, due teste maschili. Rivolte in direzione opposta. E quindi, incapaci di guardarla. La vicenda è già pronta, è tutta qui. E ovviamente è anche tutt’altro.

I lati si chiamano Miguel, Alicia e Lucas. E ogni lato fornisce una visione dei fatti. Ad avviare la trama attraverso un diario è proprio Miguel, adolescente incappato in Alicia e nella soffice quiete che gli offrono le sue parole. Quel riparo di fiati e d’intese mentre pestano solite strade. Una bolla d’incanto a cui Miguel non sa credere del tutto. «…io che provavo per Alicia una tenerezza immutabile di cui nemmeno ora mi vergogno, non potevo sentirmi in stato di grazia, perché ero convinto che innamorarsi fosse più […] del mio fervido desiderio di averla accanto, dei dodici isolati di chiacchiere. Immagino, invece, che debba essere molto meno».

Miguel non sa fregiarsi di quella beatitudine spicciola, quelle monete di calma perfette per stargli tra le dita. Ed è qui che sbuca Lucas, col suo silenzio estenuante, in grado di grattare qualunque confessione. Alicia da lui si sente scossa, irritata, solleticata oltre il fastidio. Il segmento non è più sufficiente. E quel tremore stizzito, quel bruciarsi di scontri continui sono per Miguel la prova specchiata di ciò che lui da lei non avrà mai. Miguel si sente perdente, si marginalizza, lascia agli altri la parte più ingombrante di destino. Ma il destino recalcitra. Ma Alicia ritorna e chiede di essere sua. Undici anni di matrimonio, undici anni malgrado, che lei definisce nella sua versione epistolare «senza infamia e senza lode, aspettando non so cosa». Anni farciti d’assenza, soprattutto quella di suo marito.

«Da te non veniva niente. […] L’immagine di me stessa che vedo in te è davvero irriconoscibile, è piena di estraneità e di un’inevitabile, stanca presa in giro».

Alicia è ingabbiata dal fantasma di Lucas, dall’angoscia impigrita di Miguel, dal suo amore convinto di restare minore. «So di essere stata terribilmente ottusa quando mi sono complicata la vita con la tua decisione, ma tu mi hai umiliata molto di più accettandomi senza convinzione, consapevole che non saremmo stati soli, perché l’Altro che avevi creato, il Lucas della tua testa, si era insediato provvisoriamente dentro di te». Quegli anni coniugati sono solo un ruolo, un copione stagnato e irremovibile in cui vince sempre chi manca. Il loro è un rapporto congelato, tra le pendenze e le incoerenze scolate fino ai figli.

Miguel continua a farsi martire, “testimone” di un incompiuto che attende di sciogliersi nell’occasione ideale. È lui il regista del riavvicinamento tra Alicia e Lucas, l’orchestratore disposto a rinunciare a sua moglie perché non ha saputo volerla davvero, per suffragare il teorema delle sue debolezze. Manipola gli eventi per non lasciare altra scelta: «Ho pensato che l’unica soluzione possibile sia farli sentire colpevoli. Se io uscissi spontaneamente di scena, se lasciassi il campo completamente libero, il mio atteggiamento acquisirebbe ai loro occhi la forma di un sacrificio».

L’ultima parte della storia spetta a Lucas, lo scrittore, che decide di sublimare la realtà trasformandola in finzione, narrando il loro incontro, il ritorno di Alicia dopo rughe e distanze, secondo l’ipotesi migliore, che solo la letteratura può garantire. Assegna un altro nome a ciascuno di loro, ribattezza quelle facce per consegnarle a nuove vecchiaie. Ma ciò che è stato è pelle morta e non può più sorridere.

Benedetti elabora in poco più di cento pagine una disamina schiacciante dei rapporti umani, degli equilibri funambolici in cui navighiamo da acrobati storditi. Cadendo vittime delle nostre stesse tele, del bisogno di sentirsi inappagati. Con la fame che non dorme e l’appetito di altre insonnie.

Il triangolo è una figura ricorrente nei perimetri romanzati, da Edward M. Forster a Michael Cunningham, da Emily Brontë e Jorge Amado e qui il profumo privato di questa geometria è quello di un concerto di solitudini, dove ogni voce canta ancora l’illusione di essere toccata.

 

(Mario Benedetti, Chi di noi, trad. di Stefania Marinoni, Nottetempo, 2016, pp. 126, euro 12)
Future Present Past dei The Strokes Flanerí

“Future Present Past” Dei The Strokes

Quindi anche i The Strokes ce l’hanno fatta, sono tornati, con un EP, Future Present Past. Un attesissimo ritorno certo, ma piuttosto strano ed incompresibile per altri versi: la band americana non pubblicava un EP dal lontano 2001, l’anno di The Modern Age con i suoi quasi dodici minuti stonati e magnifici, “Last Night” come prima hit da classifica e quelle chitarre un po’ per conto loro. Nel mezzo, i primi successi di Is this It , seguita da “Reptilia” e “You Only Live Once”, le conferme di Angles e Comedown Machine. Poi sono scomparsi per tre anni, distratti dai progetti paralleli e slegati dagli obblighi contrattuali. Ergo, non ci si può fidare dei The Strokes, considerati da molti dei geniali pigroni. Sembra quasi che la loro musica sia improvvisata e nata lì per caso, una bellezza estemporanea e fuori dal normale.

Fatto sta che qualche giorno fa tirano fuori dal cilindro questo Future Present Past, pubblicato dall’etichetta indipendente del frontman Casablancas. E fin qui tanto di cappello, una scelta insolita e rischiosa.

Appena tre brani, quattro se vogliamo includere il remix del batterista Fabrizio Moretti. “Drag Queen” risente degli influssi post–punk e new wave: l’apertura ci porta dritti agli anni Ottanta ma alla fine annoia per la lunghezza e la poca originalità. Diversa “OBLIVIUS”, il pezzo più curioso e che in teoria è il simbolo del presente, ma anche qui nulla di particolarmente interessante. Chiude “Threat of Joy”, un occhio al passato per questo brano orecchiabile e sfizioso.

Future Present Past è solo il gradito ritorno di una band che ha segnato, in maniera irregolare, gli ultimi 15 anni della musica internazionale. Ma a livello di contenuti c’è ben poco e non stiamo certo parlando della quantità. I The Strokes soffrono di stitichezza musicale e questo lavoro è abbastanza emblematico, non ci resta che sperare in un nuovo album perché questo EP lascia l’amaro in bocca.

Copertina di Una storia quasi solo d’amore di Paolo di Paolo Flanerí

Qualsiasi verità sconvolgente sarebbe subordinata alla voglia di conoscersi

Chiunque conosca Paolo Di Paolo sa di trovarsi di fronte a un autore poliedrico, interessato alla critica letteraria, al servizio giornalistico, al dialogo con le voci maggiori della letteratura italiana, e aperto alla letteratura per l’infanzia e al teatro. Non sorprende, quindi, rintracciare i riverberi di queste esperienze nella sua narrativa. Infatti, è il teatro lo sfondo entro cui si muovono i protagonisti di Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli, 2016); è un teatro di quartiere, uno di quei luoghi in cui converge la passione di numerosi dilettanti.

Giovane attore dal talento irrequieto, il protagonista Nino vede affidarsi dalla sua maestra, Grazia, un gruppo di amatori over sessanta, che dovrebbero portare in scena Le false confidenze di Marivaux. La sera, all’uscita dalle prove, ad attendere Grazia c’è spesso sua nipote Teresa. Con un palleggio ottimamente orchestrato fra diversi punti di vista, Paolo Di Paolo racconta l’incontro tra Nino e Teresa, anagraficamente separati da pochi anni, ma culturalmente molto distanti, che cominciano a confrontare le proprie visioni del mondo in un gioco sempre più intenso.

 

«In ogni infanzia, a quei tempi, svettavano ancora le zie… Come fate che esercitano il loro influsso su un’intera vallata senza mai scendervi». Il preludio a Una storia quasi solo d’amore è questa citazione di Walter Benjamin, e proprio su di una zia fai ricadere il compito di narrare la vicenda di Nino e Teresa. Partiamo da qui, da questo gradino di parentela.

 

Diciamo che è stato possibile scrivere il libro solo dopo aver trovato una prospettiva e una voce. Il romanzo cominciava in realtà a pagina 30, di fronte al teatro in cui Teresa avrebbe conosciuto Nino, e lo avevo scritto in una terza persona neutra: «È andata così, con lei che dice: finalmente». Ma non mi convinceva. Ero molto in impasse, ma a un certo punto è venuto fuori l’inizio, quasi come una visitazione poetica durante una notte di febbraio: l’incipit, «Eravate bellissimi». Con quell’incipit era come se io facessi parlare la donna che poi sarebbe diventata Grazia, la zia. E mi sembrava una prospettiva da alimentare, quella di un narratore che da un lato era esterno alla storia e dall’altro complice, implicato. Era un sfida narrativa: rendere possibile, plausibile quell’eravate bellissimi – seconda persona plurale – per tutto Una storia quasi solo d’amore . E la voce della zia è diventata un modo per avere la giusta distanza dalla storia, perché se tu assisti alla storia di due innamorati, e assorbi completamente la loro prospettiva, poggi entrambi i piedi nel sentimentale. La distanza vagamente ironica, e certamente matura, saggia, brusca e tenera allo stesso tempo, di una zia faceva sì che potessi trovare il mix ideale per raccontare questa storia. Ed era difficile per uno scrittore come me, uomo e di un’altra generazione, calarsi nei panni di una sessantenne donna; rendere credibile la voce di Grazia è stata di per sé una sfida.

 

La differenza di età non coinvolge solo autore e narratore, coinvolge anche i protagonisti. Nino e Teresa si trovano ciascuno in un momento fondamentale: per Nino, che è poco oltre la ventina, si tratta dell’ingresso nella vita adulta. Lo affronta con la spavalderia di chi vede riconoscersi i primi meriti, ma resta poco più che un ragazzo, e prova ne sia che una sua importante scelta dipende in realtà da una telefonata della madre a Grazia. Teresa è nell’età del dubbio, ha trent’anni e sente che alcune strade si sono irrimediabilmente chiuse; è incerta sulla piega che sta prendendo la propria esistenza. Forse anche spinta da queste incertezze, difende la propria fede in Dio: è il personaggio dalla personalità più complessa.

 

Io non avevo subito chiaro in mente che ci potesse essere una distanza di età fra Nino e Teresa, ma una storia fra due coetanei mi sembrava meno interessante, quindi ho cominciato a immaginare una distanza di età e volevo fosse rovesciata rispetto al canone. Mi interessava mettere Nino – così apparentemente disinvolto, spaccone – un po’ in difficoltà rispetto a Teresa, che è al limite di un’altra generazione: a differenza di Nino, lei è infatti ancora novecentesca. Credo che noi poco più che trentenni, nelle strutture mentali siamo stati determinati dal Novecento. Ciò è accaduto attraverso le persone che abbiamo frequentato, i libri che abbiamo letto, i film che abbiamo visto. Non dico che oggi questa cosa sia sparita d’un colpo, perché è chiaro che un secolo non muore e si interrompe, però se parli con un ventenne capisci che quelle categorie con cui tu hai fatto i conti – magari anche solo sfiorandole come l’ideologia e la politica – semplicemente non le conosce. Allora era interessante vedere un ventenne e una trentenne in questa ottica. Il fatto che lei sia una ragazza più grande lo mette in imbarazzo, ma tutto sommato ne esalta la fascinazione perché rende Teresa esotica, particolare, come una specie di mondo di cui Nino non ha la mappa. Brusca, burbera, complessa, però attraente fisicamente. E dell’amore volevo mettere a fuoco una cosa, se vuoi ovvia ma sempre sconcertante, e cioè la disposizione verso un essere umano che si stacca da una folla anonima e con cui tu costruisci uno spazio di intimità. Siamo una folla di sconosciuti gli uni agli altri, ma facciamo entrare una persona nella nostra intimità, e con lei prendi una tale confidenza da sembrarti di avercela avuta da sempre, e invece era del tutto innaturale.
Dopo di ciò, però, mi sono interrogato: quale può essere un punto d’attrito massimo che può creare in Nino un turbamento profondo? M’ero immaginato che lei potesse essere una militante politica e sarebbe stato interessante agli occhi di Nino, antipolitico o apolitico. Ma non mi convinceva, perché sarebbe stata anche lei, da trentenne, un po’ fuori norma. Allora mi sono chiesto: se io incontrassi una ragazza che crede, io, così perplesso e dubitante rispetto a quella materia, come gestirei la rivelazione della fede? Allora mi interessava che il rapporto d’amore portasse i due al punto di massima curiosità reciproca. Questa è la cosa meravigliosa dell’amore: la nostra disposizione alla curiosità è estrema, assoluta e non pregiudiziale, quando siamo innamorati. Lei ti potrebbe dire qualunque verità sconcertante e tu la subordineresti alla volontà di conoscere quella persona. Portarli là era l’unica possibilità: Nino doveva innamorarsi per poter accettare la sfida di Teresa.

 

Insomma, c’è la sensazione che sia una storia quasi d’amore nel senso che in realtà l’amore non c’è. Quello che racconti non è la storia d’amore vera e propria, ma il tentativo che la precede. Nino e Teresa hanno entrambi fortissime resistenze e una cieca ostinazione nel voler proseguire. Ma l’inizio di una storia d’amore è anche una faccenda di attrazione fisica e nel romanzo il sesso emerge come un racconto a macchia di leopardo. È molto spesso un sesso consumato male, senza un pieno godimento. Anche la prima volta di Nino e Teresa è così.

 

Io ho immaginato Nino come un ragazzo con meno prudenze di quelle che avevano molti della nostra generazione; non che avessimo chissà quali condizionamenti, però un vago sentore della differenza fra innocenza e colpa, nella materia sessuale, ha inciso. Il solo fatto di accedere alla fonte della pornografia per la nostra generazione era una prova e un limite tra cosa fosse consentito e cosa no; oggi invece basta accendere un tablet. La cosa che mi colpisce molto nelle nuove generazioni, e lo dico da osservatore esterno, non è soltanto l’accesso alla sessualità molto precoce in termini anche di pornografia; la cosa che mi colpisce è la confidenza fra corpi che vedo andando nelle scuole, il fatto cioè di non avere una resistenza, una rigidità che poi si scioglie solo in certi contesti. C’è una fluidità. E allora volevo raccontare un Nino che non s’era mai posto il tema, un po’ come tutto il resto. Non si pone mai il tema per poi arrivare all’empirismo, cosa che sarebbe stata tipica del Novecento, ossia c’è il concetto e poi la realtà e l’esperienza. No, Nino si butta nelle cose, le cose esistono, la vita è lineare. Nino misura l’esistenza rilevandola e quindi non ha né un concetto di assoluto né di relativo, ha soltanto la somma di piccole esperienze. Non che tutti i giovani siano come Nino, ma molti sono come Nino. Teresa, venendo dall’altro mondo, e avendo un condizionamento culturale più forte, ha una sua disinvoltura, ma ha un diverso tipo di atteggiamento. Quindi anche la sessualità fra loro mi sembrava interessante nel momento in cui diventava ancora una volta un attrito tra mondi.

 

In precedenti tuoi lavori ci hai abituati a un confronto fra la vita dei personaggi con i temi della storia italiana, penso al Gobetti di Mandami tanta vita e a Mani pulite e Berlusconi di Dove eravate tutti; in Una storia quasi solo d’amore  i contorni delle vicende politiche si perdono quasi. È presente il clamoroso evento dell’abdicazione di papa Ratzinger, ma è molto sullo sfondo: non ti è mancato trattare un tema di interesse nazionale?

 

M’è mancato, sì, perché comunque amo lavorare con una documentazione anche quando tratto una storia molto vicina, sarà per una iniziale vocazione giornalistica. Però mi sono reso conto di dover essere fedele alla percezione dei due personaggi, e non mi sembrava che questi due fossero così aperti a risentire della vita pubblica, non per colpe, ma solo perché così sono molte persone. L’unica cosa che poteva percepire Teresa era proprio quel passaggio da un papa all’altro, che avveniva in condizioni straordinarie. L’ho inserito perché volevo che il personaggio di Teresa fosse toccato da una cosa epocale; e la reazione di sconcerto di lei è stata comune a molti, non solo tra i credenti. Ma quando si scrive si deve cercare di non farsi prendere troppo la mano da quello che si vorrebbe ci fosse nel libro, si deve forse resistere alla propria irruenza, per fedeltà ai personaggi, e in quel momento la loro storia d’amore è come una camera che ottunde tutto. Però Una storia quasi solo d’amore  non è del tutto privo di una ricerca documentaria, perché è presente una fedeltà meteorologica, quasi da romanzo storico: il dialogo fra Nino e Teresa al centro di Una storia quasi solo d’amore  è ambientato in una sera in cui a Roma pioveva a dirotto, e quella specie di muro d’acqua che c’è fuori dal ristorante è un dettaglio storico. Uno può fare storia anche con la meteorologia e a me questa fedeltà agli eventi dà una fiducia maggiore nella materia di cui narro, perché me la rende concreta. È una questione di presa emotiva, se piove, perché pioveva, io credo di più in quella scena e questo mi dà fiducia, perché se come lettore posso anche abbandonarmi, come scrittore ho maggiori difficoltà. Tutti i miei libri sono infatti nati da un innesco extra-finzionale, diciamo così. Quindi ho cercato di riprendere contatto col terreno della storia partendo da piccoli ma concreti dettagli.

(Paolo Di Paolo, Una storia quasi solo d’amore, Feltrinelli, 2016, euro 15, pp. 176)
The Nice Guys Poster italiano Flanerí

“The Nice Guys”
di Shane Black

Il Festival di Cannes ha avuto uno dei suoi protagonisti inattesi nelle presentazioni fuori concorso. The Nice Guys, poliziesco ambientato negli anni Settanta con la coppia di protagonisti formata da Russell Crowe e Ryan Gosling ha avuto il consenso più o meno unanime nell’elogiare il film salutando il ritorno del regista e sceneggiatore Shane Black al suo cinema migliore.

Black è uno di quei personaggi che hanno avuto un ruolo importante nella storia del cinema contemporaneo (di un certo cinema contemporaneo, almeno), ma che la maggior parte del pubblico non conosce. Nel 1987, quando aveva ventisei anni e non era nessuno a Hollywood, riuscì a vendere un copione, il suo primo copione, incentrato su due poliziotti diversi che finiscono in squadra insieme sviluppando nel tempo un legame unico quasi alla padre e figlio. Quel film era Arma letale, uno dei titoli che più di ogni altro ha cambiato il cinema d’azione poliziesco della storia recente del cinema, contaminandolo con un umorismo scorretto che lo avvicina in più di un’occasione alla commedia vera e propria. In pratica ha contribuito a definire un sottogenere, il buddy movie, che ha avuto e continua ad avere un certo successo nel cinema statunitense.

Le cose, poi, per Shane Black sono andate in una maniera diversa da come lui stesso si aspettava. Per Arma letale aveva idee e programmi lontani da quelli degli studios (nel suo progetto il personaggio di Mel Gibson, Martin Riggs, doveva morire nel secondo film) che lo hanno portato ad abbandonare la serie e a sparire per un po’ dalla scena hollywoodiana in cui si stava affermando sempre di più come sceneggiatore. Nel 2005 aveva fatto un rientro notevole a Cannes, con esordio alla regia, con Kiss, Kiss, Bang, Bang, altro ibrido tra poliziesco e commedia, poi c’è stato Iron Man 3, il più introspettivo tra i cinecomic di casa Marvel, e ora questo ritorno indietro nel tempo con The Nice Guys.

Nella Los Angeles del 1977 un investigatore privato vedovo e alcolizzato si mette in squadra con un picchiatore con passato da poliziotto per cercare una ragazza scomparsa. La sparizione rientra in un giro molto più grande che coinvolge l’industria pornografica e quella delle automobili, risalendo ancora più su fino alle commissioni governative.

Va detta una cosa subito: della trama di The Nice Guys non si capisce molto. C’è una certa confusione nello script di Black (scritto con Anthony Bagarozzi) sui vari livelli di intrecci che legano i personaggi l’uno all’altro, sulle trame di interessi che legano i vari mondi. Insomma, non è che la trama del giallo si segua proprio con linearità. È evidente sin dalla primissima scena, del resto che non è la storia il punto principale del film.

The Nice Guys inizia con un ragazzino che si sveglia nel cuore della notte nella villetta di famiglia sulle colline di Los Angeles. Si intrufola nella camera da letto dei suoi mentre dormono e si porta via una rivista per adulti del padre. In cucina, mentre beve un bicchiere di latte, guarda sul paginone centrale la star del porno Misty Mountains. Sullo sfondo, intanto, fuori dalla finestra, si vede una macchina perdere il controllo, cadere giù per la collina e rotolare verso la casa. Su quella macchina c’è proprio Mountains, che il ragazzino trova nella stessa identica posa della rivista. Seguono le presentazioni dei due protagonisti, con Crowe che insegue un potenziale pedofilo e Gosling che si sveglia ancora vestito e ubriaco in una vasca da bagno.

C’è un certo gusto per l’esagerazione che attraversa tutto The Nice Guys. Sembra una versione ancora meno seria di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson nel suo procedere complicato e nei suoi personaggi sbilenchi. Shane Black gioca con i generi, andando a stuzzicare i luoghi comuni del noir e le battute chiave dei duri cinematografici. Il gioco è quello di prendere una situazione di tensione e portarla in un’anticlimax per spiazzare lo spettatore. Il confine con il cinema demenziale è lì vicino, ma viene tenuto a debita distanza.

Con Joel Silver in produzione, come ai tempi di Arma letale, Black torna a quello che gli riesce meglio: costruire la chimica tra i protagonisti. Sono Russell Crowe e Ryan Gosling il doppio motore del film. Forti di un’intesa comica inaspettata, i due belli (forse ex bello per Crowe è più pertinente) si divertono nel ruolo degli stropicciati senza preoccuparsi di apparire irresistibili a tutti i costi. Sono due cretini, senza il minimo dubbio, e danno al film quel ritmo comico che è la sua forza più grande.

Due segnalazioni rapide: Crowe e Gosling sono bravi e divertenti, ma è soprattutto la giovanissima Angourie Rice, la figlia adolescente del detective di Gosling, a stupire; in un ruolo chiave secondario c’è Kim Basinger, che torna al noir (più o meno) quasi vent’anni dopo l’Oscar per LA Confidential, ancora una volta con Russell Crowe.

 

(The Nice Guys, di Shane Black, 2016, commedia, 93’)

 

Poster di Julieta di Pedro Almodóvar Flanerí

“Julieta”
di Pedro Almodóvar

Presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes, Julieta segna il ritorno di Pedro Almodóvar al mondo femminile che tante volte ha descritto nei suoi film più celebrati (Tutto su mia madre, Parla con lei, Volver), con una storia di affetti interrotti e perdite dolorose.

Julieta è una donna che ha superato la quarantina ed è pronta a cambiare completamente la sua vita lasciando Madrid per trasferirsi in Portogallo con Lorenzo, il suo compagno. Non sembra pesarle molto l’idea di lasciare tutto, ma un giorno prima della partenza, mentre cammina per strada, incontra per caso Bea, un’amica della figlia Antia che Julieta non vede da anni. Quell’incontro casuale cambia tutto nei piani della donna, ripiombandola dodici anni indietro nel tempo, all’ultima volta, cioè, in cui ha parlato con sua figlia prima di perdere ogni sua notizia. Julieta decide di non partire più, lascia la casa dove abita e torna nel quartiere di Madrid in cui viveva con la figlia. Trova un appartamento nello stesso palazzo, si compra un diario e inizia a scrivere una lunga lettera per la ragazza in cui ripercorre tutta la vita che hanno condiviso e che le ha separate.

Parte così un lungo flashback con una Julieta giovane su un treno in cui conosce Xoan, bel pescatore con moglie in coma che diventerà poi il padre di Antia. Segue colpo di fulmine, amplesso sul treno, lettere, morte della comatosa, ricongiungimento nella casa di lui, nascita della bambina e della famiglia.

Finché si sta sul treno, sembra di essere di fronte al miglior Almodóvar possibile. Elegante, romantico, eccessivo. L’inizio del film, con un primo piano intenso di rosso, colloca subito dalle parti di quell’attenzione ai colori che è il marchio distintivo, da sempre, del regista di La Mancha. L’incontro sul treno e il rapporto tra Julieta e Xoan, riflesso sul finestrino, sono Almodóvar al massimo, con quel miscuglio di erotismo ed eleganza, di classicismo e novità.

È quando Julieta raggiunge la casa di Xoan che tutto sembra perdere il passo giusto. Perché è lì che risulta evidente allo spettatore che non ci sono guizzi da attendersi. Siamo di fronte a un film che è l’espressione innegabile dello stile di un regista forte e facilmente riconoscibile come Pedro Almodóvar, ma in una sua forma molto convenzionale. C’è tutto quello che ci si potrebbe aspettare dal cinema drammatico di Almodóvar, così come in Gli amanti passeggeri c’erano tutti gli eccessi del suo cinema più leggero. Il melodramma, il gusto per il cinema classico, le storie al femminile, le perdite, il dolore come momento di crescita e la speranza che soffia come vento dietro a tutto, sono elementi tipici del cineasta spagnolo che non mancano neanche in questo film, ma sono tutti lì, insieme, in una forma e in un modo che non ci si aspetta da quello che si può tranquillamente ritenere un maestro del cinema.

Non si sa cosa sia più irritante per lo spettatore, se la raffica di incontri casuali e coincidenze che fanno andare avanti la trama, l’esasperazione del dramma in un susseguirsi di morti, lutti e tragedie o la colonna sonora in stile Hitchcock che prova a dare a tutto il racconto un respiro quasi da thriller. Quello che si può affermare con certezza è che sembra di essere di fronte a un compendio di “almodovarismo”, sembra, cioè, di assistere al tentativo di un giovane regista di fare un film alla Almodóvar.

Può darsi che parte delle difficoltà di Julieta siano da ricondurre alla sceneggiatura scritta dallo stesso regista partendo da alcuni racconti di Alice Munro, che in generale ha uno stile molto distante dall’estetica di Almodóvar. Rimane la sensazione che Julieta sia un bignami scritto male di tutto quello che può offrire di buono il cinema di Pedro Almodóvar.

(Julieta, di Pedro Almodóvar, 2016, drammatico, 99’)

Compertina di L’impostore di Javier Cercas Flanerí

“L’impostore”
di Javier Cercas

L’impostore di Javier Cercas (Guanda, 2015) è la vera storia di Enric Marco, un uomo dalla personalità complessa, che è riuscito a ingannare milioni di persone spacciandosi per un ex deportato del lager tedesco di Flossenbürg. Javier Cercas ricostruisce la storia dell’ormai novantenne Marco, nato a Barcellona nel 1921, sondando nel passato torbido di un personaggio allo stesso tempo estremamente controverso e affascinante.

Attraverso l’investigazione nel passato di Marco, Cercas riesce a ricostruire e delineare un periodo confuso e poco conosciuto della storia spagnola, quello che va dagli anni immediatamente precedenti all’inizio del franchismo fino agli anni successivi alla sua caduta. Proprio il caos scoppiato dopo la morte del dittatore ha probabilmente reso possibile l’intreccio di eventi che hanno fatto sì che nel corso degli anni Marco si affermasse come una figura di riferimento per molte persone, sia nell’ambito della Confederación Nacional del Trabajo, di cui è stato segretario generale per molti anni, che in quello dell’associazione di repubblicani spagnoli che nella prima metà degli anni ’40 vennero deportati nei campi di concentramento nazisti.

L’opera si sviluppa quindi su due fronti: uno è indubbiamente quello dello sviluppo in fieri della storia stessa, l’altro è quello dell’analisi storica e dell’indagine psicologica. Marco, che emerge come un medio-patico, egocentrico e narciso, si identifica in certa maniera con la parte più oscura di ogni essere umano, alla continua ricerca di attenzioni da parte dei propri simili, essendo capace di sfruttare qualsiasi mezzo in suo possesso pur di costruirsi un alter ego che lo tenga al sicuro dalla banalità della vita e che allo stesso tempo gli assicuri la considerazione e l’ammirazione degli altri.

Tramite la figura di Marco, Cercas costruisce un romanzo non-fiction, cimentandosi con successo in un genere di racconto per molti aspetti diverso rispetto alle sue passate esperienze di narratore. Con grande abilità riesce a mettere a nudo il vero essere di un personaggio che per anni è riuscito a celare il proprio passato grazie al sapiente miscuglio di verità e menzogne, spogliandolo della spessa coltre di bugie sotto la quale si era rifugiato. L’instancabile ricerca di Cercas nei trascorsi di Enric Marco non vuole però né essere un tentativo di riabilitazione né una ricerca per comprendere i motivi che lo abbiano spinto ad appropriarsi di un passato che non gli appartiene.

La particolarità del romanzo sta forse proprio nel fatto che può fare presa su un vasto pubblico di lettori, non trattandosi di un romanzo prettamente storico. Ciò che piuttosto rende avvincente L’impostore è la straordinaria abilità di Cercas di avvicinarsi al lettore, attraverso un percorso di arricchimento personale e di introspezione psicologica, in una sorta di continua indagine sul proprio io e di sfida con se stesso, al punto da mettere in risalto nel corso della narrazione tutti i propri dubbi, che siano veri o menzogneri, circa la natura stessa del mestiere dello scrittore, un «narcisista fabbricante di bugie e artifici».

La vera bravura di Cercas sta nell’aver avuto l’acume di sfruttare la vicenda di Marco come ottimo tramite per mettere in luce la duplice natura della vita di ogni uomo e riflettere sulla presente costanza della finzione nella nostra quotidianità, mettendo in risalto l’eterno dilemma della molteplicità di prospettive attraverso le quali scrutare e analizzare la realtà. Il ruolo attivo affidato al lettore, che diventa allo stesso tempo giudice della vicenda di Marco e di se stesso, rende L’impostore un romanzo estremamente moderno perché, che ci piaccia o no, l’invenzione e la menzogna fanno parte dell’esistenza di tutti noi, una sorta di schermo che ci protegge dalla realtà del mondo, talvolta cruda e intricata.

 

(Javier Cercas, L’impostore, trad. di Bruno Arpaia, Guanda, 2015, pp. 406, euro 20)

 

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The Colour in Anything copertina Flanerí

“The Colour in Anything”
di James Blake

Nel 2011 ha mandato in tilt la musica pop con James Blake,  due anni dopo si è confermato su alti livelli con Overgrown. Quest’anno, dopo aver cantato in un brano (“Forward”) nel pluridiscusso Lemonade di Beyoncé, con The Colour in Anything James Blake staziona sempre nell’olimpo contemporaneo, ma con qualche riserva.

James Blake appartiene  a un certo mondo che deriva dalle epressioni urbane di Burial,  ruota insieme ai vari Jamie Woon, Jamie XX o Sbtrkt – estendendo fino Frank Ocean – , ma non si ferma lì. Ha uno spessore che lo porta naturalmente a essere una contaminazione unica di vai generi. R&B, pop, soul, folk.  Il suo approccio, per quanto possa sembrare simile a tutto l’universo di cui sopra, ha indubbiamente un predisposizione innata a un songwriting classico, e in The Colour in Anything questo è ancora più palese. Un modo di intendere e di produrre musica che nel 2011 ha spiazzato tutti.  Si ha avuto e si ha tutt’ora, infatti, un po’ l’impressione di avere a che fare con un alieno. Il fatto che quelle di James Blake siano canzoni scritte in un’epoca futura, o in una galassia in cui il pop è interpretato in questo modo, è un pensiero che ricorre spesso. James Blake è un cantautore di un futuro possibile – non per forza di un momento migliore di questo presente, intendiamoci – che per caso ha iniziato a fare musica in questi anni? Una cosa è certa:  ha avuto la capacità di vedere alcune cose prima degli altri.

Però. Parlavamo di riserve. Ecco, con questo terzo lavoro, a cinque anni dall’esordio, qualcosa in più si può dire. Perché se con il primo James Blake è riuscito a rivoltare la musica pop continuando poi il discorso con Overgrown, in questo terzo lavoro pregi e difetti sono maggiormente esposti e decifrabili.  James Blake è bravo, è indiscutibile. Ascoltandolo, però, è possibile rendersi conto che le corde che tocca – a profondità vertiginose (la traccia d’apertura “Radio Silence”; il crescendo ansiogeno da assetto da guerra che accompagna la voce quando canta «When you sing / please don’t think of me / ‘Cause it’s way too hard / From what I’ve seen / From what I’ve seen» in “Points”; il contrappunto delle trombe in “Whaves Know Shores”, su tutte) –, siano sostanzialmente sempre  le stesse corde. Gioca puntando a quell’obiettivo – complesso da raggiungere, ma stiamo parlando di un fuoriclasse – in quella che oramai è la sua zona di conforto.

In The Colour in Anyting questa sensazione è esasperata a livelli enciclopedici: un lavoro mastodontico di settantasei minuti divisi in diciassette brani, splendidi nella loro unicità, ricamati alla grande,  ma che miscelati l’uno con l’altro comunicano la pesantezza di un’unica enorme ballata post-pop proveniente da un mondo in cui la normalità vuole che le canzoni durino in media sessantasette minuti. E il problema non sono i settantasei minuti in sè, ma il modo in cui sono stati riempiti. Settantasei minuti struggenti, maestosi, ma allo stesso tempo monotoni e noiosi, stancanti. E questo non può non incidere sul lavoro complessivo.  Può essere solo un problema che ha a che fare con la diacronia? O forse si è aperta una falla nell’impianto che alimenta la forza di James Blake?

The Colour in Anything è un lavoro che di tanto in tanto sembra anche inciampare su se stesso: la voce ora viene filtrata da quel vocoder, ora si mostra in aperture melodiche che viaggiano su quelle precedenti,  ora vibra in quel modo. Poche soluzioni, in definitiva.  C’è anche tempo per un duetto con Bon Iver (“I Need a Forest Fire”),  in cui Blake va a giocare allo sport e in casa del cantante del Wisconsin, dove però sembra soccombergli.

Insomma, James Blake con The Colour In Anything conferma comunque il suo talento e il suo post–cantautorato, che per quanto sia e sia stato innovativo e unico,  ha necessariamente bisogno di evolversi in qualcos’altro. Siamo a un punto di svolta: dopo aver tracciato una linea, ora sta a lui cercare di capire se e come seguirla, di auto trasformarsi e trasformare la sua musica in qualcosa che venga da un futuro ancora più lontano.

 

“La terra bianca”
di Giulio Milani

Mi balena in mente un quadro, come un’epifania, intercettato anni fa nel vivaio del d’Orsay, perché quelle opere respirano e non venitemi a dire che non assorbono luce e non emettono ossigeno. Sono creature folte e sempre assetate. Le spigolatrici di Jean-François Millet incastra tre donne su un lenzuolo di terra. Sono chinate, sono ingobbite, sono stanche e senza volto. La fatica rivendica il possesso feudale di quelle facce. Ma malgrado le loro schiene lontane da ogni verticale, malgrado tutte le ore inarcate e incallite, quelle lavoratrici sanno che il suolo non sputa. Che dal ventre di semi e raccolte dipende la loro vita. E anche quella che non conoscono. Non esiste(va) legame più forte. Perché il tempo presente fa pensare all’imperfetto.

Il libro di Giulio Milani La terra bianca (Laterza, 2015) è l’ennesimo emblema della frattura, l’ulteriore dolente puntata di una serie d’inchieste sullo stupro più o meno inconsapevole subito dal nostro Paese.

Siamo avvezzi ai fuochi campani, allo sfregio dell’agro aversano, all’idea che i rifiuti si sommergano, oppure che s-fumino altissimi a ingozzare le nuvole. Tutto già digerito. Il potere dei media gonfia il clamore e poi lo normalizza. Ci anestetizza. Ma la tragedia ambientale cambia dialetto. E in questo caso parla toscano. Nell’enclave assoluta del marmo.

«Un’onda pietrificata, una sterminata scogliera di fossili» nella zona di confine tra la bassa Liguria e l’Emilia, che comprende la doppia provincia di Massa Carrara, le Alpi Apuane e una costola di Mar Tirreno.

Giulio Milani, scrittore e direttore responsabile della casa editrice Transeuropa, ha sempre abitato qui, il bacino delle cave, un poligono colonizzato dalle industrie fin dagli anni Cinquanta. «Ex Farmoplant-Montedison. Ex Rumianca-Enichem. Ex Bario-Solvay. Ex Italiana Coke».

Una sequela di sposalizi chimici e divorzi malconci che hanno divelto, macellato, svuotato un territorio rendendolo una tra le aree più inquinate d’Italia «anche per le polveri sottili prodotte dal traffico incessante dei mezzi pesanti, tra i quali i sempre più numerosi e caratteristici camion coi pianali per il trasporto di blocchi di marmo grandi alle volte come interi container e, in misura molto maggiore, i ribaltabili carichi fino al colmo di scaglie detritiche per i mille usi non ornamentali della pietra». «Fumi di latte», un impasto pestifero sbriciolato nell’aria, che la gente del luogo ingurgita ogni giorno, pensando non sia immaginabile un ipotetico altrimenti. Perché le cave sono lavoro e senza lavoro si muore. Ma a quanto pare anche a causa del lavoro.

L’inchiesta di Milani parte da un episodio miliare: Il 17 luglio del 1988 il serbatoio di un pesticida (il Rogor), occultato malamente tra i Formulati liquidi per eludere la legge, scoppia come un attentato nello stabilimento Farmoplant- Montedison, partorendo una nube tossica diluita per 2000 kmq, soprattutto su Marina di Massa e Marina di Carrara. Nessun morto e chissà quante vittime. Perché il disastro più maligno è quello che s’incassa tardi, che s’incista nelle crepe, acquattato nelle vie respiratorie, nell’alcova dei polmoni, tra reni e vescica.

Dopo proteste di ogni tipo la fabbrica fu chiusa, ma non la scia di condanne pronta a chiedere asilo dentro troppi cittadini. Il motivo? Le pratiche più diffuse da molte di quelle aziende riguardavano lo smaltimento “sportivo” dei rifiuti. Ovviamente tossico-nocivi, tramite la termodistruzione per opera dell’inceneritore Lurgi nel caso della Farmoplant, attraverso interramenti silenziosi e consenzienti in tutti gli altri. Abbuffare le zolle di veleni e poi coprirle di ulivi e ammalarsi d’olio e non capirlo mai per tempo.

Ma il libro di Milani procede oltre, traccia una geometria spazio-temporale molto complessa, diagonali d’analisi che scavalcano il singolo episodio e pennellano il profilo di una provincia abusata attraverso la Storia, in prima istanza dalla fatica delle cave, dove i dispositivi di protezione sono stati per decenni fantasmi senza guanti. Operai falciati come insetti per un cumulo distratto, schiacciati da un peso sfuggito al controllo. Poi il vespaio furioso dell’industria estrattiva e dei suoi sversamenti. E la smania noncurante di usare la terra come un tappeto. Come un sepolcro ben ammobiliato.

Milani ci racconta per salti, di uomini capaci di opporsi al male, dello stormo partigiano della Resistenza Apuana, negli echi di guerra nelle steppe di Russia (suo argomento di laurea). «Si erano battuti per tre giorni di seguito. Per tre giorni e due notti si erano sacrificati, a turno, ai piedi di una quota da riconquistare». Poi di altri uomini anni in anni più vicini, intenti a riagguantare la pulizia dei fatti, a denunciare gli illeciti, a spingere forze, a non tacere. Come Marcello Palagi, principale esponente del movimento per la chiusura della Farmoplant; come Alberto Grossi, regista del documentario Aut Out.«Se si altera la morfologia di un luogo non ne vengono modificati solo i caratteri distintivi, ma anche quelli invisibili, come l’alimentazione degli acquiferi e il clima. Sono a rischio le sorgenti, si perdono i fiori, e forse anche la poesia». E lo scempio continua.

Chi pagherà per ogni verso bruciato, per lo sguardo rappreso in un cucchiaio d’orrore? Per la strage travestita da capitolo ordinario, senza nessun dittatore da offendere? Per le diagnosi neoplastiche di cui smettiamo di stupirci? Sempre noi, che se restiamo fermi avremo solo terre sane dipinte in un museo.

 

(Giulio Milani, La terra bianca, Laterza, 2015, pp. 220, euro 19)