Locandina di Fräulein – Una fiaba d’inverno Flanerí

“Fräulein – Una fiaba d’inverno”
di Caterina Carone

Ha un merito, Fräulein – Una fiaba d’inverno, il film d’esordio della trentaquattrenne Caterina Carone: quello di aver ricordato ancora una volta che Christian De Sica avrebbe potuto fare l’attore nella sua vita, e farlo in un modo diverso dalla comicità sgangherata che lo ha reso tanto famoso.

Negli anni, il figlio d’arte ci ha provato in tutti i modi a emanciparsi dai cinepanettoni e affini, prima girandosi da solo i film, poi trovando in Pupi Avati un nuovo padre cinematografico con Il figlio più piccolo che lo aveva portato, per la prima volta, in un ruolo a tutti gli effetti drammatico e che gli era valso, tra le altre cose, il Nastro d’argento come miglior attore protagonista.

De Sica junior, ovviamente, non ha mai avuto l’imprudenza di rinnegare la comicità pura, ma ha sempre dimostrato la voglia di misurarsi con altro. Il suo limite più evidente è quello dei modelli che lo accompagnano nella sua recitazione: quando fa il comico è una versione estremizzata di Alberto Sordi, quando fa il drammatico gigioneggia come il padre Vittorio. Con Fräulein – Una fiaba d’inverno ha trovato un nuovo spazio in cui muoversi senza l’ostacolo del paragone scontato.

Introdotto da una voce fuori campo che recita «C’era una volta», il film d’esordio di Caterina Carone è la storia dell’incontro e della crescita di due persone sole. In un paesino del Sud Tirolo, Regina, quarantenne scorbutica chiamata da tutti “Fräulein” nell’accezione di zitella, passa le sue giornate assistendo gli anziani, giocando a carte con due amiche molto più vitali di lei e parlando con la gallina Marilyn nel grande albergo in rovina dove vive. Un giorno, mentre il paese e tutto il pianeta sono sconvolti da una strana tempesta solare che altera le comunicazioni e il comportamento delle persone, alla porta dell’hotel bussa Walter, un sessantenne arrivato in montagna per passare una vacanza. Nonostante le resistenze di Regina, l’uomo si piazza nella stanza numero 3 e senza farsi notare finisce per cambiare la vita della Fräulein.

È il secondo film italiano di quest’anno in cui un importante evento astronomico ha delle conseguenze più o meno dirette sulla vita dei protagonisti. In Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, un’eclissi dava il via libera al massacro sentimentale di un gruppo di amici. Carone, invece, per la sua opera prima decide di dare al cielo un ruolo più piacevole. La tempesta colpisce tutti facendoli vivere come in una favola invernale, con le notti a lume di candela e i fantasmi del passato che arrivano in visita. Il tono leggero della fiaba fa capire che la crescita, tutto sommato, può arrivare a ogni età, basta fare i conti con il passato.

Regina e Walter hanno tutti e due dei ricordi dolorosi alle spalle di cui allo spettatore non è dato sapere troppo. I dettagli non servono, alla fine, basta capire la portata della solitudine.

L’opera prima di Caterina Carone, che ha scritto anche soggetto e sceneggiatura, non manca di originalità nello spunto di partenza, ma ha il respiro corto. Si conosce già il tipo di lieto fine a cui si va incontro, così come le bizzarrie del paese risultano in fretta prevedibili. Questo non toglie che si intravede un certo potenziale per lo sviluppo di una carriera. Pur avendo rinchiuso i personaggi in stereotipi troppo rigidi, ad esempio, il lavoro di Carone con gli attori risulta evidente nelle sfumature.

La Regina di Lucia Mascino guadagna mano a mano che si toglie di dosso i panni della fräulein, ma è soprattutto Christian De Sica a riempire il suo schermo. La semplice ingenuità di Walter fanno vedere tutto il potenziale di un attore che avrebbe potuto fare molto di più in carriera. Può darsi che i sessantacinque anni siano l’età giusta per un nuovo inizio.

 

(Fräulein – Una fiaba d’inverno, di Caterina Carone, 2016, commedia, 90’)

 

Atlante di un uomo irrequieto copertina Flanerí

“Atlante di un uomo irrequieto”
di Christoph Ransmayr

«Se ciascuno dei semi di araucaria che in quell’ora piovvero sui partecipanti al funerale, [… ] conteneva la possibilità di una vita arborea lunga mille anni, allora – […] – allora con quei semi stava cadendo su di noi, dai rami, una specie di eternità».

Non è mai stato un aereo che atterrava a Fiumicino a porre fine a un mio viaggio ma, piuttosto, il tamburellare eccitato delle sensazioni che scoprivo essersi cristallizzate improvvisamente in ricordi. I settanta racconti che compongono Atlante di un uomo irrequieto di Christoph Ransmayr (Feltrinelli, 2015) attraversano indenni il tempo e la storia. E mai, neppure una volta, assumono la forma di ricordo. Lo scrittore, infatti, attinge a verità e frammenti ancestrali che dilatano la consueta dimensione temporale del viaggio, mettendolo così a riparo da una sua conclusione definitiva.

E se l’ordine temporale viene annullato nella sua efficacia consueta, è grazie a un’evoluzione emotiva che Ransmayr riesce a ottenere una scrittura armoniosa, priva di crepe narrative. L’incedere dialogico, incastonato abilmente nei racconti, provvede a conferire ritmo, altrimenti schiacciato dalla brevità delle storie; unica pecca è la deriva poetica di alcuni passaggi che appesantiscono la struttura complessiva del libro e rischiano di far smarrire il lettore.

È proprio per non far perdere l’orientamento a quest’ultimo che Ransmayr invita a rivolgere lo sguardo verso il cielo, disseminato per la maggior parte dei racconti da un manto di stelle. A mo’ di guardiani della caducità mortale, le luminarie contemplate dallo scrittore austriaco disegnano le linee di questo atlante personale, tracciato interamente ricalcando le strade percorse e le persone conosciute. Non si tratta di vezzo poetico, né tanto meno di narcisismo autoreferenziale, Ransmayr è un incallito viaggiatore solitario, consapevole di poter trovare solo nelle stelle i custodi leali dei suoi pensieri.

È quel tocco di eterno con cui sigilla quasi tutte le storie e, in fondo, è quel tocco di eterno che ognuno di noi cerca di raggiungere in ogni suo viaggio.

 

(Christoph Ransmayr, Atlante di un uomo irrequieto, trad. Claudio Groff, Feltrinelli, 2015, pp. 361, 20 euro)

 

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La femmina nuda di Elena Stancanelli copertina Flanerí

“La femmina nuda”
di Elena Stancanelli

C’è un momento all’inizio di La femmina nuda, il nuovo romanzo di Elena Stancanelli pubblicato da La nave di Teseo, la nuova avventura editoriale dei transfughi Bompiani, e arrivato tra i dodici finalisti del premio Strega 2016, in cui la protagonista Anna, nella lunga lettera che manda all’amica Valentina che costituisce il romanzo, cita direttamente il film Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry (citato con il titolo originale, Eternal Sunshine of the Spotless Mind).

La femmina nuda parla della fine di un amore e delle sue conseguenze, è chiaro al lettore sin dalla prima pagina, quindi ci si aspetta che l’evocazione del film di Gondry serva per recuperare l’idea forte che ne sta alla base. Per chi non lo sapesse, in Se mi lasci ti cancello Jim Carrey si rivolge a una società, la Lacuna Inc., per farsi cancellare i ricordi della vita passata con il suo ex amore Kate Winslet, dopo aver scoperto che lei aveva fatto la stessa cosa. In pratica, la Lacuna è in grado di selezionare porzioni di memoria da eliminare e fa ottimi affari con tutti i lasciati, gli abbandonati e i luttuosi che vogliano dimenticare. Ad Anna, però, non interessa la parte del film sull’eliminazione, ma quella sulla creazione del ricordo. Prima di cancellarsi dalla memoria a vicenda, i due protagonisti avevano trascorso una notte insieme, stesi su un lago ghiacciato, a guardare il cielo. È una cosa scema, «una di quelle cose che nessuno farebbe mai da solo, e difficilmente con un amico […] che avremmo sempre voluto fare ma non abbiamo mai trovato la persona giusta a cui proporla. È un’immagine che spiega alla perfezione che cos’è l’amore».

È questa l’essenza dell’amore, per la protagonista di Elena Stancanelli, una sospensione felice del pensiero razionale che autorizza gesti privi di senso in cerca della serenità. Questo vale per la fase costruttiva, dell’amore, cioè per il momento in cui si vanno a definire i dettagli di una vita da ricordare con qualcuno, ma anche per la fase distruttiva, quella della fine, in cui il corpo si deve abituare alla mancanza. Dopo aver scoperto il tradimento del compagno Davide – un tradimento che rispetto agli altri che la coppia si è inflitta a vicenda negli anni ha la portata inesorabile del momento di svolta –, Anna precipita per un anno nel «regno dell’idiozia», un anno fatto di persecuzioni, violazioni negli account di posta elettronica e dei social network, di vite private rovistate in cerca di un indizio in più. Alla ricerca di quella felicità che non è più con lei, Anna perde il contatto con la ragione esattamente come quando si fanno le cose sceme come momenti costitutivi dell’amore. Perde la dignità, nel farlo, e non nella maniera tenera degli innamorati, ma in una maniera malata, criminale, che riempie di desideri di morte, che svuota il corpo in una magrezza spettrale.

Quello che stupisce in La femmina nuda è che questa discesa all’inferno che rende perfettamente l’idea del dolore devastante della fine di un amore è raccontata con un distacco quasi ironico. Anna, scrivendo una lunga lettera di confessione all’amica dopo essere riemersa dal regno dell’idiozia, riesce a giudicarsi con la distanza del tempo, senza indulgenza, senza il bisogno di spiegarsi. Le azioni più o meno folli e disperate sulle tracce di Davide e del suo nuovo amore Cane (il nome viene spiegato nel libro) sono raccontate con un linguaggio crudo, senza introspezione psicologica. Vengono raccontati i fatti per quello che sono, con tutto il loro carico di – appunto – idiozia.

 

(Elena Stancanelli, La femmina nuda, La nave di Teseo, pp. 156, euro 17)

 

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“Lo zoo di vetro”
di Tennessee Williams

Un soggiorno spoglio, un arredamento modesto, poche luci e tanti ritratti fotografici in seppia appesi al soffitto. La scena si apre così, in una penombra dove Tom, interpretato dal regista Arturo Cirillo, inizia a raccontare la storia della famiglia Wingfield tra una boccata e l’altra dalla sua sigaretta. Il dramma di Tennessee Williams, scritto nel 1944, parla di una famiglia imperfetta, incompleta, dove l’abbandono del padre continua a vivere nei vecchi dischi che Laura, timida e complessata a causa di un problema alla gamba, ascolta ininterrottamente, unica occupazione insieme alla sua collezione di minuscoli animali di vetro. Le insicurezze e le personali ribellioni di Laura e Tom si scontrano perennemente con la morbosità di Amanda, una madre scoraggiata e delusa ma sempre presente con i suoi consigli e le sue esasperanti puntualizzazioni. Ossessionata dalla paura che la figlia sia condannata a un destino di solitudine, esorta Tom a trovarle un pretendente, ed è così che nella sua vita ricompare Jim, il ragazzo affascinante e spigliato di cui Laura era segretamente innamorata ai tempi del liceo.

L’insoddisfazione e l’impossibilità di fuggire dalla propria condizione di statici personaggi irrealizzati tengono insieme i componenti della famiglia, che fin dall’ingresso del pubblico in sala restano inchiodati alla loro piccola realtà domestica.

Ma di reale c’è ben poco in questi personaggi nascosti dietro il proprio personale paravento di incertezze: l’unico che sembra poter portare un cambiamento, o meglio una parvenza di realtà, è proprio Jim, che lascia intravedere uno spiraglio nella penombra delle claustrofobiche pareti di casa Wingfield. Uscirne però sembra impossibile, e le distanze di cui tanto si parla, quelle stesse distanze di cui il padre assente era così innamorato, si esauriscono fra quelle quattro mura, e possono essere colmate solo attraverso proiezioni o sterili espedienti, come il cinema e l’alcool per Tom, o gli animaletti di vetro per Laura.

Il mondo esterno è un’illusione, tanto vicino quanto irraggiungibile, concetto reso alla perfezione dalla scelta di inserire nell’armadio le luci stroboscopiche del Dancing Paradiso, la sala da ballo di fronte. La speranza infranta sta tutta qui, in questi fugaci lampi di luce che Laura vede ormai senza più stupore, come quelli che fuoriescono dallo scrigno in cui conserva la sua preziosa collezione.

La nostalgia per un passato pieno di rimpianti e per un futuro che minaccia di essere nient’altro che una proiezione fin troppo fedele del presente è una costante nella messa in scena di Cirillo, e si riflette pienamente nelle canzoni di Luigi Tenco che Laura fa partire da un giradischi all’angolo della scena.

La potenza del testo di Tennessee Williams è forte e presente, ma alla sua struttura non vengono apportati particolari cambiamenti, a differenza di quanto spesso accade con le rappresentazioni teatrali delle opere del drammaturgo statunitense. Questa versione de Lo zoo di vetro non osa nessuna visibile variazione o reinterpretazione, ma le scelte registiche avvicinano il dramma a un contesto attuale e a noi decisamente vicino: un esempio è la madre invadente, possessiva, prorompente, la cui influenza sugli altri personaggi contribuisce a creare un ambiente familiare in cui è fin troppo facile riconoscersi. I tre interpreti Milvia Marigliano, Monica Piseddu e Edoardo Ribatto assecondano con naturalezza il realismo dell’opera, in una recitazione pulita e immediata. L’interpretazione alterna il dramma a momenti di amara comicità, tanti, forse troppi: la sensazione di straniamento che generano ha un senso, ma tende a diventare una costante quasi fuori luogo. Uno spettacolo che nel complesso non lascia insoddisfatti, ma che fa del proprio potenziale inespresso una caratteristica difficile da ignorare.

 

Lo zoo di vetro

di Tennessee Williams
regia Arturo Cirillo
traduzione Gerardo Guerrieri
con Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Arturo Cirillo, Edoardo Ribatto

In scena al Teatro India dal 18 al 22 maggio 2016.

 

Fabrizia Ramondino Flanerí

La scrittura di Fabrizia Ramondino: trasformazione e alchimia

Spesso ai grandi scrittori toccano in sorte alcuni anni di oblio. Sembra quasi che un periodo di dimenticanza sia necessario per sancire in maniera definitiva la grandezza di un’opera letteraria. Nel caso di Fabrizia Ramondino (nata a Napoli nel 1936 e morta a Gaeta nel 2008) una sorda indifferenza ha accompagnato tutta quanta la sua parabola artistica, cambiando di segno solo recentemente, con un apprezzamento postumo da parte della critica.

A parte alcune recensioni uscite sui principali quotidiani italiani (tra queste ricordiamo il breve e folgorante articolo di Giovanni Giudici, dedicato al romanzo Un giorno e mezzo, uscito su l’Unità nel 1988), soprattutto negli ultimi anni è stato riscoperto il grande valore della scrittura complessa, sperimentale e tradizionale insieme, di Fabrizia Ramondino. Grazie agli studi sulla sua produzione, condotti con particolare assiduità da Beatrice Alfonzetti, il «caso Ramondino» è salito alla ribalta e a esso è stato ora interamente dedicato l’ultimo numero di L’Illuminista (anno XV, dicembre 2015, a cura di B. Alfonzetti e S. Sgavicchia), che si è fatto triplo (un unico volume raccoglie tre numeri) per accogliere la «dismisura» dei discorsi già fatti e possibili sull’opera e sulla scrittrice.

L’opera che Ramondino ci ha lasciato è smisurata non solo per il numero dei titoli pubblicati (tra saggi socio-politici, romanzi, raccolte di racconti e di poesie, ne contiamo una ventina) ma anche per la sua inesauribilità, per la complessità dei reticoli linguistici e tematici, che irretiscono personaggi e lettori. Fabrizia Ramondino in un’intervista aveva definito il corpo «contenitore fragile della dismisura» ed è come se tutta la sua produzione fosse un tentativo di lavorare la pasta della scrittura-corpo, di modularla in modo da contenere, seppure in maniera instabile, la «dismisura» – metafisica laica, che nulla ha a che fare con le teologie e che si affaccia, invece, sulle radure sterminate della psicanalisi. Non a caso Pedullà, nell’introduzione al volume, parla di «varietà eretica di temi e coerenza multipla di stile» (p. 11).

Il rapporto genitori-figli, in particolare quello madre-figlia, è tra i temi più sviscerati dalla scrittura di Fabrizia Ramondino, che si muove come una sonda psicanalitica: pensiamo al dramma Terremoto con madre e figlia (1994) ma anche al già citato Un giorno e mezzo (1988), legati proprio dalla valenza simbolica delle due figure, come ha notato Alfonzetti: «Il legame fra il romanzo e il “dramma” è profondo, attingendo a una dimensione simbolica di valenza archetipica, alla relazione madre-figlia che la scrittura teatrale sembra aver filtrato dalla più articolata trama narrativa» (p. 331). Pensiamo anche alla «Madre» e alla «Figlia» che compaiono, indicate con la lettera iniziale maiuscola, in Althénopis (1981), romanzo d’esordio della Ramondino. Questa tensione simbolica tocca l’acme nel Requiem conclusivo del libro, dove compaiono Figlia e Madre che, morendo, torna bambina, figlia a sua volta, e si abbandona a un gesto masturbatorio meccanico: «Quel gesto, che per tanti anni era rimasto sepolto, venne ad adagiarsi su quel grembo, a reclamare i suoi diritti e a dichiararli, a separarsi dal vecchio corpo morente per entrare nell’anima di chi lo intese, a togliere il divieto e fecondarla, affinché vedessero la luce altri nati di donna» (Althenopis, p. 264). Non a caso Madre e Figlia diventano le protagoniste proprio della terza parte di Althénopis, l’unica scritta in terza persona, quasi a voler oggettivare queste due forze della propria psiche: «La trama di Althénopis si è generata, in una lunga e difficile gestazione, dalla necessità di dare forma letteraria ai vissuti psichici molteplici, complessi, comunque contraddittori, che chiedevano di essere dipanati, narrati e dunque compresi» ha scritto Bellucci (p. 130).

Con la sonda psicanalitica Ramondino aveva, in effetti, un rapporto confidenziale: si era sottoposta per anni alla terapia junghiana, appuntando su un taccuino (pubblicato nel 2002 come Libro dei sogni) i sogni che faceva con relativa esegesi; al termine del periodo di analisi, grazie a una visione onirica, aveva capito di essere pronta a varcare la soglia che separa la scrittura privata da quella pubblica. In un appunto di quel periodo commentava così il suo sogno: «Il mio desiderio è quindi che quel ventre cavo possa anche diventare convesso». In un’intervista Ramondino aveva parlato dell’opera d’arte come di una creatura partorita dal «ventre alchemico»: «Si accolgono in sé gli stimoli esterni, li si elabora nel ventre alchemico, poi viene alla luce il bambino divino, l’opera d’arte». Dunque diventando scrittrice, il «ventre cavo» era diventato, finalmente, «convesso».

 

 

Copertina di In cerca di Transwonderland di Noo Saro Wiwa Flanerí

“In cerca di Transwonderland”
di Noo Saro-Wiwa

Noo Saro-Wiwa è una professionista del viaggio: di mestiere scrive guide turistiche, ed è abituata a scandagliare i luoghi per preparare il terreno a successivi esploratori. In cerca di Transwonderland (66thand2nd, 2015) però è una guida di viaggio ben più ambiziosa e sfaccettata di qualunque manuale per vacanzieri, perché è insieme una scoperta e un percorso a ritroso, uno scavare in ricordi dolorosi e un osservare spazi familiari con occhi nuovi, su e giù per la Nigeria.

Noo, nata a Port Harcourt e cresciuta in Inghilterra, è figlia dell’intellettuale e attivista politico Ken Saro-Wiwa, impiccato nel 1995 durante il regime di Sani Abacha per essersi opposto alle multinazionali del petrolio. In cerca di Transwonderland, a cui è difficile attribuire un’etichetta precisa, è la fase conclusiva dell’elaborazione di un lutto e di un’identità inquieta. Per l’autrice, infatti, il ritorno in Nigeria dopo molti anni spesi in Gran Bretagna è un modo di riappacificarsi con un passato accantonato nell’oblio delle memorie infelici: «L’assassinio di mio padre recise ogni mio legame personale con la Nigeria. Nonostante l’assenza di pericoli reali, mia madre non mi obbligò più ad andarci, e del resto io non lo desideravo. La Nigeria era come un’ingovernabile macchina di dolore e divenne il ricettacolo di tutte le mie paure e delusioni; un luogo in cui gli incubi diventano realtà».

Il tempo, però, riesce a mitigare molto del risentimento nei confronti di un Paese per il quale (e a causa del quale) è morto il padre idealista. Noo decide quindi di concedere alla Nigeria una seconda occasione, e «un po’ esule rimpatriata e un po’ turista, con l’innocenza dell’osservatore esterno», si imbarca nell’impresa di visitare un territorio totalmente impreparato ad accogliere flussi turistici. Durante i suoi spostamenti, si scontra con molti dei vizi e delle manchevolezze che in passato avevano contribuito ad aumentare la sua insofferenza, bruciando di frustrazione di fronte all’incuria in cui versano le bellezze archeologiche e naturali di questa parte d’Africa, e provando rabbia impotente verso una corruzione politica pronta a risucchiare le speranze dei più volenterosi. Tuttavia, la vera rivelazione di questo viaggio fatto di ricordi e prospettive nuove sono i nigeriani: polemici, autoironici, positivi, confusionari, con una fede religiosa che li rende ottimisti nonostante le premesse sconfortanti e la capacità di mantenersi freschi e di buon umore anche tra la polvere, i gas di scarico e gli okada ronzanti.

Se da bambina le vacanze forzate in Nigeria – inasprite dalla mancanza di acqua corrente, televisore e elettricità – avevano fatto da deterrente ai tentativi dei genitori di rinforzare il legame della figlia con la terra natale, da adulta Noo impara a essere più indulgente verso i suoi difetti. Un Paese che nonostante i maldestri assemblaggi geografico-amministrativi britannici e i prosciugamenti delle risorse economiche da parte dell’Occidente riesce a mantenere l’equilibrio tra più di cinquecento gruppi etnici è un Paese che merita di essere perdonato per le sue negligenze. E l’eccessivo, sognatore, brillante e sanguigno Ken Saro-Wiwa aveva creduto talmente tanto nel suo potenziale da rimanere schiacciato negli ingranaggi di questo sistema impazzito pur di sostenerlo.

Per questo, alla fine di un viaggio che l’ha resa esausta ma ha saputo ammorbidirla, a Noo non resta che alzare le spalle e voler bene a questa Nigeria indisciplinata e ammaccata che, a dispetto di tutto, pullula di energia e di vita.

 

(Noo Saro-Wiwa, In cerca di Transwonderland, trad. di Caterina Barboni, 66thand2nd, 2015, pp. 336, euro 18)

 

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La pazza gioia poster Flanerí

“La pazza gioia”
di Paolo Virzì

Sono passati tre anni da Il capitale umano, uno dei migliori prodotti del cinema italiano degli ultimi tempi, e Paolo Virzì torna nelle sale, passando per la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, con La pazza gioia, film che lo riporto dalla Lombardia gelata alla Toscana che gli è casa e più vicino al suo cinema classico, tutto fatto di personaggi e dialoghi. Dopo la trama complessa del thriller finanziario, il punto di forza, questa volta, sono le due protagoniste: Micaela Ramazzotti e, soprattutto, Valeria Bruni Tedeschi.

A Villa Biondi, un istituto di assistenza psichiatrica per donne in difficoltà, si aggira Beatrice Morandini Valdirana (Bruni Tedeschi), una logorroica accentratrice che controlla ogni aspetto della vita della comunità, dalla cura del giardino alle escursioni fuori dal centro. Solo che Beatrice è a sua volta una paziente, con un paio di condanne penali alle spalle. Nessuno sa esattamente dove finiscano le bugie e inizi la verità, quando racconta di conoscere personalmente Berlusconi («Il presidente», sempre e comunque) o che la sua famiglia di fatto avrebbe donato Villa Biondi alla carità, ma il suo naturale portamento aristocratico la pone al di fuori del gruppo delle pazienti. Quando arriva Donatella (Ramazzotti), una donna magra, piena di tatuaggi e con le cicatrici sui polsi, tra le due si crea un legame immediato e istintivo che le rende complici in una fuga inizialmente non voluta e compagne in un lungo viaggio alla ricerca di una felicità impossibile.

Rimasto orfano di Francesco Bruni e Francesco Piccolo, i suoi storici collaboratori, Paolo Virzì ha chiamato per scrivere La pazza gioia la regista Francesca Archibugi, amica sin dai tempi del Centro Sperimentale, che ha dato un contributo importante nel rendere credibili queste due donne alla deriva. La fuga di Beatrice e Donatella strizza senza dubbio l’occhio a Thelma & Louis e a tutto quel cinema di fughe al femminile come momenti fondamentali di formazione e autoconsapevolezza (ci mettiamo in mezzo anche Pane e tulipani), andando incontro a tutti gli stereotipi del caso senza nessuna paura di sfidare il già visto.

È, soprattutto, un racconto di umanità fragile quello che viene fuori, che non pretende di essere originale o realistico. Senza essere intimidatorio nei confronti dello spettatore sul piano emotivo, La pazza gioia riesce a coinvolgere nelle avventure delle sue matte disperate. Solo nel sottofinale, con il lungo racconto in flashback di Donatella/Ramazzoti, da cui affiora la stanchezza dei due personaggi e il sotterraneo desiderio di morte che attraversa tutto il film, il ricatto empatico si fa più forte ed evidente. È difficile, del resto, riuscire a immedesimarsi in personaggi così oltre il limite della normalità, così anche vicine a un certo livello di lecita mal sopportazione, tra l’arroganza infinita di Valeria Bruni Tedeschi e il mutismo depresso di Micaela Ramazzati. Il legame, però, lo crea l’affetto istintivo che queste due sbandate riescono a consigliare allo spettatore.

In una stagione in cui si sono – giustamente – sottolineati i meriti di film come Lo chiamavano Jeeg Robot o Veloce come il vento, che hanno cercato di portare nuovi linguaggi nel cinema italiano, La pazza gioia sottolinea quanto sia comunque importante e utile non perdere il collegamento con i modelli del passato. Sono anni che si ripete in maniera anche ovvia che Paolo Virzì è l’unico autentico erede degli anni d’oro del cinema italiano e in quest’epoca di rifiuto per tutto ciò che è passato può finire per diventare un marchio di infamia, anziché una medaglia al merito. Quello che è certo è che Virzì è uno dei pochi autori capaci di guardare con il suo cinema in tutte le direzioni, alla commedia, al dramma, al ritratto intimo, alla riflessione politica.

Concentrato, come sempre, sui personaggi della sua storia, Virzì non tralascia comunque la dimensione sociale. Il tema della malattia mentale lega con un filo ideale lungo più di vent’anni il copione della Pazza gioia a Il grande cocomero di Francesca Archibugi, soprattutto per quello che riguarda l’idealismo dei medici che assistono i malati e la lezione di Marco Lombardo Radice. Gli ospedali giudiziari psichiatrici (OPG) che si vedono nel film sono stati chiusi solo di recente con una legge discussa per anni. A oggi, però, come ricorda una scritta alla fine del film, solo la metà dei pazienti ha trovato una nuova sistemazione.

(La pazza gioia, di Paolo Virzì, 2016, commedia, 118’)

Mogwai copertina album Atomic Flanerí

“Atomic” dei Mogwai

Storyville–Atomic: Living in Dread and Promise è un documentario prodotto la scorsa estate per la BBC e diretto da Mark Cousin che analizza tutti i disastri e le esplosioni nucleari dello scorso secolo, partendo da Hiroshima fino a Černobyl’ e Fukushima, passando per i quotidiani pericoli nucleari della guerra fredda. La colonna sonora di questo lavoro è stata prodotta da una delle migliori band post–rock degli ultimi vent’anni, i Mogwai. La band scozzese non è nuova a questo tipo di esperienze: qualche anno fa, infatti, aveva brillantemente prodotto la colonna sonora di una nota serie televisiva francese conosciuta anche qui in Italia, Les Revenants. Per svolgere al meglio questo nuovo lavoro, i Mogwai si sono recati a Hiroshima in occasione del 70° anniversario dell’attacco nucleare americano, dichiarando poi come questa visita sia stata una delle esperienze più toccanti ma allo stesso tempo intense per il gruppo scozzese. La naturale conseguenza di questo particolare lavoro è stata Atomic, l’ennesimo lavoro (strumentale) della band.

L’album è un concentrato di atmosfere cupe e nebbiose, confuse e rarefatte. Forse la migliore definizione l’ha data Pitchfork, evidenziando come «Atomic, on the other hand, is anything but esoteric. Despite its minimalistic approach, the album poignantly illustrates the binary oppositions that cropped up in Hiroshima’s wake: life and death, hope and fear, war and peace, atomic and organic». Un conflitto continuo, l’affascinante e pericolosa alternanza degli opposti.

Entrando nello specifico, possiamo notare come Atomic contenga diversi pezzi di notevole spessore e valore. Il primo è “Are You A Dancer?”, un lieto avvicendarsi di chitarre e violino. È invece “Ether” ed il suo clima apparentemente sereno ad aprire il disco, tra mille “campanelli” spensierati interrotti solo dal consueto ed improvviso post–rock della band di Glasgow. Proprio questo elemento caratterizza ancora una volta almeno metà dell’album, portandosi dietro “Little boy” e le sue sonorità funeree, l’estrema quanto esplosiva “Tzar” e l’angoscia di “Weak Force” e di “Pripyat”: un trittico piuttosto deciso, spiazzante.

Forse la vera chicca di Atomic è invece proprio lì, nelle prime canzoni dai tratti new–wave. Il safety control rope axe man (ovvero l’arresto d’emergenza di un reattore nucleare, termine coniato da Enrico Fermi nel 1942) ha ispirato “SCRAM”, sei minuti di sonorità distorte e complesse ma sempre armoniose che conducono a “U–235”, l’isotopo dell’uranio. Quest’ultimo rappresenta qualcosa di davvero speciale ed inedito per i Mogwai, ovvero l’ininterrotto uso dei sintetizzatori e la completa assenza di chitarre. Chiudono l’album il pianoforte di “Fat Man” (il nomignolo della bomba sganciata su Nagasaki) e la più tradizionale “Bitterness Centrifuge”.

Atomic  è un contenitore di suggestioni e desolazione, un’analisi muta degli aspetti negativi e non dell’energia nucleare: la mano dell’uomo e le sue intenzioni, la voglia di andare oltre e i rischi del limite, la solitudine di scenari apocalittici e distopici tipici dei peggiori incubi contemporanei. Un album imperdibile per contenuti musicali e non solo, che riporta i Mogwai al centro dell’attenzione.

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L’altra mammella delle vacche amiche di Aldo Busi copertina Flanerí

“L’altra mammella delle vacche amiche” di Aldo Busi

Aldo Busi deve sempre esagerare per far dimenticare le brutture della propria e altrui vita. Sceglie di essere, in L’altra mammella delle vacche amiche (Marsilio, 2015), ancora una volta, risolutamente anticonformista e scandaloso. Ma venderebbe l’anima per le sue «vacche amiche».

Si autocelebra grande scrittore incompreso e invidiato, «uno che è la coerenza tra vita e opera come l’Italia non ne ha mai prodotto e che andrebbe letto da vivo senza aspettare l’estrema franchigia che ce lo renda usufruibile», mentre tutto intorno a lui vede l’arte sfigurata da inettitudine e dilettantismo, superficialità e mode di una «barbara società di arcaico pregiudizio». Nei suoi bellicosi eccessi verbali, si alternano riflessioni sui propri turbamenti sentimentali e sulla propria solitudine, quel suo stare ai margini della società per scelta o per dannazione, e osservazioni acutissime sul proprio mestiere e sulla sua libertà preservata «non dalla schiavitù del lavoro, ma dalla schiavitù imposta e marchiatati addosso da troppi datori di lavoro».

Il suo stream of consciousness è un alluvione potente, di quelli che trascina via alberi e auto, che smuove fango, tanto fango. Aldo Busi esprime eccentricità e irrequietezza. Avanza come uno schiacciasassi che asfalta tante care vecchie cose: la tecnologia e il progresso, le toghe colluse e i giudici idioti che applicano «leggi demagogiche, tendenziose, obsolete fino all’idiozia e ormai criminogene», i processi sommari e una «democrazia che ormai non c’è più nemmeno a parole», il femminicidio e l’integralismo islamico, ogni religione e setta che «non significa altro che guerra alla guerra», i politici mafiosi e la spettacolarizzazione del dolore.

I movimenti del pensiero in L’altra mammella delle vacche amiche si mostrano spesso limpidamente sarcastici con la sua caratteristica tendenza allo slittare imprevisto dei discorsi in altri discorsi, mentre l’oggetto testo tende a presentarsi come un frutto essiccato, carico di umori sempre diversi.

Lo fa con uno sguardo ruvido, talvolta disturbante ma profondo nell’interpretare terremoti emotivi e nel palesare orrore del quotidiano celato dietro la maschera del quieto perbenismo. È bello ciò che è irregolare, incompiuto, assurdo e ambiguo.

L’autore vive e desidera relazioni al limite: qualcosa di più profondo, misterioso o impegnativo di una semplice conoscenza. Il rapporto tra due amici è il più coinvolgente che esista e, almeno in teoria, quello meno definibile in termini di confini: «Io ho bisogno di un amico nel momento del superfluo, mio o suo, ognuno felice dell’abbondanza, dell’allegria, del successo, della gioia, degli affetti, degli amori dell’altro».

Aldo Busi è un analista spietato delle debolezze, ipocrisie, egoismo di cui ogni essere dà prova. Polemista inesausto, attaccabrighe compulsivo, agitatore, è sensibile alle dissonanza ma soprattutto ai difetti. Le ferite dell’animo, proprio come quelle del corpo, inducono ad assumere le posture che fanno avvertire meno dolore. Così Busi ha imparato dalle frustrate dell’infanzia a difendersi con una estrosa vitalità, un graffiante senso dell’umorismo nei confronti di una umanità definita «specie infestante».

Aldo Busi è la dimostrazione che si è capaci di sopravvivere al dolore e che questo può essere incanalare e trasformato in creatività. Aldo Busi è un guerriero della parola, determinato e qualche volta feroce. Non si arrende alle sue fragilità, non si piega a nulla, pagando il prezzo più alto. Lo si vede nelle sue amicizie soprattutto femminili: «la brunetta intellettuale milanese», «la “puttanata caraibica”», la dottoressa Olé e soprattutto la Miriam de Mortagli. Attraverso la corrispondenza con quest’ultima, vizi e virtù trovano una loro definizione e l’eccellenza linguistica è data come espressione di eccellenza etica.

È follia, quella di Busi. Ma c’è del metodo pur nell’asistematicità di una prosa paradossale, iperbolica, efferata e cinica. La lingua di Busi non è solo artificio linguistico. È anche il mezzo attraverso cui formare tutto un sistema di valori per i nostri tempi anacronistici: «una scrittura involontariamente aforistica, immaginativa, sapienziale terra terra, con sintesi fulminee e fulminanti».

Da libertario non si lascia imbrigliare in nessuna ideologia. Da esistenzialista sui generis diffida di questo nostro straziante e compassionevole bisogno di consolazione. Per questo Busi predilige la solitudine. Nel suo piccolo spazio di realtà è solo e pauroso esclusivamente di perderla.

 

(Aldo Busi, L’altra mammella delle vacche amiche, Marsilio, 2015, pp. 468, euro 18)

 

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Money Monster Poster italiano Flanerí

“Money Monster – L’altra faccia del denaro”
di Jodie Foster

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, Money Monster – L’altra faccia del denaro mette insieme la coppia all-star formata da George Clooney e Julia Roberts in un thriller serrato che punta il dito contro l’informazione statunitense e il sistema finanziario. La sorpresa è dietro la macchina da presa. A dirigere tutto, infatti, c’è Jodie Foster. È la quarta volta che l’attrice si sposta in regia, è la prima che lo fa per un film che si può quasi definire d’azione.

Lee Gates conduce un programma di successo sui mercati finanziari. Si chiama Money Monster e non è esattamente uno show serio. Ci sono balletti, effetti speciali e cose del genere. Però parla di soldi, e la gente gli dà retta, come ha fatto Kyle, un ragazzo prossimo a diventare padre che dopo aver visto una puntata del programma ha investito tutti i suoi risparmi nella Ibis, una società di trading appena quotata in borsa. Nel giro di un mese, la Ibis perde 800 milioni di dollari, Kyle perde tutto e decide di fare irruzione nello studio del programma durante la diretta, con una pistola e un giubbotto esplosiva.

Sono due i bersagli fondamentali di Money Monster. Da un lato, ovviamente, il mondo della finanza che brucia capitali e distrugge vite senza mai entrare in contatto con la schiera dei piccoli investitori, dall’altro il mondo dell’informazione che sfrutta ogni storia per fare spettacolo. I riferimenti cinematografici che vengono in mente sono tantissimi, da Quinto potere del 1976 a Mad City – Assalto alla notizia per quello che riguarda i media, a Margin Call e La grande scommessa per la denuncia del mondo finanziario.

Money Monster, però, rispetto a tutti i modelli che può ricordare, è soprattutto un thriller, un film dalla forte tensione narrativa che si preoccupa di tenere lo spettatore incollato e di prendersi anche il gusto di depistarlo, quando ci vuole. Come è ovvio che sia, le necessità della suspance portano a grosse semplificazioni della materia finanziaria e di qualsiasi discorso critico strutturato sulla società vittima dell’informazione e simili.

È in questa forte identità thriller la grande sorpresa della regia di Jodie Foster. A cinque anni di distanza da Mr. Beaver, lo spiazzante film sulla depressione con cui cercò di risollevare le sorti di un Mel Gibson fuori controllo, l’ex bambina prodigio di Taxi Driver si misura con un tipo di cinema completamente diverso dai suoi precedenti lavori dietro la macchina da presa, tutti concentrati su un intimismo familiare che trovava in Il mio piccolo genio il suo primo tentativo nel 1991. Probabilmente, le esperienze televisive di regia di alcuni episodi di House of Cards e Orange is the New Black l’hanno portata a lavorare su ritmi più veloci. Quello che è certo è che in Money Monster padroneggia questo linguaggio nuovo – per lei – con grande dimestichezza.

Si possono discutere alcune scelte, perché l’attenzione quasi interamente rivolta al thriller finisce per indebolire gli altri aspetti che avrebbero meritato maggiore spazio. Soprattutto il discorso sullo strapotere dei media. L’idea della morte in diretta, dell’estremo reale che irrompe nel mondo della finzione televisiva, ha, come si è detto, svariati e più illustri precedenti. In alcuni istanti si intravede il materiale di Money Monster per un discorso più approfondito e di potenziale interesse, ma viene lasciato passare in secondo piano. Allo stesso modo, la messa alla berlina di Wall Street, nella sua semplificazione quasi radicale per raggiungere un pubblico il più vasto possibile senza causare mal di testa o ricorrere a Margot Robbie nella vasca da bagno, finisce per banalizzare i passaggi fondamentali per definire il vero ruolo della Ibis, società-simbolo di ogni potere malato..

È il carisma di George Clooney a dare uno slancio in più. Julia Roberts, nei panni della regista Patty, si limita a dire al microfono cosa fare. Sullo schermo, sia in tv che al cinema, ci va Clooney e con lui il sequestratore Kyle di Jack O’Connell, già visto, oltre che nella serie tv Skins, in Unbroken e in ’71 lo scorso anno.

(Money Monster – L’altra faccia del denaro, di Jodie Foster, 2016, thriller, 98’)

Peter Brook Battlefield Teatro Argentina Flanerí

“Battlefield”
di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne

Mi sono innamorata di Peter Brook all’improvviso, trafitta dalla semplicità del suo Il Grande Inquisitore, e negli anni sono stata ipnotizzata da Fragments, divertita dalla sua interpretazione di Il flauto magico, commossa da Love is My Sin e definitivamente conquistata quando, alla fine di Battlefield, ieri sera, il maestro è salito sul palcoscenico per ricevere dalle mani del commissario straordinario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca, e del direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, la Lupa Capitolina in segno di gratitudine per il prestigio internazionale e l’opera svolta.

Peter Brook è un novantunenne dall’espressione simpatica che parla d’amore per il suo pubblico alla fine di uno spettacolo che denuncia l’inumanità della nostra epoca. Battlefield, infatti, è una riflessione sofferente sulla guerra, interpretata come carneficina fratricida. Tornando al Mahābhārata, uno dei testi fondamentali della religione induista, il più ampio poema epico non solo dell’India, ma della letteratura mondiale, Brook prova a far rivivere la guerra di sterminio che si consuma tra le due fazioni della stessa famiglia dei Bharata, per una storia universale che ci invita a interrogarci sul rimorso del vincitore e ad affrontare la responsabilità del potere.

Battlefield è un estratto dell’originale opera che nel 1985 sconvolse per nove ore il Festival di Avignone. Dopo trentun’anni l’opera si lascia alle spalle ogni sovrastruttura e si incarna in soli quattro attori che, accompagnati dalle percussioni emozionanti di Toshi Tsuchitori, e qualche drappo colorato, tratteggiano in maniera essenziale uno scenario atemporale, mitico e universale in cui «Nessun uomo buono è interamente buono… nessun uomo cattivo è interamente cattivo».

Lo stesso Brook afferma che «la terribile descrizione della guerra che si consuma nella famiglia dei Bharata, con “dieci milioni di morti”, può far pensare a Hiroshima o alla Siria oggi». E prosegue: «Nel Mahābhārata alla fine i leader hanno la forza di porsi queste domande. Per questo la reale platea a cui ci rivolgiamo è composta da Obama, Hollande, Putin e da tutti i presidenti. Quando guardiamo i notiziari, siamo arrabbiati, disgustati, furiosi. Ma nel teatro ognuno può vivere attraverso tutto questo e uscire più sicuro, coraggioso e fiducioso nel poter affrontare la vita».

 

Battlefield

 

tratto da Il Mahabharata e dall’opera teatrale di Jean-Claude Carrière
adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne

con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, and Sean O’Callaghan
musicista Toshi Tsuchitori

Prossime date
Roma – Teatro Argentina dall’11 al 15 maggio
Perugia – Teatro Solomeo 19 e 20 maggio
Firenze – Teatro della Pergola 24 e 25 maggio
Modena – Tratro Storchi 29 e 30 maggio

Luciano Funetta Dalle rovine copertina Flanerí

“Dalle rovine”: biopsia di un romanzo

Uno dei libri di cui si è parlato di più – e bene – negli ultimi sette mesi è Dalle rovine di Luciano Funetta (Tunué, 2015). Da sempre diffidente verso il consenso a furor di popolo, ho preferito aspettare che le acque si calmassero prima di incontrare Luciano per parlare del suo libro. E in effetti due mesi fa circa, periodo a cui risale l’intervista che segue, sembrava che tutta l’attenzione intorno a Dalle rovine stesse scemando, come è fisiologico per qualsiasi romanzo, buono o cattivo che sia. Ricordo che allora parlammo della sua candidatura al Premio Strega come di una boutade.

Ma quelli erano altri giorni. Oggi Dalle rovine è nuovamente al centro della scena narrativa italiana e Luciano è stato incluso tra i dodici finalisti dello Strega 2016. Credo sia giunto perciò il momento di rivelare cosa ci siamo detti in un pomeriggio di febbraio, seduti a un bar, nel quartiere San Lorenzo, a Roma.


Luciano, partiamo da una domanda secca: ti aspettavi tutto questo clamore intorno a Dalle rovine?
No, sinceramente no. Però credo che molto sia dovuto al fatto che prima che arrivassi io Tunué aveva lavorato molto bene sugli altri libri della collana Romanzi. La casa editrice ha due punti di forza fondamentali: il primo è Vanni Santoni che ha una personalità inarrestabile; il secondo è l’ufficio stampa, Claudia Papaleo, che è straordinaria. Tutto quello che è venuto dopo è stato assolutamente inaspettato e io stesso faccio un po’ fatica a gestirlo.


L’impressione che ho avuto è che si sia creato un movimento intorno al tuo libro simile alla pesca a strascico, nel senso che alcune persone lo hanno individuato e capito e ne hanno parlato bene; molte altre invece mi sono sembrate più attratte dal fenomeno, dalla moda.
Te lo dico, tutta questa attenzione mi imbarazza, moltissimo. Tanto che a volte preferirei dimenticarla, anche perché questo riscontro inaspettato scombina un po’ i piani per quello che dovrebbe essere il mio lavoro successivo. Sto ovviamente scrivendo di meno perché mi trovo a dover gestire questo fenomeno. Sono d’accordo con te sul fatto che il successo di un libro, o comunque l’attenzione verso un libro sia una pesca a strascico, perché ormai ci sono talmente tante persone che possono parlare di un argomento, che diventa davvero difficile controllare il grado di reale coinvolgimento e di sincerità su quanto viene detto. Adesso, in realtà, proprio negli ultimi tre giorni [a fine febbraio, ndr], questa tendenza sensazionalistica si è attenuata e sono uscite due recensioni piuttosto critiche verso il mio libro. Le ho accolte con sollievo.


Io, come chi già ti conosceva, ho imparato ad apprezzare la tua scrittura attraverso i racconti: Gli occhi della montagna, uscito su Granta Italia 3 per esempio, o Tahmer-Za pubblicato su effe – Periodico di Altre Narratività #1, e ancora le storie scritte per TerraNullius. Dalle rovine invece mi ha ricordato un po’ alcuni film di Tarantino, che mettono in mostra l’indiscutibile qualità tecnica dell’autore, a discapito della trama e del suo messaggio intrinseco, preferendo magari il citazionismo. Un libro per amatori insomma.
In realtà non aspiravo, scrivendo il libro, a una comprensione universale del presunto messaggio che porta con sé. È ovvio che quando scrivo, ho un lettore ideale in testa, che non sono io, ed è ovvio che quello che scrivo è destinato a essere in un certo modo, anche se non dovesse piacere a nessuno, perché nasce per non compiacere nessuno. Non penso che Dalle rovine sia un romanzo costruito sul citazionismo. Di sicuro mette in scena un’estenuante immobilità, come acqua stagnante in cui stanno a mollo individui che non possono fare altro che parlare. E quando parliamo, solo poche parole, pochissime idee sono davvero nostre. Quando parliamo, soprattutto in una circostanza delirante come quella che investe i protagonisti di una storia e colui che quella storia la scrive, chiamiamo in causa molte cose e non sempre riusciamo a raggiungere chi ascolta. Diciamo che non esiste un libro, questo poi in particolare, che possa avere una ricezione universale.


Qualcuno ha parlato di oscenità o pornografia di Dalle rovine, ma in realtà il romanzo parla d’altro – la scena dei serpenti è solo un innesco narrativo. Personalmente ci ho visto molto di quella stessa ricerca intorno a cui ruota I detective selvaggi di Roberto Bolaño, una ricerca dell’arte e nell’arte che conduce poi alla perdizione, alla follia.
Non esiste una parte oscena in questo libro. Tolta la faccenda dei serpenti che è in sé il momento, se vogliamo dire, più spinto che c’è nel romanzo. Non vedo come quel momento si sarebbe potuto sviluppare in maniera diversa. Se io avessi portato quel tema agli estremi, avrei scritto un romanzo sul porno o sulla devianza. Invece ciò che ho voluto raccontare è esattamente l’opposto: una malattia che non ha a che fare con il corpo ma con un altro tipo di manifestazione. Il momento in cui Rivera compie il gesto di masturbarsi con i serpenti, da un certo punto di vista è un momento curativo per lui, un momento in cui la sua solitudine raggiunge una catarsi che porta al compimento il suo stato di allontanamento dall’umanità. La malattia che viene esplorata dopo è di altro tipo e non ha fondamentalmente sbocchi, poiché tutti gli altri personaggi che vengono mostrati e si scoprono come esseri perduti o esseri che sono arrivati alla fine di un percorso di disgregazione, di disintegrazione della loro morale, del loro appartenere alla razza umana in quanto società, non riescono, con un colpo di coda, con un gesto estremo – come quello di Rivera – a trovare la loro via di fuga.
L’unico forse è Tapia, ma ha in mente un progetto troppo grande per essere realizzato, un progetto impossibile. Quindi solo Rivera raggiunge il suo obiettivo; gli altri non ci riescono nonostante ci abbiano provato attraverso altri processi come la malattia, il suicidio o il delirio. La loro è una salvezza completamente capovolta perché un suicida, un malato e un pazzo scatenato non possono pensare che la loro idea di salvezza sia accettata o accettabile per il resto dell’umanità: essendo fondamentalmente degli enormi mitomani e enormi malati, finiscono per annullarsi, ma solo dopo aver ammesso la natura profonda della loro dissolutezza e della loro solitudine.


Nemmeno Rivera si salva alla fine però…
Beh, Rivera non si sa se si salva o meno. Diciamo che Rivera non ha la necessità di salvarsi per quelle che sono le sue prerogative, per le sue scelte. Rivera ha più un ruolo di testimone: la testimonianza attraverso l’esperienza. Gli altri non possono testimoniare nulla. Sai, c’è l’antico significato greco della parola “martire” che significa testimone, il martire non è colui che muore ma colui che sopravvive per raccontare le cose. Il fatto che Rivera sopravviva o meno, secondo me non è fondamentale. Quello che è fondamentale è che arrivi alla fine di una traiettoria che lo ha visto partire da solo, dopo essersi lasciato alle spalle l’atrocità della sua appartenenza alla razza umana, e lo vede arrivare, sempre da solo, in un punto in cui ha tutte le atrocità della razza umana davanti a sé e quindi si può preparare, di nuovo, a vederle in quelle che sono le loro forme più assurde, indescrivibili e forse anche innaturali. Sia lui che Tapia sono personaggi che, da un certo punto di vista, attuano un movimento di rivolta metafisica, nel senso che non accettano la condizione di essere umani ma si proiettano verso un superamento di questa condizione. Rivera riesce a superare la condizione perché accetta la solitudine come processo fondamentale della rivolta; Tapia invece non ci riesce perché ha bisogno di essere riconosciuto come re, come sovrano, perciò ha bisogno della presenza di altri esseri umani.
Rivera diventa un dio per creature che non sono umane: il suo atto d’amore nei confronti di qualcuno avviene insieme ai suoi serpenti; Tapia richiede che questo riconoscimento avvenga da parte dei suoi simili e questo non può succedere nel momento in cui tu, per fare questo, scateni una potenza maligna.


Chi è Tapia di fatto?
Di fatto è un uomo che vive delle bugie che gli hanno raccontato e che ha trasformato nella propria realtà. A un certo punto, si trova a vivere in una realtà che è assolutamente inesistente ma che per lui costituisce l’unica ragione di vita, una prospettiva in un certo senso assurdamente distorta che lo pone al centro di qualcosa. Ma questo è ciò che lui racconta, non si sa mai se corrisponde al vero oppure no.


C’è una foto però che testimonia il suo passato.
Sì, ma una foto se non è interpretata non è niente. Così come un’immagine cinematografica. Se non esistono delle coordinate per interpretare qualcosa quel qualcosa diventa muto, una reliquia vuota, silenziosa. Tutto il romanzo è basato sulla scelta di guardare e interpretare o sul non guardare affatto, di essere innocenti, da un certo punto di vista, ma anche colpevoli. Ricordo di aver letto una frase che era qualcosa come: a furia di non guardare, per non vedere le atrocità e per non sentirsi coinvolti, si finisce per essere colpevoli. Quindi da qui l’idea del cinema come quinta teatrale di tutto il romanzo, o comunque come suggestione – questa idea era uno dei nodi della storia. L’osservazione e il racconto di ciò che si osserva sono fondamentali, perché poi tutti i racconti, così come il raccordo che c’è tra i personaggi, derivano dalle loro stesse parole, dai loro stessi racconti. Non potremo mai sapere se quei racconti sono veritieri oppure no, oppure se la chiusura di questo gruppo di persone ha auto-alimentato un mito, una mitologia delle loro vite che non ha nessun riscontro. Anche perché i produttori, Rivera, Tapia costituiscono un gruppo isolato. È un gruppo che sta alla fine di qualcosa, all’estremo di qualcosa e che vive questa esperienza di esplorazione in completo isolamento rispetto al mondo. Quindi le vite di questi personaggi diventano le uniche coordinate nei loro racconti e le loro malattie diventano le uniche coordinate per rappresentare l’umanità. Anche la fotografia di cui parlavi suggerisce qualcosa ma non chiarisce affatto, pensa: se tu stai a casa tua e a un certo punto trovi una fotografia in cui riconosci una persona che ti è familiare ma ignori chi siano tutte le altre persone presenti in quella fotografia, la prima cosa che fa la tua testa è immaginare delle connessioni tra quelle persone, ovvero, immaginare una storia che ha portato poi al momento dello scatto. Ma non potrai mai sapere se la ricostruzione nella tua testa rispecchia effettivamente la realtà. Però quella ricostruzione, fino a che non ti troverai eventualmente di fronte a una documentazione che la smentisce o che la conferma, resterà la tua verità.


A confondere le acque c’è anche quell’entità, forse un gruppo di persone, che si fa voce narrante, sin dall’inizio. L’ipotesi è che possa trattarsi dei cinque protagonisti del film di Tapia. Un coro che parla e confonde, e che dà alla storia un respiro quasi mitico, creando un effetto straniante rispetto al succedersi dei fatti narrati.
La nascita di questa voce è stata abbastanza casuale, nel senso che mi sono ritrovato a scrivere così il libro. Non c’era una ragione in particolare, anche perché questo non doveva essere un romanzo, ma un racconto con tutt’altra destinazione. Quando mi sono trovato con molte pagine e mi sono reso conto che quella voce continuava a essere presente, con il suo punto di vista, mi sono chiesto se avesse un ruolo o se fosse semplicemente un’impalcatura sulla quale avevo costruito la mia presenza dentro alla storia. La risposta che mi sono dato è che erano vere entrambe le cose.
Avevo anche provato a passarla in terza persona ma non ci sono riuscito. Avevo bisogno del turbamento che il raccontare attraverso quella voce mi dava, perché il turbamento è qualcosa di sgradevole in un certo senso, ma anche qualcosa di molto piacevole se si racconta di certe cose. Avevo necessità di conservare quel turbamento per continuare a scrivere la storia. Allo stesso tempo, il fatto che queste presenze, queste creature fossero totalmente non caratterizzate o non avessero nessun tipo di ruolo attivo all’interno della storia – perché c’era anche la possibilità che a un certo punto queste si manifestassero e cambiassero le sorti – se non quello di vedere, guardare e raccontare, di essere l’elemento di raccordo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ha rafforzato in me la sensazione di trovarsi al confine tra due territori.


Il tempo stesso sembra eterno, del resto…
Esattamente: il futuro è un tempo che non esiste nel romanzo, c’è moltissimo il tempo passato ma è trattato come un tempo su cui il presente incide in maniera spaventosa, in quanto è il presente che racconta il passato e quindi è il presente che fa esistere il passato. Dunque si tratta di un passato spettrale, fantasmatico e quindi la temporalità delle tre coordinate classiche – passato, presente, futuro –, il fatto che queste coordinate si mescolassero grazie ai personaggi e ai loro dialoghi, che ci fosse un ulteriore livello narrativo rappresentato da queste voci, mi ha aiutato a mantenere l’ambiguità tra i momenti e i piani della storia. Una storia che per certi versi è abbastanza statica che, come dici tu, assomiglia in effetti a un film di Tarantino – ma io aggiungerei a un film brutto di Tarantino, a uno di quei suoi film in cui tutto si risolve con una sparatoria senza senso. Io la sparatoria senza senso non c’è l’ho messa perché non ci stava, però la staticità delle situazioni, il fatto che tutto si svolge in luoghi chiusi e l’isolamento diventa una condizione necessaria per far esprimere i personaggi, immagino possa giustificare la tua osservazione che è assolutamente pertinente. Esiste questa azione di staticità che è l’opposto della nozione di trama classica, ci sono tantissimi personaggi e sì, ci si aspetta che a un certo punto uno di questi personaggi cominci a fare qualcosa trascinando tutti gli altri.


Il riferimento a Tarantino si ricollega al discorso dei modelli, letterari prima di tutto, come certamente Bolaño, Conrad e Vollmann. Per quanto riguarda invece i modelli cinematografici, mi vengono in mente i film d’exploitation, antesignani degli snuff movie. Anche il nome Birmania fa pensare a quei film degli anni ’70, o sbaglio?
Se ci pensi Joe D’Amato, colui che ha portato il porno industriale in Italia, si chiamava Aristide Massaccesi e a un grande produttore cinematografico che si chiama Aristide Massaccesi nessuno avrebbe mai dato credito. Comunque sì, i nomi sono funzionali a ricreare un certo tipo di suggestione legata alla realtà ma comunque distaccata perché il mondo del porno di cui parlo non esiste. È come se avessi immaginato un momento specifico che nella storia del porno non c’è stato, ma che comunque, per quanto fosse immaginario, doveva mantenere delle caratteristiche che lo connotassero e lo legassero a quello che invece è il porno reale. Poi ti dico, ci sono molte cose che in realtà sono abbastanza plausibili: quello che è universalmente considerato come uno dei grandi capolavori della storia del cinema porno, The opening of Misty Beethoven di Metzger, è ispirato a Pigmalione di Shaw. Quindi sì, diciamo che il riferimento a situazioni, sia letterarie che cinematografiche, è abbastanza naturale perché questa è la mia vita, la mia biografia. Non mi interessa raccontarlo per quello che è, ma invece raccontare quello che io vivo filtrato da quello che leggo. È la mia prospettiva personale di ciò che invece è un quotidiano abbastanza normale. Non sono uno che ama raccontarsi, né uno che ama fare di se stesso un personaggio o mettersi in prima persona a vivere una storia perché sarebbe impossibile da credere, per me stesso innanzitutto. Se io mi rendessi protagonista di un romanzo ambientato durante una spedizione sul Rio delle Amazzoni sarei uno scemo, e probabilmente sarei il primo a morire.
Per quanto riguarda invece gli autori a cui devo molto, come hai detto tu, Bolaño sicuramente; Bolano è uno degli autori che amo di più e che si è portato dietro i vari Roberto Arlt, Osvaldo Lamborghini e tutta quella letteratura sudamericana post Borges, che è un po’ figlia di Borges ma che fa quello che Gombrowicz aveva suggerito di fare agli amici di Buenos Aires, ovvero di uccidere Borges.


E noi chi dobbiamo uccidere invece?
Noi? Nessuno perché non siamo assassini, non siamo mai stati bravi a essere assassini con personalità in Italia. E poi in Italia non abbiamo qualcuno così ingombrante come Borges.


Dunque anche tu sei d’accordo con Saba quando diceva, in Scorciatoie e Raccontini, che gli italiani non sono un popolo di parricidi ma di fratricidi.
Sì, è verissimo. Dobbiamo smetterla di ammazzare i nostri fratelli perché tanto non ci serve a niente, se non a vivere in una prospettiva sbagliata. Per quanto riguarda la letteratura, credo che ammazzare i nostri contemporanei sarebbe molto più coraggioso se lo facessimo fisicamente piuttosto che con l’astio e con il risentimento che dimostriamo, che finisce per alimentare unicamente il chiacchiericcio letterario, che è quello che tiene in vita tutti noi e che ci fa sentire così tanto speciali.


Nel tuo libro dunque gli elogi e i riconoscimenti verso altri scrittori sono parte integrante della struttura. Non a caso una delle recensioni più belle di Dalle rovine è stata quella di Giorgio Vasta che affermava che tu cerchi «l’oggetto più autentico del desiderio letterario
».
Sì, è così. Il libro è pieno di citazioni, magari non dichiarate apertamente, ma è strapieno di citazioni messe in bocca ai vari personaggi. Vengono citati Danilo Kiš, Roberto Arlt, Kafka… Non ho paura a far parlare i miei personaggi come se fossero lettori che hanno sfogliato le stesse pagine che ho letto io, anzi, penso che sia una cosa che, da un certo punto di vista, mi caratterizza. Il fatto che, mentre cerchi di dimostrare qualcosa, ti venga in mente qualcuno che, molto prima di te, con discorsi molto meno complessi dei tuoi e molto più immediati dei tuoi, è riuscito a dire esattamente quello che tu vuoi dire, porta a una duplice scelta: o smetti di parlare oppure ti prendi la responsabilità di usare le parole di qualcun altro. Ma questo comporta anche il fraintendimento: le parole degli altri, soprattutto se estrapolate, rischiano di creare un enorme fraintendimento.


All’interno di Dalle rovine citi un mito, quello di Pitone che scende dal monte Parnaso. Il serpente è una figura che ritorna in tutte le religioni e in moltissimi libri.
Il mito a cui faccio riferimento è in Ovidio, nelle Metamorfosi. La citazione che dici tu è inserita in un punto preciso della storia, nell’ultima pagina: Rivera è definitivamente l’uomo che si è allontanato dall’umanità, che è diventato qualcosa di diverso dall’umanità, attraverso un processo di trasformazione, e si è identificato più con i suoi rettili che non con i suoi simili. Rivera diventa il serpente che scende dal monte Parnaso poiché, dopo l’isolamento che ha vissuto nella seconda metà del romanzo, segregato nella villa e quindi una specie di Parnaso dove non ci sono i poeti ma gli assassini, abbandona la casa e dunque scende dal monte.
Invece la citazione puntuale del mito sta a pag. 123: il produttore Traum, parlando del suicidio di Birmania, gesto incomprensibile che nessuno riesce a interpretare, dice che gli uomini non possono capire, che gli uomini sono ciechi. Quelli che invece possono capire, che si trovano allo stadio elementare della comprensione e quindi a quello più immediato e vitale sono i cani, gli uccelli, i serpenti ecc.


«Dal giorno in cui il primo serpente scese strisciando dal monte Parnaso, i serpenti e le altre bestie che abitano l’oscurità sono destinate a capire e a morire, e muoiono per mano di coloro che vivono alla luce del sole…»
Traum ricorda il passo in cui Ovidio fa riferimento alla nascita del serpente e alla sua manifestazione sul Parnaso. Un giorno questo serpente gigantesco scende il monte per andare ad abitare tra gli uomini e Apollo lo uccide con mille frecce e quindi questa consapevolezza istintiva e bestiale viene bloccata, fermata dall’intervento del dio che è per definizione il dio del lato luminoso dell’umanità. Viene dunque impedito a questa bestia divina di strisciare tra gli uomini.
È un passo molto breve delle Metamorfosi, ma molto esplicativo.


Stai leggendo Tempo di spettri di Leo Perutz. Che progetti hai?
L’ho appena iniziato perché sto leggendo solo libri ambientati in Europa centrale, è questa l’ambientazione che sto cercando adesso. Vorrei ricominciare a scrivere una cosa che avevo lasciato quando Santoni è arrivato per fare l’editing di Dalle rovine. Una storia piuttosto lunga e complessa che si svolge sia ai giorni nostri sia in un tempo futuro non specificato che sto studiando. Sto leggendo molto, ma non solo romanzi. Spero di poter tornare presto a scrivere.

 

La chiacchierata è proseguita oltre, a registratore spento. Quando ci siamo lasciati ho confessato a Luciano i miei tempi biblici nello sbobinare le interviste. Lui mi ha sorriso, mi deve aver preso alla lettera. Comunque ora l’intervista è finalmente pronta. E i tempi, forse più maturi di quanto non lo fossero allora.

 

(Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunué, 2015, pp. 184, euro 9,90)