Qualche sera fa, Roma sembrava Manchester ed è tornata indietro di 35 anni circa. Non stiamo parlando di calcio. In un club della Salaria, zona famosa per altri tipi di svaghi notturni, è andato in scena uno dei concerti più intensi dell’anno, anche se siamo ancora a maggio. Quindi ora, senza troppe frasi retoriche o giri di parole, vi racconteremo che cosa è successo al Warehouse.
Il protagonista di questa magnifica serata si chiama Peter Hook, musicista inglese e, per alcuni, grandissimo paraculo. Ma essere paraculi è anche un’arte, un po’ come copiare a scuola, e il caro Peter ne è tra gli esempi più lampanti. I suoi detrattori lo accusano, in sostanza, di aver fondato una cover band dei Joy Division con la quale ripropone i due album dello storico gruppo di Manchester, piazzando qua e là pure qualche brano dei New Order. Tutto ciò è in parte vero, ma è davvero un problema? Piccolo passo indietro, come sempre.
I Joy Division, Unknown Pleasures, Closer, Ian Curtis, “Love Will Tear Us Apart”. La loro malinconica e struggente bellezza post–punk la conoscono tutti. Le loro t–shirt con la copertina disegnata da Peter Saville nel 1979, quelle pulsazioni elettromagnetiche diventate popolari quasi quanto le magliette con Che Guevara. La depressione, i problemi coniugali, l’epilessia ed il suicidio di Ian, come spiegato in un documentario, spingono la band a fondare i New Order. Blue Monday e la new wave impazzano nell’Inghilterra thatcheriana degli anni ’80, decennio di scioperi, violenza e tanta buona musica. I New Order segnano quel periodo, decisamente.
Arriviamo poi al 2010, quando Peter Hook decide di fondare una propria band, i Peter Hook & The Light, concludendo amaramente così la sua esperienza con i New Order. Ed eccoci qua a raccontare cosa abbiamo visto al Warehouse di Roma. La sala del concerto si riempie velocemente, con gente di tutti i tipi e di tutte le età: spiccano nostalgici 40enni e 50enni ancora incravattati, ma soprattutto ci sono tanti appassionati di musica più giovani. Atmosfera rilassata ma impaziente allo stesso tempo. La band sale sul palco poco dopo le 22:30 e si inizia subito con alcuni celebri brani dei primi New Order come “ICB”, “Way Of Life” e “Leave Me Alone”. Il pubblico apprezza ma per il momento solo le prime file si scaldano. Il vero delirio deve ancora iniziare. Dopo una breve pausa, Peter Hook ed il resto del gruppo tornano sul palco e, in sostanza, suonano tutto Closer senza fermarsi: il secondo e ultimo album dei Joy Division fa scatenare e ballare i presenti, i quali si sciolgono con le note di “Isolation”, il gothic rock di “Colony”, le cupe atmosfere di “Heart And Soul”, “The Eternal” e “Decades”. La band suona divinamente, la voce di Hook cambia e adatta di volta in volta la sua modulazione al brano, mentre tastiere, chitarre e synth fanno il resto in completa armonia. Prima della seconda pausa, lancio della maglia e fan che si uccidono nel tentativo di accaparrarsi il prezioso cimelio.
Ritornati sul palco, si entra nel vivo del concerto: subito dopo “Digital” parte Unknown Pleasures con “Disorder” e gli altri cavalli da battaglia
dei Joy Division, le possenti “She’s Lost Control”, “Shadowplay” ed “Interzone”. Altro album suonato e cantato alla perfezione, senza sosta. Il concerto si chiude con “Transmission” e con il brano più famoso della band, “Love Will Tear Us Apart”. In un attimo la sala si trasforma e accompagna l’ex bassista dei Joy Division cantando tutto il pezzo dall’inizio alla fine, fino al coro finale che non sembra mai finire. Abbracci, saluti e qualche lacrima sanciscono la fine di una serata speciale.
Bilancio finale: 31 brani suonati e quasi 3 ore di musica. La sala si svuota lentamente e si intravedono molti sorrisi, tutti di diverso tipo. Uno
spettacolo unico, forse sì da paraculi ma comunque unico e ricco di suggestione, misto all’invidia di chi quegli anni non li ha vissuti. I detrattori di Hook dovrebbero prima fare un salto ad uno dei suoi concerti, magari negli USA dove i biglietti per il concerto di novembre a Chicago sono già terminati.
Bisogna imparare a combattere da subito, diventare dei piccoli combattenti quando si è ancora bambini. Succede quando i militari fanno irruzione in casa tua, di notte, e portano via i tuoi genitori. È successo a Raquel Robles, insegnante, attivista politica e scrittrice argentina che per la prima volta viene pubblicata in Italia, da Guanda, con quello che è il suo lavoro più autobiografico.
I Piccoli combattenti del titolo sono Raquel stessa e suo fratello Mariano, «l’unico compagno nella guerra popolare di lunga durata della mia infanzia». Quando erano solo dei bambini, Raquel e Mariano sono diventati degli orfani politici. I loro genitori, dei militanti montoneros, vennero arrestati senza un motivo preciso all’inizio degli anni Settanta e si andarono ad aggiungere all’immensa schiera dei desaparecidos argentini. Non sono mai tornati.I due bambini sono cresciuti con gli zii e le due nonne e con l’attesa continua di un ritorno che non c’è mai stato.
I ricordi di quell’infanzia di assenza sono finiti in un romanzo che prende dall’autobiografia senza però essere un vero e proprio libro di memorie. Di vero, Raquel Robles ha tenuto l’adesione emotiva al ricordo, non i fatti. Quello che le importava, del resto, era raccontare la storia intima delle sensazioni, non quella oggettiva dei documenti. C’è un modello riconosciuto e dichiarato: Primo Levi, che è stato sì un testimone fondamentale di Auschwitz e dell’orrore, ma che è stato anche un grande scrittore, capace di veicolare l’emozione attraverso la scrittura. C’è un passaggio di Se questo è un uomo che più degli altri ha colpito Robles – lo ha detto presentando il libro al festival Encuentro di Perugia. È il momento in cui Primo Levi descrive una macchina scavatrice in funziona nel campo. Tutto il lavoro del macchinario viene reso con una terminologia che attinge alla sensazione privata più forte in Levi e in ognuno dei prigionieri presenti: la fame. La macchina mangia la terra, divora le pietre. È questo trasferimento del dato sensibile individuale al fatto oggettivo la vera essenza della narrazione biografica per Raquel Robles, ed è questo quello che è riuscita a fare nel suo libro.
Il tema della storia argentina scorre all’interno del ricordo personale, della vicenda di due bambini costretti a crescere senza sapere nulla dei genitori, perennemente in bilico tra il ricordo e la paura.
«Sapevo che eravamo in guerra, che doveva esserci stato un qualcosa di simile a una battaglia e che loro erano in qualche gelida prigione a lottare per le proprie vite. Sapevo di dover resistere». La piccola Raquel trasferisce su di sé e sul fratello, che diventa il suo primo allievo e assistente, il dovere della resistenza, di portare avanti la battagli dei genitori. Cerca compagni per la sua missione, per combattere contro il Nemico, un’entità astratta ed enorme, e per scongiurare Il Peggio, quella fine orribile e possibile che potrebbe essere toccata ai genitori e che non viene mai evocata direttamente.
Per resistere c’è bisogno di modelli da seguire, come Irena Sendler, l’assistente sociale che nel ghetto di Varsavia aiutò duemilacinquecento bambini ebrei a fuggire, prima di essere scoperta dalla Gestapo e punita in maniera orribile. Diventa un riferimento costante, Irena Sendler, così come la sua fine diventa un incubo da temere più di ogni altra cosa, per sé e per i genitori.
Piccoli combattenti non cerca la facile solidarietà emotiva del lettore, non vuole commuovere a tutti i costi, o indignare per le ingiustizie arbitrarie. Trova nella semplicità la sua forza più grande, nell’esposizione asciutta che sa pescare dal linguaggio dell’infanzia la purezza emotiva del ricordo. È un ottimo modo di fare grande letteratura.
(Raquel Robles, Piccoli combattenti, trad. di Iaia Caputo, Guanda, 2016, pp. 155, euro 15)
L’anno breve di Caterina Venturini (Rizzoli, 2016) è l’anno che hai paura di cominciare, ma che, una volta iniziato, non vorresti finisse mai. È un anno difficile, che l’autrice, senza mai cadere nella trappola del buonismo letterario, racconta con grande verità.
Ida Ragone, professoressa precaria di italiano, insegnerà in ospedale ai ragazzi malati. Il camice bianco, la mascherina davanti alla bocca, i soprascarpe di plastica blu. L’attenzione burocratica delle regole le sembra superare, irrispettosa, quella per la malattia, per chi è stato trapiantato, per chi non ce l’ha fatta ed è morto in estate, come se, in fondo, fosse vero che col tempo ci si abitua a tutto. Regola numero uno: mai correre in corridoio; regola numero due: mai fare commenti sul corpo dei ragazzi; regola numero tre: mai improvvisarsi psicologi; regola numero quattro: se si ha un herpes, la lezione è annullata. Quando per la prima volta Ida arriva in ospedale, vede una bambina calva, illuminata dalla luce arancio di un televisore, colori ovunque e prati verdi alle pareti. «Non se le aspettava queste papere gialle per indicare i numeri delle stanze, cos’è questo divertimento? Cos’è questo circo? La malattia dov’è, che prima la vede e meglio sta».
Tra i giovani pazienti ci sono Andrea, che odia Roma perché ha una luce troppo chiara; Mattia, che tiene sempre gli occhi chiusi, però ci vede; Luca, che ha ancora pochi sintomi, mentre il numero dei suoi globuli bianchi parla chiaro; Marilù, che è difficile che possa farcela; Chiara, che è schizofrenica; Sonia, che sta distesa mentre Franco le accarezza i capelli; Elisa, che non s’è capito cos’abbia; Abdul, che toglie la mano della madre dalla guancia e le dice «non è vero che vuoi accarezzarmi, tu vuoi solo sentire se ho la febbre»; Salvatore, con la leucemia linfoblastica acuta Ph+, Leila, anoressica; poi Giulia, Sara, Eta Beta e Rosy. Sono i ragazzi della torre, hanno tra i 14 e i 19 anni e abitano i reparti di Neu, Ema e Ali. A loro Ida porta da leggere Foscolo, Petrarca, il libro dell’Inferno disinfettato o Virginia Woolf, e ogni volta deve sperare di non rivederli più. Tante storie e personaggi in un anno composto dai soli autunno, inverno e primavera. Un anno breve, dunque, e per alcuni più che per gli altri.
Anche Ida è stata adolescente, rifiutando il suo corpo, stringendosi in simbiosi con l’amica Elis contro un comune nemico: il cibo. Anche lei ha esplorato l’avvicinarsi dell’età adulta con l’incredibile inquietudine di chi non sa come amare, amarsi e farsi amare.
Caterina Venturini non racconta solo della malattia, ma, in un preziosissimo intreccio di esperienze e diverse giovinezze, affronta i temi dell’adolescenza e della mancata accettazione di sé. Il suo è un linguaggio raffinato e sincero. Il ritmo narrativo è sempre bilanciato con la trama e scandisce gli eventi talvolta in maniera misurata e lenta, altre volte, invece, accelerando in impennate emotive, per chiudersi, poi, nei momenti più claustrofobici o di maggiore raccoglimento.
Un libro da leggere senza fretta e che si prende le attenzioni che merita. Un romanzo di cui cogliere ogni piccola sfumatura, di tristezza, di rammarico e anche di gioia. Una storia che svuota e riempie, così come ogni storia che debba essere raccontata.
(Caterina Venturini, L’anno breve, Rizzoli, 2016, pp. 360, euro 19,00)
Quando l’anno scorso La foresta dei sogni, l‘ultimo film del regista Gus Van Sant, è stato presentato in concorso al Festival di Cannes è stato accolto in un modo che nessuno poteva aspettare: a suon di fischi e risate. Il rapporto tra Van Sant e la Croisette è sempre stato ottimo. Nel 2003 era arrivata la Palma d’oro (e il premio per il miglior regista) per il capolavoro Elephant. Nel 2007 era stato Paranoid Park ad aggiudicarsi un premio speciale per il sessantesimo anniversario del Festival. Insomma, l’accoppiata Van Sant/Cannes di solito voleva dire cose buone.
Aggiungiamoci poi che La foresta dei sogni arrivava lanciatissimo, con protagonista Matthew McConaughey al culmine del suo anno d’oro, dopo l’Oscar per Dallas Buyers Club e il successo di True Detective e Interstellar. Insomma, sembrava dovesse essere un trionfo. È andata male.
A indispettire è come Van Sant ha deciso di riprendere un tema già affrontato più volte nel suo cinema, quello della morte. C’era già stata la celebrata trilogia del periodo 2002/2005 (Gerry, Elephant, Last Days), c’era stato già il recente L’amore che resta del 2011, ora con La foresta dei sogni Van Sant sposta il suo sguardo su gli aspetti più spirituali della scomparsa. Arthur Brennan è uno scienziato che perde la moglie. Decide di partire per il Giappone con un biglietto di sola andata, la meta finale è la foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, un luogo che per qualche motivo è diventato uno dei posti del mondo preferiti da chi si vuole togliere la vita (davvero). Ovviamente anche Brennan è lì per quello, solo che quando si siede nel luogo che ha scelto come sua ultima dimora, con la sua bottiglietta d’acqua e il suo flacone di pillole della moglie, vede arrivare un altro uomo, un giapponese di nome Takumi Nakamura, che non è riuscito a suicidarsi e vuole uscire dalla foresta. L’incontro lo costringe a rinviare il momento finale e a cercare con l’altro uomo un modo per lasciare la foresta.
Che cos’è che non va in La foresta dei sogni? Un bel po’ di piccole cose che messe tutte insieme fanno un film goffo e debole, che si espone molto facilmente al ridicolo che invece vuole spacciare per sofisticato misticismo. Tutto quanto appare così scontato ed evidente, sin dall’inizio, con Brennan McCounaghey che risponde «No, grazie» alla hostess di terra che gli chiede se vuole acquistare anche il biglietto di ritorno.
Nel tentativo di creare una tensione verso l’ulteriore, verso l’ignoto del dopo morte, Van Sant finisce per inciampare in uno spiritualismo goffo che è molto comune a quei registi che in un momento o nell’altro hanno deciso di guardare verso l’al di là in cerca di risposte. In forme diverse – e a grandezze diverse – vengono in mente Hereafter di Clint Eastwood o Ovunque sei di Michele Placido, entrambi accolti con una certa perplessità dalla critica e il pubblico.
Se è possibile, Van Sant manca ancora più il bersaglio dei suoi predecessori. Sin dal doppio binario che scandisce la narrazione – da una parte la foresta, dall’altra la vita di Brennan che scorre in flashback, con il rapporto con la moglie che attraversa litigi, riconciliazioni e drammi – fino alle rivelazioni finali che spingono ancora di più tutto il racconto verso il vasto territorio del «ma che davvero?» e del «sì, vabbè», tutto sembra improntato a un’approssimazione didascalica e piatta.
Si può provare a inquadrare La foresta dei sogni in una prospettiva che si rifà allo spiritualismo giapponese e alla sua commemorazione dei defunti, a una sorta di escatologia che mette insieme purgatorio e limbo, premorte e post-morte, oppure lo si può ridurre a un confronto tra religione e scienza, o piuttosto tra religiosità e pensiero razionale, ma non basta per trovargli una dignità.
Matthew McConaughey si sforza per salvare il salvabile, ma non può molto.
(La foresta dei sogni, di Gus Van Sant, 2015, drammatico, 118’)
Calderón. Inferno, in friulano. Una parola che da sola potrebbe bastare a evocare l’atmosfera dell’opera pasoliniana. Ispirato a La vita è sogno, dramma in versi di Pedro Calderón de la Barca, Calderón è il testo teatrale più maturo di Pasolini, e l’unico pubblicato quando l’autore era ancora in vita.
Un viaggio nelle molteplici esistenze di Rosaura attraverso tre sogni che come in un collage o una giustapposizione di visioni oniriche ci trasporta in tre contesti sociali diametralmente opposti: l’aristocrazia, il proletariato, la medioborghesia. Rosaura è una ragazzina cresciuta a Madrid in una famiglia filofranchista, poi una prostituta del sottoproletariato di Barcellona, e infine una madre piccolo-borghese affetta da disturbi del linguaggio. E sarà proprio lei a rivelarci, nel monologo finale, la trappola della propria condizione sociale, dalla quale è impossibile sfuggire. I molteplici personaggi del dramma si uniscono infatti sotto un’unica definizione: quella di borghesia, una borghesia alla quale l’opera parla direttamente, come attraverso uno specchio al quale viene messa davanti, ironicamente, per vedere il proprio dramma esistenziale in tutta la sua crudezza. E la disillusione e la rassegnazione legate al fallimento personale, sociale e politico non ci abbandonano per un attimo.
Tiezzi sceglie di non sfoltire il testo, e per quanto sia impossibile rinunciare anche solo a una piccola parte di esso, ne deriva in alcuni momenti un parziale rallentamento del ritmo, che però viene ampiamente mitigato dalla continuità narrativa mantenuta fino all’ultimo, dalla sorpresa, dalla forza e dalla disperazione.
Il profondo senso d’inquietudine che pervade l’intero spettacolo è rafforzato in primis dalla componente sonora (troviamo le musiche composte da Angelo Badalamenti per Mulholland Drive, uno degli elementi che contribuiscono a dare allo spettacolo un tocco lynchiano), dai movimenti al ralenti dei personaggi, quasi alienati nell’entrare e uscire dalla scena, fino ad arrivare alla scenografia: inizialmente spartana, opprimente, si apre poi in un ventaglio di luci al neon, geometrie e scritte che, esplicitamente didascaliche, sortiscono un effetto di ulteriore straniamento.
La ricchezza e il valore estetico dei costumi quanto della scenografia fanno da perfetto contrappunto alla forte presenza scenica e a una recitazione che, per quanto spesso risulti eccessiva nel perseguimento di un effetto di astrazione, è densa e ritmata.
Mettere in scena un capolavoro non è un’impresa facile, ma Federico Tiezzi riesce a tirare fuori dal testo di Calderón uno spettacolo di rara intensità, capace di esplorare in profondità la complessità dell’opera pasoliniana.
Calderón
di Pier Paolo Pasolini
regia Federico Tiezzi
drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
con (in ordine di apparizione)
Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano
Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Ivan Alovisio
Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Andrea Volpetti, Debora Zuin
e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini
luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Raffaella Giordano
canto Francesca Della Monica
assistente alla regia Giovanni Scandella
Prossime date:
Roma – Teatro Argentina, dal 20 aprile all’8 maggio 2016
La letteratura sorprende sempre, spesso più con perle che vengono dal passato che con le novità. A sfiorare il capolavoro sono stati ultimamente libri bellissimi come Suite francesedi Irene Nemirovsky e soprattutto Stonerdi John Williams.
Quando fu pubblicato nel 1965, L’uccello dipinto (minimum fax, 2015) suscitò, nel mondo della Guerra fredda, reazioni diverse ed estreme. Una parte dell’intellighenzia ebraica, tra cui Elia Wiesel, apprezzò il romanzo di Jerzy Kosinski, ebreo polacco di Lods, emigrato negli Stati Uniti nel 1957. Proprio dalla patria polacca l’autore ricevette accuse, denigrazioni e insinuazioni di propaganda finanziata dagli USA per esortare gli ultimi ebrei a lasciare la Polonia. Ma anche in America non mancarono le accuse di plagio e falsificazione.
L’uccello dipinto è un libro che, a leggerlo, fa ribollire dentro un senso d’istintiva rivolta contro le ingiustizie piccole e grandi della Storia. Narra l’odissea di un bambino di poco più di sei anni, messo in salvo, di fronte alla marea montante delle persecuzioni razziali, dai genitori in una sperduta e mai nominata campagna dell’Europa dell’Est. Dapprima destinato a dei genitori adottivi, con il venire precocemente a mancare la madre di questa coppia, il piccolo protagonista, un Rosso Malpelo dai capelli corvini e dalla carnagione olivastra, segni di una diversità avvertita sulla propria pelle di ebreo, vittima degli stessi pregiudizi e superstizioni del personaggio verghiano, in un paese di biondi dagli occhi chiari, si vede ben presto costretto a cercare ricovero di villaggio in villaggio, imbattendosi via via in falsi protettori dal volto di sadici aguzzini.
La violenza striscia silenziosa sotto la calma apparente della campagna, salvo poi esplodere improvvisa e feroce. Il realismo di questo romanzo è caratterizzato da una violenza sorda, talora terribile: angherie, percosse, sadici giochi di resistenza fisica e psicologica. Questo mondo, impervio e crudele, non conosce attimi di tregua. La spirale di odio e ignoranza è sempre più terribile in queste pagine squarciate da una disumanità vorace, libera da leggi e costrizioni, perché la guerra è un potente soggetto narrativo, fatto com’è di conflitti e di umanità messa alla prova in situazioni estreme.
È un prezioso, amaro, brusco e tagliente mosaico di poveri e perdenti che approfittano del vuoto per sfamare la loro magra di riscatto, prima di ricomparire tra le pieghe della Storia: dalla vecchia megera Marta ad Olga la Saggia, una sedicente guaritrice («Mi chiamava il Nero. Da lei appresi per la prima volta che ero posseduto da uno spirito maligno acquattato dentro di me come una talpa in un cunicolo profondo, e della cui presenza ero ignaro».); dal mugnaio geloso a Lekh, il venditore di uccelli, che per sfogare la sua frustrazione, sceglieva l’uccello più forte e lo pitturava con vernici puzzolenti di diversi colori, l’uccello così dipinto «andava da un capo all’altro dello stormo, cercando invano di convincere i suoi simili che era uno di loro», per poi cadere morto, ferocemente attaccato dagli uccelli del suo stormo; dall’abominevole cattiveria dell’agricoltore, cinico torturatore, al prete. L’accumulazione di odio ed efferatezza di un’umanità in letargo è parossistica.
Per arrivare al cuore dei lettori, l’autore ci arriva con un’onda lunga a-sentimentale che non procede oltre la lettura. Anche i paesaggi prendono il sapore ferrigno del realmente accaduto. La scrittura sembra scaturire da quello stesso furore che spinge il piccolo protagonista a fuggire dalla disperazione con l’unico conforto della sua «cometa», «un barattolo da un litro aperto a un’estremità e con tanti forellini praticati con un chiodo sulle pareti. In cima al barattolo, a mo’ di manico, si agganciava un metro di filo di ferro […] La si riempiva con ogni tipo di combustibile a disposizione, sempre tenendo qualche brace sul fondo». Fungeva sia da stufetta portatile che da fornelletto per cucinare, ma soprattutto era «una protezione indispensabile dai cani e dalle persone». Questo oggetto è essenziale per il piccolo dall’aspetto zingaresco che non può neppure sperare nell’intervento salvifico di una qualche entità superiore: «Ora capivo tutto. Mi rendevo conto del motivo per cui Dio non voleva ascoltare le mie preghiere […] Ero nero. I miei occhi e i miei capelli erano neri come quelli di questi calmucchi». Il suo personaggio del tutto autobiografico ci porta dentro l’incubo reale di ogni giornata in modo crudo, diretto, senza giri di parole.
La definizione di un rapporto con la diversità passa attraverso il rifiuto, la violenza, l’odio e la cattiveria, ancor prima che attraverso la conoscenza. Conta solo l’apparenza, il colore della pelle e dei capelli. Il protagonista per questo è un essere senza futuro. La sua esistenza è come una busta di plastica vuota che vola nell’aria. Non può integrarsi nel mondo. Volente o nolente, è isolato dalla società e da se stesso.
È un romanzo molto duro, a volte insopportabile. C’è un pervasivo senso di rassegnazione, quasi a sottolineare l’impossibilità di penetrare le ragioni ultime delle cose, di trovare un significato alla cosiddetta «banalità del male» che ha ispirato molta letteratura sul nazismo. Ci si trova dentro il nucleo della tragedia umana, scavando nel misterioso intreccio che lega animali umani e uomini animali, anzi uomini che si comportano come vere e proprie bestie: «A un tratto mi sentii come l’uccello dipinto di Lekh, tirato da una forza sconosciuta verso gli animali dello stesso stampo».
L’uccello dipinto è un libro di erratica e inesauribile densità, vorticoso a dispetto dell’apparente lentezza della prosa grazie al modo essenziale con cui l’autore riporta la successione dei vari eventi traumatici. È una spietata autobiografia collettiva, che tratta una materia incandescenza, metafora della condizione umana, scritta da uno scrittore di talento inseguito dall’ombra della tragedia, alla costante ricerca di se stesso. Come l’eroe omerico, tornato a casa, scoprirà di non essere più lo stesso, quando alla fine i suoi genitori lo ritroveranno, si renderà conto che tornare a casa è impossibile perché siamo noi e i nostri occhi a essere cambiati per sempre. Nulla, di lì in avanti, sarebbe mai più stato lo stesso.
(Jerzy Kosinski, L’uccello dipinto, trad. di Vincenzo Mantovani, minimum fax, 2015, pp. 325, euro 13,50)
Dopo cinque anni dall’ultimo Take Care, Take Care, Take Care, esce The Wilderness, il settimo album degli Explosions In The Sky.
Definire precisamente un genere è sempre un’operazione piuttosto complessa. Capire quali sono i margini, come e quando si può dire che un tal lavoro appartenga a un determinato universo musicale spesso non è così immediato come possa sembrare. Quando poi ci troviamo in quel macro mondo chiamato post–rock, le cose si fanno più complesse, meno nitide. Su un aspetto però possiamo essere d’accordo: gli Explosions In The Sky sono post–rock. O almeno, gli Explosions In The Sky hanno avuto la forza di cucirsi addosso un’idea di post-rock, dandogliene una che è proprio degli Explosions In The Sky, nonostante quell’idea non avesse una vera e propria specificità. Chitarre dilatate, crescendo lenti e sontuosi, climax, brani sempre sul punto di esplodere, ordigni lanciati verso il pubblico – This Will Destroy You, God Is An Astronaut, ad esempio, ma anche gli Iliketrains.
Un gruppo che storicamente viene inserito nel contesto post-rock, i Godspeed You! Black Emperor, non dovrebbe essere magari essere definito come post–prog? I Sigur Rós, un fenomeno che ha travalicato confini musicali, linguistici, culturali con brani allo stesso tempo tortuosi e accessibili, che hanno sì dei rimandi al post–rock, ma che alla fine non pare necessario chiuderli in questa definizione, può definirsi tale? Forse i Mogwai: ma come interpreterebbero un pezzo come “First Breath After Coma” i quattro scozzesi, ad esempio?
Fino a tornare agli albori: il post-jazz lugubre dei Bark Psychosis; gli Slint, e prendiamo come esempio la sofferta ballata “Washer” in Spiderland; per non parlare degli Stereolab – cosa c’entra Transient Random Noise Burst With Announcements con le evocazioni oniriche di The Wilderness? Insomma: tutto questo può essere avvicinato all’inclinazione degli Explosions In The Sky? È chiaro quindi che tentare di trascrivere una grammatica esatta di ciò che è il post–rock può risultare un’azione votata al fallimento.
The Wilderness continua senza difficoltà sulla scia del suo predecessore, ma forse sembra ancor più a suo agio se collegato a The Earth Is Not A Cold Dead Place, l’album che probabilmente più di tutti rappresenta l’estetica degli Explosions In The Sky e del post–rock alla Explosions In The Sky. Forse The Wilderness, per alcuni aspetti, risulta ancor più maturo di quest’ultimo, che iniziava splendidamente con la già già citata “First Breath After Coma” – una partenza esemplare, un brano post–rock se ce n’è uno, ma con una chitarra che traccia una melodia che rimane in testa come un pezzo pop. Quest’album lasciò di fondo forse un senso di incompletezza, che invece The Wilderness non lascia.
I loro lavori hanno sempre richiamato immagini eteree; loro sono sempre stati grandi compositori di colonne sonore per lande desolate, distese di ghiaccio, viaggi nello spazio, galassie infinitamente lontane. Anche qui lo sono, e sarebbe curioso se non lo fosse, ma a differenza del passato, sembrano più vicini a noi, meno sfuggenti. Qui, con ferocia, ne esce – con l’eco dalla sezione ritmica di “Wilderness” che sembra provenire dalle viscere del mondo, “Logic Of A Dream” che stravolge se stessa come sanno fare i sogni, i presagi nefasti di “Disintegration Anxiety”, fino all’approdo finale con “Landing Cliff”, la più più spirituale dell’intero album – una colonna sonora per la natura selvaggia dell’essere umano.
Il 30 Maggio a Roma (Orion) e il 31 a Segrate (Circolo Magnolia), sarà possibile andare ad ascoltarli dal vivo.
Dopo Batman contro Superman, Captain America contro Iron Man. La Marvel risponde al tentativo DC di fare la voce grossa nel mondo dei cinefumetti con uno dei suoi film più riusciti – il terzo sul Capitano patriottico, sempre diretto dai fratelli Russo – capostipite di una nuova fase dell’universo cinematografico che si continuerà a sviluppare nei prossimi anni.
Captain America: Civil War inizia dove finiva Avengers: Age of Ultron. Il gruppo di supereroi assemblato da Nick Fury ha salvato il mondo a Sokovia respingendo Ultron. La battaglia, però, ha avuto delle enormi conseguenze in termine di perdite di civili. Proprio per questo, i governi di un’ampio gruppo di stati nazionali preparano un testo da far approvare agli Avengers. In pratica, il gruppo di supereroi dovrà rendere conto delle proprie azioni alle Nazioni Unite, i loro interventi non saranno più decisi in maniera arbitraria ma dovranno essere regolati da una serie di misure di sicurezza. La proposta non trova tutti i vendicatori d’accordo, si creano due fazioni, da una parte quella di Tony Stark/Iron Man, che più di tutti sente il peso della responsabilità, all’altra quella di Steve Rogers/Captain America, che vuole mantenere l’indipendenza delle azioni, anche perché è ricomparso il suo vecchio amico Bucky – il soldato d’inverno del secondo film sul Capitano – e l’accordo non può che essere una minaccia per lui. Per la prima volta, quindi, gli Avengers sembrano essere a un passo dalla divisione, se non addirittura dallo scontro.
Ci sono molti elementi che permettono di mettere Captain America: Civil War in collegamento diretto con Batman V Superman. Ovviamente, lo scontro tra due supereroi iconici è il primo, ma è soprattutto il tema delle conseguenze delle azioni e delle responsabilità del (super) potere a essere centrale in entrambi. Il film dei fratelli Russo riesce in tutto quello che non era riuscito a Zack Snyder. C’è ritmo, c’è ironia, c’è tensione, c’è una capacità di essere credibili (compatibilmente con quello che stiamo vedendo, ovvio).
La differenza fondamentale tra i due film è che Captain America: Civil War è solo l’ultimo momento di un percorso narrativo iniziato ormai da più di dieci anni e strutturato per accogliere sempre più strati al suo interno. Possono piacere o non piacere, ma è innegabile che i cinecomic targati Disney/Marvel abbiano cambiato completamente il modo di fare cinema nel nuovo millennio. La serialità è diventata un obbligo, il concetto di “universo” è stato applicato al cinema così come l’idea del franchise. Kevin Feige è l’intelligenza che muove tutto quanto, in grado di tenere insieme una rete che si basa su decine di film e serie tv. È chiaro che il rischio di mettere troppa roba tutta insieme, tra nuovi personaggi e approfondimenti su quelli già esistenti, è forte, ma la Marvel, a differenza della DC, conferma in Captain America: Civil War tutta la capacità di gestire il proprio materiale narrativo.
La contrapposizione tra Iron Man e Captain America si regge sullo scavo psicologico nei due personaggi. Stark ha rivelato le sue fragilità psicologiche a partire dal terzo film a lui dedicato, quasi un film intimista, in cui è più il tempo che passa in abiti borghesi che con il costume. Ora, il disfacimento delle certezze granitiche di Iron Man, sempre meno solido e sempre più insicuro del suo ruolo, viene portato ancora più avanti, con il miliardario oppresso dal senso di colpa per ogni vita spezzata cercando di fare il bene e dai fantasmi del passato che non lo lasciano in pace.
Nella trama di Steve Rogers, invece, si affacciano suggestioni che vengono dal cinema politico e di spionaggio, aggiungendo una complessità che già si era delineate nei due film precedenti. È con Captain America che la Marvel, attraverso i fratelli Russo, dimostra di saper fare un cinema più complesso e contemporaneo di quello che appare. L’ossessione per la sicurezza, nonché il tema della responsabilità, possono suonare come eco delle vicende politiche statunitensi del post undici settembre. Il cinecomic, ancora una volta, quando è fatto bene finisce per veicolare messaggi molto meno scontati di quello che ci si aspetta.
Di base, comunque, Captain America: Civil War è intrattenimento, e di grande livello. Lo spettacolo non manca, così come non manca la leggerezza che la cifra stilistica che ha fatto la fortuna della Marvel. Per gli appassionati, c’è il nuovo Spiderman interpretato da Tom Holland, con annessa nuova zia May. Da molti è ritenuto già il miglior Uomo Ragno cinematografico, in attesa di vederlo nel film tutto suo in arrivo nel 2018.
(Captain America: Civil War, di Anthony e Joe Russo, 2016, azione, 147’)
Nel suo Il libro degli esseri immaginari, dando notizia del basilisco, piccola e multiforme bestia del mito, Jorge Luis Borges scrive: «Gli occhi delle Gorgoni pietrificano; Lucano riferisce che dal sangue di una di loro, Medusa, sono nati tutti i serpenti della Libia: l’aspide, l’anfisbena, l’ammodite, il basilisco. [Quest’ultimo] risiede nel deserto o, per meglio dire, crea il deserto. Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e marciscono i frutti; l’acqua dei fiumi a cui si abbevera rimane avvelenata per secoli. Che il suo sguardo rompa le pietre e bruci i pascoli è attestato da Plinio». Costretto a un’infinita condanna di profonda emarginazione secondo le sue mortifere caratteristiche, il basilisco così descritto è senza dubbio una tra le più sventurate bestie: tutto, attorno a lui, rifiuta la vita, tutto, attorno a lui, diventa deserto.
Simile sorte sembra essere toccata a un altro scrittore argentino del Novecento, Jorge Baron Biza, di cui da poco possiamo leggere qui in Italia El desietro y su semilla, portato dalle nostre parti con titolo monco (Il deserto, La Nuova Frontiera, 2016) e presentatoci in bandella tramite le parole di autopresentazione dell’autore stesso: «Un grande flusso di compassione mi investì quando si verificò il primo suicidio in famiglia. Quando accadde il secondo, quel flusso si trasformò in un oceano agitato e senza orizzonte. Al terzo, ogni volta che mettevo piede in una stanza posta al di sopra del terzo piano le persone si affettavano a chiudere le finestre. In scene come questa è rimasta imprigionata la mia solitudine». Ciò di cui la bandella non può darci comunicazione è che questa catena di suicidi familiari, cominciata nel 1964 con la scomparsa di Raúl Barón Biza, scrittore e padre di Jorge, si concluderà nel 2001 con un volo lungo dodici piani cui il nostro stesso autore diede il compito di concludere la propria esistenza mondana, ultimo atto di una tragedia già lunga. Tra questi due eventi, gli altri due suicidi di cui si parla nella bandella: quello dell’oppositrice di Eva Perón, la politica radicale Clotilde Sabattini, nel 1978, e quello della giovane María Cristina, nel 1988, rispettivamente madre e sorella di Jorge.
Sono proprio il suicidio di Barón Biza padre (Arón nel romanzo) e quello di Clotilde Sabattini (che nella finzione prende il nome di Eligia) a fare idealmente da apertura e chiusura de Il deserto, a testimonianza del fatto che ci troviamo di fronte a una narrazione autobiografica che prende la forma del romanzo in cui il protagonista Mario (lo stesso Jorge) segue le vicende ospedaliere della ricostruzione plastica del viso della madre, deturpata dal marito con un bicchiere di acido prima che questi decidesse di suicidarsi sparandosi alla tempia.
Costretto ad accompagnare la madre dall’Argentina in un viaggio verso l’Italia e la Svizzera, dove luminari della chirurgia ricostruttiva tenteranno di dare ristoro e nuova vita al volto terribilmente martoriato di Eligia, Mario (Jorge) darà seguito alle sue letali costumanze da ubriacone vagabondo e autolesionista in un susseguirsi di terribili sbronze, compagnie poco raccomandabili e gratuite violenze, tenendo sullo sfondo, come cifra costante e inevitabile contrappunto, la lenta ricostruzione delle fattezze della madre, devastate dall’acido e sostanzialmente irrecuperabili come il suo ambiente familiare e l’anima di chiunque l’abbia popolato.
Subordinando le fascinazioni autobiografiche all’imperativo letterario, Il deserto è un romanzo che merita di esser letto per la crudezza della sua trama e per l’eclettismo della sua scrittura (una nota di merito, a questo proposito, va alla traduttrice Gina Maneri, che ha saputo trasportare in italiano le peripezie linguistiche proposte dall’autore).
(Jorge Baron Biza, Il deserto, trad. di Gina Maneri, laNuovafrontiera, 2016, pp. 256, euro 17)
L’altra volta Black Star di David Bowie ha messo tutti d’accordo. Ora Alessio Belli, Valerio Torreggiani, Tommaso Di Felice e Luigi Ippoliti si danno battaglia su un album uscito diversi mesi fa, Music Complete dei New Order. Dopo esser stato motivo di scambi di idee molto accesi durante alcune riunioni redazionali, i Nostri si sono accorti che, nonostante fosse un lavoro po’ datato, avrebbe dovuto essere necessariamente argomento di discussione all’interno de IlProcesso. Music Complete è un album sopravvalutato o sottovalutato? O semplicemente valutato nella maniera giusta?
AB: Ora, mettiamo il caso che i New Order non siano una delle band più importanti della storia della musica recente. Facciamo finta che con “Blue Monday” non abbiano coniato una decade, uno stile e una cultura , che un album come Power, Corruption And Lies non abbia mostrato la via di unione tra il rock e le macchina. Sorvoliamo sul mito, le icone, tutte le storie fin dai tempi dei Joy Division e un amore smisurato che dura da parecchie decadi. Valutiamo solo questo: il 25 settembre 2015 è uscito il loro decimo disco battezzato Music Complete (con copertina di Peter Saville, ovviamente). Ascoltatelo e innamoratevi: i New Order sono più vivi che mai: nonostante i problemi privati e la poco serena dipartita di Hook. Music Complete è un disco vivo, energico, ispirato, irresistibile. Almeno per il sottoscritto, sentiamo comunque gli altri.
VT: Non che questo ruolo mi piaccia più di tanto, ma devo per forza andare controcorrente. Quindi, non me ne vogliano i fan accaniti, i nostalgici dei bei vecchi tempi andati, le nuove folle indie del revival post–punk, o l’amico Alessio Belli: ma il nuovo disco dei New Order è davvero un album mediocre. Non c’è un’idea nuova che è una: non un passo avanti, non uno spunto creativo. Avranno anche fatto un pezzo di storia della musica – forse non così grande come si sostiene in giro, ma questi son dettagli – , ma una prerogativa dei grandi è anche, secondo me, capire quando è l’ora di smettere. Se, quindi, come suggerisce Alessio, sorvoliamo sul mito, sulle icone e su tutto il resto, quello che ci ritroviamo per le mani è, in fin dei conti, una minestrina riscaldata piena di deboli motivetti synth–pop piatti e prevedibili. C’è a chi piace così, dirà qualcuno. Forse sì: in fin dei conti il già detto non spiazza e non delude mai.
TDF: Allora, facciamo un attimo il punto della situazione. Perché siamo passati dalla totale approvazione di Alessio al, quasi, disgusto di Valerio. Credo che, giunti a questo punto, dobbiamo cercare di essere più cauti. Music Complete è la sintesi di tre decadi, trent’anni che hanno avuto come protagonisti anche i New Order. Nell’album c’è il synth-pop degli anni ’80, marchio di fabbrica della band, l’acid house del decennio successivo e poi gli anni 2000, pop–dance e rock inglese. Il disco scorre molto bene, lineare: un brano su tutti, “Plastic”; un po’ noiosa “Tutti Frutti”, anche se resta tra le più ballabili. Come dicevo, l’album risulta piacevole perché l’elettronica suonata è di grande intensità ed è coinvolgente. La vera sorpresa rimane però il funky “People On The High Line”. Non è da tutti rimanere sempre al top della forma. Sono due i punti sui quali non si può transigere: i New Order sono un’icona di un certo tipo di fare musica e hanno rinnovato ancora una volta il loro stile, perfezionandolo e adattandolo. Ma Music Complete rimarrà nella storia oppure no? Parola a voi, perché io al momento non sono in grado di rispondere. E se ripenso a “Blue Monday”!
LI: Mi trovo completamente d’accordo con l’interpretazione di Valerio. Ci sono alcuni momenti nella vita, dopo anni di onorata carriera, in cui bisognerebbe capire che ciò per cui hai vissuto, e che ti ha fatto vivere, forse è giunto al capolinea. Momenti in cui, guardando cosa e quanto hai fatto, dici “va bene così, basta”. Purtroppo ci sono casi in cui (alcuni, anche se con sfumature leggermente diverse, precocissimi, vedi Muse) l’ostinazione nel non rassegnarsi al fatto che il proprio tempo è finito – a maggior ragione dopo dieci album in quasi quarant’anni – rende il un po’ tutto grottesco e patetico (penso, ad esempio, all’orribile “Tutti Frutti”). Ufficialmente, è chiaro, non esistono orologi bio–musicali per cui un gruppo ha l’obbligo di ritirarsi. Parlassimo di sport sarebbe più facile. Ma ascoltando Music Complete, ho avuto la netta sensazione che un ipotetico limite dettato da questo orologio fosse stato valicato. E non di poco. In Music Complete, mi dispiace Tommaso – avrei forti dubbi su un mondo in cui passa alla storia quest’album –, ma soprattutto Alessio, ho visto e ascoltato dei vecchi – sì, proprio dei vecchi – che, brancolando in un passato più o meno remoto, hanno prodotto un lavoro che non ha aggiunto nulla ai New Order e che, aihmè, ha le sembianze di una auto–caricatura piuttosto deprimente.
AB: Potrei rispondere con argomentazioni lunghissime (e lo farò se costretto), ma preferisco citare qualche dato. Sono i voti dati dalla stampa estera e italiana a Music Complete: The Guardian, 4/5; Mojo, 4/5; Pitchfork, 7.2/10; Q, 4/5; The Observer, 4/5; Ondarock, 7.5/10. Secondo album dell’anno per i lettori di Rockerilla. Continuo? No. Meglio non infierire.
VT: Siccome noi di Flanerí facciamo con grande devozione i nostri sani esercizi di relativismo quotidiano – ma soprattutto ce ne freghiamo allegramente della grande critica musicale mondiale – , mi sento di interpretare la voce dei nostri affezionati lettori nel chiedere ad Alessio di presentarci, in forma sintetica s’intende, le sue lunghissime argomentazioni. Perché come diceva Nietzsche non esistono fatti, ma solo interpretazioni.
AB: Allora, primo punto. L’elenco delle recensione positive (di prestigiose realtà editoriali internazionali) era un modo non per troncare subito il discorso, ma per mostrare ai nostri lettori e detrattori che il disco ha riscosso a livello unanime ottime recensioni: non penso che tutti quelli che lo hanno recensito positivamente debbano cambiare mestiere, no? Punto Due: Un disco per essere bello e importante deve essere triste e depresso? Dove sta scritto che un grande prodotto discografico non possa essere brillante, fresco, e pop nell’eccezione più alta del termine. Vorrei scomodare altri nomi grossi, ma chiunque ami i Beatles e i Beach Boys come me sa di cosa parlo. Terzo Punto: A livello tecnico il disco è inattaccabile. Non lo dico solo io, ma tutti i miei colleghi e conoscenti musicisti che hanno preso il basso in mano per colpa di Peter Hook. Quarto Punto (Per rispondere a Tommaso): Music Complete non è un concept album: era da un po’ che i New Order non facevo un disco e hanno fatto confluire all’interno di questo tutte le loro variegate anime. Quinto Punto (rispondendo a Valerio e Luigi): Trovo molto fuori luogo la questione sull’ora di capire quando si tratta di mollare. Andando a vedere la cronologia della loro discografia, tra Waiting For The Siren Call e Music Complete ci sono dieci anni. Non trovo ragioni commerciali, non vedo mode da cavalcare e consiglio a tutti di leggere quali eventi biografici hanno portato alla semi–reunion. Trovo una band che ha ancora qualcosa da dire e lo ha fatto magnificamente, ricordando a tutti che quando la “Vecchia Scuola” scende in campo le nuove leve devono solo che imparare a testa bassa. Sesto Punto: Music Complete non è un album innovativo, è una album di mestiere all’ennesima potenza. I New Order fanno i New Order e basta e lo fanno come si deve, con qualche accortezza contemporanea (Chemical Brothers) e non trovo che questo sia un limite, anzi; ci sono band (come i The National, che amo) che fanno sempre lo “stesso disco” e nessuno si lamenta. Qualora debba proseguire, fatemelo sapere.
VT: Personalmente direi di tralasciare il discorso del livello tecnico, che secondo me non decide della bellezza di un disco: ci sono band tecnicamente al limite della sufficienza che hanno fatto la storia della musica, così come album tecnicamente superlativi ma del tutto trascurabili. Questo nuovo dei New Order sarà pure ineccepibile dal punto di vista tecnico e avrà pure una produzione qualitativamente stellare alle spalle: so what? Un altro punto che mi preme chiarire è il seguente: non è certo l’allegria o la malinconia che trasmette un brano o un disco a fissarne il valore musicale; a deciderne, se vogliamo chi, amarla così, la bellezza. Direi, anzi, che i parametri di tristezza/allegria/freschezza/ballabilità di cui parla Alessio siano assolutamente superflui. Esistono dischi ballabili belli e brutti; dischi tristi belli e brutti; dischi allegri, pop belli e brutti. Come le classifiche per genere, anche quelle per umore mi lasciano totalmente insoddisfatto. Per quanto mi riguarda, quindi, non posso che confermare quanto detto in precedenza: siamo di fronte a un disco che non dice nulla, a tratti noioso e ripetitivo. Poi Alessio ha ragione quando afferma che la biografia della band porta chiaramente ad escludere oscure motivazioni commerciali dietro questo lavoro. Sono pienamente d’accordo: non è l’onestà dei mestieranti che metto in dubbio. Mi sembra, però, che siamo di fronte a uno di quei tipici casi, di cui è piena la storia della musica, del vorrei ma non posso: grande passione, grande tecnica, grandi mezzi; ma poche, pochissime, idee.
LI: Tralascio anche io qualche cosa: tralascio il fatto che tu abbia inserito i Beatles in questa discussione, Alessio, non volermene. La domanda “un album per essere bello e importante deve essere triste e depresso” mi sa sempre, durante una discussione, di un’ultima spiaggia. Ho l’impressione che la persona con cui parlo si senta un po’ con le spalle al muro e tiri fuori, come ancora di salvezza, la storia del “eh, ma a te se non sono depressi non piacciono”, che in parte può essere vero, ma non così tanto da farne un corollario. Non c’è bisogno di rispondere, perché la risposta non può essere che no. (Scriverei le stesse parole scritte da Valerio in merito, quindi evito). Il problema, Alessio, è che qui non credo si parli dello “stesso disco” alla maniera dei The National. Non penso proprio che ci troviamo a ragionare in questi termini. Qui il discorso è influenzato unicamente dall’album Music Complete per ciò che è. Penso semplicemente che sia un lavoro privo di spunti interessanti, che non abbia punti di forza o motivi validi per essere ascoltato. Lo ascolto perché sono i New Order e poi lo lascio stare. In fin dei conti, non lo consiglierei a nessuno, ecco. Inoltre continuo a credere che se hai scelto di inserire un pezzo come “Tutti Frutti”, forse hai realmente esaurito le tue scorte di inventiva e stai messo piuttosto male. Checché ne dicano Pitchfork o Ondarock – penso, pur rispettando il giudizio di critici più illustri di me, di poter esprimere cosa per me è bello o cosa non lo è senza doverne tenere per forza conto nel momento in cui formulo un pensiero su un qualsiasi argomento.
AB: Viste i numerosi aspetti espressi in questo dibattito (e che non ripeterò), mi sento molto lontano dall’avere le spalle al muro o l’essere all’ultima spiaggia: anzi, viste le repliche fornite, mi chiedo come sia la sabbia sotto i vostri piedi. E sono il primo a non voler assolutamente estremizzare binomi tra umori e qualità artistiche. Ripeto per l’ultima volta – prima di lasciare la sentenza ai nostri lettori: I New Order hanno fatto egregiamente i loro mestiere e ciò che ne viene fuori per me è un prodotto alto. Concludendo dicendo che – visti i riscontri di pubblico e critica – i New Order pubblicheranno a breve Complete Music: ovvero tutti i remix dell’album in questione. Lungi da voler usare questa uscita discografica come ennesimo dibattito, ringrazio i miei compagni di discussione per avermi fatto amare ancora di più questo disco difendendolo dalla loro più che legittime e giuste critiche. Alla prossima!
Chiude la stagione del Teatro dell’Orologio di Roma, lo spettacolo Dark Vanilla Jungle, una delle ultime opere di Philip Ridley, prolifico scrittore, sceneggiatore, autore teatrale e cineasta britannico. Presentato nel 2014 in prima assoluta al Teatro Belli di Roma, all’interno della tredicesima edizione di TREND – nuove frontiere della scena britannica, lo spettacolo ha confermato il successo di pubblico e critica riscosso dall’omologo inglese, andato in scena nel 2013 al Festival di Edimburgo e a Londra.
Andrea è una ragazza fragile con un bisogno disperato di essere amata in quanto nella sua vita l’unica costante è il rifiuto. Dietro la convinzione che l’essere donna sia ricalcare gli stereotipi imposti da una versione demodé di uomo dominante, cerca ostinatamente la tranquillità e l’affetto di un nucleo familiare “normale”, con una determinazione che progressivamente diventa ossessione patologica. Andrea ha paura, è sola in un mondo che le usa violenza in ogni modo e per salvarsi, nella corrente che la affoga, trova, come ultimo appiglio, un ramo solido, ma morto, un giovane veterano di guerra, gravemente mutilato ed in stato vegetativo. Andrea è però condannata dal suo autore a non trovare alcuna pace e perso anche l’ultimo barlume di speranza, a soli diciassette anni la lasciamo completamente perduta, in mezzo alla strada o in una foresta, chissà, assassina di un figlio che probabilmente non esiste che nella sua fantasia.
Carlo Emilio Lerici, che ha già diretto quattro opere tra le più famose del drammaturgo inglese: Mercury Fur, Vincent River, Moonfleece e Tender Napalm, interpreta questo Dark Vanilla Jungle esasperando il disagio che il dolore, la miseria e la violenza generano nello spettatore. Del resto, lo stesso linguaggio infarcito di volgarità innocente è studiato per distruggere ogni certezza di benessere. Le scene di Alessandro Chiti e le immagini video di Giulia Amato si armonizzano con questo intento, incastrando Andrea, un’efficace Monica Belardinelli, all’interno di una gabbia incolore, che non ha niente di rassicurante, ma che somiglia, anzi ad un patibolo.
Dark Vanilla Jungle
di Philip Ridley
adattamento e regia Carlo Emilio Lerici
con Monica Belardinelli
Prossime date
Roma – Teatro dell’Orologio dal 26 aprile all’ 8 maggio
È difficile trovare l’esatta collocazione per un film come 10 Cloverfield Lane. Partendo con ordine, nel 2008 uscì un piccolo film di nome Cloverfield che fece molto parlare di sé. Costato “solo” 25 milioni di dollari, è arrivato a incassarne centosettanta in tutto il mondo, ridefinendo un po’ di cose nel modo di fare cinema. Di fatto, è un horror fantascientifico con la Terra attaccata da una qualche misteriosa e potentissima forza aliena. La caratteristica principale è che tutto il film è girato come se fosse un found footage, del materiale realmente girato e trovato da qualcuno. La prima cosa che compare sullo schermo è un avviso che informa che il materiale che si sta per mostrare è proprietà degli Stati Uniti d’America. Seguono 85 minuti di riprese fatte con la telecamera a mano dell’invasione.
Dietro il progetto c’era la produzione di J.J. Abrams, la regia di Matt Reeves e la sceneggiatura di Drew Goddard. A gennaio di questo anno, un primo trailer (lo trovate in fondo all’articolo) annunciava l’arrivo di 10 Cloverfieled Lane. Non si capiva molto della trama se non che c’era molta tensione e che dietro a tutto c’era ancora la Bad Robot di J.J. Abrams. Dopo l’enorme successo del primo Cloverfield si era parlato più volte della possibilità di un seguito, prima che Matt Reeves e J.J. Abrams migrassero verso più importanti progetti cinematografici (il franchise di Il pianeta delle scimmie il primo e quello di Guerre stellari il secondo).
In realtà, riuscire a immaginare un seguito vero e proprio per il film del 2008 sembrava una casa difficile. Non erano stati lasciati margini di apertura, dalla trama, Cloverfield funzionava così come era, senza il bisogno di andare avanti. Per portare avanti il marchio, Abrams e soci hanno pensato di sviluppare un film parallelo (J.J. lo ha definito «consanguineo»): stesso contesto ma una trama completamente nuova.
Inizia con una donna in fuga, 10 Cloverfield Lane. Una casa lasciata, un anello abbandonato e una fuga in macchina. Intanto la terra trema, ma non sembra importante. Mentre guida e rifiuta telefonate, quella donna finisce fuori strada e perde i sensi. Quando si risveglia è legata in una cantina. Un uomo l’ha trovata e l’ha portata lì, si prende cura di lei e le dice che non può lasciare quel posto perché fuori è in corso un’invasione aliena con l’uso di armi batteriologiche. Ovviamente è difficile credere a un simile delirio, ma in quella cantina che in realtà è un bunker c’è un altro uomo che ha scelto di nascondersi lì quando ha visto gli alieni arrivare. Forse non è paranoia, forse è tutto vero e quel rifugio è l’unico posto sicuro rimasto al mondo. Forse.
La cosa paradossale di 10 Cloverfield Lane è che trova il suo limite principale nel dover essere infilato a tutti i costi all’interno di un franchise già esistente. Intendiamoci, l’idea dei film paralleli che sta iniziando a diffondersi sempre più a Hollywood con l’esplosione degli universi cinematografici ha i suoi elementi di grande suggestione. In un film come questo, però, che si basa tutto sulla tensione e sulle verità da interpretare, finisce per essere una debolezza. Lo spettatore che ha già visto Cloverfield sa che il “carceriere” non è uno psicopatico (almeno per le paranoie aliene), il che finisce per indebolire la poderosa doppia tensione che attraversa tutto il film. Il copione originale, The Cellar, scritto da John Campbell e Matt Stuecken, doveva portare a un film indipendente. È solo in un secondo momento, con l’intervento di Damien Chazelle (quello di Whiplash) in scrittura, che il film è entrato nel mondo di Cloverfield.
È lecito pensare che se fosse stato un film autonomo avrebbe potuto avere un impatto ancora maggiore, con lo spettatore che si sarebbe potuto trovare ancora più spiazzato da quello che si vede sullo schermo. Senza dubbio, comunque, siamo di fronte a un film di intrattenimento di rara intelligenza e presa, capace di giocare con i diversi generi cinematografici spaziando dall’horror al catastrofico, passando per la commedia familiare e il thriller senza mai perdere di ritmo e tensione narrativa. Proprio la tensione è la forza che alimenta 10 Cloverfield Lane viaggiando tutto il tempo su due livelli: la paura del fuori e quella del dentro. Il bunker è l’unico rifugio dell’umanità o è il posto più pericoloso del mondo?
John Goodman va oltre la sua consueta bravura nel costruire l’a dir poco ambiguo padrone di casa Howard, mentre Mary Elizabeth Winstead – già vista in Grindhouse di Tarantino – è pronta a imporsi come nuova eroina del cinema d’azione in quei seguiti che sembrano già inevitabili. Perché nel finale l’inserimento a tutti i costi del film sotto il marchio “Cloverfield” si rivela per quello che è: il tentativo di lanciare un nuovo filone cinematografico da sfruttare. Ed è un peccato, perché, come succede sempre più spesso, il pensiero del film che potrebbe arrivare dopo finisce per compromettere quello che già c’è.
(10 Cloverfield Lane, di Dan Trachtenberg, 2016, azione, 105’)
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