Orgasmo a Mosca copertina libro su Flanerí

“Orgasmo a Mosca”
di Edgar Hilsenrath

In Russia «arrivò senza palle, ma con un piano» perché Karl Schnitzel – lo specialista ingaggiato dal mafioso italoamericano Nino Pepperoni – era stato castrato in America. C’è da capirlo: il boss malavitoso mica poteva rischiare che il risolutore violentasse l’uomo che aveva messo incinta la sua unica figlia. Potenzialmente Schintzel, gay dichiarato, aveva tutto il tempo per farlo là in Russia, dove non era una bazzecola far «esfiltrare» qualcuno guardato a vista dal regime comunista.

Orgasmo a Mosca di Edgar Hilsenrath (Voland, 2016) ha una trama che ricorda alcune pochade, ma con un incedere assolutamente cinematografico. Se non fosse che Hilsenrath, scrittore ebreo, non avesse vissuto l’orrore della Shoa sulla propria pelle. È proprio questo dato di fatto che continuamente fa riflettere il lettore. E che si trasforma, quindi, nella pietra angolare per inquadrare al meglio una storia che dissacra in prospettiva temporale qualsiasi regime – all’epoca americano e russo – qualsiasi prospettiva sessuale – eterosessuale e omosessuale – e perfino qualsiasi legame, naturale o acquisito.

L’editore indipendente Voland decide di pubblicare un libro che all’epoca ebbe difficile pubblicazione. E c’è da credere al fatto che nessuno agevolò l’uscita di questo romanzo. Chi avrebbe pubblicato, per esempio, un Chuck Palahniuk 150 anni fa? Hilsenrath è proprio un autore nato postumo. Si diverte a fare da padre ad altri scrittori e lo fa da una prospettiva – col senno di poi – di padre. Un padre che non può che abbandonare i figli illegittimi al proprio destino.

Per esempio: Myra Breckinridge di Gore Vidal ricorda molto i vizi e il cadenzare di Orgasmo a Mosca; certi lavori teatrali di Eugene Ionesco sembrano saccheggiare alcuni dialoghi presenti nei suoi romanzi; pure Beckett col suo L’ultimo nastro di Krapp sembra averci fatto un pensierino alla lettura di questo autore.

Transfuga delle lettere, Hilsenrath – nel romanzo – si diverte anche a ironizzare sullo stato di Israele. Non c’è nulla che non sia dissacrato, non c’è argomento che non sia impallinato, non c’è ideologia politica che si salvi dalla sua verve che sembra bonaria ma che è feroce, diretta, cattiva.

La chiusa del romanzo – una specie di on the road che miscela culture e personaggi di ogni risma – traccia un percorso narrativo che esonda dalle pagine per consegnarsi a un terreno molto indicativo. Perché l’orgasmo, per esempio, non è che si consuma solo a Mosca. O forse sì. Perché l’orgasmo perfetto rimane un mistero tutto mentale e tutto fisico.

Quindi, prima di arrivare per esempio a Gang bang di Pahalaniuk, leggete questo volume: potreste scoprirci un sacco di cose che fanno ridere, chiassosamente, anche se siete in treno e state leggendo in uno scompartimento silenzioso di prima classe, ovviamente.

(Edgar Hilsenrath, Orgasmo a Mosca, trad. di R. Gado, Voland, 2016, pp. 281, euro 16)

 

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III il nuovo album di Moderat

“III” di Moderat

Lo hanno rifatto.  Apparat (Sasha Ring) e  Modeselektor (Gernot Bronsert e Sebastian Szary) sono tornati a lavorare insieme.  III, uscito tre anni dopo lo splendido II e sette dopo il big bang I, trasmette fin da subito compattezza. Compattezza, dalla Treccani, l’esser compatto. Compatto deriva dal latino compingere, collegare. Ecco, in III, ogni brano è collegato, non solo in una deduttiva sequenza spazio–temporale. In III ogni istante è collegato oltre che a quello immediatamente precedente e a quello immediatamente successivo, a tutti quelli che lo formano, a ogni scelta di inserire il basso in quel determinato momento, a quella batteria campionata fatta partire in quel punto e non in quell’altro, a quei synth, a quella modulazione vocale.

E quella di ogni istante collegato in maniera iper capillare con tutti gli altri istanti potrebbe sembrare semplicemente l’immagine mentale che deriva dall’ascolto di un album che ci è piaciuto particolarmente, e in parte può essere vero. Ma III ci permette di farsi ascoltare trasformandosi in esperienza fisica, muscolare. Un senso di muscolarità che ha origine nell’ elettronica robusta dei Modeselektor e dalla gracilità vocale di Apparat, una combinazione che da più di dieci anni sta influenzando la combinazione ellettronica/pop. L’ascolto di III, per quanto paradossale, sembra avvenire in slow motion, pur essendo tutto fuorché un album–slow motion: traslando questo concetto visivo verso quello uditivo, si ha l’impressione vedere ciò che si sta ascoltando, riuscendolo a soffermasi e a godere dell’ascolto dei vari brani che si susseguono in una esaltante realtà aumentata. III suona come la corsa di un animale preistorico, l’attenzione  ostinata del regista verso la tensione e la contrazione muscolare, in uno scenario lunare.

Osservando la carriera del progetto Moderat, è forse possibile vedere in III un lavoro conservatore. Magari non hanno osato più di tanto, si sono accontentati, ma non sembra per qualcosa che abbia a che fare con l’appagamento artistico o altro, sembra più dettato da una scelta cosciente. C’è stata una frenata, questo pare evidente. Una frenata volontaria. E ci troviamo sprazzi di Burial, di Jamie XX, di James Blake, di Four Tet. III non è un lavoro che fa da spartiacque, non è uno shock musicale. Anzi, ci troviamo in un universo distate anni luce da un’ipotetica rivoluzione.

Il punto è questo: la qualità dei Moderat è talmente alta che, mentre il loro accontentarsi è semanticamente esatto,  se diamo a accontentasi un’accezione negativa – cosa che in ambito artistico è sempre vista come un passo in dietro rispetto al prima – ci si accorge di quanto la lettura di questo album in questi termini non possa che essere limitante.

È chiaro, confrontarsi con la filogenesi di un artista è fondamentale per la comprensione del suo lavoro, e anche qui ovviamente è importante (I e II facevano presagire forse a un lavoro molto più sub–urbano, burialmente parlante). Ma questa volta, per chi scrive, l’ascolto di questo lavoro è avvenuto in maniera completamente diversa, e non per auto imposizione. III ha un carisma intrinseco per cui III è esistito e esiste al di fuori dei rimandi, delle influenze, dei contesti, della ricerca musicale o dell’osare. Non esisteva un prima (I e II, al pari di III, sono lavori che hanno un peso specifico imponente nel mondo dell’elettronica) o un dopo (come e dove sarà IV?), esisteva esclusivamente il presente di III.

Capiamo a cosa stiamo andando incontro dal primo pezzo, “Eating Hooks”, dove il falsetto viene filtrato da un vocoder ben calibrato con l’apparato elettronico sottostante; passando per l’esaltante “Running”, roba da jogging spaziale, e per “Reminder”, singolo che ha anticipato l’uscita di III, arriviamo a “Ghostmother”, un pezzo elettropop costruito seguendo un ipotetico manuale sulla costruzione di pezzi elettropop,  verso “Finder”, dove sembra che il Thom Yorke di The Eraser suoni per Jamie XX nella stanza di Apparat; sorretti da una batteria cupa, synth che propagano elettricità nell’aria duettano con Apparat mentre canta «From your narrative shed / A common scent of lavander / Fills the air» in “The Fool”.  Per finire, la quasi pop “Intruder” e la psicotica “Animal Trails” anticipano l’ultima traccia, la ballata industriale “Ethereal”.

Ora non ci resta che andare a vederli dal vivo – i fortunati che sono riusciti ad anticipare il sold– out delle due tappe italiane – a Milano (28 Aprile, Alcatraz) e a Roma (29 Aprile, Spazio 900), oppure aspettare il 14 Giugno quando saranno a Torino alla Reggia di Venaria Reale.

Io e Mabel copertina Flanerí

“Io e Mabel”
di Helen Macdonald

Io e Mabel. Ovvero l’arte della falconeria di Helen Macdonald, pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Anna Rusconi, è un memoir personale di un dolore unico e universale come può essere la perdita di un genitore. È un tema che è stato ampiamente dibattuto nella storia della letteratura e in generale delle varie forme artistiche. Lo scorso anno, l’esordio di Marco Peano con L’invenzione della madre aveva giustamente attirato l’attenzione dei lettori e della critica, mentre al cinema un maestro come Nanni Moretti aveva sentito l’esigenza di raccontare l’esperienza della perdita della madre nel suo ultimo film, eppure ogni volta è possibile scoprire delle sfumature nuove.

Helen Macdonald insegna letteratura a Cambridge e coltiva da sempre una grandissima passione per l’ornitologia. Quando suo padre, un noto fotografo di costume e natura, è morto, ha vissuto un periodo di profondo sbandamento. Per arrivare alla fase finale dell’elaborazione del lutto ha raccontato la sua storia in Io e Mabel, premiato in Inghilterra con il Samuel Johnson Prize, il più prestigioso premio per la non-fiction, e con il Costa Book Award.

La perdita del padre, nella forma della non-fiction, sembra essere uno dei temi caldi della letteratura di quest’anno in Italia, con il libro autobiografico di Simona Campo, Dove troverete un altro padre come il mio, entrato nella dozzina dello Strega.

In tempi recenti, lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgard ha dedicato allo stesso argomento il primo libro della sua torrenziale autobiografia in sei volumi La mia lottaLa morte del padre, ripubblicato di recente da Feltrinelli. Macdonald e Knausgard partono da premesse completamente diverse per raccontare la scomparsa. La telefonata che precipita Helen nel vuoto della perdita arriva subito, al secondo capitolo che non a caso si intitola Persa. Knausgard aspetta quasi trecento pagine, crea un contesto in cui far sparire un personaggio. Eppure, entrambi testimoniano del vuoto di senso immediato che comporta la scomparsa. Knausgard parla dello spazio maggiore che richiede la sua realtà interiore dopo la perdita, che rimane «immutata, l’unica differenza era che adesso richiedeva più spazio e quindi spingeva via quella esterna. Non avrei saputo spiegarla in altro modo», Macdonald sottolinea la perdita di senso del mondo: «Niente di tutto ciò aveva significato per me. Per settimane ebbi la sensazione di stare sordamente fondendo, come metallo, tanto che a un certo punto arrivai a pensare, non esagero, che se mi fossi seduta su un letto o una sedia avrei finito per fondere anche loro».

Leggere Io e Mabel può far venire in mente L’invenzione della solitudine, un altro memoir sulla perdita del padre firmato da Paul Auster. Anche lì, come in Macdonald e a differenza di Knausgard, la morte del genitore si consuma nella primissima parte del testo, addirittura nel secondo paragrafo della prima pagina: «La notizia della morte di mio padre mi ha raggiunto tre settimane fa. Era una domenica mattina, e stavo in cucina a preparare la colazione per il piccolo Daniel, mio figlio […] Poi squillò il telefono. Capii subito che era successo qualcosa. Nessuno ti chiama alle otto di domenica mattina se non per darti una notizia che non può aspettare; e a non poter aspettare sono sempre le brutte notizie». Anche a Helen Macdonald la notizia arriva per telefono, interrompendo una giornata come le altre: « Stavo per uscire, quando suonò il telefono. Risposi. Di fretta, le chiavi di casa già in mano». Helen, nello shock della notizia, cerca di vivere il resto della giornata come niente fosse, addirittura confermando il pranzo fuori con l’amica e lasciandosi consolare da un cameriere con un dolce al cioccolato. È una finta, il tentativo di mascherare lo sconforto e lo smarrimento nel quotidiano. La morte del padre getta Macdonald in un nulla di senso completo. Mentre Paul Auster afferma immediatamente di non aver subito la scomparsa come un impatto traumatico («Non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse») e di aver concentrato le settimane successive a voler ricostruire la vita del padre per capire chi fosse davvero, alla ricerca di quelle tracce che crede che non siano state lasciate dietro di lui, Helen Macdonald deve ricostruire un mondo, il suo, ormai scivolato per intero nel lutto.

Per cercare di dare un ordine a quel lutto infinito, decide di guardarlo dall’alto. Torna a una sua passione di sempre, scoperta accompagnando bambina il padre fotografo nelle sue escursioni: la falconeria.In passato, Helen ha già allevato altri rapaci, ma decide di misurarsi con un’astore, forse l’uccello più difficile da addomesticare. Lo fa seguendo la traccia di un libro scoperto al primo apparire della sua passione per i rapaci. Tra manuali antichi di falconeria, trattati tra il filosofico e lo scientifico scritti centinaia di anni prima, un romanzo aveva sempre continuato a rimanere vivo nella sua testa da quando lo aveva scoperto nell’adolescenza. È The Goshawk di Terence Herbury White, l’autore noto soprattutto per aver ispirato la disneyana Spada nella roccia. In The Goshawk – mai tradotto in italiano –, White racconta il suo tentativo di addomesticare un astore culminato in un sostanziale fallimento. Helen si accorge sin da bambina che in quel testo manca completamente il rigore degli altri volumi che stava iniziando ad assimilare, eppure c’è qualcosa che lascia in lei un segno più forte. È la disperazione di White, un uomo allo sbando nella vita privata, costretto a reprimere ogni giorno le sue pulsioni omosessuali che lo portavano a una sostanziale sociopatia. Nel tentativo di addomesticare il rapace, lo scrittore cercava la possibilità di ordinare la natura.

Helen, a differenza di White, sa come addomesticare la sua Mabel, l’astore di dieci mesi che diventa il centro della sua vita. Come White, cerca nel rapporto con l’animale un senso ulteriore di potere sulla natura. È un rapporto che segna il cambiamento e il ritorno in sé di Helen, perché «Mabel è più di un’astore. È uno spirito domestico, il mio piccolo nume tutelare». Il rapporto che Helen instaura con il suo rapace è disperato. Mabel è indomabile, la ignora, la fa impazzire. Di fatto, vivere con Mabel è anche «come adorare un iceberg, o una slavina battuta dal vento gelido».

Eppure, Helen continua nel suo tentativo. La natura spietata dell’astore la pone in contatto costante con la morte, che è il mostro contro cui combatte. Il rapace uccide senza pietà; in molte culture falchi e simili sono simboli di collegamento tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Helen affida il suo ritorno alla vita al rapporto con Mabel, dopo aver sorvolato con lei il mondo più selvaggio e meno umano: «avevo portato l’astore nel mio mondo per poi fingere di vivere nel suo». Il rifugio nel mondo selvaggio, però, non basta. È questa presa di coscienza che porta Helen di nuovo a vivere, a rimettere ogni cosa al proprio posto, Mabel nel cielo, i suoi piedi per terra, e il padre da qualche parte nei ricordi.

 

(Io e Mabel. Ovvero l’arte della falconeria, di Helen Macdonald, trad. di Anna Rusconi, Einaudi, 2016, pp. 292, euro 19,50)

 

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Carlo Betocchi e la storia

La poesia di Betocchi sorge sulla poesia italiana degli anni Trenta come un’alba silenziosa e nuova. Dalle pagine di Il Frontespizio, la rivista da cui si staccherà un gruppo di intellettuali “dissidenti” che getteranno le basi per una stagione di altezze verticali e inespugnabili nel disegno di una letteratura come vita, il cattolicesimo «pasquale e creaturale» di Betocchi risuona, con tutti gli armonici di un Ottocento ancora vitale, della gioia e del mistero della (ri)nascita, all’indomani della fine della Grande Guerra.

Si capirebbe molto poco del periodo dell’entre-deux-guerres e di tutto quello che è venuto dopo nel panorama della nostra poesia e storia spirituale, ignorando un autore ormai quasi estromesso dal canone novecentesco come Betocchi. Padre, anzi fratello maggiore dei prossimi Luzi e Caproni, ma anche di autori insospettabili come Emilio Villa (su cui ci ripromettiamo di tornare), Betocchi cantò con accenti oggi quasi incomprensibili la dignità del dolore e la bellezza e la purezza («l’odore casto e gentile» dirà Penna) della povertà.

Diciottenne, aveva partecipato insieme ai suoi colleghi del ’99 alla rotta di Caporetto, scrivendo negli anni presaghi dell’altra guerra, quando il fascismo cominciava a farsi rampante nella sua smania di egemonia, un resoconto in due puntate recentemente ripubblicato dall’editore Raffaelli di Rimini: L’anno di Caporetto:

«Che cosa è in questa vastità tetra e fragorosa, pur nel suo silenzio viscido e quasi mortale, quanto ho raccontato e quanto sto per raccontare io a proposito di infinite inezie? Ero uno di quella moltitudine e quello che io vedevo, certo, faceva parte di tutto il tragico quadro al quale insieme concorrevamo: ma con quale timore rinnovo la mia memoria, le cose da nulla che mi occorrevano, le ricerco, le soppeso e quante volte ripetutamente rimango accasciato e pieno di sfiducia su queste pagine!» (C. Betocchi, L’anno di Caporetto, Raffaeli, 2014, p. 38)

Nel 1932 esce la sua prima raccolta, Realtà vince il sogno. In essa si condensa il punto di partenza di un autore che avrà negli anni uno sviluppo decisivo nella descrizione esistenziale di una vita sondata sin nei più nascosti recessi sentimentali e psicologici, e di una fede vissuta sempre con un’ombra di sospetto sul cuore. Ma per ora gli scenari betocchiani sono quelli della Toscana rurale e cantante dove aveva vissuto la giovinezza, nonostante fosse nato a Torino. Uscite importanti sono ancora Altre poesie (1939); Il vetturale di Cosenza (1959); L’estate di San Martino (1961) e Un passo, un altro passo (1967) che inaugurano una stagione di lunga e sofferta vecchiaia in cui il tono si fa più discorsivo dilatandosi in lunghe lasse di versi.

Per questo poeta tutto raccolto nel mistero dell’uomo si è di rado messa in rilievo l’adesione dolente a una storia che condensa il cuore nero del Novecento, e che emerge anche nei più insospettati paesaggi sospesi su un senso di imminente fatalità, quando invece non compare nell’interezza della sua devastazione, come in Rovine 1945:

Non è vero che hanno distrutto
le case, non è vero:
solo è vero in quel muro diruto
l’avanzarsi del cielo

a piene mani, a pieno petto,
dove ignoti sognarono,
o vivendo sognare credettero,
quelli che son spariti…

Ora spetta all’ombra spezzata
il gioco d’altri tempi,
sopra i muri, nell’alba assolata,
imitarne gli incerti…

e nel vuoto, alla rondine che passa.

 

Sulla sospensione reiterata di quei tre puntini che mozzano la frase indicibile sta il segreto di una umanità che prova a rialzarsi nell’assurda certezza del proprio dolore («non è vero… solo è vero»). Il cielo, sembra dire un Betocchi flâneur delle rovine, può pesare sulle coscienze più di una maledizione. Nella verità e nella realtà di una condizione il più vicino possibile alla elementarità dell’uomo risuona l’eco della perdita e dell’assenza, stemperata sulla figura cristologica, salvifica e terribile, della rondine che passa. Tuttavia la perdita e l’assenza di Betocchi non indulgono mai al cupo ripiegamento dell’anima, e conservano in sé una forza creatrice che ben descrive ciò che, passiti i primi giorni di quel ’45 evocato nel titolo, diventerà la voglia di riscatto della ricostruzione.

Quello che i poeti della generazione successiva hanno imparato da Betocchi forse più che da chiunque altro è stato descrivere per via di suoni elementari ma forti, spezzati, il fragore interiore degli eventi storici, individuali e generazionali. I ritmi furiosi e l’accavallarsi di suoni base nelle assonanze di i/e/o («a piene mani, a pieno petto, / dove ignoti sognarono, / o vivendo sognare cedettero») o nell’iterazione delle a («Ora spetta all’ombra spezzata / il gioco d’altri tempi, / sopra i muri, nell’alba assolata») rappresentano il più vivo esempio di una composizione che unisce la volontà descrittiva al resoconto subliminale di uno stato d’animo scosso e pronto a reagire. Ancora alcuni versi di guerra da Isernia: «[…] M’han parlato col cuore qui ad Isernia, / in tanti; e mi sentii inverdire, addosso, / gli stinti panni di guerra del quindici, / quando infittivan reggimenti / come di foglie, è canto d’Ungaretti, / su cui passava l’autunno».

Betocchi è un poeta dalle aperture folgoranti, dalle descrizioni piene di grazia ed energia, dalle ripetizioni perentorie e dalle negazioni desolate e risentite. La sua vicenda poetica, oggi un po’ abbandonata, conduce al cuore del secolo e del contrasto non per via intellettuale ma seguendo le tracce di un «muto discorso anonimo» che cercava così di farsi universale.

 

Dai tetti

È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore;
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
– Siamo – dicono al cielo i tetti –
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe dei tuoi granai.
O come divino spazia su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.

 

Calibro 35 Intervista su Flanerí

Intervista ai Calibro 35

Come Morricone, Micalizzi, Bacalov e Goblin, i Calibro 35 “producono” colonne sonore, anzi, spesso – almeno all’inizio – hanno «reinterpretato sonorizzazioni, quelle che in gergo si chiamano muzika», ci spiegano. Oggi i Calibro 35 quasi rivendicano il loro primato, che è quello di aver dimostrato che «con queste composizioni – affermano – si può avere un discreto seguito come una normale band pop e mainstream».

Ed è certamente un progetto musicale atipico e fuori dai canoni consueti da band quello che i Calibro 35 hanno intrapreso dal 2008, anno di esordio con il loro primo disco omonimo. Quasi un’alchimia costruita in laboratorio: prendi le colonne sonore dei cosiddetti b-movie, dei poliziotteschi, degli horror, degli spaghetti western degli anni Settanta,  li riarrangi, e li fai interpretare a quattro straordinari polistrumentisti che con chitarra, batteria, basso, synth, trombe, flauti, sax e tanto altro sono capaci di produrre mirabolanti esecuzioni sonore.

Abbiamo incontrato Massimo “Max” Martellotta (chitarre e lap steel) e Luca Cavina (basso), nel backstage della data romana dello “SPACE Tour 2016”. «Ecco metà dei quattro Calibro 35» esordiamo noi. «Calibro 17 e mezzo» ribatte Max non resistendo alla (facile) battuta. Completano il quartetto Enrico Gabrielli (tastiere, flauto, sax e xilofono) e Fabio Rondanini. Il “quinto” Calibro Tommaso Colliva  è invece – come ci dicono – «l’inventore e mente del loro progetto musicale».

I Calibro 35 sono più una band o, come spesso vi piace autodefinirvi, un progetto?

Luca: «Beh, siamo certamente più un progetto musicale che una classica band. Non siamo cresciuti insieme nella stessa città e non siamo amici d’infanzia che sono cresciuti in sala prove. Ciascuno abita in una città diversa d’Italia e ci siamo ritrovati proprio con l’idea di fare una musica con una progettualità sonora ben definita. Ovvero quella di reinterpretare dei classiconi del repertorio musicale che sottolineava i film di genere degli anni Settanta. In questo senso i Calibro 35 hanno connotati estetico-musicali molto ben delineati».

Max: «Negli anni poi, suonando sempre insieme e dal vivo come una band tradizionale , ci siamo ritrovati anche a livello umano e abbiamo iniziato a comporre anche nostri brani originali differenziandoci rispetto alle origini».

Funk, rock, jazz nella vostro sound che è quasi esclusivamente strumentale. Le tournèe dei Calibro girano l’Europa, ma anche USA e altre parti del mondo. Avete raggiunto il successo all’estero perché non avete il cantante?

L: «Certamente ci toglie lo scalino e l’imbarazzo della lingua, anche se noi musicisti  italiani dovremmo cambiare prospettiva ed essere meno provinciali. Le band di altri paesi europei, indipendentemente dalla loro provenienza, mirano in maniera naturale verso l’Europa tutta. Per gli italiani, spesso, non è così. L’accoglienza fuori Italia anche per noi è differente, certo. Dipende anche dalla promozione che viene fatta, oltre che dalla musica e dal passaparola. I Calibro 35 in città come Londra, Berlino, Parigi, Manchester sono ormai molto apprezzati».

In una recente intervista Hugo Race – cantautore australiano ex Bad Seeds  con  Nick Cave – ha dichiarato che il tipo di musicalità di band come la vostra, o dei Sacri Cuori  (con i quali Race ha collaborato) legata alle colonne sonore, alle composizioni da film può essere il giusto viatico per sdoganare e rendere più internazionale la musica italiana. Siete d’accordo?

M: «Direi di sì. Uno dei motivi per cui è nato il progetto dei Calibro 35 è stato proprio questo. La domanda che si è posto Tom (Tommaso Colliva, il produttore – nda) è stata: per quali musiche, a parte l’opera, siamo conosciuti nel mondo e siamo davvero un’eccellenza? Le colonne sonore, è stata la risposta. Quello che suoniamo è un non-genere, caratterizzato da una mescolanza tra vari tipi di sonorità. Siamo musicalmente trasversali. L’anno scorso abbiamo suonato al Reverence Festival Valada a Cartaxo in Portogallo, una rassegna di musica indipendente dove sono rappresentati tutti i generi musicali ciascuno con il suo pubblico. La nostra esibizione è riuscita a mettere tutti d’accordo e abbiamo fatto il pienone».

I Calibro 35 avranno mai un cantante?

L: «L’idea di un’incursione vocale non l’abbiamo mai esclusa, ma i Calibro non diventeranno un gruppo con il cantante. Siamo da sempre un ensemble modificabile, ampliabile o restringibile. Nel 2013 abbiamo fatto tutto uno spettacolo dal titolo Indagine sul cinema del brivido in cui con noi sul palco c’erano fiati, archi, voci, vibrafono, theremin. Non ci poniamo dei limiti».

Insieme ai Sacri Cuori, avete fatto un po’ da apripista a questo non-genere musicale basato sulle colonne sonore. Cosa pensate di tutto questo fiorire di formazioni come La Batteria a Roma, per esempio, che riprendono questo vostro filone?

L: «Prima di noi ci sono state formazioni come Studio Davoli e Montefiori Cocktail ma non si sono mai poste come progetto musicale a lunga scadenza. Il nostro primato, ovviamente tra virgolette, è stato quello di pensare alla nostra musica in maniera programmatica e progettuale».

M: «Sacri Cuori e La Batteria sono due formazioni molto importanti. In quest’ultima c’è David Nerattini che è un espertone da sempre di colonne sonore, che le studia da oltre trent’anni. I Sacri Cuori di Antonio Gramentieri gravitano intorno al quell’immaginario da sempre, anche se si ispirano a un immaginario musicale e cinematografico più americano rispetto al nostro. Io credo che noi  come Calibro abbiamo solo dato il via a progetti come questi due, che magari avevano dubbi sul nascere e sulle potenziali anche professionali e di seguito del progetto.  Queste due realtà citate sono le due band assolutamente più fighe che ci sono adesso. L’ultimo disco dei Sacri Cuori è clamoroso. E anche quello de La Batteria è molto figo, bellissimo».

Avete mai incrociato o avuto dei riscontri da vostri “padrini” e maestri musicali come Morricone o Micalizzi?

L: «Con Franco Micalizzi abbiamo diviso il palco nel 2009 a Milano per una data. Fu abbastanza divertente. Da Morricone nulla, ma va bene così. Uno che ha fatto tutto quello che ha fatto lui ci stupirebbe se ci filasse. Quando lo chiamano per gli arrangiamenti di Morrisey fa il vago, figurati se  ascolta o conosce i Calibro 35!» (ridono).

Giorgio Canali, l’ex CCCP e CSI da anni solista, ha dichiarato recentemente  in un’intervista che «Morricone fa musica tanto al metro e del suo Oscar non me ne frega nulla». Siete d’accordo?

M: «Beh, ma quello è proprio il suo lavoro! Quella di Canali è una provocazione, ma in realtà è proprio vero. Morricone non ha mai detto di fare l’artista. Canali probabilmente fa l’artista e Morricone fa la musica tanto al metro. Fa quella che si chiama muzika, muzak, fa la musica da sottofondo, da commento sonoro: è il suo lavoro, è verissimo».

Nel senso che è tutto studiato e progettato e che, in questo tipo di muzika, non è necessario il quid artistico di chi compone?

M: «Non so se Morricone quando scrive per un film ha ha ispirazione artistica, però la colonna sonora, per definizione, è lo strumento di un regista e quindi chi la scrive è  al servizio di un film. Poi Morricone è uno che ha composto anche un sacco di roba per se stesso, era nella scena di musica contemporanea con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza dove c’erano cose molto interessanti e molte sonorizzazioni. Lì c’è uno spessore artistico molto diverso».

L: «Secondo me comporre musica al metro non significa che manca di arte. C’è tanta ottima musica al metro dentro le composizioni di Morricone. A volte ci sono musiche di questo tipo che sono decisamente migliori di tanti pseudoartisti, ecco. L’accezione di musica al metro non è necessariamente negativa, anche se capisco che può essere intesa così».

Prossimi progetti: i più imminenti?

L: «Potremmo fare un disco cantato o uno hip hop, o un orchestrale, oppure un disco d’improvvisazione o ancora in un ensemble totalmente allargato! (ridono) Con  Calibro abbiamo la fortuna di essere cinque teste differenti per un progetto e questo questo è sempre molto stimolante. Quello dei Calibro può apparire come un progetto a termine, avendo come base il cinema, Ma non è così, vedrete, ne abbiamo a iosa di idee, e al fianco del tema cinema si possono affiancare tantissime come, ad esempio, letteratura o fumetti».

M: «Potremmo perfino andare a Sanremo! Però senza cantante!»

 

David di Donatello 2016 tutti i vincitori

David di Donatello: chi ha vinto (oltre a Sky)

È stata la notte del cinema italiano, quella della sessantesima edizione dei David di Donatello, la migliore senza alcun dubbio da moltissimi anni a questa parte, la prima nella memoria collettiva in cui le stelle del cinema italiano hanno brillato tutte insieme in una serata degna delle migliori cerimonie hollywoodiane, con red carpet, smoking, abiti eleganti, emozione, divertimento e spettacolo. Il merito, senza dubbio, va tutto a Sky Cinema che per la prima volta si è occupata della messa in onda della premiazione e di organizzare tutto. È stato l’anno di tre film: Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che si è aggiudicato sette premi; Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, altri sette; Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, con due David: miglior sceneggiatura e miglior film.

È difficile ricordare un’edizione passata dei David capace di attirare così tanto l’attenzione dell’opinione pubblica. Il dibattito relativo ai premi dell’Accademia del cinema italiano, di solito, si basava su una domanda sola: ma gliene importa qualcosa a qualcuno? Delle ultime edizioni si ricordano soprattutto le figuracce di Paolo Ruffini con Sofia Loren e la noia generale, l’imbarazzo della Rai che organizzava e trasmetteva nel trovare lo giusto spazio nel palinsesto per una serata incapace di intercettare l’attenzione del pubblico e di rendere giustizia ai film italiani.

Sky ha ribaltato tutte le premesse. I David sono diventati un evento degno degli Oscar. Anziché un inutile contenitore televisivo per l’annuncio dei vincitori, la cerimonia è diventata uno spettacolo, la cosa da seguire e di cui parlare. È ovvio che molto hanno fatto anche i film premiati, che sono stati in grado più che mai di avvicinare il pubblico al cinema con un linguaggio nuovo e moderno. L’anno scorso aveva trionfato Anime nere di Francesco Munzi, stracciando un vincitore dato per sicuro come Mia madre di Nanni Moretti. Film bellissimo, quello di Munzi, senza dubbio, così come bellissimo era il film di Moretti, anche se non tutti ne sono convinti, ma entrambi conservano ancora quell’aria grigia da “film italiano importante” che invece il nuovo cinema sembra si stia scrollando di dosso. Sky ha dato una mano, osando da subito, ammettendo addirittura che è lecito addormentarsi guardando La grande bellezza.

Una serata, finalmente, da ricordare, quindi, per il cinema italiano, in una stagione che si è contraddistinta senza dubbio per la voglia di novità che ha portato una serie di nuovi e vecchi registi capaci di assorbire la lezione del cinema statunitense e trasformarla in un nuovo modello per il cinema nazionale.

Detto questo, forse si è voluta fin troppa gloria per Lo chiamavano Jeeg Robot, magari si potevano lasciare i premi femminili a qualcun altro, forse Luca Marinelli avrebbe meritato di vincere anche come miglior protagonista per Non essere cattivo (è già successo ai David, e di recente, con Mastandrea che vinse nel 2013 come protagonista di Gli equilibristi e non protagonista per Viva la libertà), e in generale il film di Caligari avrebbe meritato qualche altro premio. Lo split finale a sorpresa con il miglior film andato a Perfetti sconosciuti sembra non avere molto senso, visto come erano andati i premi fino a quel momento. Non staremo a dire che il film di Genovese è prodotto e distribuito da Medusa mentre Il racconto dei racconti e Jeeg Robot sono prodotti da Rai Cinema (con il contributo di Sky), perché non ci interessa. Diciamo che comunque ha vinto una commedia, per una volta, e questo è un bel segnale.

Ecco i vincitori dei David di Donatello 2016, divisi per numero di premi vinti:

 

• Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti: 7 David

Miglior regista esordiente per Mainetti, miglior produttore per la Goon Film di Mainetti, Miglior attore protagonista per Claudio Santamaria, migliore attore non protagonista per Luca Marinelli, Migliore attrice protagonista per Ilenia Pastorelli, migliore attrice non protagonista per Antonia Truppo, miglior montatore per Andrea Maguolo (con la collaborazione di Federico Conforti)

• Il racconto dei racconti di Matteo Garrone: 7 David

Miglior regista per Garrone, miglior direttore della fotografia per Peter Suschitzky, miglior costumista per Massimo Cantini Parrini, miglior scenografo per Alessia Anfuso e Dimitri Capuani, miglior truccatore per Gino Tamagnini, Valter Casotto, Luigi D’Andrea, Leonardo Cruciano, miglior acconciatore per Francesco Pegoretti, migliori effetti digitali per Makinarium

• Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese: 2 David

Miglior film, miglior sceneggiatura per Filippo Bologna, Paolo costella, Paolo Genovese, Paola Mammini, Rolando Ravello

• Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino: 2 David

Miglior musicista per David Lang, miglior canzone originale per “Simple Song #3” per David Lang

• Non essere cattivo di Claudio Caligari: 1 David

Miglior fonico di presa diretta per Angelo Bonanni

• S is For Stanley di Alex Infascelli: 1 David

Miglior documentario

• La corrispondenza di Giuseppe Tornatore: 1 David

David giovani

• Il figlio di Saul di Laszlo Nemes: 1 David

Miglior film dell’Unione Europea

• Il ponte delle spie di Steven Spielberg: 1 David

Miglior film straniero

• Bellissima di Alessandro Capitani: 1 David

Miglior cortometraggio

Di uomini e bestie

“Di uomini e bestie”
di Ana Paula Maia

«Ho una piccola cosa africana da dirvi: “un vecchio negro in un mercato indigeno che intreccia tabacco” l’odore umido e palpitante sale dalle dita, la sottigliezza “ritmica” delle dita giunge ad essere un dolore, ferisce nella testa il pensiero della sua devozione estrema quasi “intattile” su qualcosa, “qualcosa tabacco”, ciò che comincia a divenire come una “pazzia commossa”». Queste righe accorpate d’un fiato, in modo da non sembrare versi, sono di Herberto Helder. Poeta portoghese sfuggito alla fama come si fa coi creditori, avvezzo alla penombra, alla fatica poco lirica di sbracciarsi dietro l’angolo. Scrivendo spesso degli ultimi nel modo in cui può fare solo uno di loro.

Il libro di Ana Paula Maia Di uomini e bestie (laNuovafrontiera, 2016) appartiene d’urgenza a questo richiamo. Stessa lingua, anche se travasata oltre oceano, stessa miseria ruggente, senza sprazzi e senza sonno.

Protagonista della vicenda è Edgar Wilson, storditore in una fazenda brasiliana. Il suo lavoro è guardare negli occhi i bovini, tracciare sulla fronte il punto di vernice in cui sparare e poi abbatterli con la sua mazzetta. Il suo lavoro è vederli stramazzare, inspirare quei muggiti che cesseranno in fretta, imbrattarsi le pupille di quel sangue inconsapevole, essere immondo fino al midollo. Gli schizzi lo trapassano, perforano gli abiti, le sue immaginazioni, non ci sono occhiali che lo possano salvare.

La sua vocazione, il solo sistema che conosce per alleviare il suo mestiere, è minimizzare il danno. Rendere a quelle bestie la grazia di una morte stretta. Senza fronzoli d’inutili torture.

Averne pietà, più di quanta ne riservi agli uomini. Che di pietà per lui ne hanno riservata poca. Ma anche questo non sarà sufficiente per affittargli una zolla di conforto: «Edgar sa che Dio è nell’alto dei cieli e che Egli sorge tutti i giorni come il sole. Conserva la sua fede, ma sa che la sua violenza non gli permetterà mai di vedere la faccia del Creatore […] Dove andrà sarà come stare dentro una miniera di carbone, sotterrato nelle profondità […] In un certo senso, lui aspira a questo, perché sa che alla luce del giorno esiste il giudizio mentre all’ombra, è tutto coperto»

Edgar vive di niente, quello stesso niente d’aria che sottrae alle sue vittime. Lavora sodo, dorme poco, tracanna caffè e non si fida di nessuno. D’altronde, intorno a lui aleggia un pulviscolo di creature atomizzate, sporche e solitarie esattamente come lui. Ma ancora più aride, capaci a volte di sfamarsi con lo strazio delle mandrie. Carnefici totali, immersi in quei lamenti come in un acquario. Coscienti e intrisi di tutto il grumo di lavoro sporco che si acquatta dietro un hamburger.

Edgar e gli altri sono i traghettatori silenziosi di un processo marcio, sbiancato con dovizia nell’imballaggio da scaffale, nel tempio asettico di un supermercato o nella giostra di un  fast food. Sono una classe di reietti, destinati a non godere di ciò che consentono. A loro i cadaveri, agli altri la carne.

Proprio a questo è ispirata la precedente trilogia di Ana Paula Maia, da lei stessa definita «La saga dei bruti», in cui ritroviamo Edgar Wilson, esempio eccellente di uomo fantasma, socialmente rimosso o marginalizzato, boia impeccabile condannato ad accollarsi il bruciore dei desideri altrui, quell’appetito che nelle sue mani si fa delitto. Sono i nuovi schiavi, inabili a slegarsi dalla propria condizione, come invece, a dispetto di ogni previsione, provano a fare le bestie. Abbrancando una libertà insolita, estrema, più umana di quegli uomini che le vedono saltare.

Questa è una letteratura degli esclusi, dove il prossimo non è mai realmente vicino, dove non esiste ristoro possibile, dove le ore sono ingrate e imbottite di polvere, come quelle accattone di Rico ne Il sole dei morenti, dei personaggi dei racconti di Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti o di Palmiro, dell’enorme e dimenticato Luigi Di Ruscio. Perché la disperazione ha sempre la stessa latitudine. Ci si riconosce nello sguardo di chi sopravvive, come dentro una lingua materna.

Umido e buio è il loro universo, sporco del sacrificio continuo. La fantasia non ci prova nemmeno, a candeggiare l’orrore, come fa ad esempio il protagonista de Lo stordimento di Joël Egloff, impiegato in un macello esattamente come Edgar, ma capace di trasformare un torrente arrugginito in una sorgente illibata o perfino d’innamorarsi.

Qui no. La scrittura è asciutta come la sete, cruda e pungente, ideale a intagliare atmosfere tarantiniane, come afferma anche Maria Fernanda Garbero nel suo testo in appendice. Qui non si può. Qui si muore ogni notte, senza mai ricordarla. Qui si può solo scuoiare ogni istante come fosse una belva, intuire nell’Altro lo stesso animale ramingo, spossato d’afa e di minacce. Votato alla mattanza. Anche quando è lui a sparare.

Di uomini e bestie si parla. E ancora una volta è fin troppo facile confondersi.

 

(Ana Paula Maia, Di uomini e bestie, trad. di Marika Marianello, laNuovafrontiera, 2016, pp. 121, euro 14,50)
Il libro della giungla poster Flanerí

“Il libro della giungla”
di Jon Favreau

Sono passati ormai cinquant’anni da Il libro della giungla, il diciannovesimo classico di animazione della Disney diretto da Wolfgang Reitherman partendo dall’opera dello scrittore britannico Rudyard Kipling. Fu l’ultimo film prodotto da Walt Disney, che morì nella fase finale della lavorazione. Sembra giusto, quindi, che quello che è senza dubbio il miglior film della nuova era “live action” Disney sia il rifacimento dell’ultimo titolo a cui lavorò il fondatore.

Dopo Maleficent e Cenerentola, in attesa di La bella e la bestia e Peter Pan, è Il libro della giungla a ricevere la trasformazione in live action. Certo, si tratta di un live action molto relativo. Di fatto, siamo di fronte a un film di sontuosa e iperrealistica animazione digitale con una presenza umana minima, una specie di Chi ha incastrato Roger Rabbit? al contrario. La trama si discosta poco dal classico Disney e dal libro di Kipling. Mowgli è un cucciolo d’uomo trovato ancora piccolissimo dalla pantera Bagheera. Viene cresciuto dalla lupa Raksha del branco di Akela. La spietata tigre Shere Kahn, però, non vuole che l’uomo viva nella giungla e ne ordina la messa al bando. Mowgli deve scappare dal suo gruppo per tornare nel villaggio degli uomini. Sulla sua strada incontra l’orso Baloo, affina il suo ingegno d’uomo e il suo senso di appartenenza al branco.

La novità più importante di questo nuovo Il libro della giungla è il ruolo dell’elemento umano all’interno dell’evoluzione della trama. Mowgli, geneticamente incapace di essere come un lupo, cerca di porre rimedio alle sue mancanze attraverso l’inventiva, ricorrendo a quelli che Bagheera e i lupi del branco definiscono “trucchi”, come un guscio legato a una corda da usare come secchio. Nella giungla non ci sono trucchi, nessuno li sa usare. Se Mowgli vuole vivere tra gli animali deve rinunciare alle sue capacità umane e cavarsela con quello che ha a disposizione. Anche perché i trucchi dell’uomo possono essere pericolosi, come il fuoco, il «fiore rosso» che porta distruzione e morte. Shere Kahn non si oppone a Mowgli perché è un umano: si oppone alla sua presenza perché può costituire una minaccia, perché l’uomo può essere una minaccia per la natura, di cui non conosce le regole e a cui non sa adattarsi senza distruzione. C’è un messaggio di ambientalismo discreto nella ferocia della tigre, di rifiuto delle trasformazioni della modernità.

Per il resto, Il libro della giungla si conferma fedele al modello a cartoni animati, anzi in alcuni momenti lo omaggia platealmente, introducendo per la prima volta nei film live action Disney degli intermezzi musicali che riprendono proprio il cartoon. È comunque un film più adulto, più cupo anche nel suo messaggio. Il racconto di formazione di Mowgli si apre alla scoperta della propria natura e di come poterla utilizzare al meglio. È l’incontro con l’orso Baloo e la sua pigra saggezza a far capire al cucciolo d’uomo come il suo essere umano possa e debba essere una risorsa nel mondo animale. Il branco si contrappone all’individualità, Bagheera si contrappone a Baloo come maestro, ma la strada da seguire è quella dell’unità.

Jon Favreau, l’inventore dell’Iron Man cinematografico, ha sempre unito nel suo cinema la capacità di fare spettacolo e di riflettere, soprattutto sul tema della crescita e del cambiamento. Non gli è sempre andata benissimo in termini di botteghino. Cowboy & Aliens è stato un mezzo disastro, Chef, raffinata commedia vicina al cinema indie, è passata praticamente inosservata. Con Il libro della giungla ha fatto qualcosa di simile a James Cameron con Avatar, con molto meno clamore e attenzione dei media. Non si era mai visto un simile livello di interazione tra reale e digitale, una computer grafica così realistica, che arriva a momenti degni dei documentari alla National Geographic.

Sarà difficilissimo, a questo punto, per la Warner Bros riuscire a fare qualcosa non solo di meglio, ma anche solo di paragonabile con il suo Jungle Book. Il progetto, annunciato per la prima volta nel 2012, è passato di regista in regista, da Alejandro González Iñárritu a Ron Howard, fino ad arrivare nel 2014 tra le mani di Andy Serkis, il Gollum del Signore degli anelli, probabilmente il miglior interprete di motion capture esistente. Doveva uscire a ottobre del 2016, poi del 2017. Alla fine è stato deciso che arriverà a ottobre 2018. I rinvii sono dovuti alla ricerca della perfezione tecnica, dell’assoluto realismo animale. Di fatto, Favreau c’è già arrivato.

Il cast originale delle voci che accompagnano l’esordiente Neel Sethi nei panni di Mowgli in questo Libro della giungla Disney mette insieme Bill Murray come Baloo, Ben Kingsley come Bagheera, Idris Elba come Shere Kahn, Scarlett Johansson come Kaa, Lupita Nyong’o come Raksha e Christopher Walken come King Lou. In italiano sono stati sostituiti da Neri Marcoré/Baloo, Toni Servillo/Bagheera, Violante Placido/Rashka, Giovanna Mezzogiorno/Kaa, dal doppiatore (bravissimo) Alessandro Rossi per Shere Kahn e da un sorprendente Giancarlo Magalli come King Lou, sorta di Marlon Brando in Apocalypse Now nella sua furibonda immobilità.

 

(Il libro della giungla, di Jon Favreau, 2016, animazione/avventura, 100’)

 

“Gli innamorati”
di Carlo Goldoni

È in scena fino a domenica 17 aprile, al Teatro Vascello di Roma, Gli innamorati di Carlo Goldoni, regia di Andrée Ruth Shammah.

La regia classica dell’impianto originale sopravvive insieme a uno spirito più contemporaneo: una commistione inevitabile per una commedia che ha più di duecento anni ma che mette in scena tutti i lati più ridicoli della frenesia amorosa.

Sono proprio i capricci, i sotterfugi e le minacce degli innamorati a muovere gli altri personaggi in scena, a determinare i ritmi dell’azione e a lasciare che il pubblico – che riconosce l’attualità delle assurde dinamiche scaturite da una relazione amorosa – rida degli amanti, delle loro esagerazioni e perciò di sé.

Sono sempre gli amanti a colorare lo spazio scenico che invece è allestito in funzione dell’essenzialità. La scenografia, a cura di Gian Maurizio Fercioni, è costituita per lo più da relle contenenti vestiti e da altri pochi arredi e ammicca, delicatissima, a un certo candore settecentesco, quello del pallore dei visi e degli abiti di una certa nobiltà, fungendo anche da espediente necessario alle azioni compiute dagli attori sul palco; è dietro agli arredi che i personaggi spiano e si trincerano, o ridefiniscono gli spazi della scena, tutto sotto lo sguardo degli spettatori.

Lo spettacolo, che aveva riscosso il favore del pubblico e della critica, rappresenta – dopo La Locandiera e Sior Todero Brontolon – un altro tassello del percorso di Andrée Ruth Shammah su Goldoni.

La freschezza dello spettacolo è garantita, oltre che da un’ottima rielaborazione del testo originale, anche dall’interpretazione degli attori, una su tutti Marina Rocco nei panni di Eugenia, volto noto in ambito cinematografico, che con la sua interpretazione riesce ancor di più a determinare gli intenti dello spettacolo: mettere in scena l’instabile equilibrio che regola l’incedere dei sentimenti degli innamorati e più in generale delle relazioni umane di tutti noi.

 

Gli innamorati

di Carlo Goldoni
regia Andrée Ruth Shammah
con Marina Rocco, Matteo De Blasio,
Roberto Laureri, Elena Lietti,
Alberto Mancioppi, Silvia Giulia Mendola,
Umberto Petranca, Andrea Soffiantini
scene e costumi Gian Maurizio Fercioni
luci Gigi Saccomandi
musiche Michele Tadini
produzione Teatro Franco Parenti
Roma – Teatro Vascello, dal 7 al 17 aprile 2016.

Backstreet Boys

“Backstreet’s Back” dei Backstreet Boys

Gli anni Novanta sono stati, per eccellenza, gli anni delle boy band. L’ultima decade del secolo ha visto infatti l’esplosione di gruppi musicali maschili composti a tavolino dai produttori delle maggiori case discografiche americane, adolescenti dati in pasto a folle oceaniche di ragazzine urlanti e disposte a tutto pur di vedere o toccare i loro beniamini. Boyzone, Five, Westlife,Take That e NSYNC sono solamente alcune tra i gruppi di maggiore successo di quegli anni. Le caratteristiche erano sempre lo stesse, piuttosto scontate ma efficaci: ragazzi fotogenici, vestiti alla moda, voci discutibili e coretti a tratti patetici, ma coreografie e balletti impeccabili. A livello di immagine, rappresentavano il meglio che ci si potesse aspettare perché erano perfetti e le riviste di moda dello star system se li contendevano. Facevano girare milioni di dollari. Il decennio delle Nike, di Michael Jordan, dei fast food, del rap in ascesa, del Tamagotchi, dello scandaloso Sexgate clintoniano, di Tangentopoli e dei villaggi turistici, l’illusione della ricchezza e la celebrazione del divertimento a tutti i costi. Gli anni Novanta, lo spartiacque tra il Martini e l’11 Settembre.

Tra tutte le boy band di quel periodo ce n’è una in particolare che nessuno è riuscito a dimenticare, la più famosa, quella che ebbe maggior successo e che nell’immaginario collettivo rimarrà La Boy Band: i Backstreet Boys. Ufficialmente il gruppo nasce nel 1993, dopo mesi e mesi di audizioni gestite dal manager–macchina da soldi Lou Pearlman. Ed eccoli lì, belli, giovani e sfrontati. Nick, Howie D, Brian, AJ e Kevin senza saperlo segnarono un’epoca: tutte le ragazzine e le adolescenti di mezzo mondo avevano il loro poster in cameretta, i loro cd e le loro magliette, il kit completo della fan sfegatata. Me le ricordo ancora le mie compagne di scuole alle elementari: Patrizia, Vanessa, Anna e tutte le altre impazzivano per i Backstreet Boys e a noi, poveri maschi, non restava che tentare di imitarli nell’abbigliamento quanto nel taglio di capelli, senza successo. In particolar modo Nick e Brian erano considerati i più fighi. Sopratutto il primo, forte del suo caschetto biondo e degli occhioni azzurri, se la giocava con il DiCaprio di Titanic (1997) per il primato di sex-symbol internazionale. Howie D e AJ erano quelli un po’ sfigati mentre Kevin faceva breccia nel cuore delle più grandi. Un mix esplosivo di musica e immagine al pari delle Spice Girls, ragazze inglesi molto pepate che arriveranno qualche anno dopo.

Accantonando i ricordi personali, i BSB nel 1996 pubblicarono l’omonimo Backstreet Boys, album d’esordio destinato a lanciarli nell’Olimpo della musica pop internazionale. Non credo che il romanticismo forzato, le camicie sbottonate e i capelli ossigenati del video di “Quit Playing Games (With My Heart)” abbiano bisogno di troppe presentazioni: più che altro, fa ancora molto ridere la versione italiana di questo pezzo registrata dalla band, “Non puoi lasciarmi così”, appositamente per le nostre connazionali. A distanza di vent’anni, si può tranquillamente dire che a livello qualitativo c’era davvero poco: la produzione aveva un target e lo centrò perfettamente, un pop denso di amore e relazioni fugaci, in qualche caso pietoso ma sempre accattivante. Il disco fu subito un trionfo in Europa: in particolare i tedeschi apprezzarono davvero molto il lavoro della band americana, mentre negli Usa non raggiunse lo stesso successo immediato.

Il 1997 rappresentò l’anno di svolta, il successo mondiale. Backstreet’s Back, a differenza del disco d’esordio e con qualche eccezione, possiamo considerarlo un buon lavoro sotto diversi punti di vista. Due brani in particolare resero l’album qualcosa di incredibile a livello mediatico: l’indimenticabile “Everybody (Backstreet’s Back)” e “As Long As You Love Me”. Il primo deve il suo successo tanto al ritmo accattivante della canzone (lo «yeaaaaaah» infinito è rimasto nella storia) quanto alle perfette coreografie e ambientazioni in stile “Thriller” del video. Allo stesso modo, il secondo brano trionfa grazie al pop sdolcinato: ancora una volta un concentrato di balletti e pseudo casting rivestono un ruolo importante nel risultato finale. Un ritornello diretto, semplice ed efficace, che va dritto al sodo: «I don’t care who you are / where you’re from / what you did / As long as you love me». “All I Have To Give” non cambia e conferma la stessa formula strappalacrime, esasperata in “10000 Promises” («Once we were lovers / just lovers we were»). Il resto dell’album fa da contorno, tra pop, rap e funk, davvero poca cosa in confronto ai primi tre singoli. Al massimo possiamo salvare “That’s The Way She Said” e “If I Don’t Have You”, ma facciamo fatica anche dopo venti anni perché sostanzialmente la musica rimane quella. «Love», «I miss you», «Please come back», e ancora «I love you», ammiccamenti vari e riproviamoci ti prego perché ho bisogno di te. Però con Backstreet’s Back i BSB si affermarono come i cinque re del pop mondiale, asfaltarono gli avversari senza pietà perché erano destinati ad avere successo, un prodotto perfetto pensato solo per quel fine.

A questo punto, i Backstreet Boys inizieranno un tour mondiale che li porterà a toccare praticamente tutti i punti del pianeta, incassando milioni di dollari e tutti i premi della critica. Un successo davvero inaspettato se pensiamo solo un attimo a come era iniziata, a come l’Europa si fosse accorta di loro prima degli Usa. Nemmeno due anni dopo uscirà Millenium, la consacrazione definitiva ma anche l’inizio della fine della boyband. “I Want It That Way”, “Larger Than Life” e “Show Me The Meaning Of Being Lonely”, non c’è davvero bisogno di aggiungere altro. Poco interessante invece Black & Blue del 2000, ad eccezione di “Shape Of My Heart”.

Al pari delle Spice Girls, i Backstreet Boys segnarono indubbiamente un’epoca. Non si può dire il contrario: 140 milioni di dischi venduti, dischi d’oro e di platino ovunque, concerti sold–out in poche ore. Un autentico delirio collettivo, frutto del successo dei primi due dischi e di un maniacale lavoro a livello di immagine. I produttori ci avevano visto lungo, anche se poco dopo le dipendenze di AJ, i problemi con i discografici e la volontà di intraprendere carriere da solisti rovineranno la band. Ufficialmente i BSB non si sono mai sciolti ed è della scorsa settimana la notizia che stanno nuovamente lavorando all’ennesimo album. A venti anni di distanza dal loro esordio, ci saranno ancora persone disposte ad aspettarli?

“Misteri”
di Knut Hamsun

«Cosa sa la gente? Niente! Ci si abitua soltanto a una cosa, la si accetta, la si riconosce perché i nostri maestri la riconobbero già prima; tutto non è che accettazione. Il mondo non sa nulla, accetta soltanto…»

Sulle coste di una piccola cittadina norvegese approda all’improvviso un eccentrico straniero in completo giallo venuto da chissà dove; il suo nome è Johan Nagel e porta con sé solo una custodia di violino e una boccetta di letale acido prussico accuratamente conservata nel panciotto.

Non ci è dato sapere molto sul suo conto, né sul suo passato meno ancora sulle sue intenzioni; sostiene di essere un agronomo ma è evidente che non lo sia, che non sia ricco di famiglia eppure è sempre pronto a elargire cospicue mance a chicchessia e a sperperare le sue corone in cianfrusaglie obsolete e regali non graditi.

Nagel è un personaggio fuori dal tempo, nevrastenico e caotico, un avventato ciarlatano, «la contraddizione fatta persona» come egli stesso si definisce, da subito destinato ad alterare il placido equilibrio routinario degli abitanti del luogo: dal dottor Stenersen di cui mal digerisce l’incrollabile raziocinio e la spiccata saccenza, a Martha Gude, un’indigente e compita vedova vittima fuggitiva delle sue eccedenze irragionevoli; non risparmia neanche lo scemo del villaggio Johannes Grøgaard, detto Minuto, un uomo di buon cuore per cui tutto sommato nutre dell’affetto ma che reputa anche un ipocrita, costringendolo e condannandolo allo stremo emotivo che lo porterà sul finale alla pazzia.

Ma la frammentaria e instabile personalità di Nagel rovinerà definitivamente con la comparsa di Dagny Kielland, la donna più ambita della città, promessa sposa a un ufficiale di marina. L’amore opprimente e sconclusionato per questa figura fortemente ancorata nell’ordine sociale e concreto del mondo, e il rifiuto di qualsiasi forma di totalità definita e programmata, di ogni nesso logico o compromesso, di ogni sistema, lo porteranno al fallimento verso se stesso, all’assenza di volontà, all’impotenza di fronte la falsità di quella stessa ideologia soffocante e dell’«infinita connessione delle cose» che ha invano cercato di respingere.

«Comunque era la fine. E perché no? Aveva fatto sogni così sciocchi e belli a proposito di una missione sulla terra, di qualcosa di strabiliante, di gesta da cui gli esseri carnivori potessero rimanere colpiti – e gli era andata male, non era all’altezza della situazione».

Nagel risulterà fino all’ultimo in tutto e per tutto un abulico che, come sostiene Claudio Magris nella postfazione al libro, «non è capace di inserirsi nel meccanismo produttivo della società, assumendovi un ruolo determinato e perciò unilaterale; egli vuole soltanto vivere, rifiutandosi di definire concretamente e cioè di limitare la palpitante e imprevedibile potenzialità della vita: aperto e disponibile al desiderio come alla rinuncia, rapace e fuggiasco, questo personaggio si sottrae ai legami, ai ruoli prestabiliti, a qualsiasi impegno morale o politico che voglia imprigionare il fluire dell’esistenza».

Scritto nel 1892  e ripubblicato nel 2015 da Iperborea, Misteri di  Knut Hamsun è considerato uno dei primi capolavori dell’autore norvegese, un romanzo che mette in luce tutte le contraddittorietà dell’esistenza, arrivando a scomporre in parti infinitesimali la struttura psicologica dell’io, riducendola a un ammasso di reazioni istintive euforiche e nervose al tempo stesso.

In Misteri, come nella maggior parte della produzione di Hamsun, ritroviamo e riconosciamo – attraverso l’indole di Nagel – l’alienazione del genere umano, la disarmonia degli eccessi, il disagio e la negazione della realtà comune e i valori a essa legati.

«Sì, offriteci una sola eccezione normale, se è possibile. Dateci, per esempio, un delitto perfetto, un peccato esemplare. Ma non il ridicolo e borghese errore elementare, non l’eccezionale e raccapricciante eccesso, non il modesto libertinaggio illuminato del crudo splendore dell’inferno. No, tutto questo è niente».

 

(Knut Hamsun, Misteri, trad. di Attilio Veraldi, Iperborea, 2015, pp. 408, euro 18)

 

il brevetto del geco intervista tiziano scarpa

L’abisso su cui poggia l’arte, la violenza dell’impossibile ricerca della fede

Un artista incompiuto che decide di tagliare i ponti con il mondo dell’arte e soprattutto con gli individui che vi orbitano attorno; una ragazza ordinaria, con un lavoro da impiegata nell’hinterland milanese e una vita monocorde, che abbraccia la fede cristiana: sono questi Federico Morpio e Adele Cassetti, protagonisti espliciti di Il brevetto del geco (Einaudi, 2016), ultimo libro di Tiziano Scarpa. L’autore ci accompagna attraverso la delicatissima fase di rinnovamento della vita dei due: entrambi proveranno a imboccare nuove strade, e troveranno il coraggio per farlo grazie all’aiuto del cestello di una lavatrice e delle zampette di un geco…

Ho incontrato Tiziano Scarpa in un caffè nei pressi di via dei Gracchi e, separati da un tavolino di legno, abbiamo chiacchierato per un’intensa ora.


Partiamo dai prossimi lettori, quelli che per il momento hanno solo sfogliato Il brevetto del geco o sono alle primissime battute, ma che si saranno certamente accorti del tuo utilizzo di segni grafici e glifi lungo buona parte del volume, perché li hai utilizzati?

L’uso di simboli grafici – che poi sono quella sezione che ormai fa parte dell’offerta di qualsiasi programma di scrittura – è interessante perché rappresenta una soglia della scrittura: indica un varco per saltare il fosso verso l’immagine. Se pensiamo all’arte, molto spesso le immagini mostrano il nascosto, l’enigmatico, ed è così anche nelle opere di Federico Morpio, dove i volti delle persone sono ingranditi fino al punto di arrivare a vedere gli acari che abitano nei pori. Ma persino personaggi non artisti, i Cristiani Sovversivi, cercano di rendere visibile l’invisibile, ossia la passione di Cristo e soprattutto il vertice dell’invisibilità: la risurrezione, vero e proprio punto cieco e massimo simbolo di fede, in quanto non è stata nemmeno narrata dai vangeli. Cristo, per così dire, risorge fra le righe, ed esiste solo la narrazione di due apostoli che arrivano di corsa in un sepolcro e lo trovano vuoto. In un certo senso, lavorando al libro ho trovato una fortissima parentela con tutta la raffigurazione del vuoto, del minimalismo archetipico di molta arte contemporanea, che si trova in Yves Klein, o in Malevič o Sol Lewitt. Tutto ciò mi sembra in grande consonanza sia con l’arte contemporanea sia con la fede, intesa come punto oscuro del visibile, come il non raffigurabile. E in tal senso, anche i simboli tipografici rappresentano quel momento in cui l’alfabeto sfonda per così dire sé stesso, passando da una funzione di tipo fonetico a una di tipo iconico. C’è una sorta di ambivalenza in questa soglia, e mi piaceva raffigurarla, inchiostrarla.


Uno dei personaggi chiave del libro, l’Interrotto, utilizza le parole per descrivere quel mondo che non ha potuto vedere. Attraverso di esse, questo protagonista di quinta prova a dare significato ad alcune sensazioni che se avesse avuto anche un solo scampolo di vita sarebbe stato magari in grado di provare. Ma l’Interrotto può solo immaginarsele, e verbalizzarle per renderle palpabili.

Si tratta di consegnare l’esperienza dell’esistenza a chi non è nato, e quindi di chiedere alle parole una prestazione al contempo sonora, uditiva ed evocativa. Ho tentato di dire che cosa significa essere al mondo a chi nel mondo non c’è, a chi non è nato. Ciò mi ha aiutato a vivere quell’impossibilità di esplicitare che cos’è il significato delle parole, tema su cui si sono rotti la testa tutti i filosofi del linguaggio. In un certo senso, il significato è qualcosa che vaga dentro le parole, è una sostanza volatile, mentale, ma è anche a volte un desiderio, un’aspettativa, perché spesso le parole ci fregano. Questo l’ho detto in maniera meno lambiccata in Stabat Mater: a un certo punto la protagonista, Cecilia, incontra delle parole, portate all’interno dell’orfanotrofio dalle ragazze aristocratiche che lo frequentano per studiare musica; parole come passione. Fino a quel momento, per Cecilia la passione era esclusivamente quella sacra, ma poi scopre che dentro quella parola c’è un altro significato, un non esperito, che perciò apre delle aspettative in lei. È un problema, perché la passione diventa qualcosa di intensissimo che però non è ancora vissuto. Le parole hanno nei loro significati, spesso, qualcosa di molto illusorio, perché ti fanno delle promesse; ti dicono che esistono cose che non hai ancora vissuto, ti dicono che non sei ancora nato a sufficienza.


Oltre alle parole, un altro elemento sembra una costante di Il brevetto del geco: la ricerca della corporeità. Su minima&moralia è apparsa una considerazione che evidenziava come tra le ossessioni di Scarpa ci siano corpo e parola. Certamente, fra i temi trattati nel libro, questi due elementi emergono con prestanza.

Devo dire la verità, non ho grande simpatia per la parola ossessione applicata alla letteratura o all’arte, perché forse la considero con un’accezione incombente, qualcosa che opprime. Insomma, quasi da patologia del pensiero. Corpo e parola possono essere temi ricorrenti della mia scrittura, sì. Intanto la questione del corpo mi sembra una condizione primaria di ciascuno di noi; inoltre, oggi il tema del vivente è molto politico, non solo perché – come ci hanno insegnato i grandi, da Foucault ad Agamben – la biopolitica è decisiva, ma perché il tema del principio e della fine della vita, quello del concepimento, della gestione della morte, dell’agonia, sono tutti condivisi nel dibattito pubblico. Quindi un po’ mi colpisce anche che si noti questa predilezione per il corpo, che mi sembra debba essere una cosa molto più praticata dagli scrittori e le scrittrici. Dico questo perché c’è una specie di superficialità anagrafica nel trattare i personaggi come puri portatori di identità; ecco, mi sembra che sia troppo poco, come se i personaggi fossero dei nomiferi. Ma i personaggi non sono nomiferi, dei portatori di fatti o storia; i personaggi sono corpi, sgraziati, belli, brutti, decrepiti, prestanti, che hanno una propria consapevolezza anche fisica.


Lo svolgersi della storia corre lungo due binari paralleli, a capitoli alterni. Da una parte Adele, che in un passo molto delicato indichi come una «persona di segno meno» perché tutto quello che le accade è in tono minore, fosse anche un fatto negativo. Morpio, invece, viene dall’ambiente dell’arte. Sembra che la parabola di questo personaggio non si compia, mentre quella di Adele sì, pur approdando dove non avrebbe desiderato, cioè all’organizzazione terroristica dei Cristiani Sovversivi. È su questi ultimi il cuore della mia domanda: i Cristiani Sovversivi compiono atti terroristici perché sentono di aver trovato la vera fede e vogliono costringere la società ad adeguarsi, oppure sono spinti da una necessità di ricerca della fede, che non è ancora conclusa, e che avvertono di dover manifestare in maniera violenta? Perché in realtà la fede che tu narri in Adele è quella di una continua, estenuante e delusa ricerca. Inoltre, a margine, va detto che i Cristiani Sovversivi vengono nominati nella quarta di copertina di Il brevetto del geco, ma poi nel libro occorre attendere a lungo prima di incontrarli.

È vero, quella dei Cristiani Sovversivi è una promessa depistante del risvolto di copertina. È anche vero che essi sono quasi un enzima provocatorio nel senso nobile del termine; la loro attitudine è quella di rendere esplicite certe incoerenze, certe impasse, certe mancanze di attuazione di chi la fede ce l’ha. Distinguerei tra fede e religione. La religione è un vincolo con una dottrina e una trascendenza mistica, che si raggiunge attraverso una liturgia, ossia una procedura rituale che garantisce una comunicazione, una comunione con un’entità sovraindividuale, per chi crede. Questo è tutt’altro dalla fede. Io non volevo, anche per rispetto dei cattolici che credono e vivono la liturgia come canale di comunicazione con il corpo mistico, mescolare le due cose. Per questo anche ho lasciato i Cristiani Sovversivi su una soglia ambivalente, che non fa parte della liturgia; li ho lasciati fuori dalla Chiesa intesa come pratica liturgica dei fedeli. I Cristiani Sovversivi di Il brevetto del geco, hai detto benissimo, sono in un certo senso alla ricerca della loro stessa fede e proprio perché la ricercano la mettono in atto. Esigono coerenza tra ciò che loro credono e ciò che loro vivono. Forse proprio perché non hanno una liturgia che li pacifica. Sai, se credi nel fatto che mangiando una particella di materia sei in comunione con un’entità sovrannaturale… Questo, se non ti pacifica, quantomeno ti allarga degli orizzonti. Quando tu non hai trovato una simile via di ingresso puoi dire: esiste Dio, esiste qualcosa che è più grande di me e questa entità mi dice di essere buono in un certo modo, di difendere la vita in un altro modo, allora metto in atto tutto direttamente. Per i Cristiani Sovversivi è come se l’ultima cena non fosse sufficiente e seguissero una seconda via, cioè incontrarsi nel nome di Cristo e fare delle buone azioni, che però nel loro caso sono spesso prevaricanti e violente.


Tutti i capitoli dedicati a Morpio contengono una critica allo star system dell’arte, ai meccanismi dello scouting, del riconoscimento dei talenti, all’accreditamento di un percorso di artista. Morpio non può essere niente in mezzo, ma può essere due poli: un fallito – uno che non essendo arrivato trova sempre l’occasione buona per dire di aver già visto opere o performance simili a quelle che incontra – oppure uno che, consapevole dell’impossibilità di modificare questo sistema, lo delegittima e se ne va. La sua rappresentazione dell’arte è quella di un mondo senza speranze.

È vero. Io che amo tantissimo, svisceratamente l’arte contemporanea, posso confrontare quel mondo con il mio, che è quello dell’editoria. E, vedi, l’editoria, bene o male, ha un pubblico che – bene o male – ha voce in capitolo, mentre nell’arte contemporanea la voce del pubblico non c’è. Ci sono solo i mediatori. Ed è veramente paradossale che questo accada oggi quando contano i like, i click, l’audience, le copie vendute, gli spettatori. L’arte non ha mai avuto una legittimazione plebiscitaria, chiamiamola così. Mentre, a un certo punto la letteratura sì. Da Dickens in poi, da Balzac in poi, basta leggere Illusioni perdute; nelle pagine che parlano del mercato librario, Balzac mette i brividi. È vero però che alcuni artisti hanno saltato il fosso, nel Novecento. Penso per esempio a Toulouse Lautrec, che realizzava affiche, ma si può pensare a Enzo Mari, che a un certo punto si è chiesto perché dovesse realizzare poche cose per gente ricca, ed è diventato designer, consentendo all’oggetto artistico di venire riprodotto in maniera gutenberghiana.


Tiriamo le somme, in che rapporti sei con Adele e Morpio?

Adele è un po’ un’aliena, che ho cercato di capire più che potessi. Con lei condivido un passato di ricerca della fede, che è più vicina alla mia adolescenza. Ho visto di più e ho vissuto di più Morpio, anche perché io ho le stesse sue insicurezze, invidie, passioni tristissime. E anche condivido di Morpio la medesima incertezza sul valore di ciò che fa, poiché nessuno può garantire che l’attività artistica – nel mio caso di scrittore – abbia una sua validità. E questa incertezza cardinale è secondo me fondante, nel suo essere abissale, perché attraverso di lei sai che non poggi in realtà i piedi da nessuna parte.

 

Dico a Tiziano Scarpa che su queste parole ho pensato a Venezia. Sorride.

 

(Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco, Einaudi, 2016, pp. 336, euro 20)