Veloce come il vento poster Flanerí

“Veloce come il vento”
di Matteo Rovere

Adesso si può dire. Se tre indizi fanno una prova, adesso ci siamo: il cinema italiano si sta evolvendo, sta succedendo qualcosa di nuovo. In questo avvio di 2016 Perfetti sconosciuti Lo chiamavano Jeeg Robot hanno attirato l’attenzione del pubblico (più il primo) e della critica (più il secondo), dimostrando una nuova voglia di fare qualcosa di diverso nel cinema italiano. Adesso, Matteo Rovere con Veloce come il vento conferma che siamo arrivati in una fase nuova del cinema nazionale, capace di guardare dall’altra parte dell’Oceano per prendere quello che serve a fare qualcosa di diverso, di innovativo, di interessante.

Siamo in Emilia Romagna, nel mondo dell’automobilismo. Giulia De Martino è una giovane promessa neanche maggiorenne su cui il padre ha puntato tutto, nel senso letterale del termine: per iscrivere la figlia al campionato Gran Turismo si è impegnato la casa e le macchine. Se Giulia non vince perdono tutto. Solo che il padre muore di infarto dopo la prima gara, e Giulia, già abbandonata da una madre intermittente, si ritrova da sola a dover combattere nel campionato per non finire in strada con il fratellino Nico. L’aiuto arriva inaspettato dal passato, nella forma ciancicata e macilenta del fratello maggiore Loris, tossicodipendente con una storia alle spalle da campione del volante.

Sono tanti i meriti di Veloce come il vento, il terzo film di Matteo Rovere che, dopo due interni romani borghesi (Un gioco da ragazze Gli sfiorati), si sposta nella provincia meccanica per il suo lavoro migliore, fino a questo punto. Guardando al cinema statunitense soprattutto, come già aveva fatto Daniele Vicari con Velocità massima nel 2000, Rovere si infila con sicurezza all’interno del filone del cinema di genere sportivo, non solo automobilistico. È chiaro che per ambiente e temi vengono subito in mente film come Giorni di tuono di Tony Scott, o Rush, per dire un titolo più recente, ma basta fermarsi un attimo per vedere tutta la mitologia sportiva così come l’ha raccontata Hollywood più volte, quella del perdente che trova il riscatto nella fatica dello sport, quella della retorica (positiva) della seconda possibilità, che mette insieme il Wrestler di Aronofsky e, soprattutto, The Fighter di David O. Russell.

Rovere ha il merito, condiviso con i momenti migliori del nuovo cinema italiano, di essere consapevole dei propri limiti. Guarda al cinema statunitense, e va bene, ma non prova a fare Fast and Furious, così come Mainetti non ha provato a fare Batman con Jeeg Robot. L’ispirazione americana serve solo come punto di partenza, come mondo di riferimento a cui guardare per prender un modello e adattarlo alla identità culturale italiana. È un’operazione che sembra semplice solo a dirsi.

Un film come Veloce come il vento, proprio per questa capacità di localizzare un modello straniero, di ridurre il modello blockbuster a piccolo cinema d’idee più che di effetti, non può che sembrare pronto per essere venduto fuori dall’Italia. Come abbiamo detto in apertura, conferma il buon momento del cinema italiano, dopo Non essere cattivoPerfetti sconosciuti Lo chiamavano Jeeg Robot. In generale, mettendoci dentro anche un film meno riuscito come La felicità è un sistema complesso, è evidente che ci sia la voglia, da parte di una serie di registi, di dimostrare che in Italia si può ancora fare un cinema interessante e capace di andare al di là dei confini ristretti della commedia (o del dramma d’autore) e del territorio nazionale. Sono tutti film che possono giustamente ambire a una distribuzione internazionale, a essere visti e apprezzati anche all’estero.

La forza inattesa di Veloce come il vento arriva da Stefano Accorsi, senza dubbio arrivato con Loris alla migliore interpretazione della sua carriera, senza dubbio tornato a quei livelli d’attore che ne avevano fatto il punto di riferimento del cinema italiano tra la fine degli anni Novanta e i Duemila, quando tutto quello di meritevole che veniva realizzato qui in Italia aveva Accorsi tra i protagonisti. Si era un po’ perso, Stefano, e il flop della serie tv 1992 dello scorso anno, prodotta partendo da una sua idea, non lo aveva certo aiutato. Con Rovere ha avuto il coraggio di indossare i panni di un tossico insopportabile, debole e disgustoso, che forse non aspetta nient’altro che un’occasione di riscatto. Insieme a lui, l’esordiente Matilda De Angelis fa capire che ci sarà tempo e modo per parlare ancora di lei nei prossimi anni.

Ovvio, comunque, che non siamo di fronte a un film perfetto. Ci sono dei difetti, nella gestione del contesto e della protagonista Giulia, che finisce per essere schiacciata dal fratello Accorsi troppo ingombrante. C’è un tentativo solo in parte riuscito di smarcarsi dalla retorica (questa volta quella negativa) hollywoodiana che finisce per portare ad altra retorica. Quello che conta, però, è come sempre la somma delle parti. E Veloce come il vento è una bella somma.

 

(Veloce come il vento, di Matteo Rovere, 2016, drammatico, 119’)

 

Interviste con il morto

“Interviste con il morto”
di Dan Crowe

«Tutti parliamo con i morti, quando sogniamo a occhi aperti conversazioni impossibili o quando ci rivolgiamo ai nostri cari defunti per chiedere conforto o consigli […] Cosi all’improvviso é arrivata come un dono, la mia idea bomba: chiedere ad autori viventi di intervistare i loro eroi letterari morti…»

Per la verità, un’idea non così originale questa avuta da Dan Crowe, già fondatore del trimestrale Zembla e del magazine Port, come del resto egli stesso ammette onestamente nell’introduzione di Interviste con il morto (66thand2nd, 2015)  piacevole e divertente antologia di short stories da lui curata. Lo scrittore ricorda, infatti, che già nel I secolo d.C., Luciano di Samosata concepì i Dialoghi dei morti e che poi, a partire dal XVII, il genere fu largamente usato per scopi politici soprattutto in Francia mentre, circa un secolo dopo, in Inghilterra, Sir George Lyttelton immaginò l’intervista postuma a pensatori del calibro di Platone e Machiavelli.

E però, ciò detto, egli stesso riconosce che seppur non del tutto originale l’intuizione di Interviste con il morto si presentava sin da subito perlomeno buona e, indubbiamente, bisogna aggiungere, anche non priva di un certo fascino; soprattutto perchė, per usare le parole dello scrittore, ci consente di rispondere a domande importanti: cosa significa intervistare qualcuno che è morto? Vogliamo che i defunti ci diano informazioni? Che possano aiutarci e consigliarci? Dove sono? C’è un Dio? Auspichiamo che chiedano scusa? Vogliamo essere noi, piuttosto, a chieder loro scusa? In particolare, più di tutto, riconosce Crowe, intendiamo credere che dopo la morte sia ancora possibile parlare. Insomma, abbiamo bisogno di credere che ci sia vita dopo la morte.

Abbandonata ben presto la condizione per cui gli intervistati dovessero essere unicamente esponenti della letteratura, Crowe ha dunque suggerito a tredici scrittori famosi di immaginare di incontrare ciascuno una grande icona del passato.

Interviste con il morto si apre con Jimi Hendrix, il quale, interpellato da un curioso Rick Moody desideroso di sapere se i morti abbiano memoria e se si ricordino dei vivi, replica che lassù le persone non sono soggette a vincoli temporali ma che possono vedere vecchi amici e ricordare il passato; inoltre, in risposta a una domanda sulla sua condizione di musicista afroamericano in un contesto perlopiù di bianchi dichiara che la sua musica era espressione di tutti i colori possibili, non di uno solo, aggiungendo infine  che anche il ronzio di un insetto così come il rumore dei camion in autostrada o quello dei cavi di un ascensore, a suo giudizio, sono musica. Ma, ci tiene a precisare, non lo sono quelle merde di cose che fa Britney Spears (e verrebbe da aggiungere, con lei molti altri contemporanei).

Andy Warhol, invece, si lamenta con Douglas Coupland (autore del romanzo cult anni ’90 Generazione X) poiché il luogo dove si trova adesso (non sappiamo se si tratti di Inferno, Paradiso o Purgatorio) non è molto esclusivo e la conversazione giungerà ben presto a vertere inesorabilmente su YouTube (un posto dove tutti adesso possono avere i loro 15 minuti di notorietà)… Purtroppo.

L’ex presidente americano Nixon, dimessosi per il famoso scandalo Watergate, intervistato da un suo vicino di casa di nome Tom (personaggio fittizio creato dalla penna della scrittrice A.M. Homes) cercherà in ogni modo di descriversi come una brava persona e di ribadire come tutto quello che ha fatto durante il suo mandato fosse per il bene del Paese e che in fondo, con tutto quello che è venuto dopo (e forse dobbiamo ammettere anche prima, visti gli scandali dei Kennedy) la sua presidenza non sia stata poi cosi male, a partire dal disgelo con la Cina.

Marcel Duchamp risponde quasi stizzito a Michel Faber – che lo descrive come il padre del Dada, il nonno della Pop art e il creatore dell’arte concettuale – poiché lui non vuole essere considerato così, dato che per quanto lo riguarda l’arte non è questione di eredità ma esclusivamente di intuizioni improvvise.

Il marchese de Sade replica invece a una incalzante Rebecca Miller, che continua a sottolineargli come nel posto da cui lei proviene egli sia stato assurto a simbolo di libertinismo ma anche di mostruosi eccessi – tanto che i crimini del suo corpo gli sono valsi un sostantivo (sadismo) e un aggettivo (sadico) –, che in fondo lui è solo un teatrante e si rammarica quando dalla Miller stessa viene a sapere che la sua opera teatrale è stata dimenticata.

Varrebbe la pena, dunque, poter parlare con i morti e forse non tanto per riempire un grande vuoto o per soddisfare curiosità più o meno esistenziali, o almeno non solo per questo, ma piuttosto per render loro giustizia colmando quella grande differenza che spesso esiste fra il modo in cui i defunti sono visti e giudicati da noi vivi e il modo in cui loro parlerebbero di se stessi se potessero ancora farlo.

 

(Dan Crowe, Interviste con il morto, trad. di Stella Sacchini, 66thand2nd, 2015, pp. 208, euro 18)

 

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Dino Campana

“Al diavolo con le mie gambe”: Dino Campana e la società letteraria dei suoi tempi

L’esperienza del poeta Campana, più che la leggenda dell’artista genio e follia, pone un problema intimamente intrinseco a tutta la lirica moderna, quello cioè del libro di poesia. Dino Campana è autore di un unico libro, al quale lavorò contro l’accanimento, l’indifferenza e la svagataggine dei suoi contemporanei finché durò in lui il desiderio e il patimento dell’arte: un solo libro lungo come tutta la vita, corredato semmai da poesie pubblicate sparse e dai molti inediti ritrovati solo più tardi.

Volendo parlare di Dino Campana oggi, dalla nostra visuale post(uma)-moderna, si è indotti seriamente a chiedersi cosa significa per un poeta il suo lavoro. Ha esso nella sua scaturigine la forma del libro o è piuttosto l’ineguale corso di un fiume sotterraneo che tutt’al più può essere organizzato in periodi d’esistenza, applicando con molta forza e stridore di carta la vita alla forma (capitoli, paragrafi) che il racconto lungo nell’Otto/Novecento ha imposto implicitamente all’idea stessa di letteratura? In effetti l’idea del “libro unico” fu cullata nel corso del secolo XX da alcuni poeti, come ad esempio Vittorio Sereni, che avevano ben presente la difficoltà di dare una forma editoriale coesa ad una storia di appunti, frammenti, serie, variazioni.

Dino Campana è in una maniera che rasenta significativamente l’assoluto il suo libro, il suo unico libro, scritto, perduto e riscritto, stampato e “distribuito” a proprie spese prima che un editore vero (Vallecchi) lo ripubblicasse con gravi errori e omissioni mentre l’autore, definitivamente divorziato dall’idea di sé come artista, lo accoglieva freddamente nel manicomio in cui viveva ormai da dieci anni, tre prima della morte. Come noto questo libro si intitola Canti orfici, e rappresenta, per tanti, tantissimi aspetti, il libro zero della modernità poetica italiana.

Ma c’è un altro aspetto su cui, nel recupero complessivo della figura e dell’opera, si è cominciato a porre l’accento con le riprese di Sebastiano Vassalli e altri studiosi, ovvero i rapporti di Campana con gli scrittori suoi coetanei. Già, perché un libro, ci insegna la più elementare pratica pubblicistico-editoriale, non va solo scritto, ma va anche pubblicato e “promosso”, e dunque, prima ancora, va fatto leggere a chi verosimilmente si interessi di quanto una ricerca sincera si disponga a fare, magari nell’ingenuo e determinato desiderio di dare all’arte una vita nuova.

Per avere un ritratto compiuto di quale fosse la regressione dei rapporti di Campana con i suoi contemporanei letterati si può fare riferimento all’epistolario, di cui un libro uscito da alcuni mesi per l’editore romano L’Orma offre una breve scelta introdotta e inframezzata dalla curatrice Chiara Di Domenico: Al diavolo con le mie gambe (L’Orma editore, 2015, pp. 64, euro 5). In esso si raccolgono lettere a personaggi come Papini, Soffici, Cecchi, Aleramo, Prezzolini lungo un arco temporale che va dal 1914 al 1918. Chiudono il volume due testimonianze del 1927 con cui il poeta si rivolge a Carlo Pariani, suo futuro biografo: lo stile lucido e fantasmatico con cui sono vergate ricorda in maniera davvero impressionante i deliri estremi di un’altra lucidissima e insuperabile folle delle nostre lettere, Amelia Rosselli. Quello che sentiamo è un Campana ormai prostrato e confuso dal lungo internamento:

«Non ho affari né attrazioni in Italia. Suppongo che il governo mi invierà in Germania più tardi per completarvi alcuni rapporti radiotelepatici de la suggestione radiofonica diretta, che sto esperimentando da anni sul luogo stesso. Non saprei cosa dirle sulla mia passata attività letteraria che fu esigua e frammentaria. Il rapporto utile è la sopravvivenza medianica de le idee direttive principali che servono a guidare i fatti. Non so spiegarmi meglio. Non importa si disturbi a venirmi a trovare. Io vivo tranquillo seguendo vagamente gli avvenimenti giornalieri e la farragine variopinta de la stampa». (p. 61)

Dino Campana tenta, con tutta la forza di cui dispone un esordiente che esprima il suo desiderio di accettazione, senza tuttavia mettere in conto patti di nessun genere, tenta di avvicinare l’intellighenzia fiorentina distribuita ai primi del Novecento fra La Voce e Lacerba. L’atteggiamento nell’accostarsi al più sofisticato ambiente cittadino allora in Italia è quello di un animo diviso fra il disprezzo che naturalmente si contrae nell’assistere allo spettacolo degli scrittori di moda che formano una società ignara e collusa («Caro Papini, leggendo il vostro Lacerba mi sentivo invaso da un senso di rispetto verso l’immortale pedanteria italiana», p. 16), e l’accento un poco questuante di chi vuole vedersi stampato per avere un segno della propria esistenza:

«Egregio Signor Prezzolini,
[…] Io sono quel tipo che le fu presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi». (p. 19)

Il poeta «un poco spostato che a tratti scrive cose buone» non sarà stampato, nonostante una certa curiosità che il suo animo burbero susciterà in ascoltatori comunque distratti e a perdere, e nonostante certe promesse puntualmente disattese. A parte lo snobismo in sé di chi avrebbe fatto meglio a prestare più attenzione ai testi e solo ai testi di quel personaggio, si possono individuare alcuni buoni motivi per cui l’opera di Campana veniva sostanzialmente rigettata dalla cultura italiana coeva, e sono motivi che ci parlano di una media borghese cui anche le più radicali decantate rivoluzioni di sostanza o di forma non riuscivano a sottrarsi. Semplicemente, Campana appare un corpo estraneo nel complesso della dialettica fra avanguardia e tradizione primonovecentesca, e come tale viene rigettato, e verrà rigettato per molti anni a venire, almeno fino ai primi parziali recuperi degli anni trenta, quando la generazione dei cosiddetti ermetici metterà il poeta di Marradi a capo di un ipotetico albero genealogico. Citiamo ancora da un brano di Sereni significativamente intitolato Come leggemmo Dino Campana:

«Ma oso affermare che con in mano quell’edizione […] venivamo a trovarci nella condizione giusta per affrontare quella lettura e investircene. Vale a dire che per forza propria […] la poesia di Campana ci immetteva in un ritmo e in un paesaggio sin lì sconosciuti; e caso mai il fascino che ne derivava, immune contro ogni apparenza da idee di maledettismo e simili, fondamentalmente salutare, ci spingeva a voler sapere di più, in un secondo tempo, sull’uomo e sulla sua sorte…»

Molto presto la delusione del poeta respinto e ignorato si farà rabbia e poi mania di persecuzione. Per testimoniare questo basta citare poche righe vergate a Marradi il 23 gennaio 1916 e indirizzate a Giovanni Papini, cui, tempo prima, si era affidata l’unica copia de Il più lungo giorno, il prototipo dei Canti Orfici che il poeta fu costretto a riscrivere a mente: «Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò».

Campana si sentiva perseguitato dalla stessa indifferenza e dallo stesso accanimento che molti altri grandi artisti hanno patito in vita, fino a farne derivare la dissipazione di ogni energia e volontà, valga l’archetipo universale di Vincent Van Gogh. Quello che resta da fare alle nuove generazioni è lo stesso che fece la curiosità di Sereni e dei suoi coetanei: giudicare solo dall’opera. Già prima della sua morte, Campana diventerà una figura ideale e fantasmatica, paradossalmente circondata da quell’aura sacra che in vita aveva provato a imporre e sempre più tristemente a esigere dai suoi contemporanei. La sua figura continuerà a comparire sibillina e sardonica nella fantasia di chiunque si sia formato sul suo libro-vita:

[…]
– Niente pace senza guerra – si sporge
uno tra le file degli andanti e venienti.
Rieccolo l’addetto al fuoco dei mortai
il più gradasso di tutti di tutti il più fanfara
nemmeno fosse il capo
delle artiglierie di tutte le Russie:
certo Campana da Marradi,
esperto in cariche aggiuntive
poeta a tempo perso. […]

Vittorio Sereni, da Esterno rivisto in sogno, in Stella variabile

 

Chaosmosis

“Chaosmosis” dei Primal Scream

Riuscite a essere spensierati? Distesi, lieti e magari anche un po’ frivoli nel lasciarvi trasportare da un battito e un suono alquanto pop? Bene: allora Chaosmosis dei Primal Scream è il disco che fa per voi. Un gradevole sottofondo e una soddisfacente compagnia. È tutto molto semplice: l’ultimo lavoro di Gillespie & Company è il loro disco più pop\elettronico mai prodotto. Chaosmosis è gradevole, ballabile e in alcuni momenti molto coinvolgente. Ma proprio qui si scatena il dibattito: «Ma da loro ci sia aspettava di più! Si sono svenduti alla moda delle classifiche! È solo un disco synth pop senza anima».

Affermazioni legittime: cerchiamo quindi di analizzarle. Partiamo dal concetto principale, chiaro e limpido: Chaosmosis è un disco sorvolabile, non necessario. Come dicevo all’inizio è una caramellina ben confezionata e impeccabilmente prodotta, ma se avete i Primal Scream tra le vostre band del cuore (come me) e cercate i capisaldi della loro discografia, allora potete tranquillamente sorvolare sulla recente fatica discografica. Se cercate di ascoltare il meglio della musica che c’è in giro attualmente (come me) potete tranquillamente skippare (come si dice adesso in gergo, usando un termine che esprime benissimo l’uso veloce ed istintivo e spesso superficiale che si fa del mezzo sonoro tramite Spotify, YouTube e allegra combriccola).

Magari Gillespie, dopo due dischi molto belli (Beautiful Future e More Light) in cui la formula vincente veniva applicata alla perfezione (psych-alt rock graffiante e avvolgente) e per qualcuno addirittura in maniera troppo programmata, ha sentito il bisogno di virare (il perché ce lo dirà lui magari) verso un atmosfera palesata senza troppi fronzoli nel video del singolo apripista in duetto con la meravigliosa Sky Ferreira: “Where The Light Gets In”. Sì, niente di trascendentale ma non possiamo soprassedere sull’impatto estremamente gradevole del sopracitato singolo e su altri momenti di Chaosmosis. L’iniziale “Trippin On Your Love” è un corale e trascinante inizio, l’unico momento acustico “Private Wars” non è male e “Golden Rope”è una cavalcata non indifferente. Il resto scivola sulle tastiere in maniera innocua: ovviamente, non abbastanza per essere un disco dei Primal Scream.

In conclusione, se siete alla ricerca di un prodotto granitico e pieno di spessore, intensità e riflessioni siete sulla strada sbagliata; se invece volete iniziare a scaldarvi per il live di quest’estate a Roma, fate pure: avete qualche pezzo buono su cui muovervi. Nulla più.

 

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“Il cacciatore e la regina di ghiaccio”
di Cedric Nicolas Troyan

Diciamoci la verità: questa storia dei prequel, sequel, spin-off, rivisitazioni, rifacimenti, reboot e via di seguito è decisamente sfuggita di mano a Hollywood. Il tentativo di cavalcare effetti nostalgia più o meno potenti per trascinare al cinema spettatori riproponendo vecchie saghe ha portato negli ultimi anni a una vera invasione di titoli e film già visti. A rendere ancora più assurda la situazione, il successo di un film non è ritenuto più un fattore determinante per la longevità del franchise, come si dice adesso, anzi, sembra essere quasi secondario. È il caso recente di Il cacciatore e la regina di ghiaccio, prequel/sequel/spin-off/side-film tutto insieme di Biancaneve e il cacciatore del 2012.

Quell’anno arrivarono in sala due film ispirati alla favola di Biancaneve. Da un lato c’era l’impostazione classica di Tarsem Singh che ha ripreso molti elementi del modello dei fratelli Grimm e di fatto ha anticipato di un paio d’anni la tendenza Disney a rifare in live action i suoi film e i relativi universi (c’era già stato Alice in Wonderland, sarebbe arrivato due anni dopo Maleficent e poi Cenerentola, il prossimo Il libro della giunglaLa bella e la bestia e infiniti altri), dall’altro il tentativo di Rupert Sanders di costruire un mondo tutto nuovo intorno alla favola con Biancaneve e il cacciatore, spostando tutta la storia in un mondo fantasy più adulto e spaventoso trasformando Biancaneve in una guerriera stile Giovanna d’Arco in lotta contro la regina Ravenna e mettendola al centro di un triangolo con il principe azzurro e il cacciatore.

Il film di Sanders non venne accolto benissimo al suo arrivo nelle sale. In termini di incassi fu un relativo insuccesso, la critica trovò vari difetti e molti motivi per stroncarlo. Eppure, a quattro anni di distanza, qualcuno deve aver pensato che valesse la pena insistere sul modello fantasy per Biancaneve. Persa Kirsten Stewart che si è rifiutata di tornare a far parte del progetto dopo lo scandalo che l’aveva coinvolta fuori dal set con il regista Rupert Sanders, perso per lo stesso motivo il regista, il personaggio centrale è diventato il cacciatore Eric interpretato da Chris Hemsworth.

Il film parte da prima dei fatti di Biancaneve e il cacciatore. La regina cattiva Ravenna ha una sorella, Freya, che dopo una terribile delusione d’amore diventa una spietata strega capace di controllare il ghiaccio. Ravenna le affida il regno del nord e lì Freya cresce il suo regno e il suo dolore allevando schiere di cacciatori guerrieri senza nessun legame affettivo. Tra questi ci sono Eric e quella che poi diventerà sua moglie, Sara. Quando i due progettano di fuggire insieme, Freya li sorprende e fa credere a Eric che la moglie sia morta. Molti anni dopo, quando Biancaneve è ormai regina, il cacciatore riceve l’incarico di recuperare lo specchio magico, andato perduto mentre veniva nascosto in un luogo sicuro. E succederanno tante cose.

Le premesse per questo Il cacciatore e la regina di ghiaccio non erano buone. Se Biancaneve e il cacciatore, tanto tanto, poteva avere un elemento di interesse nel ribaltamento dell’impostazione classica della favola, che vuole la bella salvata dall’eroe, con Biancaneve che prendeva in mano la spada e il suo destino e si dava da fare per sbarazzarsi della matrigna cattiva, la perdita di Kristen Stewart ha obbligato il regista Cedric Nicolas Troyan (aveva fatto gli effetti speciali del film del 2012, e pare che si occuperà del reboot di Highlander, e già c’è da tremare) a eliminare l’unico spunto interessante del progetto rimettendo al centro Chris Hemsworth e ripartendo da lui.

Nonostante un gran cast femminile, che schiera insieme a Charlize Theron le brave Emily Blunt e Jessica Chastain, Il cacciatore e la regina di ghiaccio non è in grado di offrire nulla di nuovo, limitandosi a mettere insieme suggestioni da Frozen e da ogni altro film fantasy usciti negli ultimi anni. A rendere tutto un po’ più tollerabile ci pensano i nani – è pur sempre Biancaneve – interpretati da Nick Frost, Robert Brydon, Sheridan Smith e Alexandra Roach, che dovrebbero fare da spalla comica e invece meriterebbero di essere protagonisti.

Per il resto, l’interrogativo che rimane è se avesse senso portare avanti un franchise basato su Biancaneve senza Biancaneve. C’è pure l’espediente ridicolo di mostrarla di spalle in una scena, senza farla comparire. A questo punto è lecito domandarsi se non avrebbe avuto più senso lasciar perdere la «A Snow White’s Tale» per provare a fare qualcosa di originale, di nuovo. Tra l’altro, è di pochi giorni fa la notizia che la Disney sta lavorando a un altro film parallelo alla storia di Biancaneve, con protagonista la sorella perduta Rosa Rossa.

La necessità continua di produrre universi cinematografici per inseguire il modello Marvel a tutti i costi finisce per paralizzare ogni possibile novità preferendo il rifugio di un marchio già conosciuto. Non è incapacità di avere nuove idee: è paura. I fallimenti recenti di progetti originali come Lone Ranger John Carter, costati centinaia di milioni di dollari e incapaci di generare guadagni, hanno paralizzato gli studios nella logica del rifacimento e del franchise. Eppure, il buon successo di The Hunger Games o della saga Divergent lasciano intendere che il pubblico non si oppone alla novità a priori.

L’illusione – o la convinzione, chiamatela come volete – di Hollywood è che gli spettatori abbiano bisogno di identificarsi con qualcosa che già conoscono o su cui si sia già creato un immaginario condiviso. La qualità, nel giudizio generale, è un fattore secondario. È una conseguenza del dilagare delle serie tv, capaci di creare un legame duraturo con il pubblico stagione dopo stagione. I colossali successi dello scorso anno di Jurassic World, del secondo film degli Avengers, del settimo di Fast & Furious, fino ad arrivare al rilancio finale di Star Wars, hanno confermato la tendenza, ma hanno ribadito ancora una volta che non sono modelli replicabili in assoluto. Ci sono stati i fallimenti di Terminator Genisys e di Point Break, per dirne due, che dimostrano come senza un’idea solida dietro non si va da nessuna parte.

Il cacciatore e la regina di ghiaccio, per tornare al nostro film, trova forse la sua debolezza maggiore nello sforzo di mantenersi all’interno del mondo cinematografico di Biancaneve. Forse come film autonomo avrebbe funzionato meglio, avrebbe capito prima che direzione prendere, tra avventura, commedia e romanticismo. Sicuramente, ci saremmo risparmiati Biancaneve di spalle.

(Il cacciatore e la regina di ghiaccio, di Cedric Nicolas Troyan, 2016, fantasy, 120’)

 

Gli ultimi libertini

“Gli ultimi libertini”
di Benedetta Craveri

Fra antichi privilegi di casta e le tentazioni dell’imminente rivoluzione si muovono sette personaggi, sette uomini vissuti negli anni di uno snodo fondamentale della nostra storia, quel ’700 francese che l’autrice di Gli ultimi libertini (Adelphi, 2016), Benedetta Craveri, ci aveva già splendidamente raccontato in altri libri adelphiani.

Tentazioni, si diceva. Non sarebbero stati libertini altrimenti, anche se l’autrice ci tiene a marcare una netta differenza con la versione (tutt’altro che pacifica in effetti) del libertino come grossolano edonista senza scrupoli e senza altri obiettivi che il piacere solo e comunque. Il duca di Lauzun, il visconte Joseph-Alexandre de Ségur, il duca di Brissac, il conte di Narbonne, il cavaliere di Boufflers, il conte Louis-Philippe de Ségur e il conte di Vaudreuil attraversano l’Illuminismo con piena consapevolezza della sua decisività storica (l’ultimo è il solo a non essere liberale); ne traggono il meglio compatibilmente con le loro origini, si muovono e agiscono in un teatro esistenziale molto aperto: al piacere, all’arte del sedurre coniugano ambizione individuale e sensibilità per i nuovi paradigmi all’origine delle successive rivoluzioni “progressiste”.

Così, la crisi dell’Antico Regime appare in una luce meno cupa di quanto non voglia la vulgata scolastica: questa aristocrazia intellettuale più che implodere e collassare per lasciare spazio al nuovo, sembra avvicinarlo, promuoverlo, sobillarlo. A partire dal primo dei sette, il duca di Lauzun che – incredibile no? – si lamenta della mancanza di merito nel decidere onori e glorie di una carriera! Come gli altri, vuole guadagnare prestigio non grazie al nome che porta ma attraverso l’opera. E invece deve fare i conti con una corte di protetti spesso inetti, maldestri. Fra una donna e l’altra, fra un piacere e una passione (compresa quella per l’elusiva Maria Antonietta) studia economia, si affilia alla massoneria, si pone al comando delle truppe francesi in America, ben consapevole di quanto ciò potesse servire la causa dei nuovi ideali in corso e insieme della lotta al predominio inglese. Il filantropo duca di Brissac, anch’egli massone, acuto collezionista d’arte, amò fra le altre l’assai vilipesa Madame du Barry e le consentì di «acquisire consapevolezza della parte migliore di sé». La seduzione è un’arte non opzionale per un libertino; merita di essere coltivata con pazienza e metodo: laddove la resistenza è tenace, «bisognava insinuarsi in una vita senza allarmarla» – lo sapeva benissimo il cavaliere di Boufflers.

Le capacità seduttive non restano confinate nella collezione di amori – peraltro, fra di loro sembra predominare il tipo Casanova e non quello, dissimile, del Don Giovanni: qua ci si innamora, anche. Amano la conquista – non solo di donne –, i disegni per ottenere incarichi e ruoli che nella storia del tempo possono essere decisivi. Vogliono cambiarla, da ambasciatori, funzionari, diplomatici, convinti come sono che la Francia debba lasciarsi alle spalle l’assolutismo. Se aspirano al comando, ci arrivano o falliscono per vie strategiche, persino istrioniche – il che non vuol dire sleali, ma sempre elegantemente attrezzate: arte della parola innanzitutto, senso della scena, sprezzatura all’occorrenza.

Craveri tra le fonti per Gli ultimi libertini si affida alle memorie stesse dei protagonisti – tutti loro chi tanto chi meno trovavano anche il tempo per scrivere – e ovviamente sa benissimo quanto ognuno possa romanzare a piacimento la propria vita; ma al netto delle forzature più o meno volontarie (Proust, che di aristocrazia seppure ormai anacronistica e perciò stesso disfatta, se ne intende, ancora deve nascere), si tratta di vite talmente e indubitabilmente ricche di esperienze da apparire già letterarie. Altrettanto ovvio è che invece raccontarla, una vita, è un’arte. E Benedetta Craveri quest’arte la conosce: costruisce, monta, indugia distribuendo vuoti (pochi in verità) e pieni con sagacia. E come nel finale di un dramma mozartiano alcuni (se non tutti) dei protagonisti si ritrovano partecipi a vario titolo e diverse posizioni nella macchina che prepara gli Stati Generali del fatidico 1789, monarchici certo, ma non reazionari – persuasi, come dei Parini più energici e brillanti, di poter mutare per così dire dall’interno senso e valore a una casta in declino («aristocratici che si opponevano al privilegio»). Che poi la storia andasse più veloce e tumultuosa di quanto previsto è un altro discorso.

 

(Benedetta Craveri, Gli ultimi libertini, Adelphi, 2016, pp. 620, euro 22,50)

 

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“Yerma”
di Federico García Lorca

Lo Yerma, di Gianluca Merolli, tratto dall’omonima opera teatrale di Federico García Lorca, tradotto e adattato da Roberto Scarpetti, è il dramma della sterilità di una donna che, nomen omen, è condannata al deserto, alla solitudine e all’aridità sia personale, ma anche del soffocante contesto sociale in cui è prigioniera.

Yerma desidera a tutti i costi avere un figlio, e averlo dal marito, per liberarsi della convinzione di avere veleno al posto del sangue, di essersi in qualche modo disseccata. Un senso d’inadeguatezza e d’incompletezza che si trasforma in ossessione e si amplifica nell’aridità di un contesto sociale fatto di gente che l’accusa di non essere una donna vera. L’unica soluzione di questo strazio crescente, accresciuto dall’ansia di tenere in equilibrio un traballante e rigido concetto di onore, sarà il gesto estremo dell’omicidio. L’assassinio della possibilità di avere un figlio, dello stesso desiderio di fertilità, il frutto marcio della disperazione. Yerma muore nella sua carne viva e partorisce altra morte nel momento in cui scopre che il suo uomo, a cui lei si consacra, non condivide il suo desiderio di genitorialità, ma che, al contrario lo osteggia attivamente.

Quest’opera di García Lorca scritta nel 1934 e pubblicata nel 1937, dimostra una grande attualità: in essa l’autore andaluso sembra anticipare le domande più recenti sulla bioetica e sul diritto alla procreazione, inserendosi a pieno titolo nell’attuale dibattito sulla procreazione assistita e sul diritto alla genitorialità, con una posizione moderna e laica.

La scelta stessa di rappresentare questo testo difficile e poco frequentato, da conto della posizione di Merolli all’interno del dibattito che infiamma l’opinione pubblica di questi tempi. Del resto il teatro è sempre, in qualche modo, una scelta politica, un mezzo per parlare alla platea attraverso molteplici livelli, per questo, all’interno di una scena intrisa di figure simboliche e metafore che rendono le scene di Alessandro Di Cola un paesaggio suggestivo ed evocativo, stride la “Clinica Cirinnà” che cade dall’alto in un paesaggio archetipale altrimenti avulso da ogni contesto temporale e geografico.

Si legge, infatti, nelle note di regia che «qui non abbiamo di fronte Maria, Juan o Victor, ma lo Sposo, la Sposa, l’Amante, la Vecchia» per questo gli infermieri abbigliati come alieni, camice bianco e siringona annessa, distraggono e distolgono dalla linearità di una messa in scena altrimenti molto intensa e immaginifica. Al contrario, sono efficacissimi e onirici le maschere, i tappeti che delimitano lo spazio, la vecchia plurale sotto un’enorme parrucca di ferro, gli occhi-fari delle cognate che scrutano l’intimità di Yerma, i movimenti scenici curati da Luca Ventura e le melodie di Maurizio Rippa.

 

Yerma

di Federico García Lorca
regia di Gianluca Merolli
Con Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Gianluca Merolli, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa

Roma – Teatro Vascello, dal 29 marzo al 3 aprile.

 

Var

“Var”
di Saša Stojanović

Var di Saša Stojanović (Ensemble, 2015), è il terzo libro pubblicato dallo scrittore e il primo a essere tradotto – da Anita Vuco – in Italia. È un romanzo che vuole spaccare il ghiaccio che fa da scudo a chi legge, è una denuncia del massacro della guerra e una liberazione interiore per lo scrittore: siamo negli anni in cui scoppia la guerra in Kosovo, battaglie feroci, violenze fisiche, torture psicologiche fanno da trama alla storia, un po’ catartica di Stojanović.

Leggendo Var l’impressione che si ha è simile a quella di sentire un’ascia che taglia lieve e impercettibile, una lettura che arresta il respiro per qualche secondo in più – senza farci troppo caso –; accade soprattutto nelle pagine in cui il racconto è intriso di violenza fisica e psicologica, «cazzo, seni, coito, puttana, botte, orgasmo»: risultano pochissime le pagine in cui non è presente una di queste parole o simili; sembrerebbe quasi una regola rigida, prefissata dall’autore. La traduttrice per la quarta di copertina recita: «Bisogna prendere in considerazione almeno trenta voci narranti. Trenta, come i denari per i quali è stato tradito Gesù Cristo. Il compito dei quattro evangelisti, più Maria Maddalena e Giuda, ben presto svela la sua vera natura: l’impossibilità di essere portato a termine. Mandati a scoprire la Verità sulla guerra in Kosovo, indagano su Čarli, l’alter ego dello scrittore stesso…», e infatti il romanzo è diviso in sei parti: quattro prendono il nome degli apostoli Matteo, Marco, Luca e Giovanni, più altre due con i nomi di Maria Maddalena e Giuda.

Le voci narranti sono tante: soldati, prostitute, medici che paradossalmente sembrano combaciare in una sola come se – riprendendo un estratto dal romanzo – «La verità è troppo pesante per una schiena sola. Se la carichi tutta quanta su te stesso non troverai più nessuno disposto ad alleggerirti». Lo scrittore è stato affetto da un disturbo post-traumatico da stress, e il rimedio probabilmente è stato la scrittura, sublimare per mezzo della lingua, così da contenere il dramma di una guerra vissuta da molto vicino; negli ultimi capitoli il peso della sua voce si alleggerisce, avvicinandosi alla saggezza della parola di Dio – il nome dell’ultima sezione è proprio quella di Giovanni, l’apostolo che nel dipinto l’Ultima Cena è raffigurato al suo fianco e il primo che riconobbe il tradimento di Giuda. Con una scrittura forte e decisa e semi-autobiografica, Var è una lotta interiore contro la disillusione, la rabbia e la violenza: «Rinuncia ai tuoi sogni oppure saranno loro che incominceranno a evitarti, proprio come fossi uno che non abbia mai sognato né voluto niente». E per fortuna, qualche volta, uno stralcio di amore o una scena più moderata di vita familiare si intravede.

Secondo Stojanović la soluzione migliore è quella di dimenticare, rimuovere – forse per giunta dissociare – ma non si può fare così; un estratto di Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Celine – da cui prende il nome un capitolo del romanzo – recitava: «La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera». Stojanović regala una tra le più importanti testimonianze della guerra in Kosovo e, senza sprofondare, dopo le bombe sganciate, trova il modo di ritornare a essere umano, grazie alla letteratura.

(Saša Stojanović, Var, trad. di Anita Vuco, Ensemble, 2015, pp. 514, euro 15)
Calibro 35

Calibro 35 Live @Angelo Mai, 23 Marzo 2016

Reduci da un tour di quasi trenta date che li ha visti protagonisti di concerti in Italia ed anche in Europa, i Calibro 35 hanno dato spettacolo nella tappa romana dell’Angelo Mai, regalando ai fan una prestazione superlativa e intensa.

Quella dei Calibro 35 è una carriera iniziata da poco, tra il 2007 ed il 2008, ma che sta bruciando le tappe. Non c’è un genere preciso di riferimento, perché si oscilla tra il funk ed il jazz, usando tanti strumenti diversi come xilofono, sassofono e flauto. Il marchio di fabbrica di questa band strumentale, unica nel panorama italiano, è un rock ispirato al cinema poliziottesco italiano degli anni Settanta: le sonorità sono le stesse che possiamo trovare in film come Milano Calibro 9, Roma a mano armataLa polizia ha le mani legate e tanti altri, dove basettoni e pistole la facevano da padroni.

La serata si apre con il live degli OU, poliedrico e davvero originale collettivo di musicisti che si esibisce e canta in diverse lingue. Finalmente qualcosa di nuovo. Sono ormai passate le 23 e l’Angelo Mai è strapieno quando i Calibro 35 salgono sul palco e, senza troppi giri di parole, danno sfogo a tutto il loro repertorio musicale. Principalmente viene presentato l’ultimo lavoro della band, in tutta la sua bellezza ed energia. S.P.A.C.E., quinto album dei Calibro 35 è riuscito ad andare oltre, esplorando nuove sonorità spaziali, anche più moderne ma mantenendo queste solide radici negli anni Settanta dense di suspence cinematografica e azione.

Si inizia con la cupa “Serenade For A Satellite”, per poi continuare con “An Asteroid Called Death” e l’omonima “S.P.A.C.E.”: il brano che più di tutti si rifà ai primi lavori del gruppo e lo rappresenta al meglio, insieme a “Violent Venus”. Il pubblico apprezza e si diverte, c’è anche si scatena sulle note di “Thrust Force”, il funky di “Across 111th Sun” e il synth-spaziale di “Bandits on Mars”, ma poi si ferma ad ascoltare l’insolita “A Future We Never Lived”. Questa band sa suonare come poche, non sbaglia un colpo, grazie anche al polistrumentista Enrico Gabrielli e al suo talento. Nel corso del concerto, anche due musiciste degli Ou daranno il loro contributo. I Calibro 35 decidono poi di dare spazio al repertorio degli album precedenti, suonando la nera e tenebrosa “Mescaline 6”,“Vendetta” e “Broccolino Funk”,per poi chiudere con il brano più celebre della band, “Notte in Bovisa”.

Un’ora e mezza di musica, poche chiacchiere e tanta sostanza per i Calibro 35, e va bene così perché nessuno esce dal locale finché non suonano l’ultima nota e salutano. Un tour davvero ben riuscito e che si concluderà in Spagna i primi di aprile, con la speranza di rivederli presto con un nuovo album.

Batman V Superman Poster Ita Flaneri

“Batman V Superman: Dawn of Justice”
di Zack Snyder

La notizia di un film che avrebbe fatto incontrare – e scontrare – Batman e Superman, due dei supereroi più amati di sempre, sia nei fumetti che al cinema, era stata una di quelle poche novità capaci di scuotere davvero l’attenzione del pubblico in questo periodo di sequel, prequel, reboot e franchise cinematografici. Batman V Superman: Dawn of Justice è arrivato nelle sale accompagnato da un carico di curiosità unico. Dopo quello di Christian Bale c’è un nuovo Batman, Ben Affleck, dopo le perplessità di Man of Steel, torna il Superman di Henry Cavill. Perché i due si scontrano? Che c’entra Wonder Woman che si vede nel trailer? Zack Snyder ha preso tutta la sua estetica da videogame e l’ha messa al servizio definitivo del veicolo targato DC che porterà gli spettatori a perdersi in un nuovo universo cinematografico.

Si entra da Metropolis, la città di Superman/Clark Kent, diciotto mesi dopo lo scontro con i kryptoniani che ha praticamente distrutto ogni cosa. Dall’altra parte della baia, a Gotham, Bruce Wayne/Batman si interroga sul potere immenso dell’alieno. Può essere una minaccia molto più che una speranza per l’umanità, e forse bisogna trovare il modo di fermarlo.

La DC sta provando a recuperare al cinema il tempo perso, rispetto alla Marvel, con la trilogia cinematografica di Batman firmata da Christopher Nolan, momento altissimo del cinema a fumetti, ma in assoluto un progetto a sé, non pensato per inserirsi all’interno delle logiche di universi cinematografici che adesso dominano il mercato. Erano grandi film, quelli di Nolan, hanno incassato moltissimo, hanno cambiato tante cose nel modo di fare cinecomic, ma non lasciavano una traccia per sviluppi ulteriori e paralleli (salvo forse il finale di Il cavaliere oscuro: Il ritorno che faceva immaginare un’evoluzione per Robin).

Nel 2013 Man of Steel di Zack Snyder, prodotto da Nolan, ha re-introdotto al cinema l’altro personaggio chiave dei fumetti DC: Superman. Le cose sono andate in maniera molto diversa rispetto a Batman. Ovviamente gli incassi sono stati altissimi, l’accoglienza della critica, e del pubblico, molto più perplessa. Mentre la Marvel trebbiava un successo dopo l’altro con il suo universo cinematografico in continua espansione, dagli Avengers fino ai Guardiani della galassia, in casa DC/Warner devono aver pensato che fosse arrivato il momento di accelerare un po’ il passo se non volevano restare troppo indietro. Arriva la premessa esplosiva: fare un film in cui Batman e Superman si scontrano. Sarà il seguito di Man of Steel, con un Batman completamente nuovo che non tiene conto di quello troppo cerebrale di Nolan. Non solo: il film servirà a introdurre tutto insieme il modo di casa DC, per fare da trampolino a tutti i progetti futuri.

Sono queste le premesse di Batman V Superman: Dawn of Justice. Annunciando il film alla stampa, la DC ha comunicato di aver messo in cantiere una serie di film da qui al 2020 per portare sul grande schermo tutti i suoi personaggi più famosi. Di recente si è anche aggiunto il progetto per un nuovo film di Batman affidato interamente a Ben Affleck.

L’attenzione di tutti, quando si è iniziato a parlare dell’incontro tra Batman e Superman al cinema, è andata subito alla prima parte del titolo e all’idea di scontro che quella “V” porta con sé. In verità c’è da concentrarsi esclusivamente sulla seconda parte, su quel Dawn of Justice che annuncia la nascita della Justice League, il supergruppo di supereroi DC in arrivo al cinema nel 2017.

Tutto il film di Snyder non è nient’altro che uno spot pubblicitario per i prossimi cine-comic, o un episodio pilota in stile serie tv, per essere più generosi. Tutto l’impegno del regista, degli sceneggiatori Chris Terrio e David Goyer, è rivolto alla costruzione dell’universo cinematografico DC, sommando una sopra l’altra tracce e anticipazioni del mondo che inizia a essere costruito. Alla fine, con tutta l’attenzione rivolta ai film che verranno, Batman V Superman finisce per diventare quasi secondario. L’intrattenimento c’è, lo spettacolo pure, c’è troppa computer grafica e ci sono troppe cose già viste, soprattutto per quanto riguarda i nemici. A mancare completamente è una trama, una coerenza narrativa, un’evoluzione psicologica dei personaggi che sia credibile e seria, con dei momenti che sono a dir poco irritanti. Il problema principale è stato quello di voler concentrare in un unico film materiale sufficiente per farne cinque. 

Sulla carta, le suggestioni di Batman V Superman sono tante e sono interessanti, a partire dall’unico elemento che è collegato in maniera diretta con il precedente film della DC, Man of Steel, ossia la scoperta dell’esistenza di Superman nel mondo e la ricerca delle autorità di un modo per confrontarsi con la sua presenza. È un dio? È una minaccia? Si poteva tranquillamente fare un Man of Steel 2 per elaborare queste informazioni, come si poteva fare un Batman nuovo per introdurre il Bruce Wayne di Ben Affleck, più vecchio e stanco e spaventoso di qualsiasi altro uomo pipistrello visto finora, con un passato di sofferenza che si intuisce dalla casa di famiglia distrutta, dai segni del passaggio devastante di Joker nella sua vita. Si poteva costruire meglio Lex Luthor, di cui si riesce solo a intravedere il potenziale messo a disposizione da Jesse Eisenberg, portandone un pezzo alla volta nei film. Si potevano, e si dovevano, fare molte cose con più calma.

Se la Marvel è arrivata agli Avengers un po’ alla volta, un film dopo l’altro, un supereroe dopo l’altro, la DC ha voluto invece accelerare, creando il suo universo con un big bang unico scatenato dallo scontro tra Batman e Superman. Alla fine, forse, si potranno capire i dettagli di questa esplosione solo fra molti anni. 

(Batman V Superman: Dawn of Justice, di Zack Snyder, 2016, azione, 154’)

 

Prove di felicità a Roma est Roan Johnson Cover Flanerí

“Prove di felicità a Roma Est”
di Roan Johnson

Prove di felicità a Roma Est (Einaudi, 2010) è il primo romanzo di Roan Johnson, scrittore e regista italiano. La magia di Johnson è quella di saper regalare al lettore e allo spettatore una boccata di leggerezza, qualsiasi sia la storia che intende raccontare.

Lorenzo Baldacci è un ragazzo come un altro, si definisce un loser, ha 21 anni e si è trasferito a Roma per completare gli studi in un liceo “calcioinculo”. Lavora come pony-pizza, la sera gira in Vespa con i supplì caldi dietro la schiena e le bibite ghiacciate in mezzo ai piedi. Samia è una ragazza marocchina senza permesso di soggiorno, la pelle ambrata, l’indole libera e inquieta. Attira le attenzioni dei ragazzi come una calamita e Lorenzo, per primo, non ne rimarrà indenne.

Quella di Johnson, però, non è una storia d’amore, ma uno spaccato di una vita. Le dinamiche narrate sono familiari al lettore, ed è proprio da questo che trae forza il romanzo. Fresco, ironico, a tratti commovente, ma mai contorto. Non ci sono eroi né grandi imprese, ma Marchino, l’amico tradito e conosciuto il primo giorno di scuola, il Vischio, con la sua giacchettina di finta pelle, il Michio, che parla romanesco con accento albanese, Scarpe Dorate, la badante ucraina, l’informatico bulgaro che per vivere compra e vende su eBay, Pablo il trendy e zio Tarek, che in pausa pranzo riesce a mangiare solo metà panino. Non ci sono né etica né morale, c’è che ti metti insieme alle ex dei tuoi amici e i tuoi amici insieme alle tue ex e che poi, al paese, «magari ti ritrovavi con la ex del tuo amico che era a sua volta una tua ex». Sui problemi esistenziali prevalgono quelli pratici, come quando «il Pilloni baciava Carla e Carla al turno dopo baciava me e io mi chiedevo: ma non è che sto baciando il Pilloni?».

I luoghi sono quelli della Roma multietnica. Primo tra tutti il quartiere Tuscolano, dove i ragazzetti «sembrano dei circensi: indossano caschi inesistenti, una chierica di plastica appoggiata alla capoccia, con i lacci penzoloni. Scheggiano gli angoli degli edifici con scooter minuscoli che sotto avranno dei duecento di cilindrata, mentre si portano dietro delle pischellette esili aggrappate al portapacchi». Poi il quartiere Tiburtino, il Prenestino, il Quadraro. Tor Tre Teste, Centocelle e via del Mandrione. La Roma di Abdul, dell’edilizia popolare, delle saracinesche mezze abbassate e delle case sudamericane. Ma anche Pomarance, «un paesone di neanche cinquemila abitanti sperduto nella campagna toscana, dove non c’era altro da fare che perdere tempo con entusiasmo, andare a pescare nel torrente, inventarsi storie di fantasmi nelle case abbandonate», e Talamone, un luogo importante sia per Lorenzo che per Samia.

166 pagine che scorrono con incredibile velocità. Un linguaggio ben ritmato e colloquiale, che strappa spesso un sorriso ma dà la sensazione di non voler essere ironico a tutti i costi. La narrazione di Johnson è sincera, asciutta, talvolta malinconica, ma mai compiaciuta.

Oltre le mura di Roma, tra precariato e questioni tardo adolescenziali, si svolge questa breve favola moderna che merita di essere letta.

 

(Roan Johnson, Prove di felicità a Roma Est, Einaudi, 2010, pp. 166, euro 16,50)

 

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“Journal d’un corps”
di Daniel Pennac

Journal d’un corps, la lettura-teatrale di Daniel Pennac dal suo romanzo Storia di un corpo, edito in Italia da Feltrinelli, dopo diverse tappe in giro per l’Italia, va in scena a Roma, sul palcoscenico del Teatro Argentina, dal 23 al 25 marzo 2016.

Il diario che il protagonista della storia tiene del suo corpo dai 12 agli 87 anni si presenta in primo luogo come l’intima eredità di un padre appena scomparso per la figlia, poi, subito dopo, si rivela per essere la testimonianza del più generalizzato, e pure singolare e personalissimo, sodalizio che l’essere umano partecipa: quello della propria anima e del proprio corpo.

Bando ai sentimentalismi, dalla pubertà alle miserie della vecchiaia, la vita si costruisce pian piano, cicatrice dopo sbucciatura, risata dopo ansito, gemito dopo urlo, e intesse un complicato arazzo sulla pelle dell’uomo. Nessun distaccamento metafisico di corpo e spirito, nemmeno nella morte, perché la carne è spirito e consente alla voce del protagonista di raggiungere ciascuno esattamente dove si trova: dentro se stesso. Seduto sul proprio sedere.

Da Pennac, la lettura ad alta voce sgorga naturale e quello che il teatro aggiunge al testo di cui il lettore-spettatore è già stato partecipe in solitudine, è il ritmo e il tono della voce dell’autore. Il rumore che le parole scritte e inviate al mondo avevano nella loro versione originale, quella pensata. Basta questo da solo a rendere l’occasione un evento, non fosse che adattando il suo romanzo con la collaborazione di Clara Bauer, Daniel Pennac dimostra un grande talento per lo spazio scenico e si rivela un bravo lettore-attore. Composto, misurato, mai ammiccante, divertente, originale, perfettamente inserito in una scenografia, pulita, non invadente, eppure calda e personale.

 

Journal d’un corps

di e con Daniel Pennac
adattamento teatrale Clara Bauer e Daniel Pennac
regia Clara Bauer
foto di Pascal Victor

Roma – Teatro Argentina dal 23 al 25 marzo 2016.