Nessuno scompare davvero Catherine Lacey Recensione Flanerí

“Nessuno scompare davvero”
di Catherine Lacey

Elyria è la terza. In poco tempo. La prima è stata Cheryl. Imbarcata in una marcia impensabile. Monumentale e così vulnerabile col suo scarpone orfano su un precipizio di silenzio.

Poi è subentrata Charlotte, affiorata a Boca Grande come un’orchidea imprevista. Donne scampate.

Da terremoti non registrati. Nessun sismografo che ufficializzi il dramma. Donne incapaci di ritrovarsi con la propria vita addosso. Deluse, scalfite, macerate nel torpore che non spiove. Donne fuggite.

Cheryl Strayed ha raccontato se stessa nel romanzo Wild (Piemme, 2012), mentre Charlotte esiste grazie a Joan Didion e al suo Diglielo da parte mia (E/O, 2013). Così, quando ho tamponato Elyria, ho capito che non poteva trattarsi di un caso.

In parte forse per l’astuzia del titolo. Nessuno scompare davvero (Sur, 2016). Constatazione semplice e quindi ineluttabile. In parte perché un libro ci chiama. Sferruzza il suo appello sottocutaneo e poi ci trafigge, in tempi incalcolati. Dipende dall’autore. Da come e quanto sappia ingoiarci nella sua voragine.

Da quanto quella trama diventi una Dionaea. Catherine Lacey, giovane scrittrice americana, ha sfornato una storia carnivora. Quella di Elyria, appunto. Ventottenne newyorkese regolarmente sposata, regolarmente inserita. Nella sua casa ben foderata, nel suo mestiere di autrice di soap opera. Eppure. La sua mente straripa di eppure. La sua mente è una steppa solcata d’angoscia. Spazzata da un bufalo.

E così Elyria, battezzata col nome di una città dell’Ohio in cui sua madre non è mai passata, decide di partire. Lascia Marito, maiuscolo e anonimo quasi fino alla fine, città, abitudini e spazi, per trapiantarsi in Nuova Zelanda. Dove nulla e nessuno la sta aspettando.

Nessun confine morbido per il suo corpo forestiero.

Ha in mano solo un remoto indirizzo, una fattoria con un letto sgombro e il desiderio di svanire, scarcerarsi dal solito. La partitura del dover dire e vestire e abitare le stesse dimensioni, perché così ha statuito, un giorno di tanti anni prima, perché in pochi labili spifferi di luce ha pensato di potercela fare. Ha scelto di coniugarsi, di far rima con qualcuno che non fosse il suo vuoto. Un qualcuno che fu il professore di sua sorella adottiva, morta suicida. Un qualcuno che fosse un nodo con ciò che non si è mai spiegata.

Ha provato a incarnare la norma Elyria, a percepire quel rumore discreto, il crepitio leggero di chi si sente felice. E robusto dentro i suoi margini. Ma il bufalo la insegue, le rammenta correndo che non è lì che dovrebbe stare. E che forse non c’è nessun altrove.

«E io stavo là. E anch’io non avevo prodotto nessuna conseguenza – ero un non sequitur umano – smarrita e senza senso, una brutta barzelletta, una barzelletta senza capo né coda».

Anche quando arriva continua a vagare, a incontrare, a simulare quel senso sociale che non le appartiene.

Perché per lei non è contemplato alcun approdo. Ognuno in fondo pretende o presume che lei s’innesti, che si leghi e partecipi e senta di comporre un insieme.

Ma Elyria non si compatta. È disarticolata come un cesto di frattaglie. Fuori strada, fuori posto, soprattutto dentro di sé. È un vento di pensieri in cui si finisce risucchiati. Ed è esattamente questo il lato vorace di tutto il romanzo. Non certo la vicenda, comune a tante evasioni. Ma l’ossessione, il vortice, la centrifuga insaziata di tormenti e riflessioni; la costante dichiarazione d’impossibilità di qualunque allontanamento dal problema. Che non è il contesto.

Non c’è nessuna moglie malmenata e zittita (escludendo le involontarie percosse notturne che Marito le riserva nel sonno), nessuna Casa di bambola da rinnegare.

Sussiste e perdura un prurito febbrile, quel disagio ammorbato che Sarah Kane definì crave, quella fame mai quieta, quel non saper stare, quel disaffezionarsi a qualunque direzione.

«Mi si stavano screpolando le labbra e mi venne in mente che tutte le cellule di ogni corpo vanno incontro alla totale disidratazione e che tutta la gente del mondo ci pensa di continuo ma nessuno lo dice e nessuno lo dice perché non è che lo pensino veramente questo pensiero, ce l’hanno e basta, come hanno le dita dei piedi, come quasi tutti hanno le dita dei piedi; ed è proprio la consapevolezza che ci stiamo tutti prosciugando a far premere l’acceleratore a tutta quella gente che monta in macchina e se ne va, il che mi ricordò che io non stavo andando da nessuna parte».

È una storia vagabonda incollata alla sua fuga. Elyria non può scomparire a se stessa. Nessuno scompare davvero. Neanche sua sorella, che ha abbracciato lo schianto, che ha saltato molto di più di lei per riuscire a eliminarsi. Ruby resta una traccia, una scia di vernice nei gesti di Elyria, nel suo rimuginare ammattito e quasi ipnotico. E la scrittura di Catherine Lacey gronda sconforto. Cerebrale sconfitta. È la gabbia perfetta di un animale in cattività. Come siamo in molti, senza biglietti per voli oceanici, ma con lo stesso identico bufalo che ci pedina, anche al supermercato. Mentre strizziamo una smorfia che chiamiamo sorriso.

 

(Catherine Lacey, Nessuno scompare davvero, trad. di Teresa Ciuffoletti, Sur, 2016, pp. 243, euro 16,50)
Love

“Love” dei Get Well Soon

Konstantin Gropper è tornato con i suoi Get Well Soon dopo quattro anni dal non ispiratissimo The Scarlet Breast O’ Seven Heads. Per uno che aveva esordito nel 2008 con il superbo Rest Now, Weary Head!You Will Get Well Soon, senza però riuscire a bissare completamente nel 2010 con Vexations, confermasi a quei livelli non era sicuramente facile. Rest Now, Weary Head!You Will Get Well Soon era un lavoro che vibrava di una forza enorme e oscura, con linee melodiche imponenti che vivevano in un contesto inappuntabile. Già da Vexations, con dei picchi notevoli e dove inizia a farsi forte la componente barocca, si notava sempre un ambiente musicale senza alcuna crepa, ma un ristagno di quella forza e di quella potenza melodica che aveva caratterizzato l’esordio. In The Scarlet Breast O’Seven Heads Gropper, invece, appariva un bel po’ scarico.

Arriviamo a oggi, arriviamo a Love. Anche quest’album è senza dubbi ben costruito, omogeneo, strutturato con cura, dove ricerca e pulizia del suono – i Get Well Soon hanno indiscutibilmente plasmato un suono che oramai appartiene a loro – sono sempre impeccabili. L’estetica barocca che rimanda a Neil Hannon e ai suoi The Divine Comedy è sempre impeccabile. E in questo essere impeccabile, dove Gropper è sempre stato impeccabile, può risiedere – ma forse è ancora prematuro dire una cosa del genere – il limite del gruppo. La forma, nel corso di questi anni, ha preso il sopravvento nei lavori della band tedesca andando a soffocare un po’ alla volta il contenuto, e non per un progressivo smarrimento artistico. Sembra infatti che il contenuto venga volontariamente soffocato dalla forma in un modo quasi perverso e calcolato in maniera scientifica. Rest Now, Weary Head!You Will Get Well Soon, a differenza degli altri due lavori, non aveva solo un’impalcatura tirata su alla perfezione, esprimeva qualcosa che i grandi album sanno esprime. Una forza propulsiva dall’interno, un fuoco e un’umanità in quel caso mescolati con un’elettrizzante word music alla Beirut, con il lo-fi, con il post-rock, con il chamber-pop, con l’eco dei Radiohead (non solo nell’inclinazione della voce, quella è rimasta) che nei successivi due album sono andati via via scemando. Prima quella forza veniva lasciata in libertà, dopo tenuta a bada. In Love ci troviamo in un ambiente più simile al “dopo”.

Per non fraintenderci: Love è un bel lavoro. Un bel lavoro, ma allo stesso tempo un’occasione perduta. I brani funzionano tutti. Funzionano paradossalmente tutti troppo bene. Dalla ninna nanna “It’s a Tender Maze” al falsetto stile Bon Iver di “It’s a Catalogue”, dal rock sofisticato di “Marienband” alla quasi Patrick Wolfiana “Young Count Falls For Nurse”; dal singolo “It’s Love” accompagnato da un videoclip inquietante allo splendido ritornello di “It’s a Mess”,passando per quella che è o sembra la canzone più struggente e ispirata dell’album, la malinconica “33”, che ha un unico difetto: “sembra” perché pare un pezzo pescato da un album mai uscito dei The National, risuonato e ricantato da Gropper come avrebbe fatto Matt Berninger.

Inizia ad essere chiaro di come i Get Well Soon facciano parte di quella categoria di gruppi in cui è ben chiara una propria idea musicale primitiva e la conseguente necessità di svilupparla in diverse declinazioni. Senza stravolgimenti interiori, senza sperimentazioni, senza improvvisi cambi di marcia verso altri lidi musicali. A un livello leggermente più alto può essere lampante l’esempio dei francesi Syd Matters, a un livello molto più alto quello dei già citati The National. Non si può, infatti, dire a ogni uscita dei The National «Il solito grande album dei The National»? E ritrovare in quel solito l’interpretazione di questa ricerca musicale? Certo, nel caso dei Get Well Soon il confine tra cristallizzazione del proprio essere musica e l’auto-riciclaggio un po’ furbetto è un aspetto che dovrà essere monitorato soprattutto per gli anni a venire, ma è ancora troppo presto per essere così categorici.

Sì, Love è un bell’album, ma contemporaneamente un’occasione perduta. Sì, perché in Love è forte la continua sensazione di trovarsi di fronte all’istante precedente dell’inizio di un grande album. Vuoi per la storia del gruppo, vuoi per il palese talento di Konstantin Gropper, vuoi per una combinazione irrazionale di questi due aspetti. Una sensazione per cui basterebbe pochissimo – una scintilla – per trasformarsi in qualcosa di concreto. Una sensazione che, purtroppo, rimane sempre una sensazione.

Ora non ci resta che andare a vederli dal vivo il 19 Aprile al Magnolia di Milano e il 20 Aprile al Teatro Quirinetta di Roma per capirne il reale stato di forma.

 

amazon_logo_flaneri Acquista “Love” su Amazon.it

 

Il defunto odiava i pettegolezzi

“Il defunto odiava i pettegolezzi”
di Serena Vitale

«Ore 10.50. Nelle redazioni dei giornali, nelle case editrici e negli appartamenti degli scrittori squillano i telefoni “Majakovskij si è ucciso!”».

È il 14 aprile del 1930 e in passaggio Lubjanskij, a Mosca, nell’appartamento n. 12 «sei stanze, quattro famiglie, un poeta», il corpo senza vita di Vladimir Majakovskij è ancora caldo. È da questo momento, dalla fine, che Serena Vitale decide di cominciare la propria ricerca.  «Majakovskij si è ucciso», ma le troppe incongruenze (a cominciare dalla scomparsa della Mauser o forse della Browning da cui – unica certezza – il colpo è partito) suggerirebbero altro.

A 86 anni dalla morte del poeta della Rivoluzione, Serena Vitale cerca di districarsi tra le testimonianze alla ricerca del bandolo: dalle teorie complottiste che vedono Majakovskij registrato all’anagrafe al posto del fratello morto, a quelle che non escludono che egli stesse pianificando di fuggire all’estero, fino all’inquietante nebulosa di bugie e manomissioni che circondano lo strano caso della sua fine, Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi, 2015) è una ricerca che supera il vocabolario limitato e asettico della catalogazione degli eventi. È un libro meticcio: un po’ ricerca filologica, un po’ indagine letteraria e un bel po’ poesia, quella dello stesso Vladimir Vladimirovič Majakovskij. Questi sono gli strumenti che rendono la Vitale inattaccabile e il suo lavoro fedelmente ancorato al metodo scientifico e se, come disse qualcuno, la scienza – quella vera – dubita, allora Il defunto odiava i pettegolezzi è un libro che insegna la scienza perché rende partecipe il lettore del ragionamento e lo educa al dubbio, all’idea che spesso ci si debbano porre molte domande prima di poter rispondere anche a una sola di esse.

La narrazione è segmentata, avanti e indietro. Così Majakovskij muore molte volte e la sua fine ci appare tragica, imbarazzante, un fatto meccanico, in uno scenario plastico a seconda di chi la riporti. A dividere questo libro da una ricerca universitaria c’è però tutto lo stile della sua autrice. Serena Vitale conquista il lettore proprio in quei momenti – si tratta di brevissimi istanti – in cui si lascia andare a commenti personali e a supposizioni azzardate che rompono l’ortodossia accademica barattandola con uno stile affilato e una sagacia narrativa in grado di conferire all’opera una personalità non ordinaria. I contenuti si concentrano sui momenti cardinali del poeta in vita e sulle versioni ambigue, ufficiali e non, che furono generate alla sua morte; un grande spazio, oltre a quello destinato al Regime e alla produzione poetica – tutti aspetti legittimi quanto scontati in un’inchiesta su Majakovskij – è ritagliato appositamente per le donne. Quelle che il poeta amò, quelle che lo amarono e quelle che non l’avrebbero mai veramente ricambiato. Ma anche qui la Vitale si sottrae al mero espediente narrativo, le donne di Majakovskij la interessano perché sono le figure che determinarono, più di tutti, non solo le sorti del poeta in vita, ma anche e soprattutto le circostanze gravitanti intorno alla sua memoria futura. La costruzione del mito.

Leggendo il libro si è tentati da quella che all’inizio è solo una semplice intuizione e che invece, procedendo con la lettura, si sedimenta come una quasi-certezza: Serena Vitale è innamorata di Majakovskij. Totalmente e senza speranza. Si tratta di un amore impossibile per un uomo monumentale. La sua grandezza finì per diventare un ingombro: per se stesso, incapace di addomesticare i propri sentimenti; per il regime – troppi i viaggi a Parigi, le automobili e i desideri borghesi –; e persino per i becchini, per la difficoltà che ebbero nel confinare il suo enorme corpo nel feretro.

Eppure, nel libro, cercando una verità tra i tanti pettegolezzi che il poeta avrebbe certamente odiato, inaspettatamente ci si imbatte proprio in lui. Non nel suo cadavere che compare da protagonista più e più volte tra le pagine, ma proprio in un Majakovskij resuscitato, più vero e vivo che mai: l’Uomo che uccise il Poeta.

 

(Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, 2015, pp. 284, euro 19)

 

amazon_logo_flaneri Acquista “Il defunto odiava i pettegolezzi” su Amazon.it

La corte poster recensione flanerí

“La corte”
di Christian Vincent

Presentato con enorme successo all’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove si è aggiudicato i premi per la migliore sceneggiatura e la migliore interpretazione maschile, La corte riunisce venticinque anni dopo La timida la coppia Christian Vincent (alla regia e sceneggiatura) e Fabrice Luchini (protagonista assoluto) per una raffinata commedia di ambientazione giudiziaria.

Michel Racine è il rigidissimo presidente della Corte d’assise del tribunale di Saint-Omer. Mentre è alle prese con un divorzio e una brutta influenza, è chiamato a deliberare su un caso particolarmente complesso. Un uomo di ventisette anni è accusato di aver ucciso a calci la figlia di appena sette mesi in un raptus di violenza. Il ragazzo avrebbe confessato l’omicidio durante l’interrogatorio della polizia, ma qualcosa non torna. Per giudicare il caso, il Presidente viene affiancato da una giuria popolare estratta a sorte. Il caso vuole che tra i giurati venga sorteggiata Ditte Lorensen-Coteret, una signora di origine danese che sei anni prima aveva assistito Racine come anestesista dopo che era rimasto coinvolto in un terribile incidente. Il presidente aveva perso la testa per lei e ritrovarsela davanti gli fa capire che il sentimento non è mai passato.

Il titolo originale di La corte è L’hermine, l’ermellino, dal collo di pelliccia della toga di Racine. È il suo scudo dal mondo (oltre a essere un titolo molto più pertinente del riferimento al collegio scelto dai distributori italiani), il simbolo di potere dietro cui il presidente si nasconde per non essere raggiunto da nessuno. È tutto concentrato sulla personalità di Michel Racine il film di Christian Vincent, sul suo dispotismo fragile, sulla sua inavvicinabilità apparente. Nessuno conosce davvero il giudice, su di lui si dicono tante cose, nessuno sa quali siano vere, si sa solo che incute timore e rispetto.

Eppure, dietro la maschera inflessibile si nasconde un uomo insicuro, pronto a nascondersi per non rivelare la sua fragilità, che sia dietro il mantello del tribunale, o dietro una sciarpa che serve a distogliere l’attenzione dai suoi vestiti scelti a caso dall’armadio. Forse solo Ditte lo conosce veramente, per averlo visto ferito sul letto d’ospedale. È per questo che Racine non riesce a dimenticarla.

Fabrice Luchini è la forza più grande di La corte. Imperturbabile, compassato, pronto ad aprirsi in un’ironia fatta di una trama sottile, il suo Michel Racine è la somma delle sue tante interpretazioni di personaggi ben diversi, nell’intimo, dalla maschera esteriore (in tempi più recenti, si pensi a Gemma Bovery dello scorso anno).

Nel preparare il ritratto di un uomo stanco di essere solo, Christian Vincent si diverte a giocare con i generi. A tratti, La corte assume i caratteri del thriller giudiziario, con i giurati che si incontrano e si scambiano le loro opinioni sul caso. Ci sono elementi del cinema sociale, con le differenze che separano i membri della giuria uno dall’altro, distanze religiose, di classe o di età. Molto presto, però, il film di Vincent rivela la sua vera natura di commedia romantica con al centro un secondo incontro tra due persone che si sono incrociate, in maniera indelebile, una sola volta nella vita.

È proprio, però, questa intermittenza di generi a dare un senso di incompiuto a tutto La corte. Niente è davvero importante di quello che viene raccontato, a parte Racine, eppure lo spettatore viene investito di suggestioni che troppo spesso non portano a nessuno sviluppo concreto. Avrebbero potuto portare a sviluppi più interessanti, invece finiscono per distogliere l’attenzione dalla crescita del presidente.

 

(La corte, di Christian Vincent, 2015, commedia, 98’)

“Breve diario di frontiera”
di Gazmend Kapllani

«Il coraggio che occorre per espatriare conferisce al migrante un’aura di eroismo. Invece nella vita quotidiana  il migrante è un individuo fragile, confuso, addirittura ridicolo».

Non lasciatevi ingannare dal supporto cartaceo, questo non è un semplice libro ma la Storia di chi diviene migrante. Breve diario di frontiera, di Gazmend Kapllani (Del Vecchio Editore, 2015), è uno stralcio autobiografico incredibilmente breve – abbraccia, infatti, solo pochi giorni del gennaio 1991 – eppure la sua portata è universale. Non mancano descrizioni di luoghi o dialoghi con le persone conosciute durante il viaggio verso la Grecia, ma la grandezza di Kapllani consiste nell’aver delineato la crisi identitaria che la condizione di migrante scatena inevitabilmente.

Kapllani appartiene a quella generazione di albanesi cresciuta a contatto con un comunismo ortodosso ormai sfinito, poiché sfibrato dalle continue purghe interne e dalle aggressioni occidentali sotto forma di programmi televisivi captati con antenne illegali. In pieno regime, Kapllani dunque, ignora consapevolmente l’autarchia culturale dell’Albania: legge libri proibiti, impara lingue straniere e soprattutto varca, con la mente, le frontiere chiuse da decenni immaginando il mondo-oltre-i-confini.

Il 15 gennaio 1991 Kapllani, poi, cessa di essere un sognatore, decide infatti, di ingrossare le fila delle migliaia di profughi albanesi che si riversano in Grecia. I giorni passati nel capannone improvvisato a mo’ di centro d’accoglienza, sfuggono al normale trascorrere del tempo, sono frenesia e torpore a dominare l’incedere degli avvenimenti. Infine il pianto liberatorio, la rinascita e, con essa, il lungo processo di (ri)costruzione identitaria dell’Io.

Kapllani racconta la sua storia e lo fa per noi, per toglierci di dosso quella patina appiccicosa fatta di abitudine, paura e compassione supponente che ci rende indifferenti di fronte alle crisi umanitarie. Si spoglia del suo ruolo di scrittore e si mostra per ciò che sente di essere, un migrante silenzioso, assalito dal senso di inadeguatezza, dal terrore di fallire, dalla rassegnazione e dalla rabbia, tutto in egual modo.

Non il viaggio in sé, dunque, ma la condizione conflittuale che ne deriva è il vero tema dominante di tutto il diario. La scelta di abbandonare la propria terra ha permesso a Kapllani di scoprire il significato di libertà, ma lo ha anche messo di fronte alla ferocia di una realtà inaspettata in cui i diritti dei migranti sono assorbiti da doveri imperativi e la felicità è contaminata dalla paura e dalle umiliazioni.

A Kapllani sono serviti quasi 20 anni (il libro è stato originariamente pubblicato nel 2006) per accettare la sua dispersione identitaria, il passaporto albanese, la permanenza in Grecia e l’attuale residenza negli States. A noi è sufficiente leggere le sue parole per garantire finalmente una comprensione sincera agli sguardi smarriti che incontriamo per strada.

(Gazmend Kapllani, Breve diario di frontiera, trad. di Maurizio De Rosa, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 200, euro 15)

 

amazon_logo_flaneri Acquista “Breve diario di frontiera” su Amazon.it

Suffragette Poster Recensione Flanerí

“Suffragette” di Sarah Gavron

La storia del movimento che per primo in Inghilterra in Europa si battè per i diritti politici delle donne arriva al cinema con Suffragette e un grande cast al femminile che mette insieme Carey Mulligan, Helena Bonham Carter e Meryl Streep.

Maud Watts è una giovane donna inglese, nata e cresciuta in una lavanderia. Figlia di una lavandaia, è stata educata al lavoro sin da giovane ma si è sempre dimostrata diligente e riservata, nonostante le difficoltà che deve affrontare una donna nella Londra degli inizi del Novecento. Sposata e con un figlio che ama più di ogni altra cosa, la vita di Maud viene stravolta quando si imbatte casualmente in una protesta delle Suffragette, movimento politico femminile in lotta per il diritto di voto alle donne. Da un giorno all’altro, Maud si ritrova a dover esporre le ragioni del gruppo di cui è diventata parte ma che ancora non conosce del tutto davanti al parlamento britannico, un’esperienza che finirà per illuminarla molto più di quanto si aspettasse. L’incontro con questa realtà stravolge infatti la vita e le convinzioni di Maud, mostrandole verità e ragioni di una lotta silenziosa e silenziata e rendendole a poco a poco sempre più chiaro da che parte sia giusto stare e quale costo il mondo sia disposto a farle pagare per una lotta giusta.

La regista Sarah Gavron è alla sua seconda esperienza cinematografica dopo il buon successo del film d’esordio Bricklane (2007), per cui ottenne una nomination al Bafta come miglior regista. Per lavorare su Suffragette ha richiamato la sua sceneggiatrice di fiducia, Abi Morgan (Shame e The Iron Lady i suoi più grandi successi).

Gavron e Morgan lavorano in evidente sintonia, ma il film risulta meglio scritto che diretto e fondamentalmente, seppure svolgano correttamente il loro compito, né regia, né sceneggiatura riescono ad eccellere in particolare, facendo il loro lavoro sì senza sbagliare ma anche senza impressionare. La durezza e la drammaticità del film si basano tutte sulla tematica e sull’ottima performance recitativa di Carey Mulligan, protagonista e motore di questo film che regala una carica emotiva a un opera altrimenti troppo poco coinvolgente e fredda, nonostante il calore innegabile dell’argomento trattato.

Il personaggio di Maud è ovviamente un personaggio fittizio, che raccoglie però in sé tratti di molte eroine femminili dell’epoca, anche in alcuni piccoli particolari. A contestualizzare nella realtà la storia ci pensa invece la brevissima apparizione di Emmeline Pankhurst, fondamentale attivista per i diritti delle donne interpretata da una Meryl Streep fin troppo pubblicizzata rispetto al ruolo effettivo che le è stato dato all’interno del film (e inspiegabilmente americana in una produzione così inglese). Anche sul fronte recitativo il film si regge dunque su Carey Mulligan, capace di interpretare sofferenze e motivazioni della giovane protagonista proiettandole sullo spettatore e regalando l’unico vero motivo di coinvolgimento dell’intera pellicola. Il cast di contorno infatti non riesce a impressionare nonostante la presenza di grandi nomi come Helena Bonham Carter o Ben Wishaw. Discorso in parte diverso per quello che è in un certo senso l’antagonista del film, Brendan Gleeson, limitato da un personaggio a metà, che non si fa odiare mai totalmente e che nasconde una profondità male approfondita nel corso del film.

Nota positiva sono sicuramente i costumi, i trucchi e le scenografie d’epoca. Suffragette infatti riesce a ricreare alla perfezione e fedelmente la Londra di inizio Novecento, e rimanendo sul realismo del lavoro da documentarista di Sarah Gavron. Molto significative le parole prima dei titoli di coda che ci ricordano come la storia che il film racconta, apparentemente così lontana, è molto più vicina di quanto possa sembrare e in alcuni paesi rappresenta l’attualità.

(Suffragette, di Sarah Gavron, 2016, drammatico, 106’)

Mr Loverman

“Mr Loverman”
di Bernardine Evaristo

Ci sono molti modi di indossare una maschera, ma quando nella vita sta per arrivare il momento di calare il sipario non tutti sono in grado di sostenerne il peso.

Barrington Jedidiah Walker è un estroso dandy settantaquattrenne originario di Antigua che da oltre quarant’anni vive nel sobborgo londinese di Hackney con la sua famiglia, la moglie Carmel, le due figlie Donna e Maxine e il nipote Daniel; ma Barrington è anche segretamente omosessuale e da sessant’anni porta avanti una relazione con il suo migliore amico d’infanzia Morris.

Apparentemente il quadretto familiare che Bernardine Evaristo ci presenta nel suo ultimo libro Mr Loverman (Playground, 2015) è non poco incline al grottesco, eppure ci accorgiamo già dalle prime tragicomiche pagine che ogni suo personaggio cova, dietro le quattro perbeniste mura domestiche, conflitti intimi ben più complessi.

Proteggersi in un luogo comune come il matrimonio è stato, sia per Barrington che per Morris, quasi un atto imposto, il male minore con cui convivere per evitare persecuzioni sia nel loro paese d’origine, dove ancora oggi l’omosessualità è un reato punibile con il carcere, sia in territorio inglese, reso ancora meno ospitale dall’“aggravante” razziale.

«La verità è che sono abituato a vivere nella prigione che mi sono costruito: giudice, secondino e compagno di cella».

D’altra parte la situazione di Carmel non è migliore: sposatasi troppo giovane con quello che considerava il miglior partito di Antigua, si è involontariamente condannata a una vita piena di indifferenza, accumulando negli anni rancori e frustrazioni verso un uomo estraneo ai suoi sentimenti ed esigenze, ingenuamente convinta di essersi messa in casa un dongiovanni da quattro soldi.

«Il mio letto gigantesco era stata una desolata terra di nessuno, il luogo della mia solitudine, e lo sconforto di una coppia che ha allenato i propri corpi a non sfiorarsi nel sonno».

Questo «sciocchezzaio matrimoniale» non può che trovare la sua naturale conclusione nel divorzio, ma abbattere le proprie gabbie mentali può rivelarsi molto più complicato di quanto si pensi.

In Mr Loverman, inoltre, la Evaristo affronta con intelligenza i temi sull’integrazione razziale, la famiglia, il sesso, il femminismo, la religione e si concede di ironizzare sulle storture e i cliché relativi all’omosessualità, facendo a pezzi i ben noti passi del Levitico durante un pranzo domenicale, mettendo a confronto generazioni gay pre e post rivolta di Stonewall e screditando l’idea comune di “checca” tutta gridolini e paillettes.

Non meno rilevante infine è la scelta del titolo del libro, che prende il nome dall’omonima canzone di Shabba Ranks – cantante reggae giamaicano conosciuto soprattutto per i suoi testi spiccatamente omofobi – a dimostrazione di come può essere blanda e opportunamente discutibile la dissociazione sessuale anche da parte degli stessi omosessuali. Barrington e Morris, infatti, scelgono proprio questo brano come sottofondo a uno dei loro tanti incontri passionali, e così facendo, ne neutralizzano il fattore discriminante “ridicolizzandone” i contenuti: ciò che resta di fatto è solo la musica.

Quel che ne viene fuori è un libro dalla comicità pungente ma che solleva, tra le altre, un’importante questione: siamo ben lontani dal considerare “normale” l’omosessualità e le unioni civili, poiché il contesto sociale in cui ci troviamo ci impone la cultura eterosessuale come unica condizione legittima, costringendo all’emarginazione o all’omologazione forzata chi non ne fa parte.

«In fondo tutti noi offriamo al mondo versioni accuratamente elaborate di noi stessi».

 

(Bernardine Evaristo, Mr Loverman, trad. di Alessandro Bocchi, Playground, 2015, pp. 299, euro 17,50)

amazon_logo_flaneri Acquista “Mr Loverman” su Amazon.it

Brooklyn recensione poster Flanerí

“Brooklyn”
di John Crowley

La casa è dove il cuore decide di stare, questo è il tema centrale di Brooklyn, l’ultimo film di John Crowley (il suo Boy A del 2007 è da recuperare) passato prima al Sundance, poi in una serie di altri festival, incluso Torino, per arrivare alla fine a tre candidature importanti agli ultimi premi Oscar: miglior film, miglior sceneggiatura non originale e migliore attrice non protagonista per Saoirse Ronan.

Eilis Lacey (Ronan, appunto) è una giovanissima migrante di inizio anni Cinquanta costretta ad abbandonare il suo villaggio in Irlanda verso gli Stati Uniti, New York, Brooklyn, per trovare un lavoro. Dalla sua parte dell’Oceano lascia una madre anziana e una sorella che ha fatto qualsiasi cosa per farla salire sulla nave in rotta verso una nuova vita. In Nord America trova un prete buono ad accoglierla, una casa condivisa con altre ragazze migranti e un lavoro da commessa. Non è felice, si sente sola, le manca la famiglia, gli amici, la casa e non si trova in quel mondo più grande. Un giorno conosce Tony, un giovane e pacato idraulico italiano che le fa una corte paziente e tenace fino a vincerle il cuore. È a quel punto, quando sembra finalmente essere felice, che Eilis è costretta a tornare in Irlanda per un lutto improvviso e un nuovo incontro, in quella che continua a sentire come casa sua, sembra poter cambiare ogni cosa.

C’è un romanzo sentimentale del 2009 firmato dallo scrittore irlandese Colm Tóibín (in Italia è pubblicato da Bompiani) all’origine di Brooklyn. A lavorare alla sceneggiatura è stato chiamato un altro scrittore, Nick Hornby, che come sceneggiatore per il cinema si sta specializzando in storie al femminile. Dopo An Education del 2009, è arrivato lo scorso anno Wild. Insieme agli altri due copioni di Hornby, Brooklyn conferma la centralità tematica dei momenti di passaggio e di crescita delle protagoniste, che si debbano confrontare con un amore difficile, con una perdita o con un cambio radicale di vita.

Insieme al regista John Crowley, Hornby ha deciso di puntare tutto sulla ricostruzione dell’ambiente d’epoca, sulla raffinatezza della vita degli anni Cinquanta, sull’eleganza semplice delle persone per bene, per creare la cornice del cambiamento di Eilis.

È soprattutto l’aspetto visivo, l’immagine carica di colore della New York sconosciuta e il colore plumbeo e accogliente dell’Irlanda, il punto di forza di Brooklyn, grazie alla fotografia di Yves Bélanger e al lavoro sui costumi e le scenografie.

Per il resto, Crowley e Hornby hanno deciso di trascurare quasi del tutto l’aspetto sociale della vita migrante di Eilis per concentrarsi esclusivamente sulle dinamiche sentimentali, private e di coppia, della distanza. Non è difficile vivere in un paese sconosciuto perché è difficile integrarsi, è difficile solo perché si è lontani da casa.

Tutto sommato, Brooklyn è un dramma sentimentale piuttosto lineare, molto elegante e delicato nella confezione, nella scrittura, recitato bene (oltre alla protagonista una menzione va a Emory Cohen e Domhnall Gleeson), ma sempre e comunque un dramma sentimentale sulla distanza e sulla crescita. Si può dire senza rischio di esagerare che le nomination agli Oscar erano un po’ fuori luogo, in particolare quella per il miglior film, visto che un altro titolo della stagione come Carol offriva una ricostruzione molto più complessa e interessante della vita degli anni Cinquanta e spunti più interessanti anche sul tema del cambiamento.

Il discorso è molto diverso per quello che riguarda Saoirse Ronan. Dovrebbe essere il fim che collegherà in maniera definitiva il nome al volto. A ventidue anni da compiere, per l’attrice di origine irlandese è arrivata la seconda candidatura all’Oscar (la prima da protagonista) dopo quella ottenuta nel 2007, a soli tredici anni, per Espiazione. Tra le altre cose, si conferma una statistica interessante: tutte e tre le protagoniste dei film scritti da Nick Hornby hanno ricevuto una nomination come migliore attrice (Carey Mulligan per An Education, Reese Witherspoon per Wild). Nessuna è riuscita a vincere. Se non fosse già stato l’anno delle sconosciute – ai più – Brie Larson e Alicia Vikander, forse Saoirse Ronan avrebbe potuto invertire la tendenza.

 

(Brooklyn, di John Crowley, 2016, drammatico, 118’)

 

Hymns Bloc Party Recensione Flanerí

“Hymns” dei Bloc Party

Prima di parlare di Hymns, partiamo con una premessa. Inizio degli Anni ’00: nel giro di poche stagioni sarebbero sbocciati gli esordi di alcune band capaci di segnare profondamente la nascita di una nuova scena, la mia vita e l’annesso background musicale: Interpol, Editors, Arcade Fire, The National su tutte. Sì, ovviamente c’erano anche i Bloc Party. C’era l’ascolto ininterrotto di “Banquet” e la completa venerazione di Silent Alarm, un colosso clamoroso della storia musicale alternativa. A Weekend in The City fu un graditissimo seguito e la poco parziale generosità caratteristica del fan mi ha permesso di salvare qualcosa dello spiazzante, isterico ed elettronico Intimacy, come ad esempio il giro eccellente di chitarre in “Halo” (uno dei loro capolavori assoluti). Riguardo Four ne ho parlato proprio qui, andate a ridare una letta, per non farvi mancare nulla.

Dall’ultimo disco ad oggi, vanno segnalati – oltre al secondo lavoro solista del leader Kele Okereke, Trick – anche gli importanti cambi di line-up: Moake al basso e Tong alla batteria lasciano il posto a Alex Thoms (batterista di Bradly Drawn Boy, Air, Adem) e al bassista dei Menomena, Justin Harris. In Hymns si manifesta un dato inconfutabile: i Bloc Party hanno smesso di essere una band da album  per diventare una band da singoli.

Considerati nella loro interezza e complessività gli ultimi dischi risultano insufficienti e viste le dovute aspettative, deludenti. Su quanto calcare la mano nel giudicare l’insufficienza sta poi al buon cuore del critico valutare e devo dire che a livello internazionale e italiano gli addetti ai lavori mi sembrano eccessivamente spietati nel massacrare a prescindere con fustigate al vetriolo ogni lavoro del gruppo inglese. Il punto è questo: dopo gli ascolti necessari per “digerire” Hymn io stesso molto probabilmente non lo risentirò mai più dall’inizio alla fine. Eppure ho già salvato sul mio riproduttore musicale e sulla mia playlist di Spotify alcuni brani che continuano a piacermi e divertirmi moltissimo. Tra questi, per quanto sia inizialmente straniante, c’è il brano d’apertura di Hymns e primo singolo scelto: “The Love Within”. Lo ammetto, per quanto smaccatamente danzereccio, lo trovo irresistibile. Cosa altro salvare? “In To The Heart” e “Virtue”, in cui la nuova produzione riesce a comporre qualcosa capace di lasciare un segno oltre la media. L’intero mood del disco è molto pop, avvolto da una elettronica soft. Spesso si sbadiglia nell’attesa di qualcosa di bello e accattivante, che – purtroppo – non arriva mai.

Nella speranza – oramai vana? – di un futuro ascolto completo e compiuto come ai bei vecchi tempo, ci consoliamo salvando gli sprazzi del talento orami estremamente diluito di Kele e gli altri.

 

amazon_logo_flaneri Acquista “Hymns” su Amazon.it

 

La Madonna dei mandarini recensione copertina Flanerí

“La Madonna dei mandarini”
di Antonella Cilento

C’era una volta un angioletto che aveva commesso peccato. Dio, allora, lo rinchiuse per punizione in una cella buia per una giornata intera, e fece convocare San Pietro perché lo sorvegliasse e lo mantenesse a pane e acqua. L’angioletto aveva paura e iniziò a dimenarsi. Ma durante la notte, mentre tutti dormivano un sonno profondo, la Madonna, mossa a compassione, decise di portargli di nascosto dei mandarini.

È questo l’aneddoto – scritto in versi dal poeta napoletano Ferdinando Russo nell’Ottocento – che dà il titolo all’ultima opera di Antonella Cilento, La Madonna dei mandarini (NN Editore, 2015), raffinato romanzo breve scandito in tre movimenti, quasi fosse una danza, veloce ma allo stesso tempo delicata e aggraziata. Perché così è la prosa dell’autrice partenopea, che riesce a essere penetrante e scorrevole, chiara e verace, ricercata senza risultare ridondante: una finezza tutta sua, di cui fa sfoggio anche in questo romanzo, che affronta un tema lontano dalla pomposità barocca del precedente Lisario o il piacere infinito delle donne e molto attuale, cioè la carità verso il prossimo, che assume in queste pagine la forma del volontariato.

Presso il Vomero, a Napoli, si è costituita un’associazione cattolica che si occupa di giovani disabili e di ragazze madri, gestita dal colto avvocato Domenico Staibano, detto Mimì, e dal suo coinquilino Simone Mennella, molto più giovane e ignorante di lui, e finanziata dal parroco don Vincenzo Cuccurullo, un chierico al passo coi tempi che non sembra essere molto preoccupato dei dettami religiosi («Obbedienza e umiltà: che fastidio.»), anzi, da vanaglorioso quale è, si mostra molto più in pensiero per la pubblicazione del suo manoscritto. Dell’associazione fanno parte anche altri ragazzi, come Giovanni, detto Statine, che vive con la nonna e studia medicina, e Camilla, che sognava di fare la pittrice. Se all’inizio la storia procede lentamente, dopo l’aggressione a Simone da parte di Amalia, una delle ragazze madri che lo sgozza con un rasoio, la narrazione diventa più concitata: assisteremo al furto dei fondi raccolti dall’associazione durante una serata di beneficienza, conosceremo meglio Vittorio, ragazzo affetto da sindrome di Down, e la madre Agata Sòllima, e vedremo, tra le altre cose, Simone concedersi a un’altra ragazza dell’associazione.

Peccato e redenzione, sfarzo e umiltà: i poli antitetici dominano lo sviluppo della storia, che si fa inevitabilmente riflesso della società odierna, con le sue luci e le sue ombre. E della quale non viene lasciata da parte nemmeno la patina storica e artistica, enucleata in maniera soave ed eccellente: quella di Antonella Cilento è scrittura che si fa corpo, corpo che si fa narrazione, narrazione sinestetica, che confonde profumi di sfogliatelle, l’eccitazione per la vista del corpo perfetto di una statua, rumori e voci di strada.

La voce soprattutto è uno strumento di straordinaria efficacia che rende l’atmosfera nella quale ci immergiamo fortemente realista; ed è sapientemente sfruttato dalla scrittrice attraverso l’uso del dialetto napoletano. Che è quasi d’obbligo in alcuni casi: ad esempio, la traduzione italiana di “ Je t’aime… moi non plus” perderebbe sicuramente la carica umoristica se non venisse resa con «Io ti amo e tu manc’ p’ ‘o cazz!»

La Madonna dei mandarini è un grande affresco, che non pretende assolutamente di distinguere i buoni dai cattivi, i puri dai peccatori, ma solo di ritrarre una situazione-modello che ne potrebbe esemplificare molte. Anche perché, alla fine di tutto questo disquisire, l’unico vero grande peccato sarebbe lasciarlo in libreria.

 

(Antonella Cilento, La Madonna dei mandarini, Milano, NN Editore, 2015, pp. 144, euro 13)

 

amazon_logo_flaneri Acquista “La Madonna dei mandarini” su Amazon.it

Ave, Cesare! recensione Flanerí

“Ave, Cesare!”
dei fratelli Coen

Dopo aver attraversato praticamente ogni genere cinematografico e ogni epoca, Joel e Ethan Coen tornano a Hollywood ventisei anni dopo quel Barton Fink che nel 1991 riuscì nell’impresa unica di vincere la Palma d’oro, il premio per la miglior regia e quello per la migliore interpretazione (John Turturro) al Festival di Cannes. Quella era la Hollywood degli anni Trenta, ora con Ave, Cesare! si va avanti nel tempo fino al 1951 e a degli Stati Uniti completamente differenti, con la psicosi della bomba atomica e della minaccia comunista a dipingere scenari apocalittici per il futuro.

Eddie Mannix – ispirato a un vero produttore di Hollywood e interpretato da Josh Brolin – è un “fixer”, un uomo incaricato dagli studios cinematografici di risolvere i problemi. Gravidanze inaspettate, scandali sessuali, indiscrezioni, risse, sono il suo lavoro quotidiano. Non dorme mai, è sempre in giro a prendersi cura delle celebrità insicure e arroganti, a confessare i suoi peccati (fuma di nascosto dalla moglie), a cercare di capire se quella vita inarrestabile all’ombra delle stelle valga ancora la pena di essere vissuta o se non sia piuttosto meglio accettare quella proposta di lavoro che lo porterebbe fuori dal cinema, al sicuro dietro la scrivania della Lockheed Martin, a supervisionare la produzione di armi in grado di difendere il Paese. Non ha tempo per pensare, però, perché tra i mille problemi del suo lavoro quotidiano deve affrontare un nuovo tipo di imprevisto. Baird Whitlock, la star del colossal Ave, Cesare! – Un racconto su Gesù Cristo è stato rapito da una misteriosa organizzazione che si fa chiamare Il Futuro. Chiedono centomila dollari per rilasciarlo.

Ave, Cesare!, quello dei Coen, non il film nel film, è un omaggio all’epoca d’oro di Hollywood, alla grandezza degli studios in ogni loro aspetto, dal set ai lavori dietro le quinte, dalla produzione al montaggio. I Coen si sono divertiti a misurarsi con la storia del cinema, con i grandi generi popolari, realizzando quasi interamente il film all’interno degli immaginari Capitol Studios (comparivano già in Barton Fink), passando da un set all’altro, dal western, al peplum, al musical di marinai, alla commedia romantica, alla coreografia acquatica. Per ogni frammento di cinema hanno adattato il loro stile al registro adeguato, cambiando le tecniche di ripresa, realizzando una serie di mini-film nel film.

Se nella loro ormai più che trentennale carriera i Coen si sono misurati davvero con ogni genere cinematografico, Ave, Cesare! conferma quella che è sempre stata la loro unica intenzione: fare cinema, in qualsiasi sua forma. Qui si confrontano con il mito assoluto di quella che è per tutti la stagione della grandezza di Hollywood per confermare ancora una volta come i loro lavori siano sempre carichi di una cultura cinefila che non ha bisogno di mostrarsi nel citazionismo diretto ma che ha assimilato le lezioni del passato per filtrarle nell’immagine che viene mostrata allo spettatore.

Come per gran parte dei film precedenti dei fratelli, Ave, Cesare! si può vedere godendone perfettamente già al solo primo livello di lettura, quello superficiale della storia raccontata. La giornata infernale di Mannix in giro per gli studios alle prese con un’attricetta che si fa fotografare semi-nuda, una diva incinta, interpretata da Scarlett Johansson, con la gravidanza da risolvere prima che arrivi la notizia alla stampa, un attorucolo di western (Alden Ehrenreich, la sorpresa del film) che per il capriccio di un produttore viene promosso alla commedia sofisticata causando il crollo nervoso del raffinato regista Laurence Laurentz (Ralph Fiennes), le pressioni delle gemelle giornaliste Thora e Thessaly Thacker (Tilda Swinton doppia) e soprattutto il sequestro di Baird Whitlock (George Clooney), già di suo tendente a sparire dentro una bottiglia e ora rapito da un gruppo di sceneggiatori filo-sovietici ispirati da Marcuse che finiscono anche per fargli il lavaggio del cervello in tema di ridistribuzione delle ricchezze, sarebbe già sufficiente per incuriosire e divertire il pubblico.

Andare più in profondità, però, è semplice, perché i Coen disseminano il film di tracce per capire in che direzione scavare. C’è il tema della religione, ancora una volta, con Mannix religiosissimo alle prese con un film sul Cristo che richiede il confronto con gli esponenti della chiesa cattolica, ortodossa, protestante e un rabbino, per essere sicuri di non offendere nessuno, con il senso del divino che si trasferisce da Dio al cinema, dalla religione alla sua rappresentazione sullo schermo.

C’è il confronto tra il mondo interno di Hollywood della finzione, in cui tutto è organizzato dagli studios, dalle riprese alla vita privata delle celebrità, e quello esterno della realtà, delle bombe atomiche e della fobia del comunismo, e la consapevolezza che di fondo importa molto di più la finzione che il reale, con le gemelle Thacker che pressano Mannix per avere conferma di uno scandalo sessuale di Whitlock, non per sapere del rapimento.

È sempre il cinema, però, al centro di tutto, come grande industria dell’illusione, come fondamento della storia culturale, come alternativa centripeta a tutto il resto, alla religione, alla politica, alla vita privata. I Coen lo sanno, e ce lo ricordano.

 

(Ave, Cesare!, dei fratelli Coen, 2016, commedia, 106’)

 

Toulouse-Lautrec allo spazio espositivo dell’Ara Pacis, a Roma

Dal 4 dicembre scorso lo spazio espositivo dell’Ara Pacis a Roma ospita la mostra dedicata a Toulouse-Lautrec. Passeggiando per lo spazio – illuminato con luci soffuse e allestito con cura da Zsuzsa Gonda e Kata Bodor,– si possono ammirare circa 170 opere provenienti dalla collezione del Museo di Belle Arti di Budapest. La mostra, promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata da Zètema Progetto Cultura è articolata in 5 sezioni (Notti parigine, Le dive, Le donne della notte, A teatro, Con gli amici) e permette di approfondire aspetti, anche inediti, della vita artistica e privata di Toulouse-Lautrec, uno degli artisti più rappresentativi della Belle Époque. Per visitare la mostra avete tempo sino all’8 maggio 2016.

«Moulin Rouge / Moulin Rouge / Moulin Rouge. Concert Bal / Tous leis soirs/ La Goulue», così recitano i caratteri in rosso e nero che campeggiano in cima al grande manifesto verde acido. Al centro, c’è una donna avvolta in una nuvola bianca, la gonna, da cui spuntano gambe magre avvolte nelle calze nere. Poi l’ombra di un uomo con le mani che immaginiamo in movimento, la guarda.

È il 1891, la donna del manifesto si chiama Louise Weber, detta La Goulue, la “golosa”, e ha da poco inventato le mosse di un nuovo ballo che diventerà molto popolare in città, il can-can. Louise lavora al Moulin Rouge ed è una grande amica di colui che il manifesto lo ha disegnato e fatto stampare, Toulouse-Lautrec.

Toulouse, il cui nome completo è Conte Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa, è un artista di origine aristocratica. La sua famiglia è proprietaria di molti terreni e castelli a Sud del paese, tuttavia Lautrec a Parigi non è conosciuto per le sue proprietà. Tutti lo definiscono “l’anima di Montmartre”, riferendosi al quartiere ben poco aristocratico dove ha scelto di vivere molto vicino a quello – licenziosissimo – di Pigalle. Qui non c’è aristocrazia né casato che tengano. Sono il Moulin Rouge e i bordelli i luoghi dove Toulouse conosce ed è conosciuto. Dopotutto la sua presenza non passa inosservata: a quattordici anni, a causa di un pavimento mal incerato nel salone della sua casa familiare, Toulouse si è rotto il femore sinistro; a quindici, quando ancora zoppicava, l’altra gamba cadendo in un fosso. I suoi arti non sono mai guariti né più cresciuti per via di una malattia genetica e Toulouse lo (ri-)conoscono davvero tutti, anche di spalle, fuori dalle maisons closes o nei pressi del suo appartamento al 21 di Rue Fontaine: è alto appena 1 metro e 52 centimetri.

A dispetto della sua statura ridotta, egli possiede un’ispirazione maestosa e incontentabile: pittore, illustratore e litografo, conosciuto nella cerchia degli artisti più in vista, Manet, Degas, Van Gogh e Bernard, Toulouse con il suo blocco è prolifico e instancabile.

Nessuna modella da atelier, nessuna finzione: Lautrec ha occhi solo per protagoniste della vita notturna, le attrici e le prostitute di cui è spesso innamorato e da cui non è mai ricambiato. Ama quel mondo così tanto che a più riprese è proprio nei bordelli che decide di impiantare il proprio studio, prima nella casa chiusa di rue d’Amboise, poi in quella di rue de Moulins. Di quella parte di società di cui tutti ignorano gli affari prima del tramonto, Toulouse documenta con dovizia di particolari i gesti quotidiani e le mansioni domestiche; di quelle facce di cui egli agognerebbe i baci – ma di cui, quando non paga, deve accontentarsi dei sorrisi –, ritrae le espressioni, anche quelle meno aggraziate e la sessualità ambigua di chi, per professione è costretto dentro una camera per gran parte della giornata.

Della parabola decadente della Belle Époque, Toulouse è il punto più teso dell’arco. Le gonne, le gambe, le mani, i tic, le risate sgarbate, il legno del palco, il vino, il binocolo, i cappelli, le piume, gli sguardi, le luci e le ombre sono ora immortali e sotto gli occhi di tutti. Dietro l’angolo, dietro il sipario, c’era la Grande Guerra, ma nessuno poteva ancora saperlo. I personaggi ritratti da Lautrec, a guardarli oggi, ci immalinconiscono perché sono quel che rimane di un fasto scomposto e lontano, sono i partecipanti spensierati all’ultima delle feste, l’ultimo ingenuo boccone prima del digiuno. È la fine della Belle Époque e insieme anche la fine di Toulouse che, come per una fatidica combinazione, si spegnerà malato di sifilide appena un anno dopo l’entrata del mondo nel nuovo secolo. Appena in tempo per andarsene con in testa il motivetto di Galop infernal.

Chi gli sopravvisse, come Luise Weber, non ebbe la stessa fortuna: dopo aver perso un figlio e un marito in guerra, malata, visse gli ultimi anni in una piccola roulotte vendendo sigarette, fiammiferi e noccioline, in un angolo della strada adiacente al suo Moulin Rouge. Ricordando i tempi in cui era La Goulue, rimpiangendo la bella epoca di Toulouse-Lautrec.

 

Toulouse-Lautrec – La collezione del Museo di Belle Arti di Budapest

Spazio espositivo dell’Ara Pacis
Dal 4 dicembre 2015 all’8 maggio 2016

Per maggiori informazioni visitate il sito.