Ogni volta che I Cani pubblicano un singolo o un disco, è come un piccolo tsunami. È così sin dal 2011, quando Roma Nord (e non solo) fece i conti con i suoi (un po’ stereotipati) scheletri nell’armadio. Molto probabilmente sarà così anche in futuro. Già, perché sembra proprio che non vogliano fermarsi e quindi credo che tra due anni saremo di nuovo qui a parlarne. Nel frattempo, il 29 Gennaio è stato il turno di Aurora, terzo album di Niccolò Contessa e soci. Come sempre, un piccolo passo indietro è d’obbligo.
Il sorprendente album d’esordio de I Cani del 2011 era legato ai temi dell’adolescenza, delle paranoie, dei social network, il tutto ambientato sostanzialmente a Roma e in alcuni suoi quartieri simbolo. “Theme From The Cameretta” e “I Pariolini di 18 anni” lanciarono l’album verso un successo poco atteso, andando oltre il GRA, grazie anche alla cinematografica “Wes Anderson” e alla beffarda “Hipsteria”: la cura dei testi, le atmosfere lo-fi e i video perfetti. La furbata del sacchetto di carta ai concerti per nascondere l’identità, giustificata dalla paura del confronto con il pubblico, fu il tocco di classe. Nel 2014 è stato il turno di Glamour: con questo disco, se escludiamo un paio di brani, I Cani uscirono dalla Capitale: “Come Vera Nabokov”, “Storia di un artista” e “Corso Trieste” davvero notevoli, “Lexotan” e “Storia di un impiegato” sullo stesso livello o quasi. Nello stesso album compare inoltre un brano forse un po’ trascurato dalla maggioranza dei fan, “San Lorenzo”. Ed è proprio da questa canzone che Contessa riprende il suo viaggio creativo.
Aurora è un concentrato di antropologia, filosofia ed astronomia. Detto così potrebbe spaventare, in realtà questa non è nient’altro che una ricerca delle sfere più recondite dell’uomo contemporaneo. E detto così fa ancora più paura, quindi cerchiamo di entrare un po’ di più nell’essenza. Ricapitoliamo: da Roma al mondo, dal mondo all’universo, viaggiando tra costellazioni e non-luoghi. L’uomo viene messo al centro, ma se prima era una particolare categoria/personaggio ad essere messo in discussione, ora è l’uomo come essere vivente ad essere posto di fronte all’immensità dell’universo e alle galassie, facendolo sentire piccolo ed insensato, pieno di limiti ed insicurezze. Il tutto è condito dalla solita ironia e dalla malinconia di chi ci sa fare con le parole.
“Baby soldato”, “Il posto più freddo” e “Non finirà” sono i tre singoli pubblicati tra novembre e gennaio, accompagnati dai relativi video. Il primo ci descrive l‘assurda vita di una modella, tra sfilate, aeroporti e stress emotivo per una ragazza poco pronta a gestire quel mondo così spietato. Brano orecchiabile tipicamente synth-pop. Il secondo pezzo è tra i più originali di Aurora, anche grazie al video, girato su un tram romano. Contessa parla di droga e fragilità emotive con un’armonia unica, quasi disarmante. Il terzo, ‘Non finirà”, sembra brillare più per il ritmo funk e per il loop che per altro. Ma questo è solo l’inizio. Ad aprire troviamo “Questo Nostro Grande Amore”, visione ironica e spietata degli amori-social network, fatti di foto, post senza vergogna venduti in borsa, oppure al cinema o in cambio di improbabili investimenti di capitali. Il brano è stato anche scelto dai The Pills per il loro primo film Smetto quando voglio.
Nell’album, elementi come l’universo e le galassie si fondono e si distaccano allo stesso modo da tematiche più sentimentali ed emotive, diciamo terrene. L’abilità del cantautore si manifesta in maniera chiara con la title-track “Aurora”: un pacchetto digitale che viaggia tra satelliti e mari, qualcosa di freddo ora, al contrario, diventa tecno-romantico. Nonostante ciò, l’album si conclude con due brani piuttosto cupi e bui dominati da un certo silenzio, legato alla morte e alla fine del mondo. D’altronde “Finirà” e “Sparire” parlano in maniera diversa della stessa tematica, la fine del tutto, partendo dal cosmo fino alla guerra.
Tre sono i brani trainanti, quelli che rappresentano al meglio Aurora. Il primo è sicuramente “Protobodhisattva”. Tra buddismo e uomo/spazio, è la canzone più antropologica dell’album. L’uomo come animale che sceglie, come nutrirsi, come fare sesso, come alterare le sue emozioni. Il secondo è “Una cosa stupida”, poco complesso e piuttosto diretto a scandagliare nella fragilità emotiva di chi si è perso di vista e non sa come comportarsi. Infine, “Calabi-Yau” e l’ennesimo viaggio interstellare tra uomo e i pianeti.
Aurora è questo. Una visione ampia del cosmo partendo dall’uomo, dalle sue pretese e dalle sue incertezze, senza trascurare le ansie e le fragilità di chi è emotivamente non preparato ad affrontare un certo tipo di relazioni con chi gli sta attorno, figuriamoci con l’universo. Contessa si conferma molto bravo nello sviluppo di testi complessi, un acuto osservatore della realtà circostante, un narratore di temi più o meno malinconici come la sofferenza, la fine e l’inadeguatezza dell’essere umano. I limiti della post-adolescenza diventano ora quelli dell’uomo, messo a nudo di fronte al tutto. Con questo album si chiude un ciclo, sarà ora difficile fare di meglio.
Storie assassine,di Bernard Quiriny (L’Orma Editore, 2015), è un titolo che fa da contenitore a una raccolta di ventuno racconti in cui i protagonisti sono oggetti parlanti o pazienti con strane patologie, scheletri che scrivono diari di bordo in alto mare o antropologi intenti a studiare usi e costumi di popoli lontani alquanto bizzarri, ma anche luminari, critici e scrittori che si punzecchiano a colpi di antipatiche rettifiche sulle pagine dei giornali.
Quiriny ha messo insieme questa nuova serie di racconti in seguito alla precedente nonché fortunata La biblioteca di Gould che lo ha reso piuttosto conosciuto anche nel nostro paese e grazie alla quale ha vinto il premio Salerno Libro d’Europa; le sue doti migliori sono senza dubbio la fantasia e la chiarezza nella scrittura ma anche la capacità di intrattenere il lettore accrescendo di volta in volta curiosità e inquietudine, caratteristica che secondo alcuni rassomiglierebbe Quiriny ai grandi Borges e Edgar Allan Poe.
Bisogna ammettere che qualche piccola somiglianza c’è se consideriamo il carattere fantastico di alcuni passaggi o gli elementi macabri di altri (la più grande similitudine con Poe a mio parere si trova nel racconto l’occhio di pavone)ma a identificare Quiriny come un buon narratore è sopratutto la facilità con cui l’autore crea tanti racconti diversi, riuscendo al contempo a raggrupparne alcuni in cicli e a creare dunque una connessione narrativa (Il Giro d’Amazzonia, Rettifiche, I pazienti del dottor Hampstadt) e il suo spiccato senso dell’humour, talvolta nero, che strizza l’occhio ai grandi temi della vita tra cui in particolar modo la morte e il sesso.
La riflessione di Quiriny prende spesso forma di paradosso abbracciando il mondo del surreale, dell’assurdo: gli amanti che si ‘‘azzurrano’’ dopo aver fatto l’amore e la tribù dei Bekamì che al solo pensiero dell’accoppiamento ridono senza freni sono esempi di reazioni umane di fronte a qualcosa di naturale come il sesso, che necessita nonostante tutto di essere esorcizzato con la risata o crea imbarazzo costringendo gli amanti azzurri a nascondersi per sottrarsi ai giudizi altrui.
Molto interessante è il ciclo di I pazienti del dottor Hampstadt, in cui è particolarmente chiaro l’intento dell’autore di rovesciare la norme che regolano la realtà distorcendo la concezione di spazio e tempo; ecco dunque la donna che perdendo il senso dell’orientamento e della distanza impara a camminare all’indietro o l’uomo incapace di distinguere i minuti dalle ore, vivendo così un’esistenza in cui gran parte delle azioni quotidiane diventano una sfida.
Con la serie il giro d’Amazzonia ci vengono illustrate le usanze di alcune tribù per guidarci in una sorta di riflessione su quanto sia noiosa e priva di aspettative la vita dei popoli civilizzati, impegnati a correre senza tregua da una parte all’altra schiavi del lavoro e della realizzazione personale. Nella foresta amazzonica vive un’affascinante tribù i cui membri rinascono ogni giorno, dimenticando ogni mattina la giornata precedente e le persone che hanno conosciuto ma anche mogli, figli, il proprio ruolo sociale, in modo da poter scegliere ogni cosa daccapo, ogni giorno. Un’altra popolazione invece si cava gli occhi in giovane età imparando a ‘‘guardare’’ con gli altri sensi, impartendo una lezione significativa al mondo moderno; come scrive l’antropologo nel suo diario: «In fondo la loro follia è estremamente lucida; hanno capito tutto dell’assurdità del mondo. Sanno che il vero filosofo guarda innanzitutto dentro se stesso, e che gli occhi servono agli uomini soltanto per piangere».
Sebbene i cicli rappresentino i racconti più interessanti, ce ne sono altri autoconclusivi altrettanto efficaci, nonostante in alcuni casi il finale risulti un po’ scontato: è proprio in questi racconti slegati tra loro che l’autore crea le situazioni più improbabili affidando le redini della storia a personaggi talvolta ambigui e dalla personalità instabile, che stanno lì a prendersi gioco sottilmente delle ossessioni e delle paure umane di cui tutti siamo vittime.
La scelta dei racconti può essere un’arma a doppio taglio sia per lo scrittore che per il lettore; se da una parte permettono di spaziare dall’altra rischiano di lasciare un senso di incompletezza o risultare banali come ne la parola agli oggetti, dove a parlare sono un letto, una bara, una penna; il racconto si risolve in un paio di righe scontate in cui manca una vera e proria narrazione e un guizzo geniale, limitandosi a fornire il resoconto in maniera piuttosto banale del pensiero di oggetti che usiamo quotidianamente.
Nel complesso comunque la raccolta funziona grazie alla sua leggerezza. Non è una lettura che vuole sollecitare riflessioni profonde o insegnare qualcosa a tutti i costi, piuttosto ci invita a inclinare la testa ogni tanto e offrire agli occhi un altro punto di vista.
L’incredibile successo di pubblico di Perfetti sconosciuti, la commedia corale diretta da Paolo Genovese distribuita nelle sale da Medusa ormai un mese fa, è una cosa che si vede sempre più di rado nel cinema italiano. A parte il fenomeno Checco Zalone, che impone record irraggiungibili se non da se stesso, sono anni che non ci si trovava di fronte a un film italiano ai primi posti del box office per un periodo così prolungato. Un film italiano, per di più, capace di mettere insieme il consenso del pubblico e quello della critica. Una cosa incredibile.
Quando abbiamo visto il film a inizio febbraio, qui avevamo ritenuto che non fosse necessario parlarne. Non che il film non ci fosse piaciuto, anzi, ma sbagliando completamente la previsione avevamo immaginato che l’attenzione del pubblico sarebbe stata catalizzata quasi completamente dai film candidati ai vari premi Oscar in uscita in quei giorni e che un film come Perfetti sconosciuti avrebbe avuto la classica vita breve riservata ai film italiani, sia che abbiano successo o meno: se ne parla per un po’ al momento dell’uscita, durano in sala al massimo due settimane, e poi spariscono in attesa del passaggio televisivo.
Questo perché a essere obiettivi, il film di Paolo Genovese sembrava avere tutte le caratteristiche per fare la stessa fine di una commedia tra tante altre. Prima di tutto perché il regista stesso non è che sia proprio questo autore garanzia di qualità. Nella carriera di Paolo Genovese non sono mancati i successi commerciali e le buone idee, ma ha sempre prevalso un’impostazione più vicina al prodotto televisivo e alla prevedibilità che alla vera e propria intuizione cinematografica, e gli ultimi due lavori, Tutta colpa di Freude soprattutto Sei mai stata sulla Luna?, non avevano fatto altro che confermare i difetti del suo cinema.
C’è da dire, poi, che Perfetti sconosciuti andava a infilarsi già al momento dell’uscita in un filone cinematografico perfettamente riconoscibile e fin troppo sfruttato nell’ultimo anno, ossia il film in ambiente unico in cui un gruppo di attori si confronta su un tema forte per una durata di tempo limitata, tipo una cena, o una notte. C’era già stato Il nome del figliodi Francesca Archibugi, era passato da poco, e nell’indifferenza dei più, Dobbiamo parlaredi Sergio Rubini, e il film di Genovese arrivava come ennesima variazione dello stesso copione.
Qui abbiamo tre coppie di amici, più un non accompagnato, che si riuniscono per cenare insieme e osservare l’eclissi totale di luna prevista per quella sera. Mentre mangiano e bevono, alla padrona di casa viene in mente di fare un gioco: ognuno degli ospiti dovrà condividere con gli altri tutte le telefonate e i messaggi che arriveranno sui cellulari nel corso della serata. Ovviamente l’idea si trasformerà in fretta in un massacro reciproco, con verità rivelate, sicurezze infrante e tutto il repertorio.
Se si può riconoscere l’originalità dell’idea di partenza, non si può negare comunque che di fatto non è nient’altro che la variazione del tema già stravisto nell’ultimo anno, cioè la messa alla berlina dell’ipocrisia della vita borghese di oggi e cose del genere. La differenza rispetto al resto, però, Perfetti sconosciuti la fa puntando su quelli che sono gli abituali punti di forza del cinema di questo tipo, da Carnage di Roman Polanski in poi, cioè la qualità della scrittura e la bravura degli interpreti.
Facendosi affiancare in sceneggiatura da Rolando Ravello (anche attore e regista), Paolo Costella (anche regista) e Filippo Bologna (anche scrittore), Genovese è riuscito ad aggirare molti dei limiti della commedia italiana di oggi, di cui è uno degli esponenti più quotati. Da un lato, infatti, in Perfetti sconosciuti mancano tutte quelle trappole tipiche della commedia più popolare, ossia il ritratto di una società senza imperfezioni, in cui tutti sono moderatamente benestanti, moderatamente belli e senza alcun tipo di problema reale, concreto. Sono quelle commedie in cui i protagonisti vivono in appartamenti perfetti, vestono bene, di solito sono medici, avvocati, pubblicitari, e così via. Dall’altra parte, i quattro sceneggiatori sono riusciti a evitare la gabbia della commedia intellettuale, in cui i protagonisti, sempre di una qualche levatura artistica, si pongono al di fuori della società per discutere di concetti altri. I sette protagonisti di Perfetti sconosciuti sono persone normali, con lavori normali e problemi normali. La dimensione sociale esiste, ma non viene messa di forza in primo piano, per fare vedere che si ragiona sul Paese a tutti i costi. Passa sullo sfondo, si intuisce dai dialoghi. Sembra poco, ma è una rarità autentica nel cinema d’oggi, in cui il ceto medio è praticamente estinto ed esistono solo le situazioni problematiche o il benessere.
Sulla base di un copione solido trovano modo di esprimersi al meglio i sette protagonisti. Campioni ormai consolidati del botteghino come Marco Giallini ed Edoardo Leo vengono affiancati da due outsider come Valerio Mastandrea e Giuseppe Battiston, che forniscono il contributo maggiore proprio per il loro essere estranei al cinema più popolare. Sul versante femminile, Kasia Smutniak, Anna Foglietta e Alba Rohrwacher si misurano con personaggi per una volta non bidimensionali e soprattutto non vicini alle loro consuete interpretazioni. Nel gruppo di attori a prevalere è soprattutto la spontaneità, la recitazione libera, la sintonia.
Forse è la qualità l’ingrediente segreto che sta garantendo a Perfetti sconosciuti una vita – cinematografica – superiore alle attese. Medusa aveva garantito una distribuzione iniziale solida in circa cinquecento copie, il resto lo sta facendo il passaparola degli spettatori. Dopo un avvio di 2016 che ha visto il nuovo trionfo di Checco Zalone con Quo vado?, accompagnato questa volta anche dal consenso unanime della critica che si è affollata a spiegare al pubblico, che non legge gli articoli dei critici, perché tutti andassero a vedere il film, il successo del film di Genovese sembra gettare una speranza luminosa sul futuro del cinema italiano. Sarebbe bello se esplodesse al botteghino anche Lo chiamavano Jeeg Robot, speriamo che il passaparola faccia il suo dovere.
(Perfetti sconosciuti, di Paolo Genovese, 2016, commedia, 97’)
Fervore, di Emanuele Tonon (Mondadori, 2016), si può leggere in molti modi, come l’Essere, sosteneva Aristotele, «si dice in molti modi». Non sono mancate e non mancheranno reazioni diverse a questo romanzo, e spero che si continui ad analizzare Fervore perché dà un piacere vero al cuore sapere e vedere che si pubblicano ancora romanzi veri e che a pubblicarli sono anche grandi case editrici.
Torniamo a Fervore e ai pensieri che il libro produce. Il romanzo parla di un’esperienza religiosa, di un ragazzo di vent’anni senza nome, di un io narrante che prende le distanze dal “tu” che sembra essere una proiezione dell’io e una sua ectoplasmatica creazione. Poi ci sono i “noi” che sono i novizi e per espansione tutti i frati francescani. In alcune parti troviamo pure i “voi” che, insieme al “tu”, mostrano una presa di distanza che a volte emerge e a volte invece resta sommersa e, chissà, neppure c’è.
La religione si coniuga con una giovinezza acerba dei novizi che sono descritti dal momento in cui giungono nel convento di Renacavata e poi seguiti nei loro incerti passi verso l’iniziazione ai voti.
I novizi sono ingenui, confusionari, impacciati. Mescolano, senza cognizione, l’amore sacro e quello profano, dormono assillati dai piaceri della carne che insinuano le loro nervature nei piaceri dello spirito. Sono entusiasti perché ignoranti. Sono allegri perché inconsapevoli. La loro esuberanza e il loro sangue caldo esplodono pur nei luoghi tetri e oscuri del convento. I novizi spesso sono paragonati ad animali di vario tipo (pesci, girini, foche, batteri, balene, anguille, serpenti, canarini, capodogli, fringuelli, scimmie) quasi fossero fatti della pasta grossa di bestie ingorde e ottuse.
Se l’intera narrazione si svolge al passato e l’occhio del narratore mostra, già con l’uso dei tempi verbali (il terribile e chiuso passato remoto) che l’età presente è radicalmente diversa, però resta una eco profondissima di nostalgia, e di una giovinezza lieta e, soprattutto, di una vita (la vita claustrale) che era il Giardino, che era l’Eden prima del peccato originale, che era la fede in un uomo e in un mondo nuovi perché ricreati dalla forza divina.
«Né maschi né femmine eravamo, in quella sacra rappresentazione. E maschi e femmine eravamo, allo stesso tempo. Eravamo quella carne che tendeva all’unità, all’inseparato, all’uno. E potevamo fingere di essere in quell’unità vestendoci da donne barbute per quel poco tempo che era concesso dall’innocente Carnevale del convento […] Nel Giardino l’uomo e la donna erano nudi senza vergogna, erano una cosa sola. Volevamo solo tornare indietro, ritornare nell’utero, nel Giardino a mangiare i frutti, nudi, felici come i feti soli sanno essere». Questa citazione (si riferisce a un carnevale festeggiato nel convento con i novizi che si travestono da ragazze) rivela come il Giardino sia un ritorno all’utero materno, a quella condizione protetta in cui il bambino non ancora nato vive in una specie di simbiosi col tutto.
Il Genesi dice: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”». Il primo uomo (androgino) vive indifferenziato ed è capace già di procreare. Così vivono i novizi? Il loro amore è così puro, nel Giardino, da far dire all’io narrante: «Di quegli anni pieni di fervore, solo questo, veramente, ti resta: quella carità, quel limpido amore».
Il fervore del titolo è il fervore che accompagna i novizi che, pur sempre nel gelo e nel freddo, hanno questo calore interno: «Sul mondo scendeva l’inverno, ma il gelo non poteva intaccare il nostro fervore».
Ci sono il freddo fuori e il calore dentro. C’è il vento che fin dal primo capitolo (il bellissimo “Dossologia del vento”) si insinua attraverso crepe e fessure ed entra nella tonaca per risalire lungo il corpo nudo. È il vento dello spirito, lo πνεῦμα, l’anima, che nella sua etimologia rimanda all’ἄνεμοςgreco. Lo Spirito Santo come fiamma si mostrò ai discepoli dopo la morte di Gesù e, nella Pentecoste, produsse il miracolo delle lingue, quella glossolalia di cui Tonon parla e che caratterizza ancor più i novizi come nuovi bambini, neonati che usano un linguaggio incomprensibile perché divino.
I novizi, che sono, in qualche modo, stupidi nel loro candore, hanno la stupidità e la spensieratezza infantile dei poveri in spirito. Non conoscono il bene e il male. non hanno mangiato della mela di Lucifero tentatore. Si può cogliere una diretta associazione col film di Pasolini Uccellacci e uccellini, con l’episodio che racconta dei due frati (Totò e Ninetto Davoli) che vanno a parlare con gli uccelli, con i passeri e con i falchi, tentando di evangelizzarli. I novizi di Tonon conservano la stessa gioia onnipotente che non fa arretrare davanti all’impossibile perché l’impossibile non esiste. Il gioco si contrappone alla serietà della vita e ne prende il posto.
I ragazzi del convento di Renacavata possono avere tutti i difetti che derivano dalla loro purezza un po’ animalesca e semplificatrice. Ma non hanno assolutamente alcun cinismo, alcun tornaconto personale, alcuna doppiezza. Credono con una forza cieca e adamantina. Credono.
Tonon in Fervore fa trasparire la nostalgia di una fede e di un’età della vita in cui la speranza era reale. La dimensione sacra, una volta persa e di proposito distrutta e amputata quasi fosse un tumore maligno, diviene nostalgia pura, e diviene pena e punizione che rendono inabile all’esistenza chi ha sperimentato il tempo eroico dell’assoluto e del trascendente.
Non a caso il romanzo si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni: «Io ho loro data la tua parola, e il mondo li ha odiati, perciocché non son del mondo, siccome io non son del mondo. Io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li guardi dal maligno. Essi non son del mondo, siccome io non son del mondo».
La condanna, per chi abbandona il terribile cerchio del numen, è l’incapacità sostanziale a trovare un nuovo modo di adattarsi ai nessi di vita che sono divenuti meccanismi senza senso.
La sofferenza che si respira leggendo Fervore, è, a mio avviso, originata dalla nostalgia che significa dolore per il ritorno o dolore perché si vuole tornare (νόστος, ritorno + Ἄλγος, dolore). La nostalgia di Fervore non prevede ritorno. È destinata a permanere. La patria abbandonata è, come sostenevano gli gnostici, il luogo primigenio da cui l’uomo deriva, cioè Dio, ma, in Tonon, Dio è «un Dio che avevamo preso l’abitudine di inventarci», è il «nostro Dio immaginato». Non c’è, è un prodotto dell’uomo, è una droga che ricorda l’oppio dei popoli di marxiana memoria: «Tu ci avevi creduto. Avevi creduto fosse possibile far crescere la tua carne con la sola forza di volontà, col sacrificio, tirando su tonnellate di ghisa, massacrandoti di ripetizioni […] Credevi che bastasse la tua volontà, la tua fatica, il tuo orgoglio, il tuo coraggio. Poi ti sei accorto che i tuoi muscoli intostavano e seccavano, che ti si prosciugava la carne, che Dio era in realtà contenuto in un flacone, in due flaconi, che le siringhe aprivano la strada per il Regno dei cieli».
Era stato impossibile ingrossare i muscoli a forza di esercizi. Per i grossi muscoli servono steroidi e Dio è come uno steroide che ti pompi nelle vene e ti dà la santità o forse la felicità.
Non ci sarà nessun ritorno. Restano la nostalgia e la consapevolezza che una volta usciti dal Giardino «li avresti veduti morire ad uno ad uno, come animali in estinzione, i frati della fatica, quelli che avevano permesso per secoli ai conventi di esistere».
La gabbia in cui sta il canarino è prigione e protezione. Chi ne uscirà è destinato a morire e chi non ne uscirà è destinato a vivere schiavo e recluso. Infelice in un modo, infelice nell’altro modo.
È l’ambientazione il punto di forza di La copia infedele, settimo titolo della collana B-Polar di 66hand2nd dedicata al noir e romanzo d’esordio di Stefano Trinchero, classe 1979 da Vercelli. Un’ambientazione che pone una Torino a un passo dalla rovina al centro di una trama di truffe assicurative, fallimenti umani e vari gradi di solitudini.
Guido Riberto è un giornalista sportivo che ha perso da molto tempo lo stimolo e la voglia per far bene il suo lavoro. Beve più di quello che dovrebbe quando non dovrebbe, risponde male al capo, litiga con i colleghi. Nel suo angolo di disincantata sicurezza ha il compito di seguire la Lungodoriana (non esiste nella realtà), la terza squadra calcistica di Torino che galleggia in Prima Divisione, lontana anni luce dalle glorie e dai trionfi delle sue concittadine. La misteriosa morte di Gonzalo Malagutti, il talentuoso e svogliato centravanti argentino della squadra, costringe Riberto a trasformare la sua routine di pagelle e cronache della domenica in un’indagine da giornalista di nera. Forse non si tratta solo di un semplice incidente.
«Uno cammina alle quattro di notte in una strada buia, attraversa un incrocio senza guardare e una macchina lo investe. Batte la testa e finisce in rianimazione. La macchina scappa. Fine della notizia». Questo è quello che sembra a Riberto. Eppure, in quella traversa deserta di via Vercelli in cui Malagutti è stato tirato sotto da una macchina, sembra essere successo qualcosa di più. Niente è quello che sembra al primo sguardo.
Riberto stesso si ritrova a fare un mestiere che non è il suo. Non è un investigatore. Non è neanche un cronista di nera, è una «penna pagata per scrivere i risultati delle partite, mica per dare la caccia alle macchine pirata». È proprio nell’indagine, però, che ritrova un gusto ormai perso per la ricerca delle notizie, per un lavoro sulla strada, la consapevolezza di poter essere un se stesso diverso da quella versione cinica e spenta che è diventato con gli anni.
Al suo primo romanzo, Stefano Trinchero è riuscito a creare una storia tesa e carica di una malinconia inquinata di disperazione, in cui continua a risuonare, però, tra le righe un’ironia carica di disillusione.
Il suo è un noir senza polizia, che punta forte sull’ambiente e sui suoi riflessi sui personaggi. Torino, in una veste decadente, di fabbriche chiuse, di periferie, di verità nascoste, è personaggio tra i personaggi. Sulle strade della città si muovono uomini senza un futuro, varie forme di rassegnata disperazione, di miseria. Riberto non è solo, con la sua bottiglia. Con lui ci sono l’ispettore assicurativo Dominici, carico di una consapevolezza metafisica che ne aumenta ancora di più il senso di solitudine, il collega burbero Pasquotto, calciatori falliti, medici pronti a falsificare reperti. Nessuno è realizzato, ognuno è la copia infedele della vita che immaginava di avere. E poi ci sono i misteri e l’ipocrisia dell’alta società torinese, che nasconde e protegge i propri figli, anche quelli ripudiati, in nome di un potere insolente e viziato.
Una menzione speciale merita la splendida copertina in bianco e nero di Gianluigi Toccafondo che introduce, prima ancora di aprire il libro, le atmosfere livide e suburbane in cui si perdono le vite di Malaguti, Riberto e Dominici.
(Stefano Trinchero, La copia infedele, 66thand2dn, 2016, pp. 202, euro 17)
La neve non è bianca. Non è sempre e soltanto la pastosa cornice di latte in cui inabissare gli sci o inscatolare il Natale. S’infanga, si sgretola, si squarcia all’improvviso, come i polsi ormai stanchi. E soprattutto, spanne e scalate più in là delle foto di gruppo a bordo pista, la neve isola. È distanza condensata, polvere e ghiaia di ghiaccio. Il rifugio trapuntato per chi schiva l’orrore, come Mario Rigoni Stern impantanato nelle steppe di Russia o per chi cerca il respiro degli alberi, come fa Mauro Corona nei suoi frammenti di vita montana.
Questa è una storia di freddo. E di solitudine. L’ha scritta Claudio Morandini nel romanzo Neve, cane, piede (Exòrma, 2015). È sgorgata di getto, da una domenica ruvida e alpina, un incontro su un sentiero condito da pioggia di pigne e qualche sasso. Così è stato accolto l’autore da un vecchio spuntato da una conca: gambe larghe e pietre in mano. Perché ci sono uomini per cui gli altri sono un ingombro. Abitatori scelti di posti inospitali, avvezzi solo al peso della propria ombra. Questo maschio avvizzito con un cane lercio accanto gli pare quasi una visione.
Nessuno, nei fondali della valle, nella fungaia affollata chiamata paese, sa davvero di lui. Chi sia, se sia, come trascini i suoi giorni, è un grappolo d’ipotesi in apnea.
Così, dal calco scostante di questo sconosciuto, affiora il suo protagonista. Adelmo Farandola. Nome e cognome perpetuati in ogni pagina, come una litania. Inscindibili, impensabili lontani.
È anziano e rintanato, nel suo scudo di rocce, dove la natura non è incline a sorridere. Gli appartiene tutto in quella vallata deserta: la stalla spampanata, le mucche scomparse, i muschi nel vento.
E soprattutto il silenzio. Per questo non vuole intaccarlo. Per questo ogni avventore, ogni sporadico turista sbucato come un verme troppo audace, va caldamente esortato alla fuga. Il distacco lo scherma, lo ammanta fino all’orlo di un’igiene inesistente. Così, per chi oltrepassi il gelo, la terra brulla e infastidita, si erge ancora più feroce la barriera del sudicio. Una geniale impalcatura di odori muffati e croste imperiali.
«Da molti mesi Adelmo Farandola non si lava, e lascia che il tanfo gli crei attorno un’aura di calore. […] Un piacevole strato colloso viene a formarsi su di lui, mese dopo mese, uniforme,di cui si accorge solo a momenti, quando il prurito lo ridesta da un imbambolamento e lo costringe a piegarsi e contorcersi per arrivare al punto su cui grattare. Che importa se la gente lo tiene alla lontana, o spalanca le porte quando passa lui, o si porta le mani alla bocca per non respirare? Anzi, meglio così, non c’è da fidarsi della gente che si profuma e si pettina […], che finge di non puzzare».
La neve gli somiglia, non s’imbelletta mai e piomba al suolo per quello che è. Così, quando in quella campana di eremitaggio così tondo si affaccia un cane, il cane, innominato, unico immaginabile quadrupede nel raggio assolato di quel riparo, il vecchio è sconvolto.
Un cane che parla, esattamente come lui, che perfora quella lastra di mutismo e che gli chiede il necessario, l’impossibile: una manciata di avanzi e d’affetto. È l’alter ego temuto e Adelmo Farandola scalcia, non lo vorrebbe. Perché ne ha troppo bisogno, perché assegnare a qualcuno il potere di lasciarci significa armare la nostra condanna. Smantellare i bastioni di ogni certezza. L’altro che può amarti minaccia più di un dirupo. Eppure, suo malgrado, il cane resta e avvia col suo compagno spigoloso una serie di dialoghi spassosi. Concreti e surreali.
Adelmo Farandola non è più solo, ha qualcuno da aspettare, qualcuno che però gli ricorda che la sua mente non ricorda più così bene. Sì, perché nella sua testa le immagini si accalcano, si pestano e si scacciano come sciami appuntiti.
Adelmo Farandola non sa cosa ha fatto, se l’ha già fatto o solo pensato e il cane è disorientato quanto lui. È la voce del suo smarrimento, quello che prima poteva omettere o sommergere sotto tutta la sua neve. Di culla e d’oblio. E in questo convoglio di eventi indistinti, germoglia un piede, un fiore decomposto di carne. L’iceberg putrefatto di un cervello alla deriva. Chi è, a quale faccia è appartenuto, Adelmo Farandola non sa. Scava fuori e dentro, perché lì, al centro solitario della sua foschia, c’è il crepaccio più vorace.
Scrittura profonda, che naviga il grottesco, l’ironico, il drammatico. Aspra e brillante. Dura come le ore che descrive. Come i racconti sui ghiacci di Christoph Ransmayr o i romanzi montani di Charles-Ferdinand Ramuz, a cui è apertamente ispirato. Morandini sa, che la natura schiaffeggia, che è arida e matrigna, come qualcuno c’insegnò. Che la neve è nera e che il rifugio di alcuni, il rifiuto ostinato del mondo che brulica, non ha niente di bucolico. Niente di morbido. Che a volte è solo una tomba. Una bolla sotto zero che a noi, impegnati a sgomitare a livello del mare, li fa sembrare una favola scura.
Raccontare è necessario, come lo è ricordare e dare forma alle storie del passato. Il testo di Anna Maini, con la regia di Stefano De Luca, ridà vita alla memoria storica attraverso la narrazione affidata a due voci situate ai due lati di un confine che al contempo le divide e le avvicina.
Con Per una stella, ispirato a una storia vera, il ricordo della prima guerra mondiale torna a essere nitido, azzerando i cento anni che ci separano dal conflitto e regalandoci stralci di una storia lontana eppure incredibilmente attuale. Un racconto che parla di confini e distanze, ma anche dell’amore e della sua forza capace di trascendere ogni difficoltà.
«Il confine è una cosa che non si vede ma c’è. Non l’ha inventato Dio, l’hanno inventato gli uomini». Confini che prendono forma, diventano visibili, invalicabili, simbolici, teatro di orrori e di morte. Confini che l’uomo si ostina a costruire, un pezzo dopo l’altro, come la scenografia che gli attori smontano e ricompongono quasi senza sosta, in un quadro narrativo fatto di pezzi intecambiabili che in qualunque ordine daranno sempre lo stesso, drammatico risultato.
Due attori in scena, due voci separate da un confine, lontane eppure disperatamente bisognose di incontrarsi, due protagonisti il cui sguardo è costantemente illuminato dalla speranza. Un musicista italiano che si arruola volontario nell’esercito per seguire le orme del fratello e una bambina che attende il ritorno del padre, che prima di partire per il fronte le ha promesso di portarle in regalo una stella alpina. Sarà proprio questa stella il filo conduttore che unirà i protagonisti, i quali, inconsapevoli della loro vicinanza, intrecciano le loro esistenze parallele che trovano lentamente, nel corso della narrazione, un sentiero comune.
La rilettura della guerra dal punto di vista di una bambina, le descrizioni quasi fiabesche e l’innocenza sono in netto contrasto con l’atmosfera cupa e la freddezza che avvolge ogni elemento, e la naturalezza con cui la protagonista si muove al suo interno è disarmante. «Quando finisce la guerra? Finirà per il mio compleanno? La mamma dice di no».
Un racconto delicato, toccante, diretto. Poche forme d’arte possono raccontare la Storia meglio del teatro, e Per una stella lo fa con grande semplicità, portandoci a riflettere ancora una volta sul concetto di identità e di confine.
Per una stella fa parte di un più ampio progetto realizzato da ArteVOX Teatro di Milano finalizzato alla valorizzazione della memoria della prima guerra mondiale e dedicato in particolare alle nuove generazioni. Lo spettacolo è accompagnato da una mostra di dipinti sull’“Iconografia emotiva della Grande Guerra”, realizzati da Rossana Maggi e ispirati a cinque celebri opere che rappresentano questa tematica.
Per una stella
testo Anna Maini
regia Stefano De Luca
progetto di Marta Galli, Anna Maini e Roberto Rampi
con Tommaso Banfi e Marta Comerio
Ci sono molti album che, una volta cresciuti, abbiamo bollato come schifezze e che abbiamo detestato. Album che per brevi o lunghi periodi hanno avuto così tanto successo da farci imparare a memoria molte canzoni che li componevano. Le canticchiavamo e le fischiettavamo senza volerlo. Album che fanno parte di un nostro tipo ti passato che comunque ci appartiene. Quando passavamo giorni interi davanti a MTV. Giorni carichi di nostalgia che oggi, forse, ci sembrano migliori. Per questo motivo, noi della redazione di Musica, abbiamo deciso di dedicare un po’ di spazio a tutti quegli album con cui in qualche modo abbiamo fatto i conti, riascoltandoli e cercando di capire cosa ci hanno lasciato in tutti questi anni. Quindi non potevamo non iniziare con …Squèrez dei Lùnapop la nostra nuova rubrica UnGiornoMigliore.
Non ha importanza se l’unico ad esserne uscito alla grande è Cesare Cremonini, che Ballo sia stato un po’ quello che per Max Pezzali è stato Mauro Repetto – biondi, sguardo nordico e leggermente alienato, sempre in secondo piano – o che gli altri tre siano sempre stati gli altri tre e che a un certo punto, nel 2009, sono risbucati fuori con un gruppo, i Liberpool, e un album non proprio indimenticabile, LP. No, non importa niente di tutto questo: quello che importa è tornare indietro di diversi anni, attraversare quasi un ventennio di musica e fermarsi a Bologna dove, dalle ceneri dei Senza Filtro (la passione per l’immagine e del suo significato della sigaretta ha avuto sin dalle origini, quindi, una forte valenza nella loro estetica artistica «Riscaldati dal calore di una Benson and Hedges» ricorda nulla? Nella scelta del nome del gruppo anche con il significato di essere naturali, senza inibizioni, di fondo parecchio sfacciati, come poi appariranno realmente, o vorranno apparire), dopo vari cambi di formazione, nascono i Lùnapop, cinque ragazzi che devono ancora diplomarsi e che nel 1999 vengono notati da una piccola etichetta romana – già aveva tra le proprie fila il Piotta –, la Universo.
È il 27 Maggio dello stesso anno. L’Italia e gli italiani non sanno che da lì a poco saranno testimoni del bombardamento di un brano che entrerà a far parte trasversalmente della coscienza nazionale: esce infatti il singolo “50 Special”, che si diffonderà a macchia d’olio in tutto il Paese come solo i grandi tormentoni riescono a fare. Si diffonderà senza la presenza di alcun social network, addirittura non esisteva ancora MySpace, e questo renderà questo fenomeno ancora più interessante da capire.
Quell’estate sarà impossibile ordinare un cremino allo stabilimento senza sentir rimbombare da qualche cassa quell’accento bolognese che parla di problemi adolescenziali e post adolescenziali, o immaginare quel ragazzo con i capelli biondo platino sulla vespa mentre faremo la spesa al supermercato, mentre guideremo cercando parcheggio, durane una festa in spiaggia, mangiando una pizza al ristorante. In quel 27 Maggio nasceva ufficialmente una delle più brevi e splendenti carriere di un gruppo italiano. Quel 27 Maggio nasceva qualcosa che si sarebbe incollato, con o senza il nostro permesso, per sempre ai nostri ricordi.
L’estate del 1999 finisce, siamo in pieno autunno. Forti del successo di “50 Special”, i Lùnapop escono con il loro primo album: …Squérez?, un lavoro di 12 tracce di cui sei, oggi, sono canzoni che più o meno tutti conosciamo, sia che li abbiamo amati veramente (scorrendo i commenti su YouTube dei vari video tratti da …Squérez?, oggi, possiamo trovare commenti di gente che li annovera come tra i più grandi gruppi italiani di sempre) o che, invece, li abbiamo detestati. Anche se all’epoca, magari, uscirsene con il TheBlack Album dei Metallica o con qualche disco dei R.E.M poteva darci l’impressione – e magari era anche vero – di essere emancipati da un certo tipo di musica (un certo mai quantificato razionalmente, ma che da qualche parte sappiamo di quale materia sia composto), i Lùnapop stavano gettando in un brevissimo lasso di tempo le basi di qualche cosa che avrebbe scalfito anche inconsciamente un’epoca culturale e musicale. E questo è, da qualsiasi punto lo si voglia vedere, un grande pregio.
…Squérez? Parte con i tre brani che maggiormente lo rappresentano, se non esclusivamente per tematiche, almeno per riconoscibilità. I tre monoliti della produzione artistica dei Lùnapop: “Qualcosa di grande”, “Un giorno migliore” e la già citata “50 Special”.
Per capire la portata del successo, con “Qualcosa di grande” i Lùnapop vincono l’edizione del 2000 del Festivalbar. Nel video, Cremonini è una presenza inquietante: non ha più i capelli biondo-platino con cui lo avevamo lasciato mentre andava in giro per i colli bolognesi, ora li ha rossi, e sbuca in continuazione nella vita della sua ex ragazza. Il testo e il video danno vita a una doppia possibile interpretazione di ciò che è il messaggio della canzone. È la ragazza che dopo la rottura non riesce a scordarlo, immaginando di trovarselo ovunque – a scuola, facendo shopping, al cinema (in un interessante momento metanarrativo, i protagonisti del film che la ragazza sta guardando sono proprio loro due; il pubblico ride fino alle lacrime durante un primo piano di Cremonini che, a un certo punto, esce fisicamente dallo schermo, bucandolo) –, quasi con un senso di colpa immenso, oppure è lui che non riesce a darsi pace, a farsi una ragione della fine della loro storia, e come un fantasma la perseguita superando di gran lunga i limiti dello stalking? Queste parole, intrise di un machismo che compare spesso nell’album, lascerebbero pochi dubbi: «Cos’è successo la tua luce / La tua luce si è oscurata / Con qualcuno che conosco e ti ha portata via da me», lasciando pochissimi dubbi quando poi dice: «Cos’è successo la tua stella / La tua stella si è eclissata / E ora provaci nel buio a brillare senza me». Ne esce un ex-compagno-padrone poco credibile.
Poi arriva “Un giorno migliore”. Il brano è stato accusato di essere un plagio della canzone “Better Day” degli Ocean Color Scene – alcuni passaggi sembrano effettivamente uguali. Lui, per difendersi, dichiarò di aver scritto la canzone nel 1996. La cosa è poi finita nel dimenticatoio. Cremonini nel video è più disteso, ha di nuovo i capelli biondi, gironzola con gli altri del gruppo per Amsterdam suonando la chitarra. Le immagini di un viaggio post-diploma, spensieratezza; di fondo ci sono sempre problemi più o meno chiari con una ragazza, e qui il senso del rapporto testo-video può essere interpretato in maniera quasi didascalica: tu stai tranquilla, io lo sono, ora mi diverto con i miei amici, ma abbiamo tempo, e ricorda che «Domani sarà un giorno migliore / Vedrai», ma bada bene: solo «Se mi vuoi».
Sembra quindi più rilassato rispetto a “Qualcosa di grande”, ma vacilla quando dice: «Aspetta almeno un minuto / Non dirmi che non mi vuoi». Ha bisogno comunque di conferme, non può finire con la negazione di lei del loro amore, «Devo trovare un appiglio / Prima che tu te ne vai da me». Dopo queste famose scelte grammaticali, a esser generosi discutibili, il pezzo si apre nel liberatorio e alla Freddy Mercury «Apri le tue ali e vola via con me». Questa doppia espressione di se stesso (una forte e una fragile) trasparirà lungo tutto l’album.
Di “50 Special” è stato già detto qualcosa. Indubbiamente è il brano più spensierato dell’album. Un pop disteso, chiaro, limpido. I problemi esistono, è vero. Cremonini non ha una donna, la scuola va male, ma non gli importa. A lui basta la sua vespa con cui volare – volare veramente, se guardiamo il video –; i cinque suonano e si dimenano come una boyband americana di quelle che andavano in quegli anni (Backstreet Boys e N’Sync soprattutto), ci sono ragazze con cui non sanno alla fine cosa fare, i girasoli, le nuvole. Ma non importa nulla: se c’è la vespa, posso prendere tutti i problemi e lasciarmeli alle spalle.
Ecco, dopo questi tre brani, l’album si sarebbe potuto concludere. Bene o male c’è tutto dei Lùnapop. Le sfaccettature di Cremonini-quando-ha-a-che-fare-con-l’amore sono abbastanza chiare. Vacilla tra ostentazioni di sé e una fragilità che è disposto a far trapelare con il contagocce, e quando lo fa, in sottofondo, sappiamo che non è del tutto sincero, soprattutto con se stesso. Francamente non ci sarebbe molto da aggiungere, non si sente la necessità d’altro. Ma forse no, i Lùnapop hanno ancora qualche cartuccia da sparare. E quello che sparano lo sparano discretamente. Le tre canzoni che seguono il primo blocco sono sicuramente meno ingombranti, ma lasciano spazio a qualche spunto interessante, come l’arrangiamento nella strofa di “Resta con me”: le quattro note allo xilofono, che anticipano un ritornello alla Oasis, non ricordano alcune atmosfere di “Subterranean Homesick Alien” dei Radiohead? E poi: non c’è un po’ del Battiato di “La Cura” quando Cremonini canta In “Vorrei” «Sono nato per regalarti quel che ancora tu non hai» (torna il machismo che imperava in “Qualcosa di grande”)? E non ritroviamo un punto di accordo tra le immagini legate al mare di Battisti ne “Io vorrei…Non vorrei…Ma se vuoi” e “Se ci sarai”?
Ecco, forse no, forse non c’era tutto questo. I Lùnapop erano distanti anni luce dagli artisti citati, ma da qualche parte possedevano il germe di chi avrebbe, maturando, potuto costruire una carriera interessante.
Ecco, ora possiamo dire che da qui …Squérez? sarebbe potuto terminare.
Da questo punto, tranne forse che per “Niente di più”, l’abisso. Ma forse sei o sette brani erano troppo pochi per poter giustificare un disco e chiamarlo album, soprattutto per la mole di gente che lo avrebbe poi comprato. L’impressione è che al momento della costruzione della track-list, gli ultimi sei brani siano gli ultimi sei brani, relegati lontano dall’orecchio dell’ascoltatore, nascosti sotto il tappeto come un mucchio di polvere.
In …Squérez? i brani che sono usciti come singoli o che hanno avuto comunque una diffusione su scala nazionale sono realmente i brani migliori. Non ci sono gemme nascoste, canzoni sottovalutate o dimenticate per sbaglio. No.
“Metrò” è un pezzo forzatamente scanzonato da cui traspare il vuoto; in “Cara Maggie” tutto l’interesse che può derivare dalla strofa viene rovinato da una voce falsamente ingrossata e roca del ritornello su una scia pseudo grounge americana; “Zapping” è un pasticcio musicale; “Questo pianoforte” e “Silvia stai dormendo” non aggiungono nulla a livello di contenuti, sono riscritture inutili del primo blocco dell’album: il primo prova a puntare in alto, verso un cantautorato d’autore degli anni ’70, mancando il bersaglio, mentre il secondo tende a sonorità americane che già in quegli anni iniziavano a stancare.
Forse si salva solo “Niente di più”, che però a tratti sembra la caricatura di un pezzo che idealmente avrebbe potuto pensare De Gregori, con in aggiunta un po’ di “nananana” alla Venditti.
Sono passati diciassette anni dall’uscita di …Squerez?, diciassette anni in cui sei canzoni – un’enormità, siamo ai livelli degli 883 – di un solo album, travalicano il senso primitivo della canzone trasformandosi in altro, diventando collante sociale e generazionale.
È stata una edizione senza nessun vero vincitore, questa ottantottesima notte degli Oscar. Un’edizione in cui i premi si sono sparsi tra i vari candidati lasciando un senso strano di incompletezza, una domanda vaga a pesare sul pubblico: sì, va bene, ma chi ha vinto, alla fine?
Nella storia degli Oscar si parla di Big Five quando un film viene candidato – e vince – in quelle che sono considerate universalmente le cinque categorie più importanti: miglior film, regia, attore protagonista, attrice protagonista e sceneggiatura (originale o non). È una cosa che succede molto raramente, più del triplete nel calcio, addirittura è successo solo tre volte: nel 1939, con Accadde una notte di Frank Capra, nel 1975 con Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman, nel 1991 con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.
Proprio perché è una cosa molto rara, quando qualcuno vince almeno tre dei cinque premi del Big Five può essere considerato un pigliatutto, un trionfatore.
L’anno scorsoBirdmanaveva fatto la parte del pigliatutto. Aveva vinto quattro premi (che volendo non sono neanche tantissimi; in quell’edizione ne ricevette quattro anche Grand Budapest Hotel), di cui tre facevano parte del Big Five: miglior film, regia e sceneggiatura originale.
Quest’anno, invece, le statuette delle categorie più prestigiose si sono distribuite tra quattro film diversi, senza nessun vero e proprio dominatore. È chiaro, Il caso Spotlight ha vinto il premio per il miglior film, che di fatto è il premio più importante di tutti, e quello per la sceneggiatura originale, ma non è abbastanza per parlare di vero e proprio trionfo, come non si può parlare di trionfo per Revenant – Redivivoper cui Iñárritu ha ricevuto il suo secondo premio consecutivo per la regia (entrando così nella storia come regista in grado di vincerlo per due edizioni di fila, insieme a John Ford e Joseph Mankiewicz) e per cui è arrivato finalmente l’Oscar per Leonardo DiCaprio, dopo quattro nomination andate a vuoto.
In termini numerici, il vincitore è stato Mad Max – Fury Road che si è aggiudicato sei statuette, ma sono premi tecnici (montaggio, costumi, trucco, scenografia, montaggio sonoro, miglior sonoro) che comunemente hanno un valore specifico inferiore, nella considerazione generale.
È certo che le dodici nomination di Revenant e le dieci di Mad Max – Fury Road avevano lasciato immaginare che ci sarebbe stato fino in fondo un testa a testa tra i due film, così diversi per messaggio ed estetica e allo stesso tempo così vicini nella voglia di innovare il linguaggio cinematografico.
All fine, tra i due è sbucato Il caso Spotlight, con una forma più vicina al cinema classico e una sorpresa molto relativa, per chi aveva osservato i premi precedenti. Il film di Tom McCarthy è stato premiato, in totale, diciotto volte come miglior film in questa stagione, nelle varie competizioni, completando la sua cavalcata con il premio più desiderato e prestigioso di tutti.
Cosa rimarrà a questo punto di una edizione degli Oscar così frammentata, a parte l’Oscar per DiCaprio? Sicuramente il premio a Ennio Morricone, che a 87 anni si porta a casa la prima statuetta in concorso dopo quella alla carriera ricevuta quasi dieci anni fa. Quando aveva ritirato il premio dalle mani di Clint Eastwood nel 2007, Morricone aveva detto che non riteneva quel premio un punto di arrivo, ma di partenza. È stato di parola, ed è diventato il vincitore più anziano nella storia dell’Academy.
Tolta la gloria individuale, rimane una stagione degli Oscar caratterizzata prima di tutto dall’assenza di coraggio. In mancanza di un film che veramente abbia messo d’accordo tutti – pubblico e critica –, o al quale sia stata riconosciuta globalmente una capacità di stupire come era stato lo scorso anno per Birdman, i membri dell’Academy hanno preferito differenziare la scelta, colpendo un po’ qua e un po’ là.
Si era capito già dalle nomination che sarebbe stato un anno strano, a dir poco confuso. Da un lato, la grande presenza di film ritenuti “indipendenti” tra i candidati al miglior film, aveva messo in chiaro il tentativo dell’Academy di dimostrare un’attenzione rivolta al cinema che cambia. Brooklyn,Room, ma anche La grande scommessa, non appartengono alle abituali logiche di Hollywood. Si sapeva che non avrebbero avuto alcuna possibilità di vincere il premio, ma già la candidatura è il segno di qualcosa di diverso, almeno nelle intenzioni, di quella voglia di Hollywood di provare ad andare dietro ai vari festival indipendenti sparsi per gli Stati Uniti (Sundance, Telluride) e anticipare quelle che potrebbero diventare le stelle del futuro. Anche Il caso Spotlight, in questo senso,non appartiene al giro delle major. È chiaro anche che in un altro momento storico un film come Mad Max – Fury Road non sarebbe mai stato preso in considerazione per il miglior film o la miglior regia, perché non appartiene a Hollywood, è fuori dalle convenzioni del cinema d’azione. E invece sono arrivate le candidature a pioggia, ma è mancato il coraggio di dare premi importanti.
Probabilmente, nella categoria miglior film avrebbe meritato spazio Inside Out, il vero grande film della stagione scorsa, ma ancora una volta è mancato il coraggio. E poi c’è la confusione, quella che ha portato a esclusioni a dir poco incomprensibili (Aaron Sorkin per lo script di Jobs, per dire il più evidente), e quella che ha incrociato le categorie una con l’altra. Avrebbe avuto più senso, per esempio, mettere Alicia Vikander come protagonista (è lei la Danish Girl del titolo, non Eddie Redmayne) e Brie Larson come non protagonista, visto che per una buona mezz’ora sparisce da Room. Poi c’è la confusione che ha lasciato propagare la polemica per gli #OscarSoWhite e gridare allo scandalo per l’esclusione degli attori di colore, come se Idris Elba avesse davvero qualche possibilità per Beasts of No Nation, prodotto e distribuito da Netflix, cioè la nemesi attuale di Hollywood, o Will Smith potesse realmente essere preso in considerazione per Zona d’ombra, visti i suoi rapporti tutt’altro che rosei con l’establishment negli ultimi anni.
Insomma, questi ottantesimi premi Oscar sono destinati a lasciare un ricordo molto pallido nella storia del cinema dei prossimi anni. A essere ricordato sarà l’Oscar a DiCaprio, senza dubbio, e forse nient’altro, a parte l’occhiolino di Mark Ruffalo.
Ottavio Tondi legge, senza posa, per professione e per piacere; ha acceso la miccia di un immenso successo editoriale scoprendo nel dattiloscritto della fantomatica scrittrice Gloria Stupenda un best seller assoluto. Ha scelto la strada della lettura in antitesi con il padre, un commercialista romano che quasi nulla condivide con il figlio, se non quanto di più personale, il nome Ottavio. Nient’affatto mondano, Tondi sente di essere «fuori posto con se stesso», eppure non rinuncia alla possibilità di non isolarsi, aprendo un proprio profilo sul social network Panorama, avviandosi così lungo quella via fatale che lo condurrà all’incontro con Ligeia Tissot. È con lei che scambierà per quattro anni messaggi, è di lei che proverà a intuire l’anima osservando con irriducibile attrazione l’immagine fissa del suo letto disfatto. I due non si incontreranno mai.
Con Panorama,NN Editore ha voluto inaugurare lo scorso anno la collana ViceVersa: libri in cui «un vizio o una virtù» rappresentano un punto di partenza e approdano «dove il racconto li conduce». Forse è anche così – alternando direzioni previste a quelle scelte autonomamente dai personaggi – che Tommaso Pincio ha scritto il suo romanzo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, e in una lunga telefonata di mezza sera siamo partiti da quello che avevamo tra le mani: Panorama.
Il titolo del libro è il nome di un social network – Panorama – non dissimile da Facebook, ma con la particolarità di obbligare gli utenti a condividere un proprio ambiente domestico attraverso una webcam. Penso in particolar modo al letto disfatto di Ligeia, continuamente inquadrato, che rappresenta una fessura aperta su uno spazio intimo, un’opportunità che Tondi sfrutta per spiarla, rafforzando così il legame che lo tiene stretto a lei.
Si tratta di individuare il bisogno di vedere – dunque di controllare le cose, le persone – riconoscendo in questo bisogno un tratto della sensibilità tipica del tempo in cui viviamo, ma che appartiene all’essere umano da sempre. La novità rispetto al passato è nel fatto che mentre in altre epoche lo sbirciare nelle vite degli altri avveniva leggendo di nascosto un diario, una lettera, oppure origliando una conversazione, nel nostro tempo, invece, nuovi strumenti consentono un controllo visivo, realizzando quello che una volta era un desiderio e allo stesso tempo una maledizione: diventare invisibili. Ecco, in parte, con i social network, il desiderio di vedere senza esser visti si realizza.
In qualche modo è quello che, secondo il narratore, succede anche leggendo, ossia spiamo le vite dei personaggi. Ma forse in Panorama, nel social intendo, c’è qualcosa in più.
Va detto che però in quel caso lo si fa in un contesto autorizzato, c’è un autore che ci dà il permesso di guardare. Nella realtà non abbiamo questo diritto. Sbirciamo, ma non è una pratica onorevole. Noi sappiamo cosa sia un panorama in senso proprio, è qualcosa che osserviamo in lontananza, è la possibilità che viene concessa a una persona di dominare uno scenario più grande di lui, è la condizione – diciamo così – della contemplazione perfetta. Quando ci troviamo di fronte a un panorama come lo intendiamo normalmente, cioè il dispiegamento della natura, l’umano diventa di fatto irrilevante. Possiamo vedere in un panorama delle persone, ma spesso sono talmente piccole da non contare, quello che conta è la visione d’insieme. Nel caso del social Panorama, il tipo di paesaggio è diverso, è un panorama umano, ed è la moltitudine delle persone a renderlo tale. La condizione della contemplazione perfetta, dello sguardo perfetto in cui si è soltanto sguardo, diventa invece lo sguardo del Panopticon di Bentham, dove non si sa mai se si è osservati, o meglio sorvegliati, perciò si può esserlo costantemente. Così il panorama diventa una prigione.
Dopo il titolo, il sottotitolo: Un prologo. La domanda diretta sarebbe: un prologo a cosa? La domanda è dovuta, per così dire, a una lunga attesa. Voglio dire che il racconto del primo scambio di messaggi tra Ligeia Tissot e Ottavio Tondi arriva solo nel nono capitolo. La domanda diretta rimane: un prologo a cosa?
In Panorama viene resa pubblica una corrispondenza privata, e il sottotitolo, Un prologo, è la spiegazione del fatto che il narratore offre al lettore – che non sono io, non sei tu, ma sono i lettori del mondo di Panorama – la possibilità di leggere la corrispondenza fra Ligeia e Ottavio; quindi il libro che noi leggiamo è praticamente l’introduzione a quella corrispondenza. È un po’ come quando compriamo un classico e ci troviamo di fronte a una prefazione in cui viene raccontata la vita dell’autore, i temi e lo sviluppo dell’opera.
Una fonte d’ispirazione per me sono le lettere di Kafka a Felice Bauer, la quale diversi anni dopo la morte di Kafka le ha rese pubbliche. Lì la cosa forse più interessante è che noi leggiamo solo le lettere che lui le scrisse, ma abbiamo perduto le risposte di lei. Quindi c’è tutta una parte che possiamo intuire dai toni che Kafka assume di volta in volta, e questo vuoto rende tutto più interessante.
E perdendoci in questi vuoti possiamo immaginare una nostra narrazione tenendo presente il contesto in cui vivono i protagonisti. In Panorama il contestoè fondamentalmente romano e i luoghi della città hanno un peso specifico nella vita di Ottavio Tondi: l’incidente di ponte Sisto, le puntate in macchina all’Eur, i chilometri percorsi sul Raccordo. Si ha però la sensazione che Tondi si senta fuori posto.
Tondi si sente fuori posto, prima ancora e più ancora che con Roma, con se stesso, e ancora più in particolare con la figura paterna. È il rapporto irrisolto con il padre a fare di Ottavio Tondi l’uomo che è. Ora, è vero che nel romanzo questo aspetto non viene ricordato di frequente – sembra anzi una specie di motivo di sottofondo – però spesso le cose che stanno sullo sfondo sono quelle davvero significative. Tutti i passaggi che compie nel corso della vita sono un confronto con il padre o con il ricordo della sua figura. In fondo anche il motivo per cui comincia a leggere è legato a questo contrasto. Tutto ciò si riflette anche su Roma perché Tondi cambia quartiere, lasciando la zona in cui lui identificava il mondo culturale paterno. Forse il suo non trovare un posto nella città è dovuto alla mancata risoluzione di tale conflitto.
Dunque, la quarta: «La vita non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconoscere, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio». Non ritrovandosi con il padre, con il suo carattere, con le aspettative che il padre nutriva per lui, la vita di Tondi sembra stridere.
È come quando ci si guarda allo specchio, non sempre ci si riconosce. Soprattutto più passa il tempo e meno ci si riconosce. La dimensione in cui vive Narciso, quando per la prima volta si vede e si innamora di se stesso in realtà è un mito che non ci riguarda, o meglio poteva riguardare il mondo di quando eravamo giovani, di quando avevamo un’idea del mondo non così tanto articolata da consentirci di non riconoscerci più. Quindi è vero che si cerca la somiglianza, ma quando la si trova non la si accetta. E questa cosa della somiglianza tocca le sue punte più forti nel rapporto tra genitori e figli. Genitori e figli si somigliano sempre – e ci si può somigliare anche nei modi – però possono detestarsi, perfino rifiutarsi. Chiunque sia stato giovane si è illuso di non diventare come il proprio padre. Ma poi arriva un momento in cui, rifiutando questa somiglianza, si compiono delle scelte, come fa Tondi. E in quel momento Tondi paga il conto: quella persona che giudicava così estranea, così estranea non è. Il momento in cui Tondi comincia ad andare in crisi è quando capisce che il nodo della sua vita sta proprio nell’illusione di non essere come suo padre.
Cerchiamo il diverso, qualcosa che non siamo noi, ma tendiamo a qualcosa a noi simile. È un problema non facile da risolvere, soprattutto perché somigliarsi non significa essere identici, significa avere dei tratti in comune, ma anche averne molti diversi. E in questa disarmonia si sviluppa l’energia del mondo.
Infine, leggere. In Panorama troviamo un rapporto con la lettura più che complesso, ed è un rapporto a più livelli: intimo, quando Tondi legge da solo in casa; pubblico, quando Tondi diventa protagonista di spettacoli in cui semplicemente si siede a leggere (mentalmente) su un palco, seduto su un divano; utilitaristico, quando Tondi vende un libro alla volta per poter tirare avanti.
Il rapporto con il libro che racconto credo sia comune a molti lettori. Anche la dimensione pubblica che Tondi esercita della lettura è spettacolare nel senso che non mi risulta che esista uno spettacolo in questi termini, ma quell’idea di spettacolo esiste. Il fatto di guardare un’altra persona impegnata in un’attività intima è una cosa molto diffusa, ed è forse uno spettacolo perfetto. Quanti di noi si sono soffermati a osservare il proprio partner o il proprio figlio che dorme? Poi magari è vero che nessuno oggi pagherebbe per guardare uno che legge in un teatro, ma è anche vero che quando si viaggia su un mezzo pubblico gli altri passeggeri sbirciano cosa stai leggendo. Questa inclinazione a entrare nel privato esiste eccome, e la lettura è un atto privato.
Pablo Larraín è uno di quei nomi che è già noto da un po’ di anni a chi conosce il cinema dei festival e dei circuiti più autoriali. Il club, Orso d’argento al Festival di Berlino 2015, è solo l’ultimo titolo di una filmografia che conta pochi film (è il quinto) in pochi anni (ne ha quaranta da compiere) e un consenso che è andato via via crescendo. Dopo l’esordio del 2006 con Fuga, Larraín ha iniziato ad attirare attenzione su di sé con la trilogia dedicata al suo paese, il Cile, negli anni della dittatura di Pinochet. Nel 2008 è arrivato il primo film, TonyManero,e poi è proseguita con Post mortem e No – I giorni dell’arcobaleno. L’ultimo film ha portato una nomination all’Oscar per il miglior film straniero e la definitiva consacrazione, per il regista, come autore importante. Si dice che Hollywood abbia già messo gli occhi addosso a Larraín e punti a portarlo nell’altra metà d’America per affidargli niente meno che il remake di Scarface. Quello che è certo è che per ora è stato cooptato per il primo film statunitense, Jackie, sulla vita di Lady Kennedy, con Natalie Portman protagonista, e che prima lo vedremo molto probabilmente a Cannes con un altro film biografico, ancora una volta sul Cile, Neruda.
Larraín ha dimostrato, film dopo film, di essere in possesso di un’idea eclettica di cinema, di una capacità e di una consapevolezza da grande cineasta. Un sospetto sui limiti del suo talento può essere collegato alla specificità geografica del suo cinema. Il Cile è sempre centrale, fa parte della trama, influenza i personaggi, il loro stesso essere. Il rischio possibile è che portare fuori dal suo contesto un regista così localizzato possa indebolire il suo modo di fare cinema. Ma è chiaro che, a guardare bene i film, il Paese di cui Larraín parla non è il Cile contenuto nei suoi confini geografici, ma è un Paese più ampio, le cui vicende storiche, per quanto particolari, possono assumere in fretta un valore universale. Una lettura più attenta della “trilogia su Pinochet” può mettere in evidenza un discorso sul potere in generale, e sulla comunicazione che cambia soprattutto con No, ma visti in prospettiva quei tre film, e Fuga, non sono altro che la rincorsa per arrivare a Il club, il film più importante, ambizioso e potente di Larraín.
Siamo ancora in Cile, a La Boca, un paesino con un pugno di case e di barche buttate nel mare. In una di queste case, tinta di giallo, vivono quattro preti che non possono più esercitare, accuditi da una suora che si prende cura di loro. Ognuno di loro ha una colpa grave sulle spalle – abusi su minori, compravendita di bambini, sequestri – e cerca di espiare in una vita isolata regolata da misure di sicurezza e limitazioni. Ci sono i sollievi dell’alcol e la compagnia di Rayo, un cane da corsa che la suora porta a gareggiare nelle sfide di velocità del paese. Per il resto c’è il passato. Un giorno arriva un nuovo prete per unirsi alla casa, perseguitato da una vittima dei suoi abusi, ormai cresciuta, che si fa chiamare Sandokan e lo ha raggiunto fino in quel paese dimenticato. Ci sarà un suicidio e un nuovo prete, Padre Garcia, che arriva per indagare su quello che è successo e decidere se tenere aperta la casa o meno.
Ci sono dei momenti in cui Il club dà la stessa terribile sensazione di masticare pezzi di vetro. È difficile rimanere indifferenti di fronte alle ricostruzioni degli abusi, ai racconti orribili della corruzione dei giovani, alla certezza quasi megalomane dei preti detenuti di essere nel giusto, non nel torto, mai. Per vicinanza di uscite viene quasi naturale cercare un collegamento tra il film di Larraín e Il caso Spotlightdi Tom McCarthy, che racconta i peccati della chiesa cattolica di Boston e l’indagine che li rivelò. La differenza fondamentale tra i due film è nel punto di visto. McCarthy non considera neanche gli aguzzini, Larraín invece si concentra solo su di loro, li rinchiude in una casa e li osserva senza allontanarsi mai.
Il contesto arriva dalla casa. I preti sono stati mandati lì dal Vaticano per non sottoporli al processo pensale. Proprio come in Spotlight, proprio come quella che è la prassi delle gerarchie ecclesiastiche, l’orrore e la colpa dei preti vengono riconosciuti, ma non vengono condannati. Vengono spostati. L’orrore, semplicemente, viene rimosso.
La rimozione non è solo nell’allontanamento fisico dei responsabili. I preti rinchiusi a La Boca vivono in una normalità in cui le colpe del passato sono state dimenticate. Tutto sommato, la loro è una vita come le altre, anche se fortemente regolata. È l’arrivo di Sandokan che rimette ogni cosa in discussione, che riapre il confronto con il passato, che ricorda gli errori e la debolezza e finisce per dimostrare ancora una volta la colpa naturale dell’uomo, anche di chi è mandato per indagare.
Con una tensione da thriller che accompagna tutto il film, scandita dalla colonna sonora inquietante, e delle improvvise aperture di lentezza che sottolineano la serenità impossibile della vita a La Boca – un prete zappetta l’orto, l’altro addestra il cane, cenano insieme, sorridono –, Larraín va ancora una volta, e più che mai, oltre i confini della storia e della geografia. La colpa dei preti cileni è la colpa della chiesa cattolica. La Boca è solo una periferia infetta, come infinite altre. Secondo lo stile del regista, ancora una volta la sostanza della narrazione è accompagnata da una forma che si adegua a quello che deve essere mostrato. Come la ricerca sui formati e le pellicole d’epoca che aveva fatto grande No, Il club è strutturato interamente sulla contrapposizione tra luce e ombra, tra rivelato e nascosto, sul controluce che fa intendere le figure ma non ne fa mai scorgere i dettagli. Non staremo a dilungarci sui dettagli tecnici, sull’uso di lenti particolari riprese dal cinema di Tarkovskij e altri particolari troppo specifici, ma ecco, Pablo Larraín ha fatto anche questo.
Qualora ci fossero ancora dei dubbi che questo è un grande regista, Il club li spazza via definitivamente.
(Il club, di Pablo Larraín, 2015, drammatico, 98’)
Porcile, scritto da Pasolini nel 1966 e trasposto nel 1969 nel film omonimo, è il racconto in undici episodi dell’autodistruzione di Julian Klotz, incapace di sopravvivere nella Germania del dopo nazismo, in cui una borghesia porcina gestisce una democrazia appena riscoperta ma, ancora troppo piccola e spaventata per riconoscere l’altrui libertà di vivere secondo i propri istinti.
A Bad Godesberg nel 1967, periodo delle prime manifestazioni studentesche in Germania, il venticinquenne figlio unico «né ubbidiente né disubbidiente», erede della famiglia Klotz, ha uno scialbo rapporto con la petulante Ida, che lo ama non ricambiata. Con lei intrattiene un rapporto vuoto e rigurgitante di espressioni senza senso, fughe dal reale e misteri con i quali, stralunato e misterioso, scatena ora il riso ora l’ira della giovane. Altrettanto inconsistenti sono i rapporti familiari del ragazzo con suo padre, Herr Klotz, e sua madre, disperati e incapaci di resuscitare il figlio dallo stato di abulia paralizzante in cui esiste senza vivere.
Binasco afferma che i rapporti familiari e affettivi sono il cardine della sua lettura di Porcile al punto che si percepisce il tentativo di spogliare il dramma di ogni senso politico così che anche la ricerca ossessiva di Ida di un ruolo all’interno del movimento di contestazione assume i connotati di una fissazione capricciosa, vuota di senso, e le ripetute allusioni al passato nazista di alcuni dei personaggi sono perdonabili trascorsi. Il Porcile di Binasco fugge altresì la lettura dell’opera come manifesto sul contrasto generazionale, piuttosto si offre come dramma dell’inconfessabile, della vergogna, del pregiudizio. La tragedia di Julian.
Anche nella Germania di Bonn, che fabbrica solo lane, formaggi, birra e bottoni, ogni cosa può essere, infatti, perdonata, anche la «raccolta di crani di commissari bolscevichi ebrei per ricerche scientifiche all’università di Strasburgo». Il “criminale” è infatti una forma del “normale”, mentre la zooerastia di Julian, per quanto il ragazzo sia un innocente, non lo è. È una vergogna superiore allo sterminio degli ebrei, e deve essere condannata al silenzio anche quando si mangia da sola, si autodistrugge, senza lasciare alcuna traccia visibile di sé. Il tema del disgusto sessuale supera qualunque ragionamento sulla giustizia e l’ingiustizia.
Julian non è niente, non è un disobbediente, non è un eroe, non è un martire – se non di se stesso – e per questo è capace di incarnare le domande di oggi. Binasco da una lettura parziale del dramma per sua stessa ammissione, lo depotenzia, come accennato, scaricandolo di alcune possibili letture e sfuggendo la tentazione di approfittare nella messa in scena della mancanza di didascalie nel testo teatrale. Eppure Binasco, con la collaborazione di un gruppo di attori ben affiatati, riesce a rendere perfettamente comprensibile la sua interpretazione, la tenerezza con cui guarda al «povero Cristo» che, con i pugni stretti e lo sguardo fisso nel vuoto, è del tutto insensibile a chi lo circonda.
«Che cosa immensa e curiosa il mio amore. Non posso dirti chi amo ma non è questo che interessa. Mai, oggetto di passione amorosa è stato così infimo (per dir poco). Ciò che conta sono i suoi fenomeni; la profonda deformazione che esso ha causato in me che non è degenerazione sia chiaro».
Porcile
di Pier Paolo Pasolini
regia di Valerio Binasco
con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Francesco Borchi, Elisa Cecilia Langone, Franco Ravera, Fulvio Cauteruccio, Fabio Mascagni, Pietro d’Elia
coproduzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione di Spoleto58 Festival dei 2Mondi
Alcune delle prossime date
Roma – Teatro Vascello dal 16 al 28 febbraio
Firenze – Teatro Duse dal 2 al 6 marzo 2016
Siena – Teatro dei Rinnovati 9 marzo 2016
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