Gli invisibili Mirella Serri Recensione Flanerí

“Gli invisibili”
di Mirella Serri

«Sonderhäftlinge!» ovvero «prigionieri illustri!», così risponde l’ufficiale delle Schutz-staffeln Ernst Bader a un contadino di Villabassa – piccolo comune in provincia di Bolzano – che chiede chi siano quelle persone che fanno parte di un nutrito gruppo che, nella fredda giornata del 28 aprile 1945, scende da ben cinque pullman con i volti sofferenti, con addosso abiti di tempi lontani (alcuni addirittura avevano la divisa a strisce che si portava nei campi di concentramento), con il triangolo rosso appiccicato sulle giacche per identificarli come prigionieri politici, le scarpe rotte, un fagotto in cui avevano radunato i loro averi. Disposti in fila indiana, erano scortati da circa ottanta SS. Oltre al contadino che coraggiosamente rivolge la domanda al capo nazista, sono accorsi altri valligiani che sembrano riconoscere alcuni degli individui appena approdati in paese.

Sono costoro Gli invisibili, protagonisti dell’ultimo libro di Mirella Serri, edito da Longanesi: si tratta di 139 ostaggi rastrellati da 17 Paesi europei che erano stati rinchiusi dai nazisti nei lager dell’Europa centrale (Dachau, Buchenwald, Flossenbürg) e che arrivano a Villabassa (Die Alpenfestung, la Fortezza Alpina, come veniva chiamata) in vista di un possibile scambio con gli alleati. Ma rispetto agli altri prigionieri, a loro è riservato un trattamento privilegiato, tanto da alloggiare all’interno di costruzioni separate dal resto del campo di concentramento. Per tale ragione il nome «invisibili», in quanto estranei alla realtà dei lager e ignari dei delitti che in quei luoghi si compivano. Essi, infatti, non dovevano essere uccisi, ma rimanere in vita per soddisfare un progetto futuro.

Tra i «prigionieri speciali» si annoverano le personalità più importanti dell’epoca: c’erano, per esempio, il cancelliere austriaco von Schuschnigg che, dopo aver difeso il suo Paese, era scomparso dalla scena pubblica a seguito dell’Anschluss nel 1938; l’ex primo ministro del Fronte popolare francese Léon Blum; le spie inglesi Sigismund Payne Best e Richard Henry Stevens; Sante Garibaldi, nipote del più noto Giuseppe; Tullio Tamburini, ex capo della polizia di Salò, e il suo braccio destro Eugenio Apollonio; nonché il marito della principessa Mafalda di Savoia, figlia del re Vittorio Emanuele III, Filippo d’Assia, noto come latore della missiva con cui Hitler chiese e ottenne da Mussolini il consenso all’Anschluss, che dal 1933 sarà presidente della provincia dell’Assia-Nassau. Ma se la storia e la tragica fine di Mafalda sono più conosciute, le vicende che hanno per protagonista Filippo solo ora vengono chiarite: per esempio, egli accetterà quell’incarico, propostogli da Göring, «per amore del paese» e «amore di patria»; ma in realtà la vera ragione si può leggere solo nei faldoni segretissimi contenenti informative dell’Ovra sulla sua vita intima e privata, che Göring stesso conservava sulla sua scrivania e con i quali teneva sotto tiro il principe tedesco.

A ognuno di questi personaggi – e a diversi altri – Mirella Serri dedica capitoli brevi ma essenziali e dai titoli accattivanti, in cui disegna con tratto nitido un quadro esaustivo delle vicende che li hanno interessati. La narrazione, che si spinge fino all’arrivo degli americani a Villabassa e agli avvenimenti successivi che hanno segnato il destino di tutti i protagonisti del libro, è seguita da un elenco dettagliato di tutti i prigionieri d’onore diviso per nazione.

Con fare aneddotico, l’autrice porta alla luce fatti finora inesplorati e riempie di spunti inediti e preziosi il serbatoio della Storia, che viene così arricchita e approfondita da informazioni che finora non erano state considerate. E per la prima volta gli invisibili si rendono visibili agli occhi di tutti.

(Mirella Serri, Gli invisibili. La storia segreta dei prigionieri illustri di Hitler in Italia, Longanesi, 2015, pp. 238, euro 16,40)

 

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Speriamo di vederci sempre_ Claudia Bruno_ flaneri.com

Speriamo di vederci sempre

Da quando sono arrivata qui mi capita di pregare. Anche adesso che infilo un passo dietro l’altro sulla neve, muovo appena le labbra. Ave regina dei cieli che rechi nel mondo la luce, pronuncio piano. «Come dice?» mi chiede la signora dell’alimentari impegnata a liberare l’ingresso dal ghiaccio. Ha i capelli lunghi, legati in una treccia arrotolata dietro la nuca. Insieme ai fustini di Dash vende pure il pane, sette filoni al giorno, non di più. «Niente», rispondo io schiarendo la gola. Quando prego mi esce fuori un’altra voce. È un fruscìo di parole attaccate, un soffiare che emetto il più delle volte sovrappensiero. «Troppo tempo, passi da sola», si lamenta mia madre a telefono, «troppo» ripete. E io allontano la cornetta dall’orecchio. Perché mia madre urla, soprattutto quando parla con qualcuno che si trova in un altro paese. «E quanti abitanti fa?», mi chiede poi. «Ottocento», rispondo. E mi ricordo di quando sono arrivata, e dentro l’unico bar mi hanno detto «qui non c’è niente».

Godi, vergine gloriosa bella fra tutte le donne, salve o tutta santa, prega per noi. Ecco, tutta santa, lo ripeto anche adesso, davanti alla fontana, godi. E affretto il passo, se non mi sbrigo finisce pure la luce di oggi.

Stanotte ha nevicato ancora. La scuola è rimasta chiusa. Incredibile, per me che sono cresciuta al mare. Il bianco è così largo che il cuore ci si perde. Mi hanno detto che qua intorno è pieno di passeggiate da fare. È che da sola non mi viene voglia. Ma oggi, finito il pranzo, ho sentito quel poco di voglia. E come dice la collega che è rimasta a insegnare al mare, dopo i quarant’anni le voglie vanno assecondate. Per questo ho infilato gli stivali, sono uscita a camminare.

Dopo la rotatoria, già non c’è più nessuno. Alle mie spalle il paese si fa piccolo, poche case di pietra, arroccate sopra la valle. Davanti agli occhi la faggeta spoglia è un ricamo che si avvicina. Santa Maria per cui ogni creatura si rinnova, prega per noi, sfilo via le parole una dietro l’altra. Con le suole sbriciolo il ghiaccio del sentiero. C’è tanto silenzio che riesco a percepire il rumore della borsa di cotone scivolarmi dalla spalla ogni tre passi.

«Ma che ti porti appresso, sempre tutti ’sti fogli!» mi dice ogni volta mia madre. «Sti fogli», così dice. Per me sono i fogli, per mia madre invece sono solo fogli.

Me la ricordo come era iniziata, la storia delle preghiere. Nonn’Assunta me le faceva dire ogni mattina. Mi metteva seduta sulla cassapanca, i piedi che non arrivavano a terra, e cominciava. Ave maria gratia plena dominus tecum benedicta tu in mulieribus, diceva sgranando il rosario, prega per noi. Tutte le sapeva, nonn’Assunta. Pace all’anima sua. Quelle parole me le infilava in testa a forza. E adesso eccole riaffiorarmi tra le labbra – porta del cielo, stella del mattino – tornano a screpolarmi la lingua – regina di tutti i santi, regina della pace – mentre cerco di evitare con gli stivali la neve più morbida. Non sono abituata alla vita di montagna. L’inverno per me è una spiaggia deserta con i legnetti portati a riva dalle mareggiate.

Ora che ci sono arrivata lo bisbiglio. Bosco. Parola dai rami tesi. Rami che reggono il cielo con le punte. Ho fatto bene a venire fin qui, penso, mi sta facendo bene questa cosa di respirare e ingoiare tutta la luce, questa poca luce. Qui è un altro mondo. Le gambe pesano meno, i capelli si fanno morbidi, il fiato lungo. Dev’essere l’aria, l’ossigeno, la distanza dal livello del mare. Non lo so cosa, ma qualcosa dev’essere, penso mentre cammino. E ho l’anima mezza piena.

Poi lo vedo. Un uomo mi viene incontro a passo svelto lungo il percorso ghiacciato. Si tiene a un bastone di legno, sotto il berretto ha i capelli bianchi. Mi saluta come fanno le persone sui sentieri, senza conoscersi. «Buonasera», rispondo io e abbasso lo sguardo alla statura delle carote selvatiche sopravvissute lungo i bordi del tracciato. Faccio un passo piccolo, in avanti, per proseguire. «Il comune non ha fatto niente» dice lui «niente», ripete, e disegna un semicerchio in aria con il naso. «Vede gli aceri, lì, piegati» dice indicando i tronchi, sempre con il naso. «Vede il faggio, laggiù, i rami, tutti spezzati» alza il mento. «E la strada, qui? Come si fa a camminare, qui, se non spalano?» scuote la testa lentamente. «Che quest’anno pure ne ha fatta di neve. Ma domani ci vado, dal sindaco, se non ci viene lui a vedere, ci vado io» promette. E per un attimo resta in silenzio e mi fissa negli occhi, non distoglie lo sguardo. Lo faccio io allora, che non l’avevo previsto, d’essere guardata così. Nelle città di mare le persone si guardano la bocca, o il naso, o le mani. Mai gli occhi. E allora lo scruto tutt’intorno. Mi soffermo sulle piccole rughe adiacenti alle palpebre, sulla pelle imbrunita dal sole, sull’ovale lievemente schiacciato da un sorriso che si allarga fino alle orecchie man mano che i secondi trascorrono.

«Quella, la bambina, ci vuole sempre venire» dice lui. «Ma se resta tutto così, è chiaro che poi i piedi si bagnano. E la madre s’incazza, che sarebbe mia figlia» punta a terra il bastone. «Ma la bambina ci vuole venire, e io ce la porto. Quella, per lei starebbe sempre qua», aggiunge a voce più bassa. «Pure la notte, sempre ci vorrebbe tornare. Mo’ non è ora di bosco, la sgrida la nonna, che sarebbe mia moglie. Ma quella, la bambina, piange, sbatte i piedi ’nterra, che ci vuole venire. E io ce la porto. Sempre, ce la porto. Stiamo tutti i giorni qua. Nonno, dice, mi chiama, facciamo la passeggiata. E facciamo la passeggiata. Quella le piacciono gli alberi, il verde, ’sti fatti. Nonno, dice, mi chiama, facciamo il gioco delle foglie. E facciamo il gioco delle foglie, rispondo io».

Sorrido, non dico niente. «Mi chiamo Gennaro, piacere» fa lui. Si passa il bastone nell’altra mano e allunga la destra. Allora anch’io tiro fuori la mano. «Piacere», rispondo. E quando i palmi si sfiorano me lo concedo appena, di sbirciare dentro agli occhi di Gennaro. E mi sembra di infilare le dita dei piedi in un lago di brina.

Restiamo un po’ fermi così, mano nella mano. Un mondo a parte. Quando faccio per ritirarmi, ché alla fine chi lo conosce, «Gennaro», annuisce lui, «come gennaio, ma con la erre» precisa. E non mi lascia la mano, continua a tenermela stretta, non smette di fissarmi negli occhi mentre ogni cosa tace, e a scandire il tempo resta solo il ticchettare delle gocce dai rami. «Quella, la bambina, ci vuole sempre venire» mi sussurra in un orecchio. Annuisco. Il paese da qui è un disegno dentro una cornice, distante, lontano. Sento un brivido percorrermi le vertebre. E mi cade lo sguardo sul bastone. Ha la cima intagliata, la testa di un animale. Forse un lupo, o una capra, non si capisce, è qualcosa dal muso appuntito. Gennaro continua a parlare, passa la mano intorno al bastone. Lo guardo spostare le dita, ma non lo ascolto più. Santa Maria nostra speranza vera. Il bastone, penso solo.

«Quella, la bambina, starebbe sempre qua» dice Gennaro. «Nonno, mi chiama, facciamo il gioco delle foglie. E facciamo il gioco delle foglie, rispondo io». Gennaro lo ripete uguale a prima. Non ci sta tanto con la testa, penso. E faccio un altro passo, di lato, per congedarmi e proseguire. Ma Gennaro non mi lascia andare, il bastone lo gira nel ghiaccio come si fa per piantare un ombrellone. E senza togliermi gli occhi di dosso mi stringe ancora un poco la mano, mi chiede «come ti chiami?».

Mi guardo intorno. Non c’è nessuno. Sono in trappola, penso. E mi manca l’aria. Questo regno delle cose sottili, delicate, inconsistenti, adesso mi opprime i polmoni. È un bianco senza vie di fuga. Allora mi torna in mente il documentario dove ammazzano le foche. E mi sembra di vedere sulla neve la scia color porpora seguire il corpo del mammifero abbattuto. No, non è possibile, mi ripeto. Gennaro è una brava persona. Si capisce dalle rughe intorno agli occhi. Ha lo sguardo troppo sereno, le iridi troppo limpide. «Che ci è venuto a fare qui oggi?» chiedo per cambiare discorso, e le gambe mi tremano.

È in quel momento che Gennaro solleva il bastone in aria. Lo fa di scatto, all’improvviso. Con la tensione che precede un colpo netto. Zac. E io salto. Sono una molla, un fascio di nervi in preda a un tic involontario. La borsa cade e cade tutto. Ed è così veloce che non sento niente, a parte il sangue. Mi pulsa nel petto e mi punge le dita. Vacillo, e con lo sguardo annebbiato vedo che Gennaro ha solo ruotato il bastone per indicare la montagna grande. «Io abito là», mi spiega indicando il versante. «Ci vuole un’ora per scendere, altre due per salire» continua rivolto all’entità calcarea. «Torno tutti i giorni», aggiunge, e agita in aria il bastone a tracciare un ipotetico percorso con tanto di tornanti. Poi si gira di nuovo verso di me, e per la prima volta s’incupisce.

«Sono venuto a cercare la bambina», dice. «Sono due anni che la vado cercando. Tutti ripetono che non c’è più niente da fare. Ma quelli, che gliene frega a loro. Se non ci vengo io, a cercarla ogni giorno, per loro potrebbe pure morire di freddo. E quest’anno ne ha fatto di freddo». Gennaro guarda dove i tronchi si fanno più fitti, resta in silenzio.

I fogli sono per terra, sparpagliati, trasparenti, si confondono con il bianco del ghiaccio. Gennaro li vede e si china a raccoglierli. Lo fermo prima. «Non importa», dico posandogli la mano sulla spalla. E resto a guardare tutti quei segni frantumati sul sentiero. Teorema, Pi greco, radice, aperta parentesi graffa. Cerco di recuperare qualcosa, ma i fogli sono inzuppati, e a sollevarli si strappano. Allora faccio un mucchio di carta fradicia e mi rialzo. Ho le mani gelate. Ci soffio sopra un po’ di fiato vapore.

«Perché non ci viene a trovare» m’invita Gennaro guardando la montagna. Io sorrido, lo ringrazio, prometto che ci penserò. «Arrivederci», lo saluto indietreggiando sul sentiero. Santa Maria porta serrata e aperta, prega per noi, bisbiglio. Gennaro invece risponde solo «speriamo di vederci sempre». E senza smettere di guardarmi lo ripete. Speriamo, di vederci, sempre.

 

Claudia Bruno è nata a Foggia nel 1984 e vive a sud di Roma. Suoi racconti sono comparsi su Abbiamo le prove, Colla, Cadillac Magazine, Il Paradiso degli Orchi e altre riviste. Il suo racconto “Anna sottosopra” è stato selezionato finalista per Note al Margine Premio Letterario per le Periferie Romane. Il suo microracconto “41P”, tra i vincitori del concorso Italians del Corriere della Sera, è contenuto nell’omonimo e-book (Rizzoli, 2008). Suoi scritti sono inclusi in raccolte di Iacobelli, Viella, Bloomsbury, Toletta edizioni. Su spremutesenzazucchero.it dispensa favole al limone e altre brevità.

Blackstar

“Blackstar” di David Bowie

Inauguriamo  la nuova rubrica “IlProcesso”. Ogni mese, la redazione di Musica scriverà un articolo corale su quello che verrà ritenuto, per diversi motivi, l’album più interessante e quindi da approfondire. Un articolo in cui ognuno esprimerà la propria visione, con l’obiettivo di creare un dialogo dove più voci potranno essere d’accordo o scontrarsi tra di loro. In questo caso, testimone anche la scelta unanime del voto, otto, fortunatamente o sfortunatamente, abbiamo tutti concordato sulla bellezza intrinsteca di quest’album. Ma non vi anticipiamo altro.  Valerio Torreggiani, Alessio Belli, Federico Lorenzelli e Tommaso Di Felice iniziano, con voluto ritardo per poterne parlare con più distacco emotivo possibile – la morte di un artista stravolge, in qualche modo, la visione che si ha di ciò che ha prodotto –, con Blackstar di David Bowie.

VT: La stella nera è, almeno per me, astronomo profano, sostanzialmente simile a un buco nero. Scientificamente parlando non ho idea di quali siano le differenze tra i due elementi. Poeticamente parlando, però, mi sembra che la stella nera possa essere assunta a simbolo di mistero e d’ambiguità, campi nei quali Bowie è da sempre maestro: ambiguità sessuali, musicali, artistiche, identitarie. Di più: la stella nera sembra indicare un percorso, classico nelle sue forme, di smarrimento, ricerca e rinascita: «digging in the dirt», cantava un altro grande come Peter Gabriel. Blackstar incarna così la metafora astronomica di volontà di ricerca di suoni e forme musicali poco esplorate. La title-track è in questo senso totemica. Un trattato sintetico di sincretismo musicale: un riassunto di una carriera e – ahimè – di una vita intera. Il canto sofferto, la batteria incalzante, gli inserti jazzistici di sax e flauto; le orchestrazioni sinuose, l’atmosfera rarefatta e decadente; infine le aperture melodiche, in pieno stile bowiano. Se ci aggiungete “Lazarus”, con il suo incedere noise-noir, l’unica traccia secondo me davvero in continuità con il periodo berlinese – sembra uscita da Heroes – le coordinate del disco ci sono già tutte. Le altre tracce sono certamente belle canzoni, ottimamente pensate e realizzate, come “Dollar Days”, ad esempio, ballata intelligentissima; ma aggiungono poco a quanto già espresso da Bowie nei due brani precedentemente menzionati. Sono un gustoso contorno di una portata principale prelibatissima.

AB: La stella nera in questo caso – purtroppo – è anche qualcosa di associabile al lutto, alla dipartita, al proprio congedo. David Bowie quando inizia a concepire nella sua mente questo nuovo disco sa già che molto probabilmente sarà l’ultimo e dispone con sapiente e dolorosa perizia alcuni indizi tra i brani e i video. Per il sottoscritto, la prima fruizione di Blackstar – ovvero il videoclip dell’omonimo brano – , è stata una autentica ed ennesima folgorazione e l’immagine del teschio sotto la cupola spaziale si è rilevata in tutta la sua dolorosa potenza. Ancora più sofferti i versi del secondo singolo “Lazarus”: «Look up here, I’m in heaven I’ve got scars that can’t be seen I’ve got drama, can’t be stolen Everybody knows me now» Ma per quanto sia difficile prescindere dalla scomparsa dell’artista, è dovere di chi scrivere concentrasi sull’album, sulla musica e provare ad andare oltre l’addio di Bowie. La prima cosa da fare è notare il distacco rispetto a The Next Day. Il predecessore di Blackstar ci mostrava un Bowie ispirato e perfettamente realizzato in una purissima forma pop essenziale e d’impatto: una dimostrazione notevole da parte di chi si è permesso di scuotere la musica contemporanea fin dalle fondamenta. Ed adesso, con il senno di poi, riascoltare un pezzo come “Where Are We Now?” fa scender ancora più lacrime. Il successo di The Next Day (lavoro inaspettato visto l’annunciato ritiro dalle scene) ha portato Bowie a lavorare ad una seconda opera in cui prende forma la sua indole più sperimentale e teatrale. Sorvolando sui più o meno fattibili paragoni con la Triologia Berlinese (che per me rimane molto probabilmente il punto più altro raggiunto dalla musica “leggera” negli ultimi quarant’anni), la stella nera brilla di luce (oscura) propria. Blackstar è un viaggio profondo e intenso in cui il freejazz si mescola al noise, al prog e al dub e dove tutto però è sempre dominato dalla voce di Bowie, l’unica ancora di salvezza in questo percorso apocalittico. Avremmo parlato di capolavoro assoluto anche senza la dipartita del Duca bianco? Sì. Largo ai detrattori, qualora ci fossero.

FL : Ispirato da To Pimp a Butterfly del rapper Kendrick Lamar e dal duo elettronico Boards Of Canada, Bowie crea un pastiche sapiente di sonorità elettro – jazz, chitarre e fiati che si alternano, si mischiano, si separano, il tutto scandito da martellanti ritmiche dal sapore hip hop. Un album che riesce nella non semplice impresa di unire generi musicali ancora distanti, e di confezionare un disco lontano dai precedenti lavori, in antitesi con essi sia per contenuti che per suoni. Bowie parla di sé al passato, ora in terza persona, ma non è ancora pronto ad andarsene, a smettere di esprimersi, e ce lo fa capire, ce lo dice. Ed è quindi facile dire adesso che in Blackstar si possono percepire gli “ultimi” respiri musicali di Bowie; ma senza la sua dipartita avremmo comunque avvertito questa atmosfera noir come un lascito sonoro, magari non come un testamento, ma certamente come un disco agrodolce e anti-pop di un artista consumato che ancora ha la voglia di sperimentare e di indicare percorsi da esplorare. Chiude questo piccolo capolavoro, troppo breve per scelta o per necessità, con il lamento della sua voce, calma, pulita, triste:

«Seeing more and feeling less Saying no but meaning yes This is all I ever meant That’s the message that I sent I can’t give everything away»

La carriera di Bowie, si sa, è stata sempre caratterizzata sin dal principio dal cambiamento e perché no, anche da scelte non sempre corrette; ma questo è sempre stato il maggior pregio del Duca bianco, la voglia di sperimentare, di osare, di cambiare, di dettare i tempi e le mode, con le sue anticipazioni ante-litteram musicali, i suoi look androgini, glam rock, i molteplici personaggi interpretati, ma da vero gentleman inglese con l’eccentricità estrema che solo un inglese potrebbe avere. Si è sempre circondato di gente geniale e capace, Brian Eno, Tony Visconti, Stevie Ray Vaughan e Nile Rodgers, Iggy Pop, Lou Reed, l’elenco prosegue per ore, e in Blackstar non è da meno; Tony Visconti ancora una volta alla produzione lo accompagna nell’ennesimo esperimento. E come nel decennio d’oro degli anni ’70, ancora una volta è un successo.

TDF : È davvero difficile scrivere qualcosa riguardo a Blackstar. Smaltita la sbornia di RIP, l’esplosione dei social network, i vari flash mob e persino le commemorazioni dei media nazional-popolari, ora sì che si può dire qualcosa di più sull’ultimo lavoro di Bowie. Chiaro, quello che è successo due giorni dopo l’uscita dell’album ha avuto un peso non indifferente sulla stragrande maggioranza delle recensioni. Lasciarsi trascinare da questo isterismo collettivo del “eravamo tutti fan di X”, misto alla tristezza per la scomparsa di uno dei più grandi artisti del secolo scorso, è la cosa più sbagliata. Blackstar, indubbiamente, è stato un addio. Un addio incompreso perché nessuno o quasi aveva immaginavo minimamente cosa stesse per succedere. Certo gli elementi non mancavano mica: la stessa “Blackstar”, con i suoi dieci minuti, è la morte fatta musica e parole. Il video, poi, è un concentrato di angoscia e disperazione: teschi, eclissi e candele accompagnano strane figure impegnate in riti poco chiari. D’altronde pochi artisti hanno usato e giocato con l’immagine come il caleidoscopico Duca Bianco, confondendo e rinnovandosi continuamente. Anche “Lazarus”, per parole, arrangiamenti e video, è sulla stessa lunghezza d’onda. Il resto dell’album è qualcosa di completamente diverso, la voce si fa più calda e profonda, torna la luce oltre l’oscurità e qualche romantica ballata dal sapore marcatamente jazz chiude il tutto. Il bianco ed il nero insieme. Come aveva annunciato Tony Visconti, poco spazio al rock e così è stato. Blackstar potrebbe essere un album del 1978, come del 1994 o del 2030. Non ha tempo ed è geniale come tutto il resto della discografia, sempre attuale. Personalmente, rimarrò molto legato a Low e a “Warszawa”: correva l’anno 1976 e Bowie stava viaggiando con Iggy Pop, in treno, da Zurigo a Mosca. Il cantante londinese passò alcune ore a Varsavia, più precisamente tra la stazione di Dworzec Gdański e il quartiere di Żoliborz. Nella desolazione di quelle ore, nel grigiore di un distretto residenziale ma non troppo, David Bowie trovò la giusta ispirazione per comporre quel brano, con l’immancabile aiuto di Eno. Si dice che lo stesso Ian Curtis, ossessionato dalle funeree melodie e dalle distorsioni di “Warszawa”, decise di cambiare il nome degli Stiff Kittens in Warsaw, che da lì a poco diventarono i Joy Division. Ma questa è un’altra storia. Giù il sipario.

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Bengodi e altri racconti

“Bengodi e altri racconti”
di George Saunders

Bengodi e altri raccontiè la prima raccolta di racconti di George Saunders, già pubblicata da Einaudi nel 2005 con il titolo di Declino delle guerre civili americane. Minimux fax ha ripubblicato il testo, uscito negli Stati Uniti nel 1996, aggiungendo alla raccolta un racconto inedito e una nota introduttiva dell’autore che è un piccolo gioiello sull’arte del come si diventa scrittori. Un libricino a sé di quelli da tenere sempre a portata di mano quando siamo presi dallo scoraggiamento poiché tutto quello che vorremmo diventare ci sembra così irrimediabilmente lontano.

A unire gli otto racconti – uno dei quali, Bengodi (da cui la raccolta prende il nome), è molto più lungo degli altri – l’ambientazione particolare, che ritorna, con alcune varianti, di testo in testo: un mondo a metà strada tra il reale e l’irreale, il presente e il futuro prossimo, un luogo in cui, tra echi alla Philiph Dick, è facile calarsi per ritrovare molte delle derive dei nostri tempi. Può concretizzarsi in un centro divertimenti grande come una città (un centro in cui, per intenderci, una delle aree è intitolata Cultura&Abbronzatura, e nella quale il visitatore, entrato in una biblioteca fornitissima, mentre si fa una lampada urla il titolo di un libro che gli pare a certe liceali sui pattini. Ed è solo una delle tante possibilità), un quartiere di periferia di una città in cui sono esplosi gli scontri razziali, un parco attrazioni in cui si trova un Fabbricaonde insicuro, un centro intitolato Alternative Umane per i procioni – in cui i procioni dovrebbero essere messi in libertà e invece vengono soppressi con una leva smonta gomme non appena gli ignari clienti si sono allontanati –, fino ad arrivare al mondo stravolto di Bengodi, in cui i Difettosi (coloro che sono nati con deficit fisici o mentali) sono segregati in città separate e i Normali vagano dispersi e imbruttiti senza più coscienza né responsabilità.

In queste terre di mezzo, in questi luoghi-non luoghi, ogni aspetto è sviluppato per mettere alla prova i sentimenti umani. Così, inevitabilmente, a fare la differenza sono i personaggi. Anche in questo caso è possibile individuare un elemento che unisce tutte le storie, ripetendosi invariato di racconto in racconto: i protagonisti sono uomini e donne – uomini, perlopiù – che per un motivo o per un altro sono destinati a fallire, persone calate nelle situazioni per mancanza di alternative a cui non resta che rassegnarsi alla propria sorte. Se provano a cambiare le carte in tavola, nella maggioranza dei casi capitolano – Bengodi, forse, costruito con un finale aperto, lascia spazio alla possibilità di un cambiamento, ma è pur sempre ambientato in un orizzonte distopico con tratti non così lontani dal mondo stravolto della Strada di McCarthy. La regola è: ognuno salvi la propria pelle. A qualsiasi costo.

Cosa vuole comunicare Saunders? Quanta America c’è nei suoi racconti? Molta, è innegabile: le storture del consumismo, il desiderio forzato di divertimento, il conflitto feroce tra consumismo e morale – ed è sempre il primo, in Bengodi a prevalere. Ma non bisogna dimenticare quanto conti, per la gestazione della raccolta, la componente personale. È Saunders stesso a rivelarlo, quando nella Nota dell’autore scrive: «Il mondo in cui mi trovavo a vivere allora era strano, un mondo che cercavo di evitare da quando ero nato: un mondo di scartoffie e cubicoli, con la cravattina da quattro soldi che indossavo ogni volta che entrava il “cliente”, un mondo che sapeva di caffè bruciato nel tardo pomeriggio; un mondo di lunghi corridoi bianchi e arredi anonimi/ridotti all’osso (niente quadri alle pareti, niente fiori nei vasi), un mondo di resoconti da cinquecento pagine intitolati Studio a lungo termine dei possibili effetti di una presunta perdita di benzene sulla qualità dell’aria al coperto di Riley Street […]». L’immaginazione di Saunders viene da qui. «Ero giovane», ha affermato di recente in un’intervista, «non avevo un dollaro, ma ero già padre di due bambini: facevo un lavoro che detestavo. Avevo bisogno nella scrittura di qualcosa di eccessivo».

Lontana dalla bellezza stilistica tradizionale, quella che lo stesso Saunders battezza come «il triplo descrittore letterario», la scrittura di Bengodi è comica e cupa insieme, schietta e satirica. Thomas Pynchon, a proposito di questo testo, disse che quella di Saunders è «una voce straordinariamente intonata: aggraziata, cupa, sincera, e ci racconta storie che abbiamo bisogno di affrontare di questi tempi». Ci sono racconti in cui il taglio satirico è più marcato e altri in cui la componente emotiva sovrasta ogni altro elemento – Isabelle, tra gli altri, è un racconto che tocca picchi emotivi molto alti.

Per chi ha conosciuto e apprezzato l’autore con Dieci dicembre, può essere interessante risalire alle sue origini scrittorie: Bengodi, dice lo stesso Saunders, altro non è che, come ogni libro, «un tentativo fallito che, ciò nonostante, è sincero, sudato, ed emendato il più possibile […] da ogni falsità e quindi imbevuto di una sorta di purezza». È in questa purezza, autentica e cristallina, che il lettore di Bengodi si imbatte, nonostante (o forse proprio per questo) essa sia da ricercare in luoghi come la Grotta Industriale, la Tana della Pasta o il Ricettacolo dei Maiali Integratori della Dieta – che nulla ha a che vedere, chiaramente, con quello dei Maiali che Creano Atmosfera.

 

(George Saunders, Bengodi e altri racconti, trad. di Cristiana Mennella, minimum fax, 2015, pp. 213, euro 16)

 

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Anomalisa

“Anomalisa”
di Charlie Kaufman e Duke Johnson

L’animazione non è più una cosa per bambini da tanti anni. La Pixar lo ha messo in chiaro da un po’ di tempo, a livello di grande distribuzione, e la rivalutazione globale dei lavori dello Studio Ghibli ha consolidato questa certezza. Quest’anno i premi Oscar lo dimostrano una volta di più. Nella cinquina dei candidati al premio per il miglior film di animazione, oltre a Inside Out che vincerà, ci sono film che sono senza alcun dubbio rivolti al pubblico adulto. Su tutti, Anomalisa, film in stop-motion firmato da Charlie Kaufman e Duke Johnson.

In passato è già capitato che registi più o meno eclettici abbiano deciso di provare la strada del cinema animato, a un certo punto della loro carriera. Per lo stop motion viene subito in mente Tim Burton, o Wes Anderson con Fantastic Mr. Fox. Per la computer grafica ci sono gli esempi recenti di Robert Zemeckis (Polar ExpressA Christmas Carol) e Steven Spielberg (Tin Tin e il segreto dell’unicorno). Film che guardavano, comunque, all’infanzia come pubblico di riferimento. Anomalisa porta il discorso su un piano completamente diverso. È un film adulto, per adulti, animato da una vena profondamente malinconica, se non addirittura pessimistica.

Michael Stone è un affermato scrittore di manuali per il costumer care. Nei suoi libri insegna come migliorare la qualità dei servizi, con un costante incremento dei risultati del 90%, garantito dai lettori. La sua vita, però, non è soddisfacente. Mentre è in viaggio d’affari a Cincinnati, nell’elegante Fregoli Hotel, telefona a un vecchio amore con cui si era lasciato male dieci anni prima per cercare di vincere quel senso di vuoto che una moglie e un figlio non hanno saputo colmare, ma non serve a niente. È un incontro casuale con Lisa, una donna arrivata in città per assistere alla sua conferenza, a dargli nuovi apparenti stimoli. Forse è un nuovo inizio, forse è solo un’illusione.

Arrivando per la prima volta all’animazione in stop motion (con il contributo fondamentale di Duke Johnson, autore di corti e serie tv animate) Charlie Kaufman, lo sceneggiatore di Essere John Malkovich, di Il ladro di orchidee, del premio Oscar Se mi lasci ti cancello e regista di Synecdoche: New York, cambia molte cose del suo modo di fare cinema, in un modo che è senz’altro inatteso rispetto alle possibilità che il nuovo linguaggio sembrava fornirgli. Non è solo un discorso di tecnica, ovviamente. Il passaggio all’animazione coincide con un nuovo approccio alla scrittura. Alla complessità labirintica dei suoi film è subentrata con Anomalisa una linearità minimalista, una riduzione dell’immaginario anziché una sua espansione.

È sempre presenta la vena onirica, per non dire surreale, propria del cinema di Kaufman, ma qui, di fronte alla possibilità infinite offerte dall’animazione, a prevalere è una dimensione umana che cede solo a tratti il passo all’immaginazione più sfrenata. Certo, le premesse e il linguaggio, sono quelli già visti nei lavori precedenti, in particolare il tema centrale: la solitudine umana e l’impossibilità fondamentale della felicità nella vita, sia data dalle relazioni o dal lavoro. Il mondo di Michael Stone è abitato da un solo volto e da una sola voce oltre alla sua. Tutti – uomini, donne, bambini, sconosciuti, sua moglie, suo figlio – intorno a lui parlano con la stessa voce (un unico doppiatore, Tom Noonan in originale, Stefano Benassi in italiano), tutti hanno gli stessi lineamenti. In questo inquietante mondo di simili, che è l’idea più potente del film, si inserisce un’anomalia, Lisa, che parla con voce unica, che ha un volto diverso dagli altri. È una donna normale, nella maniera più assoluta, ma Michael vede in lei la possibilità di un cambiamento. È l’unica altra persona del mondo, la sua Anomalisa, che può sottrarlo al grigio del quotidiano.

Come nei film precedenti, come in Se mi lasci ti cancello Synecdoche, le cose tendono a svilupparsi naturalmente verso la costruzione di una gabbia in cui imprigionare l’individuo. La novità si trasforma presto in routine, il brivido della scoperta nel tepore insipido della certezza. L’ossessione diventa un luogo un rifugio. Rispetto, però, agli splendidi collassi della memoria del film di Gondry o alle architetture enormi e impossibili in cui si perde Philip Seymour Hoffman nell’unica altra regia di Kaufman (ci sarebbe anche un film tv del 2014, How and Why), Anomalisa rimane ancorato a poche dimensioni – l’aereo, il taxi, l’albergo, la stanza – aumentando il senso di prigionia claustrofobica di Michael Stone e del suo mondo in cui ogni cosa si confonde e le emozioni si perdono.

Finanziato con una campagna su kickstarter e passato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Anomalisa usa l’animazione in un modo del tutto anti-convenzionale, ricercando l’imperfezione tecnica per sottolineare l’imperfezione delle vite raccontate, ricercando l’assoluta verosimiglianza del mondo umano, non una sua sublimazione simbolica.

Il messaggio di fondo, che arriva in maniera forse troppo precipitata nel finale, è che la solitudine è una condizione impossibile da aggirare per l’uomo perché ne è lui stesso la causa, con il suo egoismo. A dirlo, è un film di umanissimi pupazzi di plastilina. Ci sono almeno due momenti che possono bastare per fare cinema: Lisa che canta “Girls Just Want to Have Fun” di Cindy Lauper («I want to be the one to walk in the sun, io voglio essere quella donna»), anche in una sorprendente versione in italiano, e la scena di sesso, goffa e tenera, di un realismo assoluto e fragile.

 

(Anomalisa, di Charlie Kaufman e Duke Johnson, 2015, animazione, 90’)

 

Repertorio dei matti della città di Roma

“Repertorio dei matti della città di Roma”, a cura di Paolo Nori

Li troviamo agli incroci, in periferia, vicino ai monumenti o ai luoghi di ritrovo, spesso ci vengono incontro inveendo senza osservarci, ancora più spesso ci ignorano deridendo in silenzio la nostra noiosa sanità mentale.
Sono gli eccentrici, gli incompresi, i borderline, o più comunemente definiti matti, quelli che popolano ogni città che si rispetti, che sono parte integrante di esse, opere d’arte urbane in movimento che tracciano una netta linea di confine tra il loro mondo e il nostro.

Ed è proprio a questi personaggi che Paolo Nori presta attenzione, con l’intento di realizzare attraverso una serie di seminari nelle principali città d’Italia, una consistente mappatura che li contenga tutti in piccoli libretti, un po’ come si fa, a sentire Nori, con le guide dei ristoranti e degli alberghi.

Così dopo Bologna, Milano e Torino, prende vita il Repertorio dei matti della città di Roma (Marcos y Marcos, 2015), concepito durante una serie di incontri tra marzo e maggio 2015 nella libreria romana Altroquando.
Probabilmente Roma è il palcoscenico per eccellenza di squinternati fuori luogo e fuori tempo, alcuni sconosciuti altri piuttosto popolari, e tutti trovano posto in queste pagine, certo all’apparenza in modo disordinato e senza senso logico ma, bisogna dirlo, pur sempre coerente con il tema trattato.
Attraverso questa vera e propria guida dei matti riconosciamo ogni via, piazza e quartiere della capitale, dal Pigneto a San Lorenzo, da Porta Maggiore a Ostiense, a piazza Bologna, fino a Ponte Milvio dove c’era gente che andava in giro ad attaccare lucchetti a un palo; ma c’era anche chi stanco di abitare in una strada che non aveva nome, un giorno, sotto casa sua aveva piantato un cartello dove c’era scritto: «Via Meglio di Niente».

E continuando a sfogliare questo divertente repertorio possiamo trovare davanti alla stazione Termini un tassista che una volta aveva tirato fuori una sciabola per sfidare un collega che gli aveva preso una cliente, o invece uno che diceva di essere spiato dai russi del Te Che De, che forse era la sua versione del Ke Ghe Be (KGB), o ancora una che aveva comprato un registro contabile dove annotava tutto quello che faceva, così da avere sempre un alibi nel caso fosse stata accusata di qualcosa.
Poi c’era quella signora che viveva in un appartamento con due piccoli balconcini in un prefabbricato a Monteverde e raccontava sempre alle nipoti che un giorno quando era giovane sulla sua terrazza ci ha trovato D’Annunzio e un asino, oppure quella che abitava in una villa al Gianicolo convinta che gli aerei volassero a bassa quota vicino casa sua perché i piloti la corteggiavano.
C’è da dire però che, per quanto ironiche e spassose, queste figure non sono altro che il prodotto di una realtà convulsa e caotica che ci vuole e ci mantiene sempre tutti al limite tra la normalità e la pazzia, non c’è dunque da stupirsi se alcuni di questi comportamenti stravaganti li ritroviamo nelle persone che conosciamo e incontriamo tutti i giorni.

Ancora più interessante e provocatoria, però, è stata la scelta di inserire allusivamente alla collezione le stranezze di politici, personaggi pubblici, noti criminali, attrici che hanno fatto la storia del cinema italiano e, sorprendentemente, anche del capo della chiesa.
«“Marcello Marcello…” diceva una che una volta s’era buttata tutta vestita dentro la fontana di Trevi per farsi il bagno».

 

(Repertorio dei matti della città di Roma, a cura di Paolo Nori, Marcos y Marcos, 2015, pp. 200, euro 10)

 
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Il caso Spotlight

“Il caso Spotlight”
di Tom McCarthy

È presentato come il film dell’anno, Il caso Spotlight, il film di Tom McCarthy passato fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia e ora tra i grandi favoriti alla corsa agli Oscar con sei nomination di quelle molto pesanti: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior attore non protagonista per Mark Ruffalo, migliore attrice non protagonista per Rachel McAdams e miglior montaggio. Perché è il miglior film dell’anno? Non è solo un giudizio soggettivo del blurb di Newsweek che campeggia sulla locandina italiana. C’è un fattore oggettivo, o almeno statistico. Nella awards season in corso – il periodo in cui il cinema statunitense premia se stesso attraverso i riconoscimenti di categoria – questa ricostruzione di una vera, fondamentale inchiesta giornalistica di inizio 2000 ha vinto diciassette volte il premio per il miglior film. Diciassette.

Certo, sembra sempre più scontato che agli Oscar ci sarà di nuovo il trionfo di Alejandro González Iñárritu con Revenant – Redivivo dopo il successo di Birdman della passata edizione, ma Il caso Spotlight è un film che ha il potenziale per diventare memorabile, uno di quei film che fanno  da riferimento quando si guarda alla storia del cinema, sicuramente alla storia di un certo genere cinematografico. Ricostruendo la vera storia dell’unità investigativa Spotlight in forza al Boston Globe (tra l’altro, c’è da chiedersi per l’ennesima volta come sia stato scelto il titolo italiano: l’originale è Spotlight e non c’è nessun “caso” Spotlight, al massimo c’è il caso su cui indagano), Tom McCarthy è riuscito ad arrivare ai livelli del miglior cinema giornalistico statunitense, vicino a quel Tutti gli uomini del presidente che è modello dichiarato e a tutti i momenti migliori dell’elogio del giornalista come eroe civile.

Il team Spotlight, quello vero e quello del film, è un’unità di giornalisti del Boston Globe specializzata in inchieste di approfondimento. Nel 2000, con l’arrivo del nuovo direttore Martin Baron, da Miami, il gruppo di reporter iniziò un’indagine sugli abusi sessuali perpetrati dalla chiesa cattolica in città. Partendo dalle segnalazioni relative a un singolo reverendo, John Geoghan, arrivarono a smantellare un sistema di omertà che coinvolgeva i vertici del cattolicesimo statunitense in uno dei primi grandi scandali sessuali della storia religiosa occidentale. L’inchiesta nel 2003 ha vinto il premio Pulitzer (in Italia la potete trovare all’interno dell’antologia Sette pezzi d’America pubblicata da minimum fax) e ha aperto poi la strada a molte altre rivelazioni.

Ci sono molti motivi per cui Il caso Spotlight è un grande film. Partendo dal primo, forse il più semplice e banale, si affida a un cast di grandissimo livello e in stato di grazia. Agli Oscar sono arrivate le nomination di rappresentanza per Mark Ruffalo e Rachel McAdams, in altri casi hanno deciso più saggiamente di premiare l’intero cast, che include Michael Keaton (sempre più ri-lanciato dopo Birdman), Liev Schrieber, Stanley Tucci e Brian D’Arcy James. Ognuno di loro ha lavorato da vicino con i veri protagonisti (un po’ di nomi: Walter Robinson, Sacha Pfeiffer, Mike Rezendes) e declina il mestiere di giornalista in modo diverso, fa capire l’universo che ognuno dei personaggi si porta appresso senza ostentarlo.

Per continuare, il film di McCarthy è probabilmente l’elegia migliore per il giornalismo classico, quello stampato nella notte. Pur essendo ambientato solo quindici anni fa, il mondo dell’informazione è oggi una cosa completamente diversa rispetto ad allora. L’edizioni online erano una novità appena accennata, non esistevano i blog. Come per le cassette di David Lipski in The End of the Tour o la contrapposizione tra il reporter vecchio stampo Russell Crowe e la blogger Rachel McAdams (di nuovo lei) in State of PlayIl caso Spotlight esalta il giornalismo di carta, quello dei cronisti che si sbattono di qua e di là alla ricerca della notizia, con i loro strumenti, i loro attrezzi del mestiere. Non siamo al «That’s the press, baby» di Humphrey Bogart, ma Michael Keaton rimane fuori dalla sede del Globe a vedere i camion partire per consegnare i giornali alle edicole, per vedere fisicamente la notizia propagarsi in città.

Soprattutto, a rendere grande Il caso Spotlight, è il modo in cui viene trattato tutto il tema degli abusi sessuali della chiesa sui minori. Boston è una città dalla fortissima identità religiosa, la più cattolica degli Stati Uniti. La formazione religiosa è parte integrante della cultura locale. La Chiesa è ovunque, è una presenza costante.

Ogni volta che i giornalisti vanno a intervistare una delle vittime degli abusi compare in qualche modo una chiesa, sullo sfondo, in un angolo della ripresa, a testimoniare la presenza che da rassicurante passa a essere minacciosa. La maggior parte degli abbonati del Globe è cattolica, il nuovo direttore Baron ha in agenda un incontro con l’arcivescovo Law come uno dei primi appuntamenti del suo mandato. L’arcivescovo gli regala una Bibbia, e gli spiega che se giornale e chiesa collaborano sarà meglio per entrambi. Eppure Baron rinuncia, perché c’è da difendere la verità, da rivelarla, è necessario smettere di proteggere i pochi per tutelare i molti.

La verità più dolorosa che il gruppo Spotlight trova indagando è che già in passato al Globe erano arrivate notizie sugli abusi, ma erano sempre state ridotte a cronaca, non denunciate come qualcosa di più grande. Senza cercare lo scandalo, senza ostentare l’orrore in primo piano, ma anzi affidandolo ai racconti delle vittime, al lavoro inesauribile dell’avvocato Mitchell Garabedian (Tucci), Il caso Spotlight fa capire l’enormità di quello che il vero Spotlight ha rivelato, della pazienza di un lavoro snervante di accumulo, di scavo nel terribile. Comunque vada agli Oscar, è un film da ricordare.

 

(Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, 2015, thriller, 128’)

I giganti della montagna Luigi Pirandello recensione Flanerí

“I giganti della montagna”
regia di Roberto Latini

«Io ho paura». Inizia con queste parole I giganti della montagna, adattamento del dramma incompiuto di Pirandello a cura di Roberto Latini. Sono le parole con le quali si conclude il copione mai terminato di una delle opere più complesse e misteriose del drammaturgo siciliano. Un intricato vortice di voci, di immagini intense e profondamente evocative, di incubi e allucinazioni.

Una compagnia di attori che viaggia verso un luogo oscuro per cercare di mettere in scena il proprio spettacolo, in un pellegrinaggio attraverso tempi e luoghi indefiniti e ai limiti dell’assurdo, del sogno, dell’incubo. L’arrivo nella spettrale villa degli Scalognati, l’incontro con i personaggi grotteschi che vi abitano. Un continuo confronto fra anime e voci diverse, opposte, ma tutte inesorabilmente unite dalle loro fragilità. Latini, da solo, dà vita a ognuna di loro, plasmando movimenti e immagini sempre nuove, espresse all’interno di uno scenario metafisico fatto di colori e tenebre, di trasparenze, di luci inebrianti, nuvole lattiginose e bolle di sapone che cadono come gocce di pioggia su un campo di grano immobile e secco.

La mente e le parole dei personaggi sono rappresentati attraverso continue mutazioni, che non caratterizzano solo l’attore sulla scena, ma anche la scenografia e l’elemento sonoro, che grazie alle composizioni musicali di Gianluca Misiti e alle distorsioni della voce narrante regala ulteriore profondità alla creazione artistica.

Ogni singola parte che compone la scena fa sentire sempre più vicini il senso di provvisorietà e le inquietudini che non abbandonano i personaggi neanche per un attimo: sensazioni umane, dalla semplicità disarmante, trasposte in modo da sembrare nient’altro che visioni spaventose.

I giganti della montagna è uno spettacolo che ci sottopone a un flusso inarrestabile di visioni oniriche ai limiti della realtà, e non si può fare altro che continuare ad ascoltare le strazianti parole pronunciate dai personaggi e a leggere quelle che campeggiano davanti ai nostri occhi, bianche sullo sfondo nero di una parete semitrasparente. La prima di queste parole, impressa a grandi lettere ad accogliere l’ingresso del pubblico in sala, è «Immaginazione!». L’immaginazione è lo strumento più potente utilizzato dal regista per andare oltre le parole di Pirandello e superarne i limiti conosciuti. Non solo quelli del tempo e dello spazio, ma anche e soprattutto quelli della parola e del linguaggio.

«Se i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo, per andare appena oltre, per provarci almeno, devo muovere proprio da quelli». Latini non solo ci prova, ma ci riesce alla perfezione, partendo dall’incompiutezza per arrivare a una creazione completa, densa e suggestiva, che va al di là dei meccanismi rappresentativi e delle sfumature tipicamente pirandelliane. D’altronde è proprio l’incompiuto che ci permette di inventare nuove definizioni, di superare i limiti di ciò che conosciamo, immaginandone di nuovi, sempre.

 

I giganti della montagna

di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
video Barbara Weigel
elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini
assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu
direzione tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri

Prossime date:

Roma, Teatro India, dal 17 al 28 febbraio 2016

È così che si uccide Mirko Zilahy recensione Flanerí

“È così che si uccide”
di Mirko Zilahy

Il problema dei thriller è che è si tratta di nebulose a sé stanti nel panorama letterario, e, per quanto riconosca la bravura sintattica di Mirko Zilahy, per quanto apprezzi le intuizioni brillanti e macchinose che stanno dietro al disvelamento dell’omicida seriale di turno, per quanto la lettura sia scorrevole e mantenga alta la suspense, è il genere che non riesco proprio a farmi piacere. La seguente analisi, perciò, tenterà di mantenersi il più possibile obiettiva e di domare lo scarso entusiasmo per uno stile narrativo per il quale non ho mai tremato d’ardore.

In È così che si uccide (Longanesi, 2016), lo schema attorno al quale si avviluppa l’intreccio è abbastanza classico: c’è un ispettore incaricato di risolvere le indagini con una vita privata tormentata, che si strugge di malinconia per la morte recente della moglie Marisa, c’è un assassino con un passato di sofferenza che ci rende le sue efferatezze un po’ meno disumane, ci sono le atmosfere fumose e degradate della periferia metropolitana, e c’è anche una buona dose di sadismo. Tutti elementi imprescindibili per la messa in scena di un romanzo poliziesco che si rispetti.

Però l’impressione è che ognuno dei personaggi sia la rappresentazione stereotipata e un po’ esasperata di quello che ci si aspetterebbe da lui o da lei in quanto protagonisti di un testo hard boiled. Le ossessioni, i tic e i vizi assegnati alle personalità presenti fra le pagine si rivelano facilmente prevedibili, rendendo poco interessante l’approfondimento psicologico che l’autore non trascura per nessuna di loro. Così risulta anche per l’assassino, che per quanto inquietante, disturbato e spietato, alla fine suscita pure un pizzico di empatia.

Piuttosto, la vera intuizione di questo lavoro sta nel raccontare Roma come pochi hanno fatto, ambientando l’azione nei sobborghi popolari, nelle aree lontane dalle attrazioni turistiche, all’ombra di quei monumenti che nella nota finale al romanzo Zilahy definisce «scheletri meccanici». Perché tra l’Ostiense, l’ex mattatoio di Testaccio e il polo del Porto Fluviale esiste una Roma parallela e ignorata dai flussi turistici, che ogni giorno sputa e bestemmia tra il grigio dei palazzoni trascurati – eredità di progetti di sviluppo industriale ormai accantonati – ignorata dalla sua gemella bella ed eterna che ancora vive di rendita per il suo passato glorioso.

E insomma, se vi piace il genere, non pensate di leggere È così che si uccide per scoprire la nuova opera rivelatrice del noir italiano contemporaneo, ma piuttosto per constatare il buon uso di una prassi narrativa consolidata. Se non vi piace il genere, leggetelo per immergervi nella Roma delle borgate. E se vi piace il genere e anche Roma nell’inedita veste di metropoli periferica, leggetelo per entrambe le suddette ragioni.

 

(Mirko Zilahy, È così che si uccide, Longanesi, 2016, pp. 410, euro 16,40)

 

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Gli anni

“Gli anni”
di Annie Ernaux

Hanno scritto di John Berger: «Quell’opera che è penetrata nella sua vita e che lo interroga sembra bramosa di risposte. Come se fosse arrivata da quel futuro che è il passato e fosse casualmente presente per ospitarlo e attraverso di lui incontrarci in un vortice di connessioni, confronti, associazioni, vacillamenti, immaginazioni che, attraverso l’oscurità, forse ci ricondurranno insieme alla luce».

Questo perché John Berger, critico d’arte, scrittore e pittore, è sopratutto un mastodontico detentore di sguardi, un poderoso disarmante attraversatore d’immagini, capace di ciò che ci sfugge. Ed è paradossale quanto in un anfratto temporale come questo, in un ingorgo perenne di stimoli e visioni, centrifugati appena prima di rendersi pensieri, si resti spesso impreparati davanti a una foto. Ci diluviano addosso, di sorrisi imperativi e riflussi torrenziali, ma non sappiamo leggerle. Non come dovremmo. Occhi monchi, mani miopi, le vediamo susseguirsi più o meno trionfalmente. Sono loro a correre o siamo noi che le rincorriamo? Eppure, sono quanto ci resta. Il brandello reificato di quel passare inafferrato che chiamiamo vita.

Annie Ernaux lo sa, lo ha capito e dimostrato con dovizia. Nel suo romanzo più recente, autobiografico e impersonale, singolo e trasversale, intitolato Gli anni (L’Orma, 2015), ha scelto proprio un corredo di foto come spunto narrativo. Una sequela di tracce incorniciate per dipanare la sua Storia e quella collettiva. E da quel guardare, da quello sversamento inesorabile di umori, sbiadimenti e sensazioni, sgorga l’esatta trasparente ragione del suo scrivere.

È lei stessa a illustrarcelo, fingendo di preannunciare in coda ciò che di fatto è già avvenuto: «La forma del suo libro può dunque emergere soltanto da un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell’epoca, dell’anno, più o meno certo, nel quale esse si situano –per collegarle tra loro e ad altre ancora, e sforzarsi di ascoltare le parole delle persone, i commenti sui fatti e sugli oggetti estrapolati dalla massa fluttuante dei discorsi, quel vociare che apporta senza tregua le continue formulazioni di ciò che siamo e dobbiamo essere, pensare, credere, temere, sperare».

Guardare per sentire, quindi. Ritrovarsi tra le dita un frammento del proprio stare al mondo, una foto erogata con tecniche e velocità variabili, e da quel minimo lascito, da quella data appostata sul retro, ricostruire un senso, intimo e globale, che ovviamente è appartenuto solo a lei e in cui ovviamente (per i francesi in prima istanza e per tutti noi europei) è impossibile non riconoscersi affatto.

Comincia dal ’40 questa trama, da mesi di guerra che anneriscono i denti e le lenzuola. Comincia da un neonato grassoccio e imbronciato, appollaiato al centro di un tavolo intarsiato. Un tentativo rituale di scacciare l’ombra, la miseria e il timore che aleggiano ancora e comunque, oltre i bordi sommessi di quel debutto celebrato. È lei quel soprammobile di carne, arrivata nel pieno di un buio arrovellato. È lei quella bambina che ignora di essere nata in un mondo che s’insanguina, che escogita motivi per odiarsi a dovere. Poi quella bambina cresce, in un vestito a balze e con i riccioli più ampi. La guerra è cessata, ma non la povertà e i racconti infiniti di tutto quel dolore, cantilenati a tavola senza un cenno di stanchezza, esorcizzano e rinnovano un patto. La tacita coscienza di avere le spalle ancora fredde, di non scordarsi quell’orrore affinché ogni giorno sia distante, sia distinto. E poi via, trapassando le stagioni, le grandi illusioni, l’irrompere del rock come nuova religione, il ’68 francese dilagante quando Annie era già madre, responsabile di un avvenire più esteso del proprio.

«Noi, che fino ad allora ci eravamo schierati solo blandamente dalla parte dei lavoratori, che compravamo cose senza desiderarle davvero, ci riconoscevamo negli studenti di poco più giovani che lanciavano sanpietrini ai poliziotti. Al posto nostro chiedevano conto al potere di anni di repressione e censura […] Vendicavano l’addomesticamento della nostra adolescenza, il silenzio rispettoso nelle aule magne, la vergogna nel far entrare i ragazzi di nascosto nelle stanze dello studentato».

L’ondata si acquieta e il nuovo culto si conta in moneta. È il denaro, lo status di cliente a denotare l’uomo. Mercificato, soppesato, accalappiato solo in virtù della sua propensione all’acquisto. Un burattino del consumo. «Il centro commerciale, con il suo ipermercato e le sue gallerie di negozi, diventava il luogo principe dell’esistenza, quello della contemplazione inesauribile degli oggetti, del godimento calmo, senza violenza, protetto da guardie giurate dai muscoli forti».

Eccoci qui, ancora una volta radiografati per bene, da un continuo imperfetto, un tempo immutabile pronto a ogni mortale condizione. Annie Ernaux con Gli anni parla in terza persona, guarda quel sé incagliato nelle immagini, essendo già altro, imprendibile se non a distanza. E la sua lucidità, che non demonizza e non scagiona, ci infligge un ritratto innegabile. Il nostro esserci istantaneo, sperperato nei naufragi quotidiani.

Un romanzo che non comincia mai e che quando finisce ci ha raccontato tutto. Con dialoghi impliciti, sottocutanei intrecci e il bisogno feroce di non svanire, mentre ciò che affermiamo sta evaporando. «Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio e nessuna parola per dirlo».

E allora, per un attimo per sempre, con un libro o con un sogno, scattiamo una foto. Senza mai disimparare a guardarla.

 

(Annie Ernaux, Gli anni, trad. di Lorenzo Flabbi, L’Orma, 2015, pp. 276, euro 16)

 
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The End of the Tour Poster Flanerí

“The End of the Tour”
di James Ponsoldt

Tratto da Come diventare se stessi (minimum fax), The End of the Tour è la trasposizione cinematografica firmata James Ponsoldt dell’intervista che David Lipsky fece a David Foster Wallace durante gli ultimi cinque giorni del tour promozionale in giro per gli Stati Uniti di Infinite Jest. I due scrittori non si conoscevano, non si erano mai incontrati. Da quell’incontro, voluto da Rolling Stone per realizzare un servizio su Wallace come mito in costante crescita, nacque una di quelle amicizie potenti e assolute destinate a durare pochissimo.

Cosa è stato Wallace per la letteratura degli ultimi venti anni e cosa sia diventato dopo il suicidio nel 2008 è cosa ben nota: se ne è parlato ovunque e in qualsiasi modo, si è dibattuto della potenza delle sue opere, della sua visione capillare della società americana, per alcuni era un furbo impostore, per altri una divinità. Dall’anno della morte sono state pubblicate, solo negli Stati Uniti, dodici monografie, è uscito il suo romanzo postumo, Il re pallido, sono stati scritti articoli, tesi di laurea, è stato realizzato un (brutto) film dal suo libro Brevi interviste con uomini schifosi. In futuro, forse, arriverà una serie tv su Infinite Jest targata Martin Scorsese. Come per ogni personaggio ingombrante, infine, la sua morte ha portato in modo quasi naturale a schierarsi in maniera retorica nei suoi confronti – magari non più come letterato, magari come icona: da una parte chi lo odia, dall’altra chi lo ama.

È proprio in questo che The End of the Tour funziona: l’equilibrio. Non siamo di fronte né a un’agiografia, né a un tentativo di screditare l’opera di una scrittore. Tracciare un profilo, seppur parziale, di un personaggio come Wallace, oggi, è un lavoro delicato. Wallace è un autore che più di chiunque altro ha saputo, negli ultimi anni, essendone parte attiva e non solo antitesi, plasmare l’idea di ciò che erano e sono gli Stati Uniti contemporanei (e di riflesso il mondo occidentale): le ossessioni, le dipendenze, la tv, lo sport, il cibo spazzatura, la depressione, il suicidio, diventando per ciò – soprattutto per come si è sviluppata l’immagine collettiva del Wallace dopo la morte – l’incarnazione stessa della cultura americana. Ha avuto e ha la scomoda, o comoda, posizione di aver incarnato e di incarnare ancora gli aspetti virtuosi e i loro opposti di una cultura antropologicamente ambigua. Wallace era a tutti i livelli la materia di cui parlava. Tornando indietro di qualche anno, in un’altra America, quando Hemingway parlava di caccia, Hemingway era la caccia. Allo stesso modo, quando Wallace parlava di tv, Wallace era la tv.

La possibilità, dunque, di schierarsi da una parte o dall’altra della barricata era senz’altro un rischio probabile, un po’ per moda, un po’ per convinzione. Ponsoldt, invece, è riuscito a far muovere, in quello che a tutti gli effetti è un road-movie nella psiche dello scrittore nato a Itacha, un David Foster Wallace (e ovviamente un David Lipsky, di cui per ovvie ragioni si sa e si immagina meno) che appare drammaticamente naturale. Al centro di The End of the Tour c’è la fragile complessità di Wallace come uomo, non come scrittore.

Tipico esponente del cinema indipendente americano da Sundance, James Ponsoldt si è fatto notare definitivamente nel 2013 con The Spectacular Now, premiato in vari festival in giro per gli Stati Uniti e trampolino di lancio per i giovani protagonisti Miles Teller (quello di Whiplash) e Shailene Woodley (quella della serie Divergent). Con The End of the Tour ha avuto il coraggio di alzare il tiro del suo cinema (non lo abbasserà, in futuro: sta realizzando un film tratto da Il cerchio di Dave Eggers) confrontandosi con un’icona della cultura mondiale contemporanea.

Per farlo si è affidato a Jason Segel, famoso soprattutto per le sue parti comiche e per aver interpretato Marshall Eriksen nella sit-com How I Met Your Mother, ma di cui già si intravedeva la potenzialità nell’interpretare questo tipo di personaggio introverso e fragile nel film mumblecore A casa con Jeff, e a Jesse Eisenberg, noto per esser stato Mark Zuckerberg in The Social Network di David Fincher. Ha fatto benissimo. I due si conoscono, si piacciono, discutono, ridono, si invidiano, si innervosiscono: vivono una vita compressa in cinque giorni, andando a esplorare i vari lati dell’essere umano, della propria individualità, della capacità e dell’incapacità comunicativa, del compromesso intrinseco che scatta nel momento in cui bisogna relazionarsi con ciò che non è noi stessi, e lo fanno in maniera così naturale da poter interessare anche chi, dell’opera o della vita di David Foster Wallace, sa poco o nulla.

 

(The End of the Tour, di James Ponsoldt, 2015, biografico/drammatico, 106’)

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Armi e bagagli

“Armi e bagagli”
di Enrico Fenzi

Nel 1987 uscì per l’editore genovese Costa & Nolan Armi e bagagli, un libro fondamentale per capire quello che erano state le Brigate rosse negli anni immediatamente precedenti, tra i più complicati nella breve storia della Repubblica italiana. A scriverlo era stato Enrico Fenzi, un’esponente della colonna genovese che aveva deciso di raccogliere in forma narrativa i ricordi degli anni della lotta armata, tratteggiando quello che è uno dei più interessanti quadri d’insieme dall’interno degli anni di piombo in Italia. Oggi questa opera importantissima torna in libreria grazie a Egg edizioni.

Enrico Fenzi, sulla sua pagina Wikipedia è definito in apertura come «ex terrorista e storico della letteratura italiana». Come studioso, è ritenuto tra i massimi di Dante e Petrarca (nel 2008 ha pubblicato la monografia Petrarca per Il Mulino). Come terrorista, è stato un esponente della colonna genovese delle Brigate rosse, il nucleo terroristico fondato direttamente da Mario Moretti e Rocco Micaletto che nel giugno del 1976 fu co-responsabile, insieme al comitato esecutivo centrale, del primo omicidio di natura puramente politica delle BR: l’assassinio del giudice Francesco Coco e di due uomini della sua scorta. Tra il 1975 e il 1981, il nucleo ligure fu responsabile di una serie di attività tra le quali sei omicidi e quindici ferimenti. La colonna genovese fu, tra le sei divisioni delle Brigate rosse (le altre avevano sede a Milano, Torino, nel Veneto, a Roma e a Napoli), una delle più organizzate sul piano dell’azione militare e delle più coese dal punto di vista ideologico, con l’attenzione della lotta rivolta quasi esclusivamente alla questione operaia.

«Che avveniva nelle fabbriche? Quello era il grande continente sconosciuto, e la meta di tutti i nostri andirivieni», è l’interrogativo che pone Fenzi, che mostra la tendenza costante della colonna alla ricerca di un programma che «permettesse di entrarci, in quel continente desiderato e irraggiungibile». Solo che nelle fabbriche non c’era più un terreno in cui far fiorire un discorso. «I giovani operai arrabbiati di qualche anno prima erano spariti», e le misure estreme che i brigatisti provarono ad adottare, incluso l’omicidio dell’operaio e sindacalista Guido Rossa, si rivelarono essere, il più delle volte, delle armi a doppio taglio. Il sistema non veniva ferito, il movimento perdeva di consenso tra gli operai, e non bastavano i goffi tentativi di spiegazione (nel volantino di rivendicazione dell’omicidio di Rossa si legge chiaro «È stato un errore») per riavvicinare la colonna alla classe operaia genovese.

Enrico Fenzi entrò nelle Brigate rosse a quarant’anni, con una carriera solida di docente universitario già avviata. Da molti è stato considerato uno degli ideologi del movimento. All’interno della colonna conservò in verità una posizione marginale, mantenendo soprattutto contatti personali con alcuni degli esponenti di spicco. Il ruolo di ideologo che la cronaca gli ha attribuito in base alla sua posizione di intellettuale lo ha sempre rifiutato. Per sé, ha sempre rivendicato il ruolo di militante semplice, di «manovale», come si è voluto definire parlando con Sergio Zavoli nel programma La notte della Repubblica. Non ha mai partecipato alla stesura di documenti brigatisti, anzi ha ammesso di averli letti raramente. Ha preso parte a una sola azione violenta, facendo da copertura a Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco e Alberto Franceschini durante il ferimento di Carlo Castellano, dirigente del gruppo Ansaldo ed esponente del Partito Comunista Italiano. Per il resto, ha distribuito volantini. Dagli anni Ottanta scelse la strada della clandestinità dopo essere stato inquisito e assolto dall’accusa di banda armata (Carlo Alberto Dalla Chiesa parlò di «ingiustizia che assolve», commentando la sentenza).

La sua adesione nacque dalla visione del mondo capitalistico come un «dinosauro morente» contro il quale sentiva la «necessità minuziosa e concreta della lotta armata». La vera radice della sua visione politica  l’ha trovata dopo gli anni della militanza nel Sartre della Critica della ragione dialettica, quello che vede «l’uomo come avvenire dell’uomo» e rivendica il ruolo del gruppo rivoluzionario in azione come unico in grado di riappropriarsi della totalità. È in questa prospettiva che inquadra l’azione terroristica come un modello in grado di ricomporre «i frammenti del presente, per riappropriarsene alla luce di una totalità integralmente attualizzata». Il brigatista come lo Spirito Assoluto di Hegel, come tentativo di realizzare «il progetto e la verità della Storia».

Per Fenzi, le Brigate rosse sono state il momento terminale del comunismo italiano come movimento che ha attraversato nella realtà locale le fasi storiche dell’intera vicenda politica globale. «La sconfitta delle Brigate rosse ha avuto, qui da noi, lo stesso valore e lo stesso senso che avrà vent’anni dopo, emblematicamente, il crollo del muro di Berlino. Non solo: per le sue caratteristiche l’esperienza italiana è stata per molti aspetti un’esperienza centrale, perché in essa gli elementi della tradizione comunista sono arrivati al loro capolinea».

Armi e bagagli non pretende di essere una giustificazione ideologica degli anni della militanza: «non c’è rimedio a ciò che è stato fatto […], il male compiuto ridicolizza le pretese delle parole». Per questo, Fenzi rivendica a più riprese per la sua opera la natura «dichiaratamente narrativa». «È un libro, non un atto di autocoscienza».

Comunque l’autore la voglia vedere, la profondità di un’analisi così acuta e dettagliata, che intreccia la storia con la riflessione politica in una forma che sa accompagnarsi anche con la narrazione più letteraria, è la linfa di un documento fondamentale per comprendere il passato e vedere anche al presente. Alla casa editrice Egg va il merito di aver riproposto Armi e bagagli in questa nuova versione.

 

(Enrico Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse, Egg, 2015, pp. 276, euro 14)

 
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