Sembrava una felicità

“Sembrava una felicità”
di Jenny Offill

Sembrava una felicità di Jenny Offill (NN Editore, 2015) è la storia di una donna che ha promesso a se stessa di non innamorarsi mai, per concentrarsi meglio sul suo obiettivo di diventare un «mostro sacro della letteratura».

Ma poi invece accade che questa donna si innamori e abbia una figlia e che il suo sogno letterario appassisca tra le mura di casa, sepolto da una nuova – e tradita – promessa di apparente felicità.

Se il libro della Offill si fermasse qui lo si potrebbe collocare, sullo scaffale, tra il manuale di autostima per casalinghe laureate e il romanzo (tragico) rosa; lo si potrebbe credere un libro adatto a curare la crisi di mezza età e a raccontare lo sfacelo interiore di chi si ritrova a vivere, contro ogni pronostico giovanile, imprigionato nelle convenzioni sociali a cui aveva giurato guerra e a cui, invece, ha deciso di affidare la propria speranza.

Invece questo piccolo romanzo, poco più di 150 pagine divise in brevi paragrafi intervallati da spazi bianchi, ha qualcosa in più. Una forza che sembra avere a che fare con l’assenza e con la mirata cesura degli aspetti centrali della trama, che la Offill decide di nascondere al lettore. Ciò che sorprende è il dialogo telepatico che l’autrice riesce a stabilire tra sé, gli eventi della trama e il lettore, nonostante il suo romanzo si presenti come un corpo estraneo alle forme narrative tradizionali.

Le citazioni scientifiche e filosofiche insieme ai ricordi e ai piccoli aneddoti si succedono a profusione in un ordine apparentemente casuale, anche se è facile presumere che la Offill, insegnante di Scrittura alla Columbia University, alla Queens University e al Brooklyn College, disponga questi elementi con la logica programmatica dell’architetto. È proprio grazie a questo equilibrato regime di sottrazioni e concessioni che l’autrice costruisce l’intreccio delle vicende della protagonista: una storia non dichiarata ma desumibile a partire da una lettura scomposta, dove i buchi narrativi e le mancanze descrivono la vera traiettoria psicologica dei personaggi.

Spetta al lettore capire. Quello della Offill non è un romanzo epistolare, né si potrebbe descrivere il suo impianto come diaristico, verrebbe più che altro da definirlo un invito all’indagine semantica, a metà tra la lettura e la scrittura: per entrare nella storia, chi legge è chiamato a riempire, a ripercorrere – e dunque a scrivere mentalmente – i buchi narrativi di cui è fatto Sembrava una felicità.

Per questo, nello scaffale, la giusta posizione per il libro di Jenny Offill è tra Il cappotto di Gogol’ di cui recupera una ferma convinzione (la sofferenza, persino quella più grande, può consumarsi anche nello scenario banale delle cose comuni) e i racconti di Grace Paley che, come disse Philip Roth, possiedono «an understanding of loneliness, lust, selfishness, and fatigue that is splendidly comic and unladylike», tutte cose che sembrano parlare anche di lei e della sua scrittura.

 

(Jenny Offill, Sembrava una felicità, trad. di Francesca Novajra, NN Editore, pp. 168, euro 16)

 

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“Quartetto casa di bambola”
di Emanuela Giordano

In curiosa assonanza con la recente tendenza a semplificare e predigerire i prodotti editoriali di maggiore tendenza a favore di un pubblico distratto e che ha sempre meno tempo da dedicare alla lettura, va in scena Quartetto casa di bambola, drammaturgia e regia di Emanuela Giordano che propone uno studio sulle contraddizioni e le dinamiche espresse da Ibsen nella relazione tra uomo e donna che ruotano attorno al denaro e alle relazioni di potere che definisce.

Abbigliati come concertisti, su un palcoscenico pieno solo di un pianoforte e due sgabelli, Alessandra Fallucchi, Mascia Musy, Graziano Piazza, Stefano Santospago, esordiscono nei panni di loro stessi che, in qualità di attori, espongono quanto appreso durante lo studio del testo e condividono con il pubblico aneddoti più e meno noti riguardanti Casa di bambola e lo scandalo sollevato dalla pubblicazione, nel 1879, fino a tempi più recenti. Eccezionali, gli interpreti proseguono calandosi sempre più a fondo nei personaggi di Torvald Helmer, Nora, Cristina Linde e Krogstad, con il merito in più di non affidarsi completamente al mestiere, ma affondando corpo e voce nella realtà di sentimenti tanto potenti da traboccare la pruderie vittoriana.

«Casa di bambola ha avuto tre finali diversi e noi li mettiamo in scena per raccontare come i rapporti tra uomini e donne ci parlano della società in cui questi uomini e donne vivono». Questo l’intento dichiarato dalla Giordano che ritaglia il dramma di Ibsen asciugandolo fino all’osso per presentare con chiarezza chirurgica il cuore dell’opera fino al punto di risolvere anche i silenzi con la scelta di interpretare anche le didascalie. Quartetto casa di bambola è un’opera divulgativa, eccellente nello svolgere il compito di scolarizzare un pubblico privo di preparazione e per questo fortemente apprezzabile, ma che ha anche il demerito di togliere al pubblico la possibilità di costruirsi una propria idea della vicenda di Nora durante il lento svolgimento del dramma.

«Se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera» così Ibsen a commento del violento dibattito suscitato da Casa di bambola, accolto con maturità nonostante la disperazione di vedersi stravolto il copione non tutelato – all’epoca – dal diritto d’autore. Il Quartetto non ripone nel suo pubblico la stessa fiducia e si esce dal teatro indubbiamente più informati, ma senza domande a cui non sia stata data una risposta.


Quartetto casa di bambola
da Henrik Ibsen
drammaturgia e regia Emanuela Giordano
aiuto regia Valentina Minzoni
con Alessandra Fallucchi, Mascia Musy, Graziano Piazza, Stefano Santospago
Produzione Argot produzioni

Prossime date
Roma – Teatro India dal 9 al 14 febbraio

 

 

“Vita e opinioni filosofiche di un gatto”
di Hippolyte Taine

Quando lessi il titolo di questo libricino Vita e opinioni filosofiche di un gatto (Nottetempo, 2015) la curiosità mi assalì, e pensai subito ai gatti che cercano con eleganza chi si prende cura di loro, ma possono tranquillamente farne a meno e, non scendere dal tavolo se quel posto è stato da loro trascelto. Quel poco che si sa è che non si è mai padroni di un gatto.

Quali pensieri potrebbe avere la mente di un gatto? Hippolyte Taine, in una scrittura sobria, descrive la vita di un gatto, elevando questa creatura misteriosa: «Ho incontrato molti gatti e molti filosofi, ma la saggezza dei gatti è infinitamente superiore».

Con una trama lineare Taine racconta la vita di un gatto e l’incontro con gli altri esseri che vivono nella fattoria, come avviene con l’oca gentile che s’illude di vivere in una repubblica e, alla fine il capo repubblicano l’ammazza. Il gatto cresce, s’innamora, diventa padre e, seguendo l’istinto felino e selvaggio, uccide i propri cuccioli e la madre. Un atteggiamento cinico e spietato? No, se è la sua natura. Sembra quasi la rivalsa del cinismo, a discapito del sano umorismo, quella forma di ironia depurata dall’aggressività.

Il libro è stato curato da Giuseppe Scaraffia che, nelle prime pagine, inquadra la vita del filosofo, parlandoci dei suoi studi, e di come, secondo Taine, il comportamento del gatto possa riconoscersi in quello dell’umanità egoista, che finge di sapere sul sapere. Con una vena nichilista, l’autore ci rivela lo scopo per vivere bene, che ricorda un po’ una delle regole per essere felici di Immanuel Kant: avere qualcosa in cui sperare; Taine consiglia di «perseguire con costanza uno scopo qualunque, cui avvicinarsi lentamente, questa è la vita sana. Il resto è malattia».

Nell’opera risaltano dei versi, chiari, snelli, come: «Il mondo è un grande uovo strapazzato» e «Chi mangia è felice. Chi digerisce lo è di più. Chi sonnecchia digerendo è ancora più felice. Tutto il resto è solo vanità e impazienza».

Diciotto pagine di riflessioni, alcune sulla gioia delle piccole cose: «D’inverno, la felicità è stare seduti vicino al fuoco, in cucina»; altre, sulla bellezza che è insita, per Taine, nella grazia e nell’agilità.

Forse un po’ freddo e distaccato il suo modo di concepire il lavoro dell’artista, infatti, per Taine chi produce arte deve studiare e osservare le proprie creazioni – come si fa nei casi clinici – e raccontarli come tali. L’autore spesso si chiedeva se sarebbe mai riuscito a conciliare il suo passato con il presente tumultuoso, questo disordine interiore che si riversava soprattutto nell’atto dello scrivere, idealizzando e svalutando la scrittura in un’altalena di sentimenti giornalieri.

Vita e opinioni filosofiche di un gatto è un piccolo saggio filosofico, una lente grazie alla quale vedere l’esistenza nelle sue varie sfaccettature dolenti e non, attraverso quel nichilismo vitale tipico dei filosofi. Vuoi vedere che gli umani sono davvero così simili alle «opinioni filosofiche di un gatto»?

 

(Hippolyte Taine, Vita e opinioni filosofiche di un gatto, a cura di Giuseppe Scaraffia, Nottetempo, 2009, pp. 45, euro 3)

Dalton Trumbo

“L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”
di Jay Roach

Gli anni oscuri del maccartismo e della caccia alle streghe anti-comunista nella Hollywood degli anni Cinquanta sono al centro di L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, biografia cinematografica di uno dei più importanti sceneggiatori di Hollywood, costretto a lasciare il suo lavoro a causa delle sue idee politiche.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale sono cambiate tante cose negli Stati Uniti. Prima, essere amici dell’Unione Sovietica, e quindi del comunismo, era un bene. Negli anni Trenta era nato un Partito comunista degli Stati Uniti d’America per contrastare ogni possibile avanzata di ideologie nazi-fasciste nel continente nordamericano, ma con la fine del conflitto ogni simpatizzante inizia a essere visto con sospetto. La commissione per le attività anti-americane riceve l’incarico di investigare su chiunque abbia un passato e un presente di agitatore politico. Uno dei primi posti dove andare a guardare è Hollywood, la patria del cinema e terreno naturale per coltivare qualsiasi propaganda. Dalton Trumbo è stato lo sceneggiatore più pagato del cinema americano (e quindi mondiale) degli anni Quaranta. Solo che era un comunista, iscritto al partito e difensore delle cause dei lavoratori dell’industria cinematografica. Quando l’occhio della commissione inizia a studiare chi muove le dita sulla macchina da scrivere, Trumbo si mette alla guida dei cosiddetti “Hollywood Ten”, i dieci uomini di cinema indagati e incarcerati per oltraggio alla corte durante le audizioni per le attività anti-americane. Sono stati anni neri negli storia degli Stati Uniti e del cinema, in cui personaggi come Trumbo sono stati costretti a vendere il proprio lavoro sotto falso nome per mantenersi, fino a che la follia non è stata chiara a chiunque.

Nella sua lunga carriera, Dalton Trumbo ha vinto due Oscar, senza poterli ritirare. Il primo nel 1954 per Vacanze romane. Il premio venne ritirato da Ian McLellan Arthur, che firmò il copione al suo posto. Il secondo nel 1957 per La più grande corrida firmato dal fantomatico Richard Rich, un personaggio mai esistito. Su IMDb risulta come autore di quasi settanta tra soggetti e sceneggiature. In moltissimi casi risulta essere non accreditato. La verità è che Dalton Trumbo, dopo essere finito in carcere, ha iniziato a vendere i propri copioni alla casa di produzione dei fratelli King, specializzata in titoli di serie B, che lo facevano lavorare senza che comparisse il suo nome. Era nato un vero e proprio mercato nero delle sceneggiature, con scrittori disperati che confezionavano in una sola notte i dialoghi per improbabili incontri tra extraterrestri e contadine.

Nel 1976 un inedito Woody Allen aveva interpretato Howard Price, un cassiere che finiva a firmare le sceneggiature per un amico accusato di comunismo, in Il prestanome di Martin Ritt. Era un chiunque che prendeva le parole degli altri (dietro compenso) e diventava sempre di più uno sceneggiatore importante della televisione. Per Dalton Trumbo e gli altri le cose sono andate al contrario. L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo arriva a raccontare gli anni bui di Hollywood, in cui la censura ideologica impediva alle persone di lavorare e costringeva sceneggiatori e registi a cambiare paese o a denunciare gli amici.

Pur confrontandosi con un momento storico dal forte connotato politico, il film di Jay Roach evita il rischio di schierarsi preferendo piuttosto raccontare la storia di Trumbo, concentrandosi sul personaggio e non sulle idee. Non c’è molto spazio per un’analisi approfondita della psicosi anti-comunista e della caccia alle streghe. Viene mostrato quello che basta: il fanatismo patriottico della Hollywood di destra capeggiata da John Wayne e allineata dal megafono della penna di Hedda Hopper; qualche cittadino infuriato con la posizione di Trumbo. Per il resto c’è la vita di un uomo costretto a nascondere il suo nome per fare l’unica cosa di cui era capace: scrivere.

Con tutta l’attenzione spostata su Trumbo è inevitabile che il vero motore del film sia l’interpretazione del protagonista Bryan Cranston, già sopraffino e pluripremiato Walter White nella serie culto Breaking Bad, che ha ottenuto la sua prima candidatura all’Oscar (e a un bel po’ di altri premi) per il suo Trumbo fragile e complesso.

Per il resto, però, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è un biopic piuttosto convenzionale sul tema della caduta e della risalita. Trumbo viene descritto nella sua solitudine lavorativa ma sempre inserito all’interno di rapporti in cui riesce a esprimere davvero se stesso, nella diffidente ostilità con Helda Hopper, nelle amicizie con i colleghi o con l’attore Edward G. Robinson, nel lavoro con i fratelli King, nella intimità familiare in cui la moglie lo sopporta e consiglia in silenzio e in cui la figlia più grande, Nikki, decide di fargli capire quello che sbaglia. Nessuno dei personaggi di contorno, però è approfondito e problematizzato, rimangono come degli abbozzi in cui sono evidenti i caratteri dominanti e niente di più. Così, anche l’Helda Hopper spietata di Helen Mirren finisce per essere poco più che una figurina, per non parlare di Diane Lane, moglie silenziosa e in disparte. John Goodman, comunque, riesce a rubare un po’ di spazio al one man show di Bryan Cranston nei panni burberi di uno dei fratelli King, così come il tedesco Christian Berkel che si ritaglia dieci ottimi minuti da Otto Preminger.

Alla prima prova di cinema impegnato dopo la serie di Mi presenti i tuoi di Austin Powers, il regista Jay Roach si affida completamente a Bryan Cranston e fa bene. I due saranno ancora insieme nel film tv All the Way sul primo complesso anno di presidenza di Lyndon Johnson.

(L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, di Jay Roach, 2015, biografico, 124’)

“I pesci non hanno gambe” di Jón Kalman Stefánsson

«A Keflavík ci sono tre punti cardinali; il vento, il mare e l’eterno».

Da dove si comincia quando si racconta una storia e quanto ci si può spingere lontano per raccontarla? Ma soprattutto dove bisogna fermarsi e che fine toccherà agli esclusi? Ai non narrati? Semplicemente spariranno e basta?

«Non è possibile raccontare tutto, il mondo non ha la pazienza per questo», scrive Jòn Kalman Stefànsson, ma ci sono vite che non si possono lasciare andare, che non possono essere relegate a una foto ingiallita in un bar o a una targa commemorativa appesa sopra un caminetto.

Ed è per questo che nel suo ultimo romanzo I pesci non hanno gambe (Iperborea, 2015), Stefànsson decide di comporre un album famigliare di tre generazioni, per non far svanire nell’oblio le sensazioni di chi un tempo ha vissuto, per trattenere i ricordi ancora un po’ nella memoria, prima che scompaiano anche da lì.

Ari non è solo l’inizio di una storia, o un poeta demotivato che un banale martedì manda all’aria il suo matrimonio per tornare in Islanda, prima di tutto è figlio di qualcuno che ha amato e sofferto prima di lui, è nipote di un vestito straniero senza niente sotto, di una dichiarazione d’amore fatta in silenzio con i pugni chiusi.

Non sono i nomi di Magrét, Oddur, i nonni, del padre Jakob, del cugino Ásmundur o dello stesso Ari – incastrati nei tre punti cardinali di una Keflavík che non esiste o lasciati avvizzire nei fiordi orientali di Norðfjörður – a definirne le esistenze, ma il lento e impietoso scorrere del tempo che ne plasma i caratteri, che scava i tratti e gli affetti, che fa sentire la mancanza.

E poi c’è il mare.

Il mare che «è più vasto della quotidianità», è una distesa smisurata e impenetrabile, dove ogni pensiero si libera, la sofferenza si scioglie; il mare, così grande, tiene insieme i destini e assolve le pene, eppure in mare si è soli, non ci si può affidare a nessuno, nemmeno alle preghiere, perché le preghiere sono lontane e non si odono dalla terraferma.

«Nessuno può camminare sul mare ed è per questo che i pesci non hanno gambe».

Il posto più nero di un paese circondato da questo blu infinito è ciò che si porta dentro ogni nato d’Islanda, un posto dove nemmeno Dio osa posare lo sguardo e che ha conosciuto pochi momenti di gloria, o forse solo uno, quando arrivò l’esercito americano e divenne il quarto punto cardinale, con il suo carico di dischi, M&M’s, Coca-Cola e di altri prodotti mai visti, ma poi anche l’esercito se n’è andato e questo certo non ha impedito ai figli di Keflavík di aspirare alla felicità, di trovare la dignità nel dolore e nelle lacrime.

«Sii riconoscente per le lacrime islandese», perché l’amore non cura le ferite e presto o tardi svanisce anche lui come tutto il resto, magari un banale martedì, magari sul sedile posteriore di una Lada station wagon o quando il caos entra in casa e rende tutto inservibile.

E allora forse è ancora il tempo che può venirci in aiuto, quel tempo che abbiamo inutilmente provato a rallentare, rifiutandoci di cambiare quando già siamo cambiati, adesso rende effimeri i nostri passi, ci restituisce inutili, fino a sparire.

«Cosa possiamo dire, probabilmente niente, la vita è incomprensibile, è ingiusta, eppure viviamo, non possiamo evitarlo, non sappiamo fare altro, la vita è l’unica cosa che abbiamo per certo, questo tesoro, questo ciarpame senza valore».

 

(Jón Kalman Stefánsson, I pesci non hanno gambe, trad. di Silvia Cosimini, Iperborea, 2015, pp. 448, euro 19)

Joy

“Joy”
di David O. Russell

Per la terza volta consecutiva dopo Il lato positivo e American Hustle David O. Russell punta sul suo cast preferito: Bradley Cooper, Robert De Niro e la mattatrice Jennifer Lawrence tornano davanti alla macchina da presa del regista statunitense per raccontarci la storia di Joy Mangano, la donna che puntando solo su se stessa ha inventato oggetti che diamo per scontati nella nostra quotidianità ma che vedono dietro la loro creazione una storia molto più difficoltosa di quanto si possa immaginare.

Joy sin da piccola ha avuto un dono, un dono che può sembrare scontato per la maggior parte dei bambini ma sul quale lei ha deciso di incentrare la propria vita: l’immaginazione. Con un’infanzia difficile per il divorzio tra i propri genitori e una sorellastra che non ha mai troppo apprezzato questa sua dote, Joy finisce col crescere mettendo il suo talento per una vita di sacrifici e di stenti, in una situazione famigliare che non fa che peggiorare sempre più. Deve gestire una casa che cade a pezzi, due figli, la madre drogata di telenovelas ormai prigioniera della sua stessa stanza, il padre (Robert De Niro) umorale e proiettato a gestire la sua vita come gestisce la sua impresa e l’ex marito aspirante cantante chiuso nel seminterrato. L’unico aiuto quello della ormai vecchia nonna Mimi, la sola ad aver sempre creduto in lei sin da quando era una bambina. Non è certo facile riuscire a mantenere vivo quel suo fuoco dentro, in una vita come quella che si è vista costretta a vivere, ma le idee non conoscono freni e così Joy finirà per applicarle alla sua condizione di casalinga tuttofare inventando un oggetto per la casa che le risolva molti dei problemi pratici che ha riscontrato nel pulirla: un mocio autostrizzante e comodamente lavabile in lavatrice! L’idea c’è, ma il successo e la risoluzione dei problemi della sua vita sono ancora molto lontani e la aspetta una strada assurdamente complicata, tra incompetenti, traditori e truffatori; quello che neanche Joy sa però è quanta forza nasconda dentro di sé.

Con Joy David O. Russell, anche questa volta sia regista che sceneggiatore, punta tutto sul talento, che lui stesso ha aiutato a consacrare, di Jennifer Lawrence consegnandole un personaggio che è il perno di tutto il film, forte, grande, che occupa talmente lo schermo da rendere gli altri solo personaggi satelliti che le ruotano attorno. Ovviamente, l’attrice premio Oscar per Il lato positivo non delude il suo maestro regalandoci una performance emozionante e coinvolgente e portandoci immediatamente a fare il tifo per lei, un sentimento che cresce per tutto il film rafforzando il legame tra lo spettatore e il personaggio sempre di più man mano che il film va avanti e portandoci ad esultare ed arrabbiarci insieme a Joy davanti allo schermo.

Da Robert De Niro a Bradley Cooper, fino a Isabella Rossellini, nessuno è fuori luogo nelle loro piccole parti, riuscendo nel trasmettere quello che devono, ma i grandi nomi un poco deludono non risaltando molto più dei meno conosciuti Edgar Ramirez, Virginia Madsen o Elisabeth Rohm; rispetto ai precedenti lavori insieme, non arrivano a delle prestazioni altrettanto sorprendenti o riuscite e probabilmente il motivo di questo va ricercato nella sceneggiatura che non regala dei personaggi memorabili o accuratamente approfonditi (fatta eccezione ovviamente per Joy stessa) ma piuttosto degli sparring partner per la protagonista e nulla più. La regia non sorprende raccontando con semplicità e senza osare mai, stupendo molto meno dei film precedenti e limitandosi a seguire la storia del personaggio, ancora una volta, quindi, unica colonna portante del film sotto ogni aspetto. Non è un caso che l’unica candidatura agli Oscar ricevuta dalla pellicola sia proprio quella di Jennifer Lawrence come miglior attrice protagonista.

Un bel film sicuramente, dal messaggio importante e dotato di una carica incredibile tutta dovuta alla straordinaria Joy della Lawrence, ma anche un passo indietro in scrittura e regia per David O. Russell che, forse anche a causa del soggetto scelto, regala un film che vive della sua figura femminile e nulla più, deludendo chi si aspettava un film all’altezza dei suoi ultimi capolavori.

Una nota positiva va fatta per la colonna sonora, che come in ogni film del regista statunitense non delude ed è composta da un mix di grandi canzoni dell’epoca in cui è ambientato il film, che volenti o nolenti vi rimarranno in testa per qualche giorno.

(Joy, di David O. Russell, 2015, commedia, 124’)

“Mille esempi di cani smarriti”
di Daniela Ranieri

Mille esempi di cani smarriti (Ponte alle grazie, 2015) dell’inviata de il Fatto Quotidiano Daniela Ranieri è il racconto di come in realtà, nonostante tutti i tentativi di trovare un senso, il vuoto esistenziale è l’unico luogo che ci è dato abitare.

Questo posto può anche essere una terrazza di un palazzo della Roma bene nel quadrante nord, quale quella di Luciana, assiduamente frequentata da neghittosi radical chic, un sinedrio di snob privilegiati, osservanti riti ed etichette, simbolo della decadenza morale della buona società di un tempo, una società che esibisce mercantili egoismi e occulta cupi segreti e rancori. Diceva Henri Bergson nel suo saggio sul riso: «Noi non vediamo le cose, ci limitiamo a leggere le etichette che ci sono incollate sopra».

Il sedicente artista Barbato Magnus, il professorone seduttore seriale Erasmo con le mani in pasta nella corruzione sanitaria, o la coppia vegana Teresa e Amilcare ricoprono il mondo di etichette e bugie per differire da sé lo sgomento dell’autenticità. Sono esponenti di un circo senza qualità con il solo scopo di scroccare, prototipi di un Paese sfibrato di inamovibili, raccomandati, incompetenti e corrotti.

Fatica ad accettare gli amici di Luciana, «quei facoltosi viziati tormentati e leccaculo», il quasi marito Antimo, che guarda con riluttanza a questa rispettabilità borghese di facciata. Figlio di un prete, Antimo è condannato «a un entropico non-vivere, non evolvere, non crescere», impotente nella vita e nel dare la vita: «È meno che una persona e più che suppellettile, con la sua virilità rasoterra». Infatti Cecilia, che pur ama come fosse sua, è figlia di Luciana e del ristoratore Valte.

L’aria in casa è satura di schegge di vetro. Luciana considera il compagno «un disutile, ecco che era, manco inutile, ché l’inutilità è quella degli artisti, è bellezza». La tentazione fin troppo umana di Luciana e Antimo è quella di arroccarsi nelle proprie convinzioni, scegliendo la via dello scontro. Se è vero che in un matrimonio il compromesso è il preludio di soluzioni possibili anche se spesso dolorose, questa coppia è la dimostrazione che il compromesso felice non esiste.

Se la deformità fisica di Antimo (è affetto da zoppia sin dalla nascita) costringe il lettore a sentire anche fisicamente la pena di vivere del personaggio, dall’altro il suo malinconico mood drammatico-satirico dall’accento romanesco del popolino non può non destare simpatia. Popolino che Luciana aborre perché «retrogrado, fascista e retrivo», unica eccezione è l’accoglienza in casa della bella Franca, l’amica di Cecilia, dalla difficile situazione familiare. Le due ragazze fanno venire in mente la complicata amicizia tra Lila e Lena, protagoniste de L’amica geniale di Elena Ferrante: «Una addentava la vita con cattiveria e sarcasmo, lucente, gloriosa, irresponsabile; l’altra la guardava succedere sperando di sopravvivere a essa, come i prigionieri in Siberia guardano le icone».

Ad Antimo il brivido tornò con Franca, la cui bellezza periferica, ai suoi occhi, appare tanto indiscutibile quanto ipnotica. Si tratta di fugaci lampi a rischiarare per un momento il monotono grigiore della sua esistenza, reso tale da un odioso, claustrofobico e coercitivo rapporto con Luciana. Antimo è un mirabile esempio di come persino un uomo apparentemente irrilevante, pura insignificanza fatta persona, possa essere scaturigine di slanci e tormenti, in cui la sua passione per la giovane amica della quasi figlia Cecilia si trasformi implacabilmente in ossessione.

Franca però ha qualcosa d’imponderabile, come un demone cieco e dispotico cui non può non obbedire. Utilizza la terapia del dolore come antidoto alla finzione della vita quotidiana. Infatti, tra molti bassi e pochi alti, la relazione con il professor Erasmo procede tra squallidi incontri clandestini, bugie malcelate, in una precarietà sentimentale che non ha nulla di erotico, un gioco sull’amore sfociante nella condanna di chi non sa provarlo. Una pochezza aggravata dalla natura del personaggio, maschera di se stesso, impegnato a giocare una parte insignificante in una recita mediocre. In Erasmo la tracotante vanità è pronta a sfiorare il ridicolo.

I grandi romanzi devono fondarsi non solo sulla forza della trama o del dialogo o dello sviluppo dei personaggi, ma anche sull’audacia della prosa. E quella di Daniela Ranieri è una scrittura esuberante, fiorita, colta, che a tratti ricorda il pastiche gaddiano, minuziosa nel descrivere i pensieri dei personaggi, che osserva da uno sguardo laterale, come se entrasse da un ingresso secondario, e con parole usate al posto giusto nel tratteggiare una scena. La storia corre su binari di due piani temporali che solo alla fine sembrano ricongiungersi. Lo stile, diceva Truman Capote, è «lo specchio della sensibilità di un artista» e Mille esempi di cani smarriti (citazione da Madame Bovary) è un meraviglioso dono dentro cui si nasconde un’articolata, cinica, tragicomica drammaturgia privata.

 

(Daniela Ranieri, Mille esempi di cani smarriti, Ponte alle grazie, 2015, pp. 540, euro 19,50)

 

Sandro Penna: una vita di grazia

A quasi 40 anni dalla morte (1977, era nato a Perugia nel 1906), Sandro Penna ci appare ancora oggi come un poeta profondamente misterioso. Misteriosa è stata la sua semplice vita, naïve maledetta e insieme normale, e misterioso il suo rapporto con la poesia, il rapporto cioè di uno che per sua stessa ammissione «non leggeva niente» e scriveva sui biglietti del tram o sul bordo dei giornali, ma al tempo stesso era oggetto di un vero e proprio culto da parte di letterati e intellettuali come Saba, Montale, Pasolini, Morante, Garboli e tanti altri. Visse la parte più consistente della sua vita a Roma, fece molti mestieri ma negli ultimi anni si sostentò con un piccolo commercio di quadri: «La gente che viene da me non è molto per l’avanguardia – dice in una bella intervista del 1972 girata da Mario Schifano – compra più che altro roba molto figurativa, spesso brutta anche…» e poco dopo aggiunge: «Poesie non ne scrivo più da dieci anni…»

La bellezza, questo, per dirlo in una parola, può essere il senso della vita e della scrittura di Penna, poeta sempre recepito come un a parte nella storia dei vari movimenti a cavallo della seconda guerra mondiale. Sempre nella stessa intervista, introducendo maliziosamente la lettura di un suo componimento, dice così: «Questa è una di quelle di un’ingenuità tale che bisogna volermi bene per credere che è molto bella, però oggi penso che sia bella»:

 

Eccoli gli operai sul prato verde
a mangiare: non sono forse belli?
Corrono le automobili d’intorno,
passan le genti piene di giornali.

Ma gli operai non sono forse belli?

 

Garboli ripete in più di un’occasione che Penna considerava le sue poesie come quadri, provava a venderle o a “piazzarle” a piccoli gruppi nascondendo le migliori per un commercio futuro. Rileggendo questi testi con l’occhio scevro da ogni influenza che scaturisce dal mito e dal caso letterario, bisogna notare come uno degli effetti di maggiore riuscita delle sue piccole rappresentazioni stia nell’incisività di un tratto sicuro, nella semplicità e nell’immediatezza della sua espressione. Eccoli, dice il poeta quasi mostrandoci con la mano la scena, sul fondo neutro di un prato genericamente verde la rappresentazione che ci invita ad ammirare è quella di un gruppo di uomini abituati al lavoro fisico presi in un momento di riposo, come un gruppo scultoreo o pittorico di veneri al bagno (gli operai!). Avvicinata al concetto della bellezza è proprio la parola operai a caricarsi di una grazia inaudita nel suo uso assolutamente anti-ideologico. Non sono forse belli? Suggerisce il poeta rivolgendosi con un mezzo sorriso di pudore e imbarazzo al suo invisibile interlocutore. La scena stacca su un altrettanto normale intermezzo cittadino: passano macchine e persone indaffarate, si sente il caos di una grande città in movimento, rumorosa e indifferente. Il poeta, confuso non si sa bene se per l’apparizione dei begli operai o per il traffico che c’è intorno è ancora lì a indugiare, a osservare. Il suggerimento malizioso si è fatto ora un mormorio a fior di labbra, ratificato da quel ma che riprende la domanda opponendo la grazia al caos, Ma gli operai non sono forse belli? Eccola la delicatezza e la plasticità rappresentativa di Penna: con tre tocchi la bellezza morbida degli operai (proprio loro!) è contrapposta a una serie di linee spezzate che stanno intorno: il traffico latamente umano della città.

La magia di uno dei più grandi incantatori in versi del nostro (non solo) secolo XX sembra tutta nel senso dei suoi ritratti, paesaggi, scene d’interno, nature morte.

Non so se sia stato studiato debitamente il rapporto che Penna aveva con i suoi amici pittori. Solo nell’intervista citata (girata da un pittore!) il poeta fa il nome di due o tre artisti (Spazzapan, Tano Festa, Lo Savio, ma anche Guttuso) che da soli basterebbero a evocare e a penetrare tante atmosfere penniane, ma anche a inserire in un movimento più ampio la figura di questo isolato che forse era “in contatto” e più “al centro” di tanti altri.


Interno

Dal portiere non c’era nessuno.
C’era la luce sui poveri letti
disfatti. E sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo.
Uscì dalle sue braccia
annuvolate, esitando, un gattino

 

L’impressione è che Penna fermi l’uso dei valori fonici e retorici della lingua a uno stadio di elementarità momentanea che non risponde ad altro che alla figura; Penna è cioè un poeta veloce che dipinge le sue parole per fermare le immagini che con grande libertà, ma anche precisione, gli si affacciano alla mente; l’immediatezza quasi fulminea del suo tocco è ciò che comunemente è stato scambiato per la sua semplicità e che invece corrisponde a un modo arcaico e arcano di comporre, supportato da un gusto indubitabile (preparazione, esperienza) che da solo basta a reggere il carico del ricordo o dell’ispirazione. Come conferma chi lo ha conosciuto di persona (Giuseppe Leonelli, autore di un Commentario penniano edito da Aragno e fresco di stampa) Penna era anche appassionato di cinema, anzi, pare che nei cinemini di Trastevere fosse una vera e propria leggenda. Ecco, il cinema. Esattamente come Penna non è un autore ingenuo né semplice (del resto nessuno si sognerebbe di definire le forme geometriche di Lo Savio semplici…) le sue rappresentazioni riescono in più di un’occasione a bucare l’immobilità della rappresentazione e a descrivere perfetto un movimento, un gesto, come la caravaggesca fuga del gattino dalle braccia annuvolate del ragazzaccio tolto dell’esempio sopra riportato. In questo caso passiamo dall’assenza all’immobilità di un corpo che dorme tramite un fotogramma di sola luce: dal portiere non c’è nessuno → c’è la luce sui poveri tetti disfatti → sopra un tavolaccio dorme un ragazzaccio. Un dettaglio non da poco: il ragazzaccio è bellissimo, e la sua bellezza, va da sé, è al centro dello stupore del poeta e della composizione, fin qui ferma. Il movimento è introdotto, dopo lo scalino grafico, in due versi (che tra l’altro sono un settenario e un endecasillabo), da un unico verbo, uscì, e dalla presenza angelica, quasi irreale (onirica) di un gattino che esitando si divincola dalle braccia del ragazzo e si dirige verso chi osserva la scena, dunque verso noi. Un ultimo esempio, fra i più famosi:


Città

Livida alba, io sono senza dio.

Visi assonnati vanno per le vie
sepolti sotto fasci d’erbe diacce.
Gridano al freddo vuoto i venditori.

Albe più dense di colori vidi
su mari su campagne inutilmente.

Mi abbandono all’amore di quei visi.

 

Se è vero, come è certamente vero, che una delle parole tematiche di Penna sia “vita”, è altrettanto vero che “colore” può rivaleggiare con questa per numero di presenze e importanza. L’assenza di colore, la luce livida descritta in apertura con due parole, costituisce, nel caso dell’esempio proposto, la fotografia di questa scena. E l’accostamento del tono generale (della luce) e del sentimento di perdizione e smarrimento provato dal poeta (io sono senza dio) costituisce quasi la didascalia assertiva dello scatto preso nelle strofe successive. Il freddo e il vuoto in cui si muovono gli sparuti personaggi di questo esterno rimandano a una dimensione infernale, dantesca, cocitea, abbastanza evidente. Ma chi scrive è calato in quella realtà senza orrore, tanto da poter provare amore, l’unica parola astratta in quasi-opposizione con la parola “dio” del primo verso, per i visi poveri e scavati dei dannati alla vita.

A distanza di tempo, Sandro Penna è tutto nel suo libro, che tra l’altro sta diventando una piccola rarità (non viene ristampato, si aspetta il Meridiano Mondadori).

Fare un culto di Penna, come Pasolini diceva di aver fatto, è forse, oggi, il modo meno adatto per accostarsi a questa poesia. Del resto il Novecento sembra essersi protetto da Penna almeno quanto Penna si è protetto dalla storia. Ma la bellezza e la rotondità non più raggiunta dei suoi versi sono ancora lì a testimoniare una vita di grazia.

 

“Padre di Dio” di Martin Michael Driessen

Padre di Dio è Dio stesso, che notoriamente è trino e unico. Ma padre di Dio è anche Giuseppe, che ha accettato l’eccezionale gravidanza di Maria, ha accolto Gesù, vero figlio di Dio, e come un padre lo ha cresciuto. L’accettazione di una simile situazione non deve essere stata un processo semplice e indolore; in primo luogo per la sopraffazione della sua virilità nell’atto procreativo del suo primogenito e per le conseguenti dicerie della gente di un piccolo paese della Galilea. In secondo luogo, e soprattutto, per le conseguenze specificatamente umane della consapevolezza che il bimbo cresciuto come un figlio, una volta divenuto adulto, sarebbe stato strappato dalle proprie amorose braccia per essere martirizzato in nome della salvezza dell’umanità.

In Padre di Dio (Del Vecchio Editore, 2015) Driessen descrive il lungo e impervio cammino di Giuseppe verso l’accettazione del destino del figlio e lo lega a uno dei più grandi misteri, o lacuna, che si trova nella Bibbia, ovvero la vita di Gesù dai dodici ai ventisei anni.

Il romanzo inizia con l’ironica descrizione di un Dio stremato dalla cura costante del suo Creato, ma continuamente deluso dal comportamento dell’umanità; un Dio che perde così interesse per il suo grandioso progetto e finisce per dedicarsi ad altri hobby, come l’addestramento di colombe. A causa della sua più grande e costante fonte di sconforto, si convince però a esaudire un desiderio che da sempre lo tormenta: avere finalmente un padre. Essendo egli stesso il principio di tutte le cose infatti prova da infinito tempo la mancanza di una figura paterna che lo guidi e lo protegga. Decide quindi di farsi uomo e di discendere in terra secondo il tipico processo umano della nascita, in modo da poter finalmente coronare il sogno di essere cresciuto da un padre, e nello stesso tempo per compiere un decisivo piano per salvare l’umanità, non schierandosi però, ancora deluso, in prima persona.

In questo modo conosce Giuseppe che davvero accoglie e ama Gesù come un padre. Ma l’immenso amore paterno, il fortissimo legame instaurato col bimbo e il senso di protezione che prova nei suoi confronti, portano Giuseppe a voler salvare il figlio a scapito della salvezza dell’umanità intera: decide infatti di ingannare Dio e di rapire Gesù per risparmiargli le future sofferenze, motivo per l’uomo di inconsolabile disperazione.

Con la fuga ribelle di un padre che cerca disperatamente di salvare suo figlio, Driessen decide di colmare il vuoto biblico nella storia del Redentore. Iniziando il romanzo con ritmo incalzante, tono ironico e grottesco, e disponendo un significativo lasso di tempo da riempire con incontri ed esperienze formative, mi sarei aspettata un viaggio ricco di peripezie ai limiti del sacrilego.

Mi sbagliavo. Il ritmo della narrazione si distende, il tono si fa più delicato e si percorre un viaggio interiore nelle ragioni e nelle emozioni di un Giuseppe sempre più stanco della lotta sordomuta contro Dio e stremato dinnanzi alla inconsapevole ma tenace vocazione di Gesù verso la redenzione dell’umanità.

Non saprei dire in che modo ma è stato un incontro sorprendente questa lettura, che mi ha portato a «camminare in bilico tra la farsa e l’elegia, tra blasfemia e religiosità», come racconta il traduttore del romanzo nella nota conclusiva. Assolutamente innegabile è però l’abilità dell’autore di gestire registri stilistici così distanti, di affrontare in maniera gentile un tema aperto alle più bizzarre soluzioni, di lanciare in aria una figura storica fondamentale come il Cristo con la catapulta della letteratura e lasciarla cadere su un morbido cuscino.

 

(Martin Michael Driessen, Padre di Dio, trad. di Stefano Musilli, Del Vecchio Editore, pagg. 252, euro 16)

 

L’urlo di sogni traditi: “Lorem Ipsum” di Lucio Leoni

L’underground romano è in fermento. Chiunque ami la musica, quella che si scopre casualmente frequentando ambienti permeabili agli artisti emergenti, sa che la scena indie romana è gravida di novità interessanti.

Personalmente questa città eterna mi ha cullato e mi ha cresciuto facendosi respirare a fondo. Mi si potrebbe, quindi, accusare di essere più vulnerabile al canto di quella malinconia sotterranea che si acquatta monella in parole dialettali familiari. Facile che ci sia un fondo di verità, eppure so di non sbagliarmi nel dire che Lucio Leoni, conosciuto anche come Bu Cho, non è un semplice cantautore nostalgico ma un moderno menestrello istrionico che ha saputo trasformare storie in canzoni ben riuscite.

Le 9 tracce di Lorem Ipsum (Incisioni Lapidarie, 2015) ne sono la dimostrazione più efficace. È sorprendente come la sua voce si presti a essere l’urlo di sogni traditi così come il sussurro di una Roma che vive ormai solo nei ricordi del passato. Ben inteso che non si corre il rischio di annoiarsi, ogni canzone, infatti, nasconde dei passaggi inaspettati che sorprendono e spazzano via il pericolo di cadere nella banalità.


Sono rimasta sorpresa di scoprire che non hai una folta barba o baffi a manubrio, e che non porti neppure occhiali con la montatura di tartaruga. Eppure la nostalgia per gli eighties ti avvicina pericolosamente alla categoria hipster…

La barba la sto facendo crescere perché è inverno e d’inverno ci si scalda ognuno come può, ma quella per gli eighties non è esclusivamente nostalgia, o meglio: c’è di certo, ma è mescolata a un sano fastidio rispetto al fatto che il quadro che ci eravamo dipinti (o hanno dipinto per noi?) non era per nulla simile alla realtà che poi ci siamo trovati ad affrontare. Ed è per questo che la montatura di tartaruga ancora non fa parte dei miei accessori.


Dietro la vivacità dei colori pop del video “A me mi”, primo singolo di Lorem Ipsum, emerge un’ironia caustica inattaccabile. È una presa di coscienza e un manifesto delle aspettative stroncate della generazione degli attuali trentenni. Dopo averlo visto ho subito pensato a una vicinanza concettuale con Zerocalcare. Daccela una speranza però…

La speranza c’è, solo che viene ammazzata pure quella dalla realtà («sarà per la prossima volta»). In effetti ora che mi ci fai pensare è un po’ desolante il quadro e lascia poco spazio ad aperture positive, c’è da dire però che il brano è cattivo solo con la mia di generazione, a quella successiva guarda con invidia e racconta un mondo nelle loro mani, per cui se è vero che i giovani sono il nostro futuro, allora la speranza è nella generazione successiva. Che verrà fregata da quella successiva forse, o forse no, e via così nei secoli dei secoli amen. La vicinanza con Zerocalcare (cosa che mi onora e lusinga) forse è data dal fatto che sono nato e cresciuto a Rebibbia anche io, chissà magari avere il carcere dietro casa regala un certo tipo di formazione.

 

La tua musica è intrisa di una Roma perduta, dimenticata e le tue canzoni sembrano un dialogo intimo con lei. Qual è il tuo rapporto con la città e come è cambiato crescendo?

Il classico amore-odio. Quando sei circondato da una bellezza di tale portata e allo stesso tempo da un livello di disservizi e disorganizzazione burocratico-amministrativa come quello che quotidianamente affrontiamo diventa difficilissimo relazionarsi con quella che poi è casa. La Roma che racconto è quella di mio padre e poi quel poco che ricordo della mia infanzia. Tra ricordi miei e altri rubati quello che stride è vedere un paese (Roma è un paesello) costringersi a cercare di diventare metropoli. Non ce la fa, e poi un po’ come a tutti i romani il paesello mi piace. Mi piace la borgata, il rapporto diretto col bottegaio, mi piace cantare per strada, cose che con gli anni si stanno perdendo, e allora visto che non posso chiedere al tempo di fermarsi chiedo a lei di stare attenta a non trasformarsi troppo.


Ascoltando tutte e 9 le tracce di Lorem Ipsum è evidente che non ti limiti a cantare ma reciti, declami parole come fossero versi di una poesia. Dove nasce questo modo teatrale di fare musica?

Ho fatto teatro per tanti anni; ho lavorato per lungo tempo con il Living Theatre e con diverse compagnie di teatro di “frontiera” per capirci, poi ho capito che potevo essere ancora più povero facendo il musicista e allora ho mollato il teatro, ma qualcosa evidentemente mi è rimasto addosso.


Complice anche la sua riscoperta come soggetto cinematografico (La grande bellezza di Sorrentino, Non essere cattivo di Caligari), Roma si riscopre come epicentro creatore di un fervore artistico che si era un po’ appannato negli ultimi anni. C’è ancora spazio per emergere senza scendere a spiacevoli compromessi che spingono verso una musica artefatta e preconfezionata?

Spazio ce n’è di sicuro. Sono convinto che Roma stia attraversando (dal punto di vista musicale) una sorta di rinascimento in questo momento. Ci sono tante band e tanti artisti veramente bravi che stanno uscendo fuori e che sembrano aver imparato lezioni importanti. Credo che il punto centrale sia rimanere in contatto e condividere i percorsi e le esperienze senza chiudersi in gruppetti e movimenti di “potere”; questo permette all’arte di rimanere viva e sincera. Se ci si chiude, come è stato in passato per Roma, l’arte si annoia, diventa stantia e artefatta e preconfezionata, come dici tu.


Prossimi progetti e/o collaborazioni? Dove e quando possiamo sentirti dal vivo?

C’è l’idea di lavorare a una trilogia video con diversi artisti di figura, ma se ne parlerà l’anno prossimo. Per quanto riguarda concertucoli vari, ci vediamo su Roma il 26 febbraio a Nacosetta (Pigneto) altrimenti in giro per l’Italia, qualche data qui e lì sta uscendo fuori e siamo molto contenti!

 

The Hateful Eight Poster

“The Hateful Eight”
di Quentin Tarantino

L’ottavo film di Quentin Tarantino (otto e un quarto se si conta anche il frammento del film collettivo Four Rooms; il nono calcolando come separati i due volumi di Kill Bill) arriva preannunciato da tutta una serie di articoli e discussioni che hanno più a che fare con il contorno che con il film vero e proprio. La difesa della pellicola da parte di Tarantino, l’uso di un formato “antico” come il 70mm, la polemica con la polizia statunitense per gli omicidi razziali, il boicottaggio del film, #OscarSoWhite, la colonna sonora di Morricone – la prima colonna sonora originale integrale per un film di Tarantino – e tutto il resto hanno accompagnato l’arrivo nelle sale di The Hateful Eight finendo quasi per distogliere l’attenzione dal film stesso.

Eppure, su questo secondo più o meno western del regista di Pulp Fiction c’è tanto da dire, nel bene e nel male. In Wyoming, qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione, il cacciatore di taglie John Ruth è in viaggio verso Red Rock per consegnare alla giustizia la fuorilegge Daisy Domergue. Lungo la strada raccoglie sulla sua diligenza il maggiore afroamericano Marquis Warren e Chris Mannix, il nuovo sceriffo di Red Rock, un ex ribelle sudista animato da un sincero razzismo. Una tempesta di neve li obbliga a fermarsi nell’emporio di Minnie, un luogo sicuro lungo la strada. Nella capanna non trovano Minnie, ma quattro uomini rimasti bloccati dalla tormenta: un ex generale sudista, il boia di Red Rock, un cow boy silenzioso e il messicano Bob, apparentemente il custode dell’emporio. Ruth è convinto: qualcuno è lì per aiutare Daisy a fuggire e finché non passa la tempesta dovrà rimanere chiuso  lì con gli occhi aperti.

La versione in 70mm da 188 minuti (ne esiste una in digitale, quella che verrà proiettata nella stragrande maggioranza dei cinema, con circa venti minuti di meno), ha un’introduzione musicale su schermo nero e un intervallo di dodici minuti nel pieno rispetto della tradizione delle proiezioni speciali di altre epoche cinematografiche. È uno dei tanti momenti della battaglia che Quentin Tarantino porta avanti da anni in difesa della pellicola e di un’idea di cinema diversa dal consumo veloce e digitale, in nome della dimensione artigianale del cinema, quella fatta di oggetti, dalla pellicola alla macchina da presa, dal proiettore allo schermo cinematografico.

Dopo anni di velocità, Tarantino sceglie la strada della lentezza nell’esposizione e nello sviluppo, nel movimento della macchina da presa, nell’accumulo. Aperto da un lento carrello all’indietro su un crocifisso innevato, con sullo sfondo, lontana, la diligenza di John Ruth che avanza nella neve, The Hateful Eight dopo la visione dà l’impressione immediata e paradossale che sarebbe potuto durare anche altre tre ore, o un’ora e mezzo di meno. Tarantino si prende tutto il tempo che vuole per presentare i suoi otto, per lasciare che si costruisca il sospetto. Si perde in divagazioni, si sofferma sui dettagli per poi esplodere nella violenza.

C’è una divisione netta tra prima e seconda parte in questo western classico e allo stesso tempo completamente diverso dalla tradizione. La prima è lenta, piena di dialoghi, praticamente senza azione. Sembra quasi un giallo della camera chiusa alla Dieci piccoli indiani e in genere alla Agatha Christie, come è già stato detto praticamente in tutte le recensioni e come ha confermato lo stesso regista, con la tensione del sospetto che si accumula strato su strato. Dopo l’intervallo la suspense si scioglie nell’ultima ora (abbondante) in un’esplosione di violenza che non risparmia nessuno.

Dopo l’hard boiled dei primi tre film, il cinema di genere dei Kill Bill e Death Proof, la filmografia più recente di Tarantino a partire da Bastardi senza gloria ha iniziato a guardare indietro nel tempo. La storia è diventata un oggetto da decostruire per privarla degli elementi del reale superflui per la narrazione tarantiniana, per poi essere rimontata secondo la necessità. Così, Hitler e Goering possono morire in un cinema di Parigi, uno schiavo può ribellarsi agli sfruttatori per liberare la donna amata, una capanna può diventare la sintesi di un intero Paese. Andando ancora una volta, dopo Django Unchained, in uno dei momenti iniziali degli Stati Uniti come civiltà più che come nazione, Tarantino riesce a guardare anche al presente, al razzismo che continua a essere un tratto distintivo di gran parte della popolazione statunitense. C’è dell’ironia nel fatto che Spike Lee continui a polemizzare per l’uso libero che Tarantino fa nei suo film della “N-word” (Nigger), mentre proprio i due film più recenti di Tarantino siano denunce piuttosto evidenti della natura violenta e razzista degli Stati Uniti. L’odio per l’altro fa parte del codice della nazione. L’unica giustizia possibile, ancora, sembra essere quella della frontiera, del’uomo contro uomo, delle pistole puntate.

Questo non toglie che The Hateful Eight soffra di tutti i limiti classici del tarantinismo, quelli che tratteggiano il confine labile tra la venerazione e il disprezzo. Troppe parole, troppa violenza, manierismo. E anche in questo ottavo film si finisce per avere una prima parte in cui si parla troppo, esagerando nelle divagazioni, nelle storie nella storia, per il puro gusto dello sfoggio della scrittura. Poi arriva il sangue, esagerato, torrenziale, con l’ennesima orgia di sangue inutilmente pulp, la catarsi finale ogni volta più lunga, ogni volta più prevedibile. E poi c’è quel sospetto, quella sensazione che la forma debba prevalere sulla sostanza, che The Hateful Eight valga di più per il prolungato discorso sul formato 70mm, per la difesa della pellicola, per Tarantino come personaggio e, soprattutto in Italia, per Morricone e la rivalutazione dello spaghetti western che per il suo reale valore di film.

Ci sono dei momenti di grande cinema senza dubbio, perché, tralasciando i discorsi particolari e universali, Quentin Tarantino è un grande regista che sa fare cinema come nessun altro copiando chiunque, e qui basterebbe la scena in cui Daisy canta e suona la chitarra per soddisfare lo spettatore più esigente. Quell’impressione, però, che The Hateful Eight sarebbe potuto ugualmente durare altre tre ore o un’ora e mezzo di meno fa capire che qualcosa non è riuscito del tutto, che la costruzione della tensione è un inutile esercizio di stile per una conclusione che per il regista sarà un marchio di fabbrica ma che non aggiunge niente di nuovo per lo spettatore.

(The Hateful Eight, di Quentin Tarantino, 2015, western, 188’)

mondi reali castillo del vecchio

“I mondi reali”
di Abelardo Castillo

«La piazza si chiamava San Cristóbal: era la stessa della prima volta, perché alla realtà piacciono le simmetrie, è vero; la realtà, in fondo, vuole
assomigliare alla letteratura».

Persino il delirio ha bisogno di parole a cui aggrapparsi per esistere e le parole di Abelardo Castillo si aggrappano ad una carta color ocra, spessa e ruvida al tatto, l’unica in grado di far esistere i diciassette racconti di I mondi reali, pubblicato in Italia da Del Vecchio con la traduzione di Elisa Montanelli.

Fin dal primo racconto, La madre di Ernesto, è chiaro che non vi è spazio per un’Argentina ordinaria; la narrazione di Castillo, infatti, è densa e si ammanta di un realismo umano brutale che rifugge la banalità ma che stupisce, poiché sa anche elevarsi verso una dimensione immaginaria rarefatta, in cui i sensi subiscono innocui inganni e la mente è solcata da dubbi silenziosi.

I racconti di Castillo sono frammenti di un universo personale complesso, dominato da un dualismo schizofrenico incurabile, lo stesso attorno a cui si sviluppa l’intera struttura antologica. Una raccolta del tutto atipica quella di I mondi reali a cui lo scrittore argentino ha lavorato e lavora sin dagli anni Settanta con instancabile perizia. Ogni nuova edizione è un perfezionamento della precedente ma mai il raggiungimento della perfezione.

Realtà e immaginazione, bellezza e ferocia, desiderio e morte sono le pulsioni contrastanti che animano ogni personaggio di I mondi reali e che si riflettono inevitabilmente nello stile narrativo di Castillo. Quest’ultimo, infatti, non ha alcuna esitazione nell’alternare ossessivamente una prosa colloquiale, poco lontana dalla volgarità più becera, con passaggi lirici arricchiti da colti riferimenti letterari.

Castillo reclama un mondo che non sia univoco, distrugge la monotonia narrativa plasmando il fallimento ed il degrado dell’uomo con l’amore e lo struggimento. Sfida il tempo ed il suo declino, trasformando i cuentos in sogni reali, dove chiunque può trovarvi rifugio la notte. Basta rileggerli.

(Abelardo Castillo, I mondi reali, trad. Elisa Montanelli, Del Vecchio, 2015, pp. 272, euro 16)