“Sull’ansa del fiume”
di V.S. Naipaul

Un Naipaul conradiano è stato definito da più parti, quello di Sull’ansa del fiume (Adelphi, 2015), romanzo ora ritradotto da Valeria Gattei e risalente alla fine degli anni ’70. Lo scrittore nato a Trinidad e di lingua inglese è uno dei pochi Nobel non politicamente corretti degli ultimi quindici anni, scrittore di alcuni romanzi notevoli, saggista prolifico e controverso, nonché polemista assai iracondo. Che rifiutava – almeno all’epoca – di accettare una qualche filiazione dall’autore di Cuore di Tenebra.

Di sicuro, siamo nell’Africa centrale. Il protagonista è un indiano di fede musulmana, viene dalla costa orientale, deciso a cambiare vita e a lasciarsi alle spalle un mondo da cui si sente oppresso. Anche perché gli avrebbero apparecchiato pure un matrimonio di cui invece non intende darsi pensiero. Lo stesso suocero mancato gli anticipa cosa troverà nel luogo in cui Salim, questo il suo nome, ha deciso di andare. Preleverà un suo bazar nel centro commerciale di una città che ha conosciuto la colonizzazione europea, la ribellione e la liberazione, il caos inevitabile del dopo. Caos che investe Salim e lo lascia disorientato, assai solo, incerto sulle eventuali e improbabili affinità elettive, scentrato rispetto a qualunque senso identitario, deluso di fronte a un mondo che non avanza nella direzione emancipatrice che aveva immaginato. E continua a immaginare per non abbattersi, salvo constatare che nessun progetto per il futuro muove la popolazione al di qua del bush; che in tanti hanno accumulato troppa rabbia dagli anni del dominio e della schiavitù; e altri ancora si scannano fra loro (al punto che non mancano gli schiavi che preferirebbero restare tali piuttosto che partecipare alla mattanza con «altri africani sconosciuti e ostili»).

Il disorientamento, quando non la paura, il senso di ostilità che lo accerchia, l’inquietudine di un clima in cui nemmeno lo spirito degli antenati sembra rassicurante, la labilità di una fragile memoria storica che i bianchi hanno costruito per gli indigeni falsificandola, trova un primo compimento quando un ragazzo che gli viene mandato per aiutarlo lo denuncia al nuovo dittatore del paese per commercio illegale. Intorno al nuovo potere (vi si adombra senza mani nominarlo ma con profluvio di riferimenti quello di Mobutu) bianchi e neri non si mostrano molto diversi: entrare nella sua orbita, goderne piuttosto che combatterlo è il destino si scelgono e che al disincantato Naipaul non può sfuggire. Se non è quella sull’ansa del fiume la terra promessa, la dipartita per Londra non riserverà a Salim sorprese migliori. Considerando i risultati e cosa egli dice di se stesso («non volevo essere buono, desideravo trovare fortuna»), e nonostante “l’idea romantica” che pure era all’origine del romanzo descritta in una breve prefazione, Naipaul mostra, con una lingua certo più secca di quella conradiana, quanto siano ingannevoli le promesse progressiste.

Molti lo considerano un nichilista, un reazionario – qualcuno addirittura un nemico dell’umanità. Noi agli scrittori che si preoccupano di far fare bella figura agli uomini preferiamo gli scrittori che ne raccontano lucidamente il cuore di tenebra. Uno di questi è Naipaul.

 

(V.S. Naipaul, Sull’ansa del fiume, trad. di Valeria Gattei, Adelphi, 2015, pp. 327 euro 26)

Steve Jobs

“Steve Jobs”
di Danny Boyle

Dopo un poco riuscito tentativo nel 2013, per mano di Joshua Michael Stern e volto di Ashton Kutcher, Hollywood tenta di nuovo di dipingere sul grande schermo il ritratto di una delle menti più geniali del nostro secolo, un uomo che ha nel bene o nel male cambiato il nostro modo di vivere e ha segnato un’epoca: Danny Boyle e Aaron Sorkin ci presentano il loro Steve Jobs.

É il 24 Gennaio 1984 e, annunciata dal famoso spot diretto da Ridley Scott, sta per essere presentata al pubblico l’ultima novità della Apple: il Macintosh, il computer che promette di rivoluzionare il mondo e il modo in cui lo viviamo. Dietro le quinte Steve Jobs, accompagnato dalla fedele direttrice marketing Joanna Hoffman, è alle prese con i preparativi tra problemi tecnici e non solo: da una parte il programmatore Andy Hertzfeld non riesce a far dire «Ciao» alla nuova creazione di Jobs, in camerino, intanto, la sua ex ragazza è decisa a discutere della paternità di sua figlia mentre appena fuori il suo vecchio amico Steve Wozniak è pronto a combattere per far avere il giusto riconoscimento ai suoi colleghi di Apple II, un altro computer di casa Apple; insomma niente sembra andare come deve per Jobs e mancano solo pochi minuti all’inizio della presentazione.

Riproponendo questa semplice struttura narrativa in tre atti rappresentati da tre importanti lanci di prodotti (1984: Macintosh; 1988: NeXT; 1998; iMacintosh) il film descrive carattere, relazioni e idee del genio di Cupertino. Steve Jobs è un film che vive in tutto e per tutto della sua sceneggiatura. C’è più Sorkin che Boyle in questo film in cui tutto – emozioni, personaggi, introspezione, narrazione e coinvolgimento – avvengono esclusivamente tramite i dialoghi. Non c’è una trama o una storia vera e propria dietro al film ma piuttosto un’idea o per meglio dire un personaggio e la sua idea, che ci viene raccontato attraverso il tempo, con l’intelligente escamotage delle presentazioni dei prodotti, dai suoi rapporti, dai suoi dialoghi, dai suoi gesti e comportamenti e da come tutto questo si evolve e modifica nell’arco temporale attraversato. Un modo geniale di raccontare un personaggio già appartenente alla storia pur essendo così vicino a noi, perché evita il facile errore di cadere nell’omaggio o nel banale racconto della sua vita passo dopo passo ma riesce comunque (e anche molto bene) a farci entrare nella testa di Steve Jobs, a farcelo conoscere in prima persona causando nello spettatore reazioni non sempre positive nei confronti del genio di Cupertino, ma piuttosto permettendo a tutti di farsi un’idea personale sull’uomo e non solo sulle sue idee. Una conferma importante per Aaron Sorkin che, dopo la già ottima prova in The Social Network, si dimostra lo sceneggiatore migliore per raccontare le menti tecnologiche che hanno contraddistinto la nostra contemporaneità (perché non sia arrivata una nuova nomination agli Oscar rimane un mistero).

A Danny Boyle non resta che orchestrare l’opera in silenzio, lasciando spazio a Sorkin e alla sua scrittura, lasciando il campo ai tanti dialoghi piuttosto che alla macchina da presa, senza però abbandonare un punto di vista registico che sa sottolineare la sua presenza anche in maniera marcata ed evidente (a tratti anche troppo).

Ad aiutare regista e sceneggiatore nel loro compito troviamo poi un cast stellare, composto interamente da attori di primo livello che non deludono regalandoci dei personaggi con cui non è difficile entrare da subito in empatia e che hanno portato le uniche due nomination agli Oscar del film. Michael Fassbender (candidato come protagonista), nonostante la non evidente somiglianza fisica, si cala perfettamente nel personaggio tratteggiandolo con gestualità ed espressioni e regalandoci una figura difficile ma al tempo stesso affascinante, un compito non semplice ma che non dubitavamo un interprete del calibro di Fassbender avrebbe portato a temine con successo.

Accanto a lui ruotano con maestria la sempre presente e pronta Joanna Hoffman di Kate Winslet, profonda e introspettiva nella sua semplicità da guadagnarsi la candidatura all’Oscar come miglior attrice non protagonista (e dopo il Golden Globe dovrebbe essere la grande favorita per la statuetta), e un Seth Rogen ripulito dell’immagine comica di se stesso e in grado di trasportare sullo schermo un personaggio molto più complesso e fondamentale di quello che possa sembrare.

Un buon film dunque che paradossalmente può trovare il suo punto debole proprio nella sua caratteristica più riuscita. Il suo essere basato interamente su dialoghi potrebbe rendere la visione difficile per qualcuno non avvezzo; quella che ne esce è infatti un’esperienza quasi teatrale che potrebbe aggravarsi a causa della forse un poco eccessiva durata e rendere il film lento agli occhi di un pubblico meno preparato, un neo non da poco che rende l’opera un bel film ma non un capolavoro.

(Steve Jobs, di Danny Boyle, 2015, biografico, 122’)

“Il berretto a sonagli”, per la regia di Valter Malosti

Valter Malosti affronta per la prima volta Pirandello portando in scena Il berretto a sonagli, uno dei testi più popolari del grande drammaturgo siciliano che recupera il personaggio di Beatrice Florica in qualità di coprotagonista della vicenda, e fa risorgere la tempra della donna siciliana vilipesa dal pregiudizio che la vuole muta, oggi come ieri.

Il berretto a sonagli segue La scuola delle mogli di Molière nelle riletture di Malosti, dopotutto lo stesso Pirandello nella Storia del teatro italiano, a cura di Silvio d’Amico: «Il non rimettere le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto».

Si tratta di una rilettura colta che si immerge nella genesi stessa del testo. Il berretto a sonagli nasce, infatti, come testo dialettale – A birritta cu’ i ciancianeddi – per Angelo Musco, attore comico di grande successo. La prima redazione, però, non fu mai pubblicata da Pirandello, a differenza di quanto avvenne con Liolà, e, ritrovata nel 1965, fu edita solo nel 1988. A birritta cu’ i ciancianeddi è il filtro alla luce del quale Malosti rilegge il suo copione, materia utile a una riscrittura della lingua ma anche dei caratteri affioranti dai tagli di Musco mai ripristinati dall’autore.

Nella rielaborazione non si perdono i temi principali della poetica di Pirandello: il contrasto tra vita e forma e la frammentazione dell’Io che generano il ricorrere del teme delle maschere e dei burattini per esemplificare i ruoli imposti dalla società alle persone, impossibilitate a riconoscersi nel confronto con i simili e capaci di genuinità solo al di fuori del consesso sociale.

Su una piattaforma che è palco e confini, i corpi sono fortemente protagonisti. Malosti ha abituato ad un uso interessante dello spazio. Le pedane e i confini netti delle sue scene esemplificano uno spazio dinamico che si costruisce simbolicamente verso l’alto, sfondando il soffitto del palcoscenico.

Al Teatro India di Roma, lo spettacolo si inserisce nel segmento di stagione Classici? Mai così moderni che propone un trittico da Pirandello composto da Il berretto a sonagli, da O di Uno O di Nessuno nell’allestimento firmato da Gianluigi Fogacci (dal 20 al 24 febbraio) e da I giganti della montagna per la regia di Roberto Latini (dal 16 al 28 febbraio).

 

Il berretto a sonagli
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Valter Malosti.

Con Roberta Caronia, Valter Malosti, Paola Pace, Vito Di Bella, Paolo Giangrasso, Cristina Arnone, Roberta Crivelli.

Assistente alla regia Elena Serra.

Produzione Teatro di Dioniso con il sostegno del Sistema Teatro Torino

Alcune delle prossime date
Lecco – Teatro della società 30 gennaio
Torino – Teatro Gobetti dal 2 al 7 febbraio
Cremona – Teatro Amilcare Ponchielli 8 e 9 marzo

“Gli ospiti paganti”
di Sarah Waters

Patrick O’Brien e le guerre napoleoniche, i sospiri di veliero, le folate di spionaggio. Clive Cussler e il filone d’avventura, Roald Dahl e le girandole d’infanzia. Ci sono autori votati a una causa del racconto, perché incastonati in quegli assi cartesiani, sentono di veicolare il meglio del loro poter dire. Oltre a diventare una garanzia di vendita.

Ecco, anche Sarah Waters ha chiaro e vivo il suo nido narrativo. Rinforzato da anni di eccellenti romanzi, come Ladra e Carezze di velluto. Il contesto prescelto è quello vittoriano o i suoi immediati strascichi e le vicende dipanate si consumano tra donne. Innamorate di altre donne.

Geografie di cantina destinate a morire di polvere, perché nell’indiscussa “età della facciata” certi umori, certi tremiti erano indicibili, erano condanna. Restando spesso ostaggio dei sogni o sommersi da litri di matrimoni eccellenti.

Sarah Waters ha scelto di far parlare quegli angoli, di soffiare su quell’ombra la forza di una storia intensa, smacchiante, ineludibile. Come ha fatto anche stavolta, con Gli ospiti paganti (Ponte alle Grazie, 2015).

Siamo nei dintorni di Londra del 1922. Le cicatrici di guerra prudono ancora, per le strade, sotto le maniche. I marciapiedi abbondano di sopravvissuti, ex militari amputati anche nell’orgoglio, costretti a combattere di più, senza neanche le braccia per poter mendicare. Tante famiglie si ritrovano sventrate, svuotate di uomini e quindi di guadagni. Come quella di Frances Wray, ventisettenne solitaria (meglio ancora zitella) impegnata ad accudire sua madre e una casa immensa immolata alla rovina, con troppi costi per le loro tasche smagrite.

La loro fortuna è evaporata in fretta, come i due fratelli Wray, falciati sul campo di un odio insensato; come il capofamiglia, stroncato di crepacuore, ma appena in tempo per disperdere i loro ultimi averi col vizio del gioco. Solo loro le vere reduci, dunque, chiamate a battagliare ogni giorno, a rassettare vestiti una volta sontuosi, a barcamenarsi per non soccombere. Perché la guerra di chi muore lascia  sempre il posto a quella di chi resta.

Decidono così, di affittare il loro piano superiore, accettano l’idea di confermare per tutti la propria indigenza. Ma i nuovi arrivati, ovviamente, non apporteranno solo qualche risorsa per ristorare il bilancio. Sono due giovani sposi i coniugi Barber, Leonard e Lilian. Lui, rampante e ambizioso e sicuro di sé. Lei, morbida e bella d’incertezza lucente, abituata a piacere a chiunque, ma non a sapere cosa le piaccia davvero.

Non resta quindi che innescare la reazione. Somministrare un lento e costante attrito tra le parti. Radente, volvente, chiamato allo scoppio. Nella coppia così nuova e già sgretolata s’insinua Frances, quel potente sapersi diversa fin dal suo sempre.

Frances è sola perché lo desidera, perché sceglie di non svendersi per la buona creanza, per noleggiare un grammo di sollievo sul viso di sua madre. A lei piacciono le donne, come le piacque Christina, così tanto da infatuarsene, ma non abbastanza da affrancarsi da tutto. Così come le piace Lilian, che non sospetta da/per se stessa un amore così drastico. Così ventoso da non lasciarla in piedi. Da diventare delittuoso.

Inutile aggiungere frattaglie di trama. Bisogna addentrarsi, annusare le stanze, i broccati, il camino. Palpeggiare le impronte dei suoi inquilini. Lasciarsi guidare dalla scrittura.

«Era l’affitto di due settimane. Cinquantotto scellini: Frances riusciva già a sentire il fruscio delle banconote, lo sfregamento e il tintinnio delle monete. Mentre prendeva la busta dalla mano della signora Barber e se la infilava in tasca con aria vagamente distratta, cercò di atteggiare i suoi lineamenti a un’espressione da trattativa d’affari – come se qualcuno, pensò, rischiasse di rimanere ingannato e credere che il denaro fosse una mera formalità, e non l’essenza, il gretto cuore e il gretto nòcciolo di tutta la faccenda».

E in questo l’autrice scozzese non oltraggia i presupposti, setacciando con grazia e maestria tutti gli elementi dell’intreccio. L’atmosfera di contegno forzato, di scricchiolante decoro che pervade dialoghi e pensieri; l’apparenza stantia come un cappotto dismesso; l’eredità fatiscente di un tempo ostinato.

Il tremore prima sommesso e poi incontenibile di un sentimento bandito. Lo sfondo sociale che pizzica il singolo, il dilemma ammorbante tra volontà e morale, tra verità e salvezza. E logicamente, inglobando nell’orbita l’acme del crimine, la levigata architettura dell’attesa, una suspense ingegneristica che soppesa e nasconde, rivela e sottrae.

Scrittrice di genere? Certamente. Il genere di scrittrice che merita e coltiva un fatale mestiere di parole.

 

(Sarah Waters, Gli ospiti paganti, trad. di Leopoldo Carra, Ponte alle grazie, 2015, pp. 576, euro 18,60)

il figlio di saul

“Il figlio di Saul”
di László Nemes

Vincitore del Gran premio della giuria al Festival di Cannes, del Golden Globe per il miglior film straniero, Il figlio di Saul, opera prima dell’ungherese László Nemes, è il candidato di punta per il premio Oscar per il miglior film straniero di questo 2016. Se tutto va come deve andare, ha già vinto la statuetta, la prima nella storia del cinema magiaro. Senza girarci intorno, Il figlio di Saul è la ricostruzione più autentica possibile della vita all’interno dei campi di sterminio mai fatta nella finzione cinematografica, un’opera di una potenza paragonabile a Se questo è un uomo di Primo Levi.

Negli anni, di grandi film sull’Olocausto ne sono stati fatti tanti e in tanti modi diversi. In tutti, però, l’esigenza della memoria si è sempre accompagnata alla necessità della narrazione che ha mascherato l’orrore, lo ha enfatizzato, in alcuni casi lo ha vestito di abiti poetici per colpire ancora di più il pubblico (due esempi: Kapò di Gillo Pontecorvo e La vita è bella di Roberto Benigni). László Nemes non fa niente del genere, non accompagna lo spettatore nell’orrore, ce lo scaraventa senza prepararlo. Non dice dove siamo, non dice quando siamo, non fa vedere il mondo prima o fuori dal campo. Niente. L’unica indicazione che gli fornisce è nella didascalia che apre il film, su cosa sia un sonderkommando, il gruppo speciale composto da detenuti ebrei che i nazisti reclutavano all’interno dei campi di sterminio per lavorare alle camere a gas. Gli altri prigionieri odiavano i membri dei kommando perché avevano alcuni privilegi ed erano complici (involontari) dei nazisti. Alcuni abusavano del loro potere, è un fatto storico, come è un fatto storico che dopo quattro mesi di lavoro finivano comunque nella camera a gas con gli altri, perché iniziavano a sapere troppo dei campi e potevano diventare pericolosi.

Saul fa parte di un sonderkommando. È incaricato con gli altri di accogliere gli ebrei appena arrivati nello spogliatoio, condurli nelle “docce”, raccogliere i loro vestiti togliendo via tutto quello che c’è di prezioso, pulire la camera a gas e portare via i corpi – i pezzi, come li chiamano tra di loro – verso i forni crematori. Saul svolge i suoi compiti a testa bassa, eseguendo gli ordini meccanicamente, come tutti gli altri. Solo che durante una delle docce un ragazzo poco più che adolescente sopravvive al gas, per essere poi soppresso da un medico nazista. Secondo il protocollo gli spetterebbe un’autopsia, per capire cosa lo abbia fatto sopravvivere. Saul si impone con gli altri detenuti per fare avere una degna sepoltura a quel ragazzo. Non deve finire nel forno, ma sottoterra, perché quel ragazzo che non ha mai visto è suo figlio.

Che sia realmente il figlio di Saul non è chiaro e tutto sommato non importa. La missione di Saul all’interno del campo è quella di ricordare la dignità possibile anche in pieno svolgimento dell’orrore, ricordare che i corpi non sono solo pezzi, non sono solo pratiche da svolgere ma la traccia mortale di una vita giovane che può essere anche speranza per il futuro. Di Saul, del resto, non si conosce nulla, solo che è ungherese e che è ebreo. Non si sa se ha famiglia, se davvero ha figli. La sua difesa estrema dei resti del ragazzo dà un senso nuovo al suo marciare deciso nel campo. Continuando a seguire gli ordini e a subire le botte, Saul si muove per cercare un rabbino che celebri il funerale del figlio. È la sua unica ragione per continuare a vivere, il suo unico obiettivo, l’unica cosa che importa anche mentre intorno succedono cose più grandi, mentre viene organizzata una rivolta, mentre i prigionieri provano a raccogliere prove per mostrare al mondo cosa succede dentro il campo, anche quando incontra una donna che conosceva prima di tutto quanto.

Lontano da ogni forma di retorica, László Nemes segue per tutto il tempo Saul, incollando la telecamera al suo volto in lunghi piani sequenza e lasciando che la storia si svolga attraverso il personaggio. Il campo, le docce, i pezzi, il fuoco, le fosse comuni, non vengono mai mostrati direttamente, solo attraverso gli occhi del protagonista, unico vero centro focale di tutto il film. Girato in un formato 4:3 (quello dei vecchi televisori, per intenderci, quasi quadrato), Il figlio di Saul chiude lo sguardo dello spettatore sul contesto. Il fuoco della ripresa è sempre su Saul, il resto si intuisce fuori campo, sfocato e distante, destinato a mostrarsi pienamente solo quando viene guardato da Saul. È attraverso questa scelta stilistica austera che Nemes riesce a rappresentare l’orrore con la maggiore autenticità possibile. Saul è testimone e attore imperturbabile della vita del campo, della morte continua, delle montagne di corpi senza vita. Non alza mai la testa, non discute mai, si toglie il berretto quando passa un nazista, si lascia umiliare senza battere ciglio e poi riprende a marciare.

Costato un milione di euro, girato in meno di un mese, Il figlio di Saul riesce nella grande impresa di comunicare l’incomunicabile senza mostrarlo. Terminate le riprese, sono stati necessari cinque mesi di post-produzione per il montaggio sonoro. Quello che lo spettatore non vede e che Saul vive viene fatto sentire nelle scene fuori campo, nei pugni che battono sulle porte della camera a gas, nelle urla, nel rumore dei lanciafiamme, negli spari e negli ordini nazisti che schioccano sulle schiene degli ebrei.

Al suo esordio, il trentanovenne László Nemes è riuscito a fissare un nuovo standard in un sotto-genere cinematografico già affollato di grandi ed elogiati precedenti. Lo ha fatto con una preparazione storica rigorosa e attenta che è stata fondamentale per riuscire a lasciar scorrere la storia sullo sfondo del suo protagonista. Saul è Géza Röhrig. È un poeta ungherese di quarantanove anni, autore di due raccolte di poesie sulla Shoah. Non ha mai recitato prima. La sua è la migliore interpretazione dell’anno. È il corpo del film, la carne muta che vive la Storia.

(Il figlio di Saul, di László Nemes, 2015, drammatico, 107’)

“Il paradiso degli animali” di David Jaimes Poissant

Il narratore della Recherche di Proust, quando a Padova visita la cappella degli Scrovegni, è come investito da un getto miracolato di un azzurro così intenso che «la giornata radiosa sembrava aver varcato anch’essa la soglia insieme al visitatore». La stessa impressione di rapimento si ha leggendo i racconti de Il paradiso degli animali di David James Poissant (NN Editore, 2015).

L’esordiente americano è uno di quegli scrittori a cui si risponde in modo viscerale, capace di navigare come un pesce nelle acque torbide delle passioni frustrate, della violenza fisica, ma più spesso della sottile violenza psicologica, dei sensi di colpa e dei perdoni mancati, che attraverso parole accostate con il massimo della raffinatezza e perspicacia ci offre una prosa che è come carne viva.

Si procede sicuri su un terreno che si pensa sicuro, salvo poi affondare in sabbie mobili impreviste per cui senza accorgercene ci si ritrova nei panni di quel padre, di quel marito, di quel figlio.

È un sottile meccanismo di coinvolgimento empatico, quello con cui sono costruite le storie di Poissant: sembra che niente succeda quando invece la svolta è dietro l’angolo.

L’ottica a volte spiazzante è forse quella del personaggio più scomodo. Nel primo racconto L’uomo lucertola, i cui personaggi ricompaiono nel racconto finale eponimo (l’alpha e l’omega), abbiamo le prospettive di un doppio rapporto padre/figlio: Dan non accetta la diversità del figlio omosessuale, mentre l’amico Cam è alle prese con l’irrisolto confronto con il padre alcolizzato e violento e per questo cerca di essere un genitore diverso per il suo Bobby.

In ognuno dei sedici racconti compare una creatura diversa del mondo animale: una mandria di bufali, un alligatore, uno sciame di api, un gatto perduto, scoiattoli immaginari, un cane che fa da detonatore a una crisi di coppia.

Il titolo originale The Heaven of Animals è il titolo di una poesia di James Dickey che parla del ciclo vitale degli animali, del risveglio dei loro istinti che trasforma gli uni in cacciatori e gli altri in prede. Unica salvezza è per questi ultimi la fuga. Se per gli animali sono veri i versi «Sotto l’albero / cadono / sconfitti, / si rialzano, / si rimettono in cammino», per l’uomo non è detto che si riesca a non soccombere e a risollevarsi.

Il mondo che domina la narrazione di Poissant è il vuoto determinato dall’immobilità e dall’assenza di speranza. Le vicende che racconta non aspirano apparentemente ad andare oltre l’essenzialità delle persone, delle cose, dei luoghi (quelli dell’America del Sud, Atlanta, Florida, Tucson, Midwest, California), che le costituiscono nell’immediatezza di un quadro definito, ricco di rimandi e connessioni, di lucida analisi. Il loro sviluppo è interno alla narrazione.

L’imperfetta geometria del microcosmo umano genera figure di misure incerte, vacue simmetrie, forme approssimative, mutilate fisicamente (Il braccio), ma più spesso affettivamente (la corsa disperata di arrivare in tempo per pronunciare la parola “perdono” a un figlio che sta morendo di Hiv ne Il paradiso degli animali: «Nei rari momenti di onestà avrebbe potuto confessare che aveva avuto paura di quello che la vicinanza richiedeva – riconoscere l’esistenza di fidanzati, amanti, di una vita che non voleva per suo figlio»).

La raccolta è l’attraversamento di situazioni border-line e del loro possibile/impossibile superamento: il fallimento e il riscatto, la fuga e il ritorno, il terrore della mortalità e la sua accettazione (bellissimo il monologo che chiama in causa direttamente il lettore con la seconda persona di Come aiutare tuo marito a morire).

Sono storie di crimini affettivi commessi nell’incoscienza, legami di coppia che immancabilmente si sfaldano, padri e figli che attraversano fasi difficili del loro rapporto, parti che a volte si invertono nella assoluta sordità delle ragioni del cuore e dell’infelicità domestica più inconfessabile.

Insomma è l’amore declinato in tutte le sue varie forme ad essere protagonista. L’esistenza di ognuno è messa alla prova: chi subisce violenza, può anche provocarla in un continuo confronto con scelte o non scelte da prendere: «Dicono che una relazione è finita quando uno dei due esce di casa. Forse non la prima volta, ma molto prima dell’ultima. Interrompi delle litigate con una porta in faccia, con un giro in macchina, con due passi per il quartiere, e lo chiami sbollire. E anche se non lo sai ancora, non stai solo uscendo a fare un giro, stai uscendo dal tuo matrimonio».

I toccanti e coinvolgenti racconti di Poissant, sintesi di precisione, ironia, empatia mascherata da freddezza, sono la dimostrazione che certe cose si possono provare solo nelle storie di breve respiro. Le situazioni, le emozioni, i personaggi ci parlano immediatamente, senza tramiti e senza eccessi di trama propri del romanzo.

 

(David James Poissant, Il paradiso degli animali, trad. di Gioia Guerzoni, NN Editore, 2015, pp, 304, euro 17)

 

The Pills Sempre Meglio che lavorare Flanerí

“The Pills – Sempre meglio che lavorare”
di Luca Vecchi

Alla fine è arrivato il momento dei The Pills. Dopo essersi fatti notare sempre di più su internet nell’arco di cinque anni con i loro video, a metà strada tra sit-com e cortometraggi, dopo essere passati per la televisione come conduttori (adesso su Italia 1 con Non ce la faremo mai, prima su Deejay Tv con il Late Night with The Pills) e autori (Zio Gianni per Rai Due),  Luigi Di Capua, Luca Vecchi e Matteo Corradini arrivano al cinema con il loro primo film, The Pills – Sempre meglio che lavorare, di cui sono protagonisti e sceneggiatori (insieme a Luca Ravenna). A dirigere, ci pensa il solo Luca Vecchi.

Dietro, a muovere i fili, c’è Pietro Valsecchi, eminenza grigia di Medusa e Mediaset, responsabile come produttore dei successi di Checco Zalone (ma anche del Chiamatemi Francesco di Daniele Luchetti) e grande esperto nel trasformare (o provare a trasformare) personaggi televisivi in attori. Con i Pills il discorso è un po’ diverso: non sono personaggi televisivi, nascono anarchici, liberi di dire quello che pensano nel modo che preferiscono. The Pills – Sempre meglio che lavorare ha il grande pregio di mantenere intatto lo spirito dei video di internet del trio. Del resto, i Pills si sono quasi limitati a trasferire sul grande schermo le loro idee. Così, ci sono Luca, Luigi e Matteo, tre trentenni alle prese con il passaggio definitivo all’età adulta. Amici da sempre, da quando da bambini si sono scambiati la promessa di non lavorare mai, i tre continuano a galleggiare beati in un’eterna post-adolescenza al riparo nella loro cucina, a bere caffè e a parlare. Qualcosa cambia, però, per ognuno di loro. Perché Luca sente il bisogno di iniziare a lavorare e sogna la “svolta” aprendo un alimentari come quello dei bengalesi sotto casa, Luigi precipita in una crisi di mezza età precoce quando un ragazzo più giovane gli dà del lei per chiedergli una sigaretta e Matteo è alle prese con un padre che, arrivato all’età della pensione, decide di inseguire i sogni artistici della sua gioventù e di trasferirsi a Berlino per fare il regista.

Il passaggio dal canale Youtube al cinema era molto, molto rischioso. Un conto è fare delle clip di un quarto d’ora al massimo, un altro è strutturare un film compiuto. I Pills sono riusciti a metà a fare il salto. Già dai loro video per internet era chiara una consapevolezza espressiva che metteva insieme tanti riferimenti cinematografici (Jim Jarmush, Woody Allen) per costruire una struttura personale e riconoscibile. Sul piano stilistico, come si è detto, i Pills sono riusciti a rimanere loro stessi, e il merito qui va anche a Valsecchi che li ha lasciati lavorare in libertà. L’identità di Luca, Luigi e Matteo è rimasta intatta, non si sono snaturati, né calmati, non hanno moderato il linguaggio, o i riferimenti ai mondi marginali della droga e cose così.

Questa coerenza espressiva ha permesso a Sempre meglio che lavorare di porsi lungo una linea di continuità con i lavori per il web. Gli appassionati della prima ora, in sostanza, riconosceranno il mondo che hanno iniziato ad apprezzare su Youtube, mentre i nuovi arrivati potranno comunque lasciarsi prendere da un linguaggio che unisce gergo e cinefilia, mischiando citazioni continue, in perfetto stile Tarantino, dagli spaghetti western, dal cinema di Hong Kong, Blow, L’attimo fuggenteFight ClubBatman Begins, ma anche da Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo, e praticamente da tutto il cinema di Muccino (Gabriele) fino al calco totale (ed esilarante) di Come te nessuno mai con Luigi Di Capua che finisce per diventare Silvio (Muccino).

Esordendo nel lungometraggio, i Pills trovano la difficoltà maggiore nel mantenere la piena omogeneità tra le varie parti del film, ad amalgamare gli sketch in una resa unica e coerente che dia maggiore sostanza al soggetto essenziale su cui si regge tutto. Le trovate non mancano, già dal prologo nel 1994 con loro bambini (con barbe e baffi) che dialogano di Cristina D’Avena, Lady Oscar o Dodò dell’Albero Azzurro con la stessa serietà di quando saranno grandi, a volte manca un filo unico che le tenga insieme.

Sempre meglio che lavorare, come tutto il mondo di The Pills, trova però il suo limite maggiore nella romanità evidente alla base di tutto. Non solo nel linguaggio, ma anche in tutto quel mondo di riferimenti a realtà specifiche della Capitale che non possono essere capite pienamente al di fuori del raccordo o da fasce d’età diverse da quelle dei suoi protagonisti. C’è tutta una realtà che è propria di Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini, prima ancora che di The Pills, quella di certi locali, di certe persone, di certa musica (nella colonna sonora ci sono I Cani, The Giornalisti e Calcutta) che è stata trasferita al cinema e che è molto lontana da gran parte del pubblico.

Questa localizzazione precisa, comunque, non impedisce letture più ampie che già hanno accompagnato in passato il progetto The Pills, dalle pretese sociologiche di leggere lo sbando di una generazione senza aspettative allo sforzo di fantasia di parlare di Ecce bombo quarant’anni dopo. Forse guidato dalle esigenze di produzione, Sempre meglio che lavorare finisce per cedere alle pressioni della lettura più alta a tutti i costi, con il discorso finale della cicorietta ripassata che sembra una specie di Proust passato attraverso il box doccia di Santa Maradona di Marco Ponti. Ecco, probabilmente e nonostante tutto, Sempre meglio che lavorare può aspirare a diventare il Santa Maradona di oggi. Come l’esordio di Marco Ponti non è perfetto, ma è carico di una voglia di novità che gli dà una forza unica e irresistibile.

(The Pills – Sempre meglio che lavorare, di Luca Vecchi, 2016, commedia, 83’)

“Caravanserraglio”
di Francis Picabia

Di fronte all’unico romanzo scritto dal pittore Francis Picabia nel 1924 e pubblicato per la prima volta in Italia da Edizioni Clichy (2015), la prima domanda che ogni lettore guidato dal buon senso dovrebbe porsi non è tanto cosa leggerà, bensì come lo leggerà. Infatti, gli si aprono due possibilità: considerare Caravanserraglio un libro come tanti e quindi proseguire indisturbato nella lettura, oppure ritenerlo un manufatto prezioso e quindi faticare un po’ di più e leggere anche le note a piè di pagina. Esatto: nonostante la esigua foliazione e il piccolo formato, si tratta di un’edizione criticamente accurata, dove le note illuminano quei significanti in cui il lettore inesperto non coglierebbe alcun significato nascosto.

Caravanserraglio è, per farla breve, un polpettone farcito di tutto, imbellettato con qualche poesia e in cui autore, narratore e protagonista diventano un’unica entità: raccontato in prima persona, il romanzo espone la vita quotidiana di Picabia, colto per esempio tra cene con l’amante Rosine Heuteruche (il pittore, d’altronde, era un donnaiolo di primo ordine e un abile seduttore), giochi d’azzardo al casinò di Montecarlo (in cui si colgono singolari personaggi il cui destino è in balia della cieca fortuna), gite in automobile (la più grande passione dell’artista), visite a mostre d’arte e simpatiche sedute spiritiche cui prendono parte anche Louis Aragon e André Breton. E proprio nelle situazioni di tutti i giorni l’autore fa partecipare sotto falso nome artisti come Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Max Ernst, e ne approfitta per esporre le sue idee in relazione alle questioni che più gli interessano: l’amore, i soldi, la letteratura, l’arte, la politica, la religione… Insomma, mai titolo fu più azzeccato per un’opera del genere!

Caravanserraglio offre inoltre un chiaro spaccato della società francese del periodo postbellico, quando all’ansia per la guerra si sostituisce un generale sentimento di riscatto, che negli anni Venti sembra far rivivere i fasti e l’opulenza della precedente Belle Epoque.

Ma ciò che più desta l’attenzione è sicuramente la presenza, sgradita allo scrittore, di un «giovane letterato, candidato al genio», Claude Lairencay, che (in)segue il protagonista ovunque egli si trovi, da Parigi alla Costa Azzurra, per leggergli il suo romanzo, L’Omnibus, introducendo così un secondo narratore e l’escamotage del romanzo nel romanzo. E a ben guardare, costui altri non è che un alter ego dello scrittore, che talvolta imbroglia, spacciando ad esempio per sue poesie che in realtà sono di Picabia, affinché quest’ultimo gli dedichi attenzioni e non lo tratti con superficialità. Si creano così giochi sottili e divertenti, per cui Picabia, schernendo Lairencay, sembra rinnegare la sua stessa opera.

Nonostante il 1924 sia un anno chiave per la storia dell’avanguardia europea (Breton pubblica il Primo Manifesto del surrealismo, che ne sintetizza e formalizza le idee e le tendenze espressive), Caravanserraglio sa ancora di Dada: non solo per i palesi e continui riferimenti, ma anche per la struttura. Il dadaismo – si ricorderà – mirava alla distruzione del linguaggio, all’irrazionalità e all’illogicità. Ebbene, le poesie qui contenute sono costruite sulla base di un generale non-sense, sono fatte di giochi verbali, onomatopee, di un linguaggio che abbandona ogni convenzione razionale. Si prendano i vv. 1-4 dell’ultima, Caoba: «La più grande disgrazia della vita è la vita. / Le lacrime somigliano alle stelle, / In una padella per friggere! / Il cielo è una macchina fotografica». E non si tralascino i titoli dei 12 capitoli, che sembrano posti casualmente, senza alcun collegamento con la trama!

Ma alla fine, Caravanserraglio non è un romanzo difficile. Ci richiede solo l’impegno di leggerlo con calma per apprezzarne il suo intrinseco valore.

 

(Francis Picabia, Caravanserraglio, trad. di T. Gurrieri e T. Spagnoli, Firenze, Edizioni Clichy, 2015, pp. 216, euro 12)

Cà phê Nâu Nóng

La otto nera entrò in buca con un rumore secco e definitivo. Fu in quell’istante che gli venne in mente di parlarne con il consulente finlandese. Ogni venerdì sera, dopo il lavoro, giocavano a biliardo. Bevevano birra e giocavano. Avevano trovato una piccola sala nascosta dietro al teatro dell’opera: un posto semplice, gestito da una coppia di anziani con i quali non fu mai possibile andare oltre un cordiale scambio di sorrisi. Mentre riposizionava le biglie per una nuova partita, glielo chiese: C’è un lavoro da fare in Bangladesh, ci vuoi andare tu?
Il consulente finlandese non rispose, si avvicinò al tavolo e strofinò il cubetto di gesso sulla punta della stecca. Giocarono ancora qualche partita poi si salutarono con un’umida stretta di mano. I loro volti lucidi di birra e sudore.
Questo succedeva una settimana dopo che sua moglie, al telefono, gli aveva detto che dovevano operarla, ancora una volta.
Aveva lavorato a quella missione per tutto il mese precedente. Le presentazioni in Power Point erano pronte. Le simulazioni al computer funzionavano alla perfezione e, se ci fosse stato bisogno, aveva una serie di study cases di progetti simili in altri paesi.
Poi c’èra stato il terremoto in Nepal. Lo aveva sentito in televisione durante il notiziario della CNN e aveva visto le foto su internet. Nei giorni successivi alcuni esperti avevano previsto una serie di altri terremoti lungo una falda verso sud est. Fino al Bangladesh? Non ne fece cenno parlando con il consulente finlandese. Gli disse invece che era tutto pronto, che sarebbe stato un lavoro semplice.
Dopo le serate alla sala biliardo tornava a casa in moto. L’aria era ancora calda e tratteneva gli aromi delle cucine sulla strada. Qualcuno aveva già impilato i tavolini e gli sgabelli di plastica, raccolto gli avanzi e abbassato le serrande. Quella sera guidava piano, lungo i vialoni di Hanoi, quasi deserti dopo la mezzanotte. In fondo al viale vide una nuvola di colore che scintillava e si dimenava al vento. Quando la raggiunse vide, fermo al semaforo, uno scooter a cui erano stati legati dei palloncini colorati, di quelli in pellicola d’alluminio. Piccoli riflessi sotto la luce fioca dei lampioni. Quand’è che le cose avevano smesso di essere colorate?
Ogni mattina, da tre mesi, si svegliava già sudato. I primi tempi, per una strana forma di testardaggine, non accendeva l’aria condizionata. Ma poi si era dovuto arrendere all’alone di sudore sulle lenzuola. La metteva al minimo e in quel modo riusciva a addormentarsi. Al mattino, ancora prima della sveglia puntata sul telefono, sentiva la nenia della donna in bicicletta – foulard sul volto e tipico copricapo a cono di bambù – che passava vicino alle finestre col suo carico di cibo da vendere: pane, banane, bastoncini di canna da zucchero.
Dopo la doccia scendeva in strada, pochi passi e già due gocce di sudore gli rigavano il viso. Poi entrava al Café Tuong. La signora ormai lo conosceva, il suo “solito” era un bicchiere di Cà phê Nâu Nóng: caffè caldo servito in un bicchiere con uno strato di latte condensato sul fondo. Si sedeva sempre sulla stessa sedia e avvicinava a sé il ventilatore puntandoselo contro. Aveva provato anche le altre versioni di caffè: scuro senza latte (Cà phê nóng) e con ghiaccio (Cà phê đá), ma da subito si era affezionato al gusto dolciastro e all’aroma di cioccolato del Nâu Nóng.
In Vietnam, bere il caffè è un’operazione che richiede tempo. Ci sono locali a ogni angolo e sembra che quando fa troppo caldo l’unico sollievo sia sedersi di fronte a un ventilatore e bere la bevanda ghiacciata. Il caffè viene servito in un bicchiere sul quale è appoggiato il filtro: una coppetta di metallo, con il fondo bucherellato, riempita di caffè macinato in modo grossolano. Sopra il caffè è appoggiato un disco perforato sul quale viene versata l’acqua bollente. Poi bisogna solo aspettare. Il bicchiere si riempie una goccia alla volta, una ogni secondo, o poco meno. Si abituò presto a quel rituale e anzi iniziò a considerare quei minuti di attesa come una sorta di meditazione. Svuotava la mente e rimaneva a osservare le gocce di caffè che cadono nel bicchiere. In quel modo si preparava alla giornata di lavoro.
Il consulente finlandese non rispondeva. Aveva sentito anche lui del pericolo del terremoto? Provò più volte a convincerlo. Dopo tutto il lavoro che aveva fatto si sentiva responsabile. Dover rinunciare a quella missione non lo faceva sentire a suo agio. E ora aveva pochi giorni per trovare una soluzione. Provò a adularlo: chi meglio di lui poteva sostituirlo? Conosceva alla perfezione le metodologie che stavano promuovendo in molti paesi. In Vietnam stava funzionando e c’erano tutti i presupposti perché ciò avvenisse anche per il Bangladesh. Bisognava solo convincere i funzionari del ministero, ma con le spalle coperte dai finanziamenti della Banca Mondiale sarebbe stato poco più che una formalità. Il consulente finlandese non si sbilanciava, cambiava discorso: Lo sai che il Vietnam è il secondo produttore al mondo di caffe? No, non lo sapeva e in quel momento non gliene importava niente. Così come non gli importava di sapere che nel Nord del Vietnam si usa di più bere tè, mentre nel Sud è il caffè che va per la maggiore. Come con mia moglie, pensò: lei colazione con il tè, io con il caffè.
Intanto la cartella clinica si riempiva di nuove analisi, ecografie, esiti. Nonostante ciò l’aveva sentita tranquilla al telefono. Si stava forse abituando ai colori tenui e all’odore anestetizzato degli ospedali?
A volte, invece del solito café vicino a casa, raggiungeva a piedi uno Starbucks, quantomeno per godere di un quarto d’ora di fresco. Il getto dell’aria condizionata, pungente, gli asciugava il collo e il sudore dietro la schiena. Quel sabato alla cassa c’era una ragazza che non aveva mai visto prima. Ordinò un bicchierone di caffè nero. La ragazza gli diede il resto, dissero grazie all’unisono e sotto il suo sorriso notò la cicatrice. Non faceva niente per nasconderla: camicia con i primi bottoni aperti e capelli legati dietro la nuca. Una cicatrice lunga dieci centimetri sul collo. Una linea curva, come la bocca di un emoji sorridente. Si sarebbe abituato a vedere quel sorriso senza labbra sul collo di sua moglie?
Si scottò la lingua. Ti comprerò un collier di perle, le aveva detto. Continuò a bere adagio: piccoli sorsi di caffè che scendevano roventi in gola. Sì, aveva detto sua moglie, un collier di perle giganti. Avevano sorriso insieme, ognuno davanti allo schermo del proprio portatile. Erano abituati a passare lunghi periodi distanti l’uno dall’altra. Il suo lavoro lo teneva spesso lontano da casa e il fatto di essere di nazionalità diverse aumentava le occasioni nelle quali lui era in giro per il mondo e lei a casa della sua famiglia, in Giappone. Per loro andava bene così. Per loro la presenza aveva poco a che fare con la fisicità.
Questa volta però era diverso. Questa volta voleva esserci. Voleva stringere le sue mani e passare le dita tra i suoi capelli. Incontrare di nuovo il suo sguardo. Poi sarebbe arrivato il momento di guardare in faccia il chirurgo che avrebbe inciso il collo di sua moglie.
Il giorno dell’operazione era stato fissato per il 5 giugno. La prima volta invece era stato il 14 dicembre. Un’operazione perfetta a detta del primario del Gemelli. Una tiroidectomia totale con intervento video assistito. Una cicatrice di appena un centimetro. Era bastata una collanina fine, con un pendente a goccia: un rubino, come aveva chiesto lei. Una cosa veloce, un caffè espresso bevuto al bar dell’ospedale. Dieci secondi. Quanto ci vuole a bere un caffè? Neanche il tempo di rendersene conto. Anche la convalescenza era durata poco, subito si erano buttati sulla programmazione del nuovo anno, il lavoro in Vietnam per quattro mesi. Lei lo avrebbe accompagnato e poi avrebbe proseguito per il Giappone.
Il primo incontro con la malattia era arrivato di sorpresa. Meglio operare subito, avevano detto. Caffè senza zucchero. La bocca amara e gli occhi puntati sul fondo del caffè nella tazzina. Era forse già scritto lì dentro che un taglio non sarebbe stato sufficiente?
Sono rimasti dei linfonodi. Come hanno fatto a non vederli? Il dottor Ishigawa sembrava più irritato che sorpreso. Fanno i pasticci in Europa e poi vengono qua a riparare i danni. A sua moglie scesero due lacrime che si sciolsero ai lati della bocca, ma sentir parlare del suo male nella sua lingua la faceva stare bene.
Ci vogliono più di cinquecento gocce per riempire un bicchiere. Lunedì mattina si svegliò presto, fece una doccia e si preparò il caffè a casa. Rimase con lo sguardo puntato verso le gocce di caffè. Le guardò cadere tutte, una dopo l’altra. Seduto su uno sgabello, in cucina, rimase a fissare quegli istanti scanditi dalle gocce d’acqua bollente che attraversano il caffè e cadono scure sul fondo del bicchiere. Poi scrisse un’email al capo progetto: Non potrò andare in Bangladesh. E anche il consulente finlandese ha rifiutato. Dovrete trovarvi qualcun’altro. Poi comprò il biglietto: Vietnam Airlines, Hanoi-Osaka e ritorno. Infine le telefonò. Sarai bellissima, le disse, lo sarai sempre. Sto arrivando. Faccio in fretta. Il tempo di un caffè.

 

Marco Piazza (1973) Nato a Como, vive a Roma. Lavora come forestale su progetti in ambito internazionale. Ha pubblicato come autore e traduttore su riviste e online. Si è classificato terzo all’edizione 2013 del concorso 8×8. Ha pubblicato il racconto “Maschio alfa” nell’antologia L’amore ai tempi dell’apocalisse – Racconti da un futuro prossimo curata da Paolo Zardi per Galaad Edizioni (2015). Cura il blog Country Zeb.

 

“Io, Gesù” di Robert Graves

L’essere umano è destinato a oscillare eternamente fra conoscenza e ignoranza, fra presenza e assenza. Sono proprio i limiti del nostro sapere che ci spingono a un’ininterrotta ricerca di senso e a rendere necessaria la credenza in un’entità superiore.

Io, Gesù (Longanesi, 2015) del poeta, saggista e romanziere britannico Robert Graves (1895 – 1985) sono più di 500 pagine che i meditatori di poca o nessuna fede potrebbero trovare dure da digerire. È sicuramente un’opera di grande fascino, almeno per chi desideri non uno studio ma un racconto.

Graves ha messo ciò che sa al servizio della sua immaginazione, entrando e uscendo dalla Storia, saltando da episodi a miti antichi.

Ne è nato un excursus sulla vita di Gesù dalla nascita di Maria all’infanzia e crocifissione di Cristo, contaminando varie fonti, dai Vangeli apocrifi ai misteri antichi: greci, egiziani, celtici, sumeri e persino indiani.

Si accostano alla venuta di Gesù al mondo leggende del paganesimo a sottolineare il sincretismo fra vecchia e nuova religione. In questo contesto fioriscono le storie edificanti sui miracoli che accompagnarono la vita terrena di Gesù di cui Graves spesso ci fornisce una versione originale e più umanizzante.

Ad esempio, alla fine del racconto delle nozze di Cana, lo scrittore afferma: «Gesù e il maestro di cerimonie recitarono la loro parte con tale solennità e verosimiglianza da persuadere alcuni dei convitati, già ebbri, che effettivamente bevevano vino; e di conseguenza i crestiani gentili, i quali non si astengono dal vino né dal matrimonio, attribuirono a Gesù un volgare e inutile prodigio simile a quelli operati dai giocolieri siriani alle ferie!»

Sono le leggende come tele di ragno dentro cui lo scrittore ha tessuto caratteri e scene di grande potenza visionaria e tragica, come quella del dialogo fra Gesù e Maria l’Acconciatrice, modulato secondo i ritmi incessanti della domanda talmudica.

Risulta decisiva la questione del metodo con cui è costruita l’opera. L’autore instaura un gioco a due o più voci: la voce narrante, quella di Agabo il Decapolitano, un funzionario romano della fine del I secolo d.C., il carismatico e rivoluzionario Gesù e via via i personaggi intorno a lui, dai discepoli alla sua sposa Maria (ossia Maddalena) a Ponzio Pilato, imponendo al lettore una continua dislocazione dei livelli del discorso con conseguente effetto straniante.

Il risultato è quello di rendere più che umano il Messia tanto atteso, l’Unto del Signore, il capro espiatorio su cui addossare tutti i peccati del mondo, destinato ad essere l’origine del millenario contrasto fra ebrei e cristiani: «Il mio personale problema di ricostruzione è di gran lunga più difficile, poiché riguarda la storia, non il mito. E tuttavia la storia di Gesù dalla Natività in poi segue così da vicino quello che si potrebbe considerare uno schema mitico preordinato che in molti casi sono risuscito a supporre eventi che in seguito, per mezzo di ricerche storiche, ho dimostrato aver avuto luogo, la qual cosa mi ha incoraggiato a sperare che anche laddove il mio racconto non può essere corroborato da prove, non per questo sia del tutto privo di verità».

 

(Robert Graves, Io, Gesù, trad. di Adriana Dell’Orto, Longanesi, 2015, pp. 544, euro 22)

Revenant Poster

“Revenant – Redivivo”
di Alejando González Iñárritu

Finalmente dovremmo esserci. L’anno del primo, attesissimo incontro tra Leonardo Di Caprio e il premio Oscar sembra essere arrivato. Dopo anni di attesa, di prese in giro, di delusioni, di candidature andate a vuoto (quattro) o mai arrivate, Revenant – Redivivo dovrebbe portare la statuetta tra le mani di Di Caprio. Anche perché il nuovo film di Alejando González Iñárritu è tra i grandi favoriti per la cerimonia del prossimo 28 febbraio, con ben dodici nomination e una quantità di premi già vinti tra Golden Globes, Critic’s Choice e altri.

Se è vero che all’Academy piacciono le prove estreme, Di Caprio non poteva certo offrire nulla di più per convincerli. Nell’inverno del 1823, dalle parti del fiume Missouri, un gruppo di uomini guidati dal Capitano Henry esplora i boschi alla ricerca di pelli di alce da portare sul mercato. A guidarli è Hugh Glass, un esploratore vedovo di una donna indiana e padre di un ragazzo meticcio. Durante l’attacco di un gruppo di nativi il gruppo viene decimato ed è costretto ad abbandonare il suo battello. Mentre apre la strada ai sopravvissuti, Glass viene aggredito da un grizzly e ridotto in fin di vita. Immobile su una barella, assiste alla morte del figlio Hawk per mano di Fitzgerald, un mercenario senza scrupoli. Il desiderio di vendetta diventerà la forza in grado di rimetterlo in piedi e di farlo sopravvivere nei boschi da solo, sulle tracce dell’assassino.

Tutta la lavorazione di Revenant – Redivivo è stata piuttosto complessa. Iñárritu, con il suo fedelissimo direttore della fotografia Emanuel Lubezki (terzo Oscar in tre anni, dopo Gravity Birdman, praticamente certo), ha deciso di girare tutto in esterni, usando solo la luce naturale, d’inverno. Il che ha voluto dire poche ore di lavoro al giorno, per molti giorni, con orari di riprese sempre vicini all’alba o al tramonto e temperature che sono arrivate fino a – 40 gradi. Non è mancato il nervosismo, sul set, in particolare si dice che Iñárritu sia finito a fare a botte con qualche membro del cast, stravolto dalla fatica. A subire più di tutti, però, è stato Leonardo Di Caprio. Per reggere gran parte del film con solo la recitazione del corpo, senza dialoghi, senza altri attori vicini, il protagonista di Titanic si è immerso più di chiunque altro nella natura selvaggia e ha accettato tutto quello che il regista gli proponeva. Anzi, pare che sia stato lui a chiedere ancora di più, per avere maggiore realismo, come quando ha fatto sostituire un finto fegato di bisonte con uno vero, per poi mangiarselo (ma si è anche sottoposto a ore di trucco ogni giorno, e ha rischiato l’ipotermia più volte). Si è detto che l’Academy ama le interpretazioni estreme. Probabilmente è difficile trovare qualcosa di più estremo di Hugh Glass nella storia del cinema statunitense.

L’ostinata lotta per sopravvivere di Glass per celebrare una vita perduta, senza badare alla propria, si contrappone a un’ostinazione opposta, quella di Fitzgerald (uno straordinario Tom Hardy), che per la propria vita è pronto a violare ogni legge.

Di Caprio è diventato la carne viva di un progetto ambizioso e rischioso con cui Iñárritu ha voluto dimostrare ancora di più il suo valore di autore, a un anno di distanza dal trionfo di Birdman. Della storia vera di Hugh Glass è rimasto poco rispetto al libro di Michael Punke (pubblicato da Einaudi) che ha raccolto tutte le leggende che sono circolate nei secoli sull’esploratore realmente vissuto. Il regista messicano, di nuovo anche alla sceneggiatura (candidata all’Oscar) insieme a Mark L. Smith, ha aggiunto tutto quello che serviva per avvicinare questa storia di sopravvivenza estrema al suo cinema. Il vero Glass sopravvisse nei boschi e percorse trecento chilometri a piedi per recuperare il suo fucile e vendicarsi dei compagni che lo avevano abbandonato. Il Glass di Di Caprio trova la sua sola ragione di sopravvivenza nella vendetta per l’omicidio di un figlio che nella storia vera non esisteva.

Ancora una volta, è il rapporto padre-figlio a essere centrale nel cinema di Alejando González Iñárritu. Dopo la trilogia della morte, sceneggiata da Guillermo Arriaga, composta da Amores Perros21 grammi Babel, il cinema successivo del regista messicano si è concentrato su storie di padri e figli, sui loro rapporti difficili, sui loro sacrifici. Biutiful aveva al centro proprio la paura di un padre per il futuro dei figli senza di lui, ed è il film in cui Iñárritu ha denunciato con maggiore evidenza questo suo bisogno di indagare la figura paterna, con la dedica alla sua «vecchia quercia», il padre, che sostituisce la dedica ai figli, «le luci più luminose nella notte più nera», che chiudeva Babel

Anche il geniale Birdman, in fondo, è tutto quanto incentrato sul rapporto tra un padre – Michael Keaton – e una figlia – Emma Stone –, e Revenant – Redivivo continua sullo stesso tema, aprendosi anche a una dimensione naturalistica che sembra evidente debitrice del cinema di Terrence Malick. Le foreste in cui si muove Glass dominano l’uomo, che è piccolo e insignificante di fronte all’immensità crudele degli alberi e dei fiumi e della neve. Dio può apparire da un momento all’altro, anche sotto forma di scoiattolo, e a quel punto lo devi prendere e mangiare. Il malinteso concetto di civiltà che è proprio dei cacciatori di pelli, così come dei francesi che gliele contendono, ha allontanato gli uomini dalla natura per vedere solo quello che è utile, non più necessario.

Perduto nel freddo di una natura senza confini, Iñárritu approfondisce quel messaggio trascendente sul senso della vita dell’uomo che è da sempre al centro del suo cinema. Con una trama ridotta all’essenziale, in Revenant è libero di lasciar parlare a piena voce l’immagine sontuosa e spietata, la virtù registica che si scatena in forma assoluta nei primi, meravigliosi, piani sequenza. È alle immagini che è affidato il compito della parola. Sono le immagini che più di ogni cosa rimangono nello spettatore.

(Revenant – Redivivo, di Alejando González Iñárritu, 2015, avventura, 156’)

“Post coitum”
di Riccardo Romagnoli

Vedo i gesti precisi, calibrati, decisi, gentili, speranzosi e dubbiosi dello scultore mentre dà forma a un blocco di marmo, sento lo stridere dei denti a ogni colpo, l’elettricità che si sprigiona dai muscoli tesi, e schiocca sullo scalpello il martello, saltano pezzi di roccia che si perdono come momenti irripetibili quando, stanchi e sudati, abbassiamo la guardia e ci abbandoniamo a una forma di conoscenza misconosciuta e inconoscibile che altro non è che quella la forza che familiarmente, docilmente ci piace chiamare amore.

Vedo questa immagine fissarsi nella mente e poi sparire. La scultura va prendendo forma e le parole la scalzano, il cervello è costantemente confuso da questo gioco d’apparenze materiali e immateriali, mi persuado che quel che sto leggendo sia successo veramente negli angoli magici, oppure nascosti, di Firenze, lo sfondo di tutta la raccolta. La roccia di parole diventa sudore, odore, tatto, sapore, pensiero comunque macigno che sempre riaffiora dopo la breve, incalcolabile evasione del sesso.

La lettura, a colpi di martello, d’ogni singolo racconto è irrefrenabile e da un momento all’altro mi aspetterei di vedere emergere una forma dalle fattezze scabrose, un cazzo, una fica, un culo, una tetta, liquidi impastocchiati ovunque. E invece no, restano violente cartoline fiorentine e una malinconia incontenibile, come dopo aver letto una poesia. Perché ci vuole animo poetico per leggere Post coitum di Riccardo Romagnoli (Morellini, 2015).

Non c’è scampo, non c’è alternativa. Ci vuole disponibilità all’abbandono, confidenza, ci vuole fiducia, la stessa di quando si mescola il proprio corpo con quello di un’altra persona. Sfiniti, ci imbattiamo nella speranza, nel rimpianto, nella disillusione, nel desiderio di morte, nel ludibrio, nel gioco, nella paura, e l’ombra del futuro ci ammanta, e un velo polveroso di passato ci ricorda che siamo ancora vivi, che lo siamo certamente stati, dopo, in uno di quei momenti ormai persi.

Non so come altro scrivere di questa raccolta di brevi racconti edita – che mi pare forse riveli ancor più de Il diciottesimo compleanno (Transeuropa, 2012) le doti liriche di Romagnoli – se non per mimesi, lasciandomi contaminare, vincere.

«Ti accompagnavo parallela nella tua discesa prevista e ti ero compagna totale, serena in un soffio d’aria che respira notturno e che non ha senso. Ci scambiavamo geni intelligenti, così, senza parlare, trasmissioni e informazioni andavano e venivano da me a te, da te a me».

Non si tratta unicamente di / Non si può ridurre solamente a momenti post orgasmici d’un sesso per lo più acerbo, adolescenziale, un po’ immaturo un po’ ingenuo, quanto di cesure, lente commoventi necessarie umane, dall’insostenibile pantomima della vita che beffarda e magica, proprio in quei momenti, tenta di svelarci tutta la sua verità. O così crediamo.

«Pensai alle mie giornate autunnali, al mattino quando ci si alza per un lavoro odioso nella sua certezza di esserci, alle colazioni solitarie di caffè già tiepido, e volli che tu danzassi ancora ripetuta, non per me che ti amavo libera e fuggevole anima piumata, non per la gente che avrebbe fatto meglio a non saperti così bella di apotropaica gentilezza, ma per il gesto lussuoso che nasce interiore e non cambia se qualcuno lo coglie e lo prende, per le serie gratuite che sconvolgono controcorrente i flussi evoluzionistici che fanno vincere il più forte in quanto più adatto, per la felicità autoriflessa che guardandosi alla specchio senza vanità si crea e ricrea».

È un libro del ricordo che ci ricorda di quando più ci siamo fidati del corpo, dell’istinto, nell’eterna speranza d’amore, di salvezza, e abbiamo cercato con tutte le nostre forze poi di dargli forma, a martellate con le parole, per farcelo reale, quell’amore, vivo, e invece, ignari, forse lo uccidevamo per sempre consegnandolo all’oblio, condannandolo al solo ricordo.

«Da un limite posto quasi infinito sopra di noi oltre il nostro tempo miliardi di anni, pulviscolo soltanto sarebbe stato questo mondo fatale, clinamina di atomi digitali fuori rotta sviati. Questa voce che dicevi tu, «È caldo», sarebbe volta inesausta risuonando su sponde millenarie ai margini del cosmo tornando indietro e ritornando. Tu saresti stata nello stesso modo in cui avresti potuto non esserlo, io avrei letto e amato come se non avessi mai saputo leggere e amare. Ti baciai mentre eri ancora giovane e a me, che ero giovane uguale, compagna. Lieti ci leccavamo annuendo come i gatti fanno sui loro peli odorosi, dicendo sempre di sì col muso che sale e scende».

 

(Riccardo Romagnoli, Post coitum, Morellini, 2015, pp. 88, euro 9,90)