Creed Poster Recensione

“Creed”
di Ryan Coogler

Quarant’anni dopo il primo Rocky, premiato con il premio Oscar per il miglior film nel 1977 che proiettò Stallone, con le nomination come migliore attore e miglior sceneggiatura, in un Olimpo ristretto di cui fanno parte gente come Charlie Chaplin e Orson Welles, il mito del pugile di Philadelphia riparte da un nuovo inizio con Creed, reboot del franchise (come si dice adesso) ideato e diretto da Ryan Coogler che sposta l’attenzione sul figlio del rivale e amico storico di Rocky, Apollo Creed.

Adonis, il figlio di Creed, è cresciuto senza famiglia, entrando e uscendo dal riformatorio finché la moglie di Apollo non lo ha trovato e lo ha fatto crescere con lei, nella grande casa a Hollywood dell’ex campione del mondo dei pesi massimi. Non è suo figlio, ma è come se lo fosse, non è sua madre, ma è come se lo fosse. Adonis ha un bel lavoro e una vita lussuosa, ma sente fortissimo il richiamo del ring che lo porta più e più volte oltre confine, in Messico, per incrociare i guantoni con i pugili locali. Nonostante l’opposizione della signora Creed, Adonis decide di lasciare tutto e volare verso Philadelphia in cerca di Rocky Balboa, lo storico antagonista del padre, per essere allenato da lui e diventare finalmente un pugile professionista.

Creed si infila nel filone di quei film che puntano sull’effetto nostalgia che ha caratterizzato l’ultimo anno cinematografico, da Jurassic World Terminator: Genysis, passando per Mad Max: Fury Road e arrivando fino a Star Wars: Il risveglio della forza. Se da un lato queste operazioni dimostrano il livello d’emergenza a cui è arrivata la creatività degli studios hollywoodiani, ormai incapaci, o non interessati, a far partire nuove idee e sempre pronti, piuttosto, a recuperare sicurezze del passato,dall’altro lato si può dire che Hollywood ha ormai deciso di rendere omaggio alla sua stessa grandezza e agli appassionati che l’hanno alimentata andando a stuzzicare le corde più intime del ricordo, quelle che legano a personaggi immaginari come ad amici veri.

Questo indiretto capitolo sette della saga di Rocky ha più di un punto in comune con un altro settimo episodio uscito da poco: quello di Guerre stellari. Come Star Wars per tornare a una grandezza dimenticata ha dovuto essere tolto di mano al padre George Lucas, così Rocky è potuto tornare allo spirito originale solo allontanandosi da Sylvester Stallone, che lo ha ideato, coltivato, difeso, imposto e poi sfruttato in troppi seguiti sempre peggiori. Creed è il primo film della storia di Rocky a non essere stato scritto da Stallone, tanto per iniziare. Tutto del modello rimane intatto, il percorso di crescita, il riscatto del pugile, la lotta sul ring come metafora della vita, ma questa volta a confezionare e ideare il progetto non è il padre Stallone, ma un fan come Ryan Coogler, che ha immaginato un modo nuovo per dare nuova vita a tutta la serie, con una linfa e un punto di vista nuovi, più vicini alle origini che alle derive degli ultimi film.

Lontano dall’impegno della scrittura o della regia, Stallone si è limitato (si fa per dire) a co-produrre e soprattutto a rimettere i panni del suo «migliore amico immaginario», come lo ha definito ritirando il Golden Globe per la sua interpretazione come migliore attore non protagonista. Per questo nuovo/vecchio Rocky, Stallone ha ricevuto anche la nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista. Sembrerebbe molto probabile una sua vittoria (anche se Mark Rylance in Il ponte delle spie è molto quotato, e Christian Bale in La grande scommessa è come sempre bravissimo, e anche Mark Ruffalo in Il caso Spotlight), che lo proietterebbe quarant’anni indietro nel tempo, quando con il primo Rocky si rivelò come un attore con del potenziale troppo spesso lasciato soffocare dalla muscolarità.

In questo Creed, il suo Rocky fragile e anziano, logorato dal dolore per la perdita dell’amata Adriana, è di un’umanità realistica e toccante. Oltretutto, l’intesa con il co-protagonista Michael B. Jordan (che già aveva lavorato con Coogler nel film indipendente Prossima fermata Fruitvale Station) è immediata e naturale, nelle battute, nelle provocazioni, nell’affetto silenzioso. Adonis ha bisogno di una figura paterna che non ha mai conosciuto, Rocky di una ragione per aver voglia di restare vivo, e Stallone e Jordan si muovono in simbiosi per far crescere i loro personaggi.

La forza di Creed è proprio nella trasmissione dell’eredità da Rocky al nuovo protagonista, nel passaggio di consegne che questo film rappresenta in attesa degli inevitabili e già annunciati seguiti che porteranno avanti la storia di Adonis. C’è, in Creed, un modo molto interessante di confondere il reale con la finzione, con Adonis che si guarda su Youtube i video dei combattimenti del padre, che sono poi gli spezzoni dei vecchi film, con la statua di Rocky che davvero si trova a Philadelphia che diventa un monumento a un campione esistente, con la HBO che trasmette documentari sui pugili immaginari del film e così via. È un mondo in cui quello che esiste nella finzione è diventato reale, ma in cui esiste un livello ulteriore di fusione/confusione, quando Rocky guarda la foto del figlio andato a vivere lontano, e lo spettatore può commuoversi con Stallone, perché il bambino in quella foto è Sage, il figlio di Sly morto tragicamente nel 2012.

Coogler, poi, impiega una cura particolare nelle scene di combattimento, l’elemento naturale dei film Rocky, che qui trovano un nuovo linguaggio per esprimersi che mostra tutto il talento del regista, soprattutto nel secondo incontro con “The Lion”. Quello che è certo, però, è che il figlio di Apollo non è pronto per camminare sulle sue gambe, non solo sul ring.

Il film conosce i suoi momenti più deboli quando Stallone è lontano dalla telecamera. Va bene il ritorno alle origini, va bene la celebrazione di quella voglia di riscatto alla base del primo Rocky, con Creed junior che combatte contro il suo stesso nome, contro la solitudine delle case famiglia, e via di seguito, ma c’è soprattutto tanta retorica semplice semplice nei dialoghi, tanta prevedibilità nei passaggi narrativi, tanta approssimazione negli scarti psicologici (siamo ai livelli di «Fai questo!» «No!» «Ti ho detto fallo!» «Ok hai ragione lo faccio!»). Certo, dimenticandosi cosa fosse il primo Rocky – ossia un grande film – e tenendo a mente solo quello che è venuto dopo sarebbe lecito chiedere «E che ti aspetti da un film di Rocky?», ma non regge, perché Creed avrebbe potuto fare di più del necessario per essere un bel film di pugilato e diventare qualcos’altro. Come è stato Rocky, come non sarà mai un Creed.

(Creed, di Ryan Coogler, 2015, drammatico, 132’)

“African Psycho”
di Alain Mabanckou

Dopo otto anni dalla traduzione dell’editore Morellini, torna in libreria per 66thand2nd African Psycho di Alain Mabanckou, scrittore congolese che scrive in francese, reduce dagli ottimi riscontri del suo ultimo romanzo, Pezzi di vetro.

La sigla parodica del racconto sta ovviamente già nel titolo e informa non solo l’intera vicenda ma il tono con cui viene narrata – Mabanckou è scrittore apprezzabile e ovviamente consapevole che la sfida in questo genere di racconto sta tutta nella capacità di rendere accattivante l’ironia dissimulata nella voce candida di un cattivo assai improbabile (la resa in italiano è affidata a Daniele Petruccioli).

L’incipit è esemplare: «Ho deciso di uccidere Germaine il 29 dicembre. Ci penso da settimane, checché se ne dica per uccidere una persona ci vuole una preparazione insieme psicologica e materiale». Gregorie, il carrozziere protagonista, è invece un totale incapace; purtroppo si è messo in testa che la sua vita non sarà mai un granché se non riuscirà a imitare le imprese del grande killer e stupratore Angoualima. Il quale, benché deceduto (e assurto ormai a mito, il meglio quanto a «delitto, invisibilità, furto, stupro e maestria nel seminare le forze dell’ordine»), è costretto a ricevere le visite del petulante aspirante assassino che gli chiede dritte e suggerimenti e giustamente viene cazziato per la sua manifesta inettitudine (fra le varie iniziative  finite maldestramente può contare un tentativo di stupro incompiuto per difetto di erezione su una disgraziata che ha perso conoscenza). Il poveretto, fumoso quanto spiritoso, che da giovane invece di andare a scuola passa il tempo al palazzo di giustizia per ammirare i criminali, che considera “come fratelli e sorelle”, si affatica senza costrutto, si porta a casa una prostituta fingendo di volerla salvare e redimere per poi sferrare l’attacco che costituirà l’esordio della sua mirabolante carriera di serial-killer – nella sua testa, chiaro, perché le cose andranno diversamente.

Sul piano delle situazioni,  comicità e grottesco del romanzo si definiscono intorno a una mappa di elementi semplici ma ben orchestrati: la frustrazione della vita ordinaria del protagonista e il contraltare delle  sue inverosimili ambizioni; l’ambiente di furfanti e alcolizzati che lo fa sentire inferiore (ci sono quartieri nella sua città in cui “la gente defeca ovunque”); il vertice di questo mondo alla rovescia rappresentato dallo spirito di Angoualima che ripaga le visite al cimitero con sfottò e sfuriate.

Romanzo divertente di uno scrittore dalla penna facile, insegnante alla Ucla, vincitore di premi importanti, con un suo seguito ormai consolidato.

 

(Alain Mabanckou, African Psycho, trad. di Daniele Petruccioli, 66thand2nd, pagg. 155, euro 17)

“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero quattro

È uscito effe – Periodico di Altre Narratività #4

Chi lo stava aspettando in questo numero troverà:

– curiose leggende sovietiche, l’Arizona, Berlusconi, viaggi misteriosi, il rock declinato in tutte le sue forme, topi a profusione, televisori rotti, fantasmi veri e presunti, orge e scambisti insospettabili;

– le illustrazioni di giovani artisti italiani raccolte all’interno di un’unica copertina realizzata da Lucamaleonte, lo street artist romano che ha fatto impazzire la Garbatella, ma anche Londra, Parigi, Berlino e New York.

I racconti inediti sono di:
Paolo Zardi, Elvis Malaj, Giuseppe Truini, Livio Santoro, Valentina Maini, Vins Gallico, Corrado Castiglione, Athos Zontini.

E le Illustrazioni sono di:
Massimiliano di Lauro, Margherita Morotti, Elisa Macellari, Alberto Fiocco, Giada Ganassin, Alessandra De Cristofaro, Daniele Castellano, Viola Niccolai, Lucamaleonte.

 

Chi ancora non conosce effe – Periodico di Altre Narratività deve sapere che:

è un semestrale di narrativa inedita illustrata ideato da Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, che nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano e offrire una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e dove i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione. Tutti i racconti sono illustrati da giovani artisti della scena italiana contemporanea. effe ha una tiratura limitata e viene distribuito in maniera diretta (vis-à-vis con i librai) nelle librerie indipendenti, perché:

A)   è un prodotto artigianale

B)   è importante che il libraio creda in ciò che vende.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero quattro:

  • Storie segrete di Roberto Bioy Fälsher
  • C6H12O6 di Paolo Zardi (ill. di Massimiliano di Lauro)
  • Il televisore di Elvis Malaj (ill. di Margherita Morotti)
  • La diva e il terremoto di Giuseppe Truini (ill. di Elisa Macellari)
  • 15 Jumps on the Edge di Livio Santoro (ill. di Alberto Fiocco)
  • Da nessuna parte di Valentina Maini (ill. di Giada Ganassin)
  • La signora Anna di Vins Gallico (ill. di Alessandra De Cristofaro)
  • La camicia di Spinoza di Corrado Castiglione (ill. di Daniele Castellano)
  • Cariati di Athos Zontini (ill. di Viola Niccolai)

 

Qui è possibile acquistare online effe #4 e consultare l’elenco delle librerie in cui il volume sarà disponibile già dai prossimi giorni.

Per maggiori informazioni: periodico.effe@42linee.it

 

“Etica dell’acquario”
di Ilaria Gaspari

«Per molto tempo ho creduto di dover dimenticare Pisa. Invece dopo ogni fuga finivo sempre per tornare». Inizia così il romanzo di esordio di Ilaria Gaspari e nelle prime due righe si ritrova, condensata, tutta la storia. La narratrice e protagonista di Etica dell’acquario (Voland, 2015) è Gaia, trentacinquenne bella e infelice, che torna nella città in cui ha studiato e da cui è fuggita un attimo dopo essersi diplomata. Il ritorno a Pisa è l’occasione per lasciare che la memoria – malinconica, imprecisa, menzognera – si impossessi della narrazione, riportando alla luce gli anni universitari che Gaia ha, volontariamente e istintivamente, cristallizzato in lontananza.

Ciò che emerge è l’acquario hobbesiano che dà nome al romanzo, concretizzato nella realtà chiusa e claustrofobica della Scuola, termine che in modo esplicito fa riferimento alla Normale di Pisa.

«Un giorno, molto tempo dopo il mio arrivo, lo vidi distintamente. Fu il giorno in cui fissavo i pesci nello stagno del collegio e capivo tutto. […] Vedevo all’improvviso che stare alla Scuola era proprio come essere dentro un acquario. Ecco perché quel senso di esilio in un luogo innaturale, che a tratti sapeva farsi più selvaggio, più violento del mondo di fuori».

Un romanzo di memoria – la protagonista si muove nel tentativo di ricostruire un passato che non c’è più e a cui, tuttavia, è rimasta inevitabilmente incatenata («Invece dopo ogni fuga finivo sempre per tornare») – ma strutturato come un noir, perché il ritorno a Pisa coincide con il suicidio di Virginia, ex compagna di studi e per molti versi alter-ego della narratrice, la cui morte, oscura e a tratti inspiegabile, determina l’apertura di un’inchiesta che coinvolge in prima persona la protagonista. La struttura noir è la parte meno solida del romanzo, forse perché il suicidio-omicidio sembra avere una valenza più simbolica che fattuale.

Ma Etica dell’acquario è anche (e soprattutto) una storia sull’intensità degli anni universitari e sul «palpabile senso di separazione incombente» che li accompagna (e ci accompagna) per l’intero tragitto; è il ricordo di un legame d’amore – quello tra Gaia e Marcello – che si fa emblema di tutto ciò che è stato e che non è più, o di tutto quello che sarebbe potuto essere ma è rimasto legato al condizionale. Gli anni del collegio, nel bene e nel male, marcano con chiarezza un prima e un dopo. Ed è per questo che la narratrice ne è ossessionata, al punto da rimanerne ancorata molti anni dopo la loro fine. Nel rincontrare Marcello e i due amici comuni Leo e Cecilia, nel ricordare Matteo, amico e compagno scomparso proprio sul tramonto di quel periodo, Gaia si illude di poter ritrovare la sé stessa che non è più.

«Allora di nuovo sarei stata quella che ero io, in una stanza di collegio, dieci anni o poche ore prima. […] E quegli anni vischiosi di esilio, tutti gli anni della lontananza e dell’espiazione, non sarebbero semplicemente mai esistiti».

Come le illusioni della protagonista, anche il tempo della storia è tutto un tempo passato. Il presente della narrazione sono le acque viscide e melmose dell’acquario e la trama si impone come una lunga osservazione delle regole e dei trucchi da adottare per sopravvivere al suo interno. «L’osservazione continua degli altri alla Scuola diventava presto ossessione». Etica o, ancora meglio, etologia dell’acquario, verrebbe da dire.

La Scuola è tratteggiata come un luogo che contiene in sé «qualcosa di primordiale, qualcosa delle caserme e delle carceri, un senso di violenza compressa fra adolescenti costretti a una vecchiaia precoce». Un ambiente in cui essere belli «è considerato volgare se non insultante». Per questo Gaia impara presto che, per sopravvivere, deve attenersi a regole precise e, insieme, essere pronta a trasformarsi. E allora, la vasca dei pesci diventa emblematica. Per fare un esperimento qualcuno un giorno ha introdotto all’interno dell’acqua dei piranha; l’esperimento è fallito e i piranha sono morti. I pesci superstiti sono incredibilmente mutati: ventri rigonfi e tesi, squame trasparenti attraverso le quali è possibile scorgere gli organi interni, occhi vitrei mentre nuotano «in circoli inutili in un ambiente artificiale». Più che altrove, la Scuola si riduce a una lotta per la vita, tutti contro tutti. Eppure, nonostante questo, o proprio per questo, quando giunge il momento di saltar fuori dall’acqua Gaia non è pronta. Come può un pesce mutato uscire dalle acque torbide e respirare?

 

(Ilaria Gaspari, Etica dell’acquario, Voland, 2015, pp. 192, euro 15)

la grande scommessa poster adam mc kay

“La grande scommessa”
di Adam McKay

La crisi dei mutui sub-prime, il crollo di Lehmann Brothers, il tracollo della finanza statunitense che si diffonde come un virus al mondo intero. A Hollywood è arrivato il momento di fare i conti con la storia recente, di raccontare la storia vera di chi aveva capito cosa stava succedendo e di come tutto il sistema ne fosse consapevole e non abbia fatto niente per impedirlo. La grande scommessa di Adam McKay mette insieme un cast di grandi nomi per raccontare l’inizio della crisi e spiegare allo spettatore quel linguaggio misterioso e inaccessibile che è la finanza.

Nel 2005 il mercato immobiliare degli Stati Uniti sembrava incrollabile. Chiunque poteva accendere un mutuo per comprarsi una casa, anche più di uno, anche per più case. Era impensabile per chiunque immaginare una sua flessione. Per chiunque ma non per Michael Burry, broker scrupoloso e attento a ogni minimo dettaglio che analizzando i numeri dietro a quella enorme mole di mutui che continuavano a venire concessi scopre una solidità solo di facciata che nasconde il vuoto di un enorme scoperto di cifre che non possono e non avrebbero mai potuto essere restituite. Burry è un agente finanziario e fa quello che deve: sviluppa un sistema per scommettere contro l’andamento del mercato immobiliare, sul suo fallimento in sostanza, investendo i soldi del fondo fiduciario che amministra. Sono in molti a ridergli dietro, pochi a capire che nelle sue previsioni c’è la verità, quella verità che ha portato tra il 2007 e il 2008 alla crisi economica globale più grande della storia dell’umanità.

È arrivato il momento della riscossa del cinema demenziale. Prima era Judd Apatow e la sua capacità di trasformare in denaro qualsiasi prodotto cinematografico, adesso è arrivato il momento di Adam McKay, regista di fiducia di Will Ferrell nella sua forma più cretina (i due Anchor ManPoliziotti di riservaFratellastri a 40 anni), che dopo aver riscritto Ant-Man per la Marvel ha deciso di mettersi dietro la macchina presa per il suo film più ambizioso, quello in grado di allontanarlo dalla commedia più becera (ma comunque dotata di una certa intelligenza registica di fondo) per avvicinarlo a un cinema di più alta aspirazione. La grande scommessa, tratto dal libro omonimo di Michael Lewis pubblicato in Italia di Rizzoli, è il tentativo molto più che riuscito di raccontare il passato recente e le sue conseguenze sul contemporaneo in un forma assolutamente nuova, capace di unire generi in un linguaggio che non è facile decodificare.

C’è un po’ di The Wolf of Wall Street e non può essere altrimenti, parlando di investimenti e borsa, con un avvio che ne sembra quasi un calco nello stile. C’è anche, però, la capacità di McKay di far fruttare l’esperienza di anni di cinema tutto al maschile per delineare dei personaggi complessi con pochi tocchi dati al momento giusto. Se nella forma La grande scommessa sembra essere vicino a Scorsese, nei contenuti vengono subito in mente film recenti dedicati alla stessa crisi dei mutui come il documentario Inside Job, premiato con l’Oscar per il miglior documentario, e Margin Call di J.C. Chandor. A differenza di entrambi, però, McKay riesce a parlare della crisi e di alta finanza con un linguaggio innovativo. Il narratore Ryan Gosling (è Gregg Lippmannn, un trader di Deutsche Bank che fiuta l’affare nell’intuizione di Michael Burry) sfonda da subito la quarta parete rivolgendosi agli spettatori. Anche gli altri personaggi lo fanno, addirittura spiegando come il film si allontani dalla storia vera a cui è ispirato e soprattutto chiamando in causa delle guest-star nei panni di loro stesse per spiegare i concetti più complessi del sistema degli investimenti. Allora c’è Margot Robbie in una vasca da bagno che spiega cosa sia un pacchetto CDO, o Selena Gomez che illustra le strategie del brokeraggio al tavolo di Las Vegas.

La velocità nevrotica di un film di borsa, quindi, si unisce alla volontà di spiegare finalmente a chi vede cosa sia successo con un linguaggio che cerca di essere il più possibile semplice. La grande scommessa ha tutte le carte in regola per essere un grande film. Trova un limite in se stesso, quando si obbliga a ricordare i danni e le perdite che la crisi ha portato mentre gli speculatori esultano per i ricavi enormi che hanno ottenuto scommettendo sulla fine di tutto, ma è un peccato di poco conto. I vari protagonisti, abbondantemente ed evidentemente truccati, fanno a gara di bravura. Ryan Gosling è cinico e distaccato, Brad Pitt si prende un ruolo di guru paranoico, ci sono i meno noti ma non per questo meno bravi Hamish Linklater, John Magaro (anche in Carol), Rafe Spall e Jeremy Strong. Soprattutto, ci sono Steve Carell e Christian Bale, perfetti nei ruoli più dettagliati e fragili del film, Carell che ha subito le conseguenze del mercato azionario sulla sua vita e cerca di espiare un dolore che è anche colpa (secondo lui), Bale quindici anni dopo American Psycho disegna un nuovo animale da borsa totalmente diverso da Patrick Bateman.

(La grande scommessa, di Adam McKay, 2015, drammatico, 130’)

“Niente miracoli a ottobre”
di Oswaldo Reynoso

Se fosse un quadro Niente miracoli a ottobre del peruviano Oswaldo Reynoso (SUR, 2015) sarebbe un quadro modernista, un Picasso o un Matisse, realizzato con pennellate di colore decise, date senza tentennamenti e senza alcuna cura della stesura o degli accostamenti di tonalità primarie fra loro.

E sarebbe di un colore viola (come la copertina), quel colore che Leonardo nel Trattato di pittura definì «un misto composto dall’azzurro dell’aria e dal rossore del fuoco».

Il viola è ottenuto infatti dalla mescolanza del rosso con il blu, è il colore della congiunzione (una conuctio oppositorum) fra corpo e spirito, tra la passione e l’irruenza del rosso e la tranquillità e trascendenza del blu. È infine il colore che nel Cristianesimo è usato nei periodi di purificazione penitenziale.

È il viola, un colore quasi violento, emotivamente carico come un fiume in piena, a dominare il libro di Reynoso che è il racconto di una giornata di ottobre nella Lima degli anni Sessanta, dalle 8 di mattina alle 21:22 di sera, durante la quale di svolge una processione dedicata al Signore dei Miracoli.

E viola acido è il cielo sopra la capitale peruviana immersa nella garúa, la foschia invernale densa e piovigginosa tipica di Lima. La giornata plumbea rivela un’incrinatura, un’ombra luttuosa, che neppure gli arabeschi dello stile, definito dai critici ««realismo urbano», possono evitare.

Nella processione, che dal 1760 fa sì che «padroni e schiavi, signori e popolo, figli di papà e plebe, in ottobre, sono uguali grazie alla magia ruffiana di una semplice tunica viola», c’è racchiusa tutta l’umanità e le sue contraddizioni: un pigiarsi voluttuoso e infoiato fra sacro e profano; potenti domini degli affari economici e politici, come don Manuel, attratti dai ragazzi dei quartieri poveri, che fumando lasciano cadere cenere d’insoddisfazione, aggressività e paura, strati di amarezza che non si dissolvono alla luce arancione, scura e torbida del tramonto; una donna che partorisce tra urla di dolore e i canti e le preghiere delle vecchie vestite di nero e dei penitenti con la tunica viola; una confusa miscela di umori, di gigli, sperma, incenso e sudore. C’è poi l’ondata anomala dei manifestanti, studenti e operai, di Plaza San Martín che sbatte contro il muro della polizia tra lacrimogeni, cani uggiolanti, spari che si confondono con i fuochi d’artificio della processione «nel cielo lattiginoso di garúa».

Il romanzo di Reynoso, uscito nel 1965, fu accusato di oscenità per le tematiche (omosessualità che rasenta la pedofilia, politica e religione) e lo stile enigmatico che passa costantemente dal detto al pensato, con brusche sterzate che portano a sbaragliare il diaframma fra figurazione e astrazione.

Questa non è però una giustificazione accettabile per la sua colpevole assenza in Italia per 50 anni.

Fra i suoi difensori ci fu il premio Nobel Vargas Llosa, per il quale «ogni buon romanzo dice il vero, e ogni cattivo mente».

Può darsi che della scrittura di Reynoso resti un’impressione di oscurità, di una certa tortuosa complessità, ma se ne riceve anche una di pienezza e ricchezza. Si potrebbe dire che lo scrittore di Arequipa con la mano sinistra chiuda l’Ulisse di Joyce e con la destra apra Faulkner (in particolare de L’urlo e il furore), per il suo continuo passaggio dal racconto al pensiero, evidenziato graficamente dal corsivo, dal dialogico al descrittivo.

I monologhi dei vari protagonisti (ad esempio don Lucho, un umile lavoratore in cerca di una casa per la famiglia sfrattata) ci danno la sensazione che l’ostinazione, la furia, la stessa disperazione alla quale, nel dispiegarsi della narrazione, sono inchiodati tutti i personaggi, sospesi in una movenza acrobatica e dolente, non siano altro che stati di per sé del tutto vuoti di senso. Sembra quasi che nessuno, ricco o povero, in questo racconto, sia dotato di sentimento, quel che accade dentro e fuori di loro ciascuno lo patisce e subisce.

Così alla fine don Manuel, ricchissimo e potente banchiere, che all’inizio guardava dall’alto della sua balaustra il popolo tumultuoso, turandosi il naso e al contempo gettando occhiate lascive al suo Tito, si scopri «nel grande specchio dalla cornice dorata: vecchio, voluminoso, calvo, con un grosso doppio mento e curvo come una scimmia; […] Si accostò alla balaustra e cominciò a percepire, a ondate brucianti, la solitudine del suo corpo enorme: solo allora capì che non aveva mai avuto un contatto tenero, disinteressato, amoroso, con gli esseri umani, con le cose: nessuno aveva mai amato il suo  volto; era al centro ma in disparte, distante da tutti gli uomini, come le pietre, come le stelle, fredde, lontane».

(Oswaldo Reynoso, Niente miracoli a ottobre, trad. di Federica Niola, Edizioni SUR, 2015, pp. 279, euro 16)

[Best 2015] I libri

Stilare un elenco di soli dieci libri sacrificandone moltissimi altri è sempre una scelta dolorosa. Ma, si sa, l’ultimo dell’anno porta con sé una sadica propensione ai bilanci infiniti e alla classificazione ossessiva, insieme ai consueti propositi per un anno che verrà, molto spesso basati su ciò che è riuscito a imprimersi nella nostra memoria a dispetto di ciò che ne è rimasto escluso.

Per questo motivo nella lista degli imperdibili del 2015 di Flanerí, troverete libri che non sono solamente belli (a quel punto, quella delle dieci posizioni sarebbe stata una condizione davvero inaccettabile), ma anche capaci di far parlare di sé: rivoluzionari, urgenti, vigorosi, coraggiosi o unici nel loro genere, ognuno di questi titoli sono una storia di cui non si può proprio fare a meno. Quindi il consiglio è di recuperare il più in fretta possibile, in vista delle nuove uscite del 2016.

 

Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale (Adelphi)
La ricostruzione narrativa degli ultimi giorni di vita di Vladimir Majakovskij. Con tanto di testimonianze di archivio, foto d’epoca e il vociare di pettegolezzi che non smise di rumoreggiare anche decenni dopo la sua morte, la Vitale ci restituisce un ritratto inedito e appassionante del grande poeta russo, della sua intimità e perfino della sua produzione.

Gli anni di Annie Ernaux (L’Orma)
Un romanzo autobiografico ma anche resoconto collettivo del nostro tempo, dal dopoguerra a oggi, attraverso una scrittura chiara e pregevole, che «riesce nel prodigio di “salvare” la storia di generazioni coniugando vita e morte nella luce abbagliante della bellezza del mondo».

Carne viva di Merritt Tierce (Sur)
Duro, forte, un pugno nello stomaco tirato con precisione chirurgica da un’autrice dalla penna affilata. Diretto al punto, saprà sorprendere i più scettici per il modo in cui riuscirà a farli identificare con Marie, la ragazza che combatte il dolore procurandosene di maggiore.

Kruso di Lutz Seiler (Del Vecchio Editore)
Un’opera narrativa intrisa di poesia e di rimandi letterari, che approfondisce il concetto di libertà e i sogni rivoluzionari, sullo sfondo di una Germania che si avvicina al cambiamento epocale del 1989 e si fa simbolo di tutto l’Occidente.

– Una perfetta felicità di James Salter (Guanda)
Il retaggio prezioso di un grande scrittore appena scomparso. Romanzo di vita familiare borghese, luminosa solo in apparenza, col suo concerto d’ombre e di fatiche. Innegabile esempio di sapienza narrativa.

Atlante delle micronazioni di Graziano Graziani (Quodlibet)
Graziano Graziani ci accompagna in un viaggio fatto di utopia, coraggio, senso della giustizia e dell’opportunità. Un viatico per affrontare qualsiasi impresa: se è possibile fondare un regno nella propria stanza, allora davvero tutto è a portata di mano.

Gli increati di Antonio Moresco (Mondadori)
L’ultimo e più potente romanzo della trilogia iniziata con Gli esordi e continuata con i Canti del caos. Esso lancia una sfida al narrare e al conoscere: tratta infatti della vita e della morte e della non vita e della non morte, e soprattutto dell’increazione, e lo fa con un linguaggio forte che entra e si imprime. Gli increati ha la grandiosa estensione delle cose intere e della realtà. Una lunga e obliqua storia d’amore che va letta e amata, riletta e amata.

XXI Secolo di Paolo Zardi (Neo Edizioni)
Un libro che prefigura un generale imbarbarimento dell’umanità, fondendo intimo e collettivo in una rapsodia dove la realtà si imprime così fortemente nel corpo comatoso della moglie del protagonista, da non riuscire talvolta a distinguere dove finisca il personale e dove inizia il racconto di un’epoca tristemente attuale.

L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax)
Al suo esordio, Marco Peano svolge il gerundio morire di una madre, dalla spirale impazzita del suo Dna alla liturgia laica e insaziabile del figlio che cerca di rifondare il proprio mondo attraverso e dopo il lutto. Una furia lucida e atea si sedimenta in parole attente, tanto misurate da rischiare, talvolta, l’impersonalità. La lettura non delude, per la forza consapevole con la quale sono violate e ripensate le comuni barriere fra la vita e la morte.

Breve storia del talento di Enrico Macioci (Mondadori)
Un romanzo breve ma intenso, un ritorno all’adolescenza e all’infanzia, attraverso ricordi rabbiosi e mai patetici.

[Best 2015] I dischi

Così abituati alle tante chiacchiere attorno al mondo della musica che è diventato un imperativo vitale concentrarsi solamente sulla materia prima. Tra Facebook e annessi social, giornali, testate e siti sappiamo benissimo come passa le sue giornate la pop star di turno, quale oscenità ha compiuto durante l’ultimo concerto la piccola Miley, la cauzione di Justin B., e in che modo stravagante i re dell’hip-hop sfoghino la loro pseudo-inventiva e i conti in banca. Le stesse case di produzione e gli squali al comando consapevoli del basso livello di selezione del pubblico attuale si accontentano di produrre un luccicante involucro senza la minima sostanza. Sta a noi amanti ed addetti ai lavori essere sempre obiettivi andando oltre il primo impatto e soprattutto parlare e valorizzare le – fortunatamente – tante realtà in cui si realizza ancora il contrario: ovvero la sostanza batte l’apparenza. Lontane dai riflettori più accesi e spietati continua ad esistere un magnifico universo fatto di nomi indipendenti uniti dal più importante dei legami: la bella musica. Solo e semplicemente quella. Vi verranno presentati a breve, abbiate solo un attimo di pazienza.

Alla fine del 2015 un altro aspetto interessante da notare riguarda la fruizione del prodotto discografico. I bei tempi in cui si facevano chilometri e chilometri per andare in quel salvifico negozio di dischi in grado di possedere l’unica copia di quell’album introvabile sono terminati. Realtà come Spotify permettono di ascoltare tutto e anche di più riguardo alla quasi totalità dei gruppi in circolazione su svariati dispositivi e quando questi non sono in catalogo subentra YouTube o il caro vecchio download illegale. Ciò comporta la definitiva morte del disco? Tutt’altro. Più dischi si sentono e più se ne comprano. Se si ama davvero la musica, ovviamente, e i recenti Record Store Day e boati nel mercato del vinile dimostrano che nonostante il dominio dello streaming e del download il mondo dei “feticisti” musicali è tutt’altro che sparito. Detto ciò, anche noi della redazione musicale di Flanerí ci teniamo a presentavi la musica che più ci ha colpito in questa annata. A volte l’ascolto di un disco ci offre proprio quello che ci aspettiamo, a volte delude, a volte sorprende ed entusiasma e tutte le derivanti sensazione cerchiamo di esprimerle con le nostre parole. In un fine 2015 dominato sotto tutti i punti di vista da Adele – e poteva dirci parecchio peggio, vedi i Coldplay – abbiamo fatto un attimo mente locale e ci siamo interrogati sui dischi più rappresentativi di questa annata. Tali scelte rappresentano le peculiarità e le vocazioni di ogni autore ma il risultato alla fine è molto variegato e tra nomi italiani e stranieri avrete una riuscita panoramica del meglio della scena musicale alternativa del 2015. Buona lettura e buon ascolto!


John Grant, Grey Tickles and Black Pressure

Una confessione, una catarsi, un racconto di amori e demoni. Un cantautore che oscilla con superba maestria tra elettronica e orchestra, rimanendo di un impeto ed intensità con pochi paragoni.

Courtney Barnett, Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit

La ragazza con cui vorremmo andare a tutti i concerti indie e parlare di musica fino a tardi. Titolo geniale per un purissimo e frizzante disco d’esordio. Una lietissima conoscenza.

A Girls Name, Arms Around a Vision

La bellezza della wave in tutte le sue forme, dal dark al post-punk in un disco teso ed ispiratissimo.

Bill Fay, Who Is the Sender?

Squisitamente sfuggente a ogni categoria interpretativa, Bill Fay canta la solitudine, il peccato e la redenzione con una tranquilla e pacata perizia ignota anche ai grandi maestri del genere. Una musica intima, religiosa; composta per voce, pianoforte e un’orchestra in miniatura, che calmerebbe gli oceani in burrasca senza trucchi, inganni o furbate di sorta.

Colin Stetson & Sarah Neufeld, Never Were the Way She Was

In piena continuità con la trilogia New History Warfare, Stetson e la Nuefeld propongono una ricerca musicale fondata sull’elemento antropico della musica, che sposta continuamente i confini del suono verso un linguaggio dove melodia e armonia diventano concetti ampiamente superati. In una interpretazione del tempo che procede a spirale, sassofoni e violino costruiscono un percorso sonoro nel quale anche i confini dei brani risultano astratti.

IOSONOUNCANE, Die

Caos e disordine in queste sei storie diverse. Un uomo ed una donna. Si passa da suoni meccanici e ossessivi al cantautorato in stile Ivan Graziani (Stormi). Die come morire o come giorno? Forse entrambi. Ogni traccia nasce e muore nel giro di otto/dieci minuti, dentro sembra esserci un secolo. IOSONOUNCANE e la sua svolta egoistica.

Calcutta, Mainstream

Il fenomeno del momento, quello della «svastica in centro a Bologna ma era solo per litigare». Non è facile parlare di questo disco, anche perché ha diviso lo spietato mondo dell’indie. Beh, Calcutta è simpatico, ha l’innegabile capacità di catturare istanti di vita (dei fuorisede e di chi in generale si sente fuoriluogo), una voce imperfetta, l’abilità di commuovere. Mainstream è bello, “Limonata” e “Frosinone” sono bellissime, il video di “Cosa mi manchi a fare”, girato tra Centocelle e il Pigneto, ancor di più.

Foals, What Went Down

La band britannica giunge, dopo una pausa di quasi due anni, al suo quarto album. Tanto rock, un riff ancora una volta accatticavante e l’equilibrio giusto. Per chi già li conosce questo lavoro non ha bisogno di molte presentazioni, mentre chi li ascolta per la prima volta rimarrà positivamente sorpreso. Unico rischio, l’effetto rock-troppo pop dei Coldplay. Quindi godiamoceli finché siamo in tempo.

Ratatat, Magnifique

Rock, elettronica e funk tutte insieme per questi due ragazzoni americani che non parlano quasi mai ma che fanno ballare con suoni che sembrano usciti dai videgiochi e dalle serie tv degli anni ’90. Sembrano quasi i Daft Punk, onore a loro e avanti con queste distorsioni.

Le letture di Natale

Le feste sono ufficialmente iniziate, è tempo di famiglia, di mangiate, di regali, ed è anche il momento per dedicarsi un po’ alla lettura, o almeno è quello che tutti ci auguriamo. Che siano cose nuove, cose vecchie, classici intramontabili, ognuno di noi ha dei libri a cui nei giorni, settimane, mesi scorsi non è riuscito a dedicarsi. È arrivato il momento di recuperare il tempo perduto e di fare spazio in libreria per i nuovi arrivi ancora incartati sotto l’albero di Natale.

Ecco cosa cercheremo di leggere noi della redazione. Ci sono alcune delle ultime novità arrivate da poco in libreria, alcune cose di cui abbiamo già parlato qui, alcuni libri da recuperare dal passato recente. Non c’è solo narrativa, c’è anche poesia, saggistica, biografie, e ancora film, musica e spettacoli teatrali. Non è una raccolta di consigli di lettura, piuttosto, una dichiarazione di intenti personale. Se volete prendere spunto, fate pure. Le liste fanno sempre comodo per cercare regali dell’ultimo minuto o per segnarsi idee per letture future. In ogni caso, tanti auguri a tutti!


Francesco Vannutelli:

tempi_non_sono_così_cattivi_mattioli_flaneriDurante questi giorni di festa mi sono posto un obiettivo minimo: leggere almeno due libri. Tra regali e acquisti ho molti nuovi titoli da smaltire, in particolare voglio dedicarmi a I tempi non sono mai così cattivi, pubblicato da Mattioli 1885. L’autore, Andre Dubus, è ritenuto uno dei più importanti scrittori statunitensi del secolo scorso, soprattutto per quello che riguarda i racconti. Sempre a proposito di narrativa breve, finalmente sono riuscito a prendere La persecuzione del rigorista, uno dei pochi romanzi di Luca Ricci (che poi magari è un racconto lungo) pubblicato da Einaudi nel 2008. Poi c’è sempre Kent Haruf e la sua trilogia che mi aspetta, con Benedizione, pubblicato da NN Editore. Oltre ai libri, vorrei approfittare di questi giorni per recuperare un po’ di film che per un motivo o per l’altro mi sono perso durante l’anno, tipo 45 anni di Andrew Haigh o Timbuktu di Abderrahmane Sissako.


Fabrizio Miliucci:

primo-levi_di_fronte_profilo_guanda_flaneriDurante le vacanze di Natale, come al solito, leggerò molto e molto disordinatamente. Fra le cose che vorrei comunque segnalare (e che tra l’altro non vedo l’ora di leggere!) c’è sicuramente un librino uscito quest’anno da L’orma che si intitola Al diavolo con le mie gambe e che raccoglie alcune lettere di Dino Campana a Soffici, Papini, Aleramo… Vorrei poi segnalare i libri di una coppia di amici che ho avuto l’onore di conoscere negli ultimi tempi, si tratta di Myra Jara e del suo La desctruccion es blanca (una piccola raccolta di poesie in spagnolo pubblicata dall’editore Lustra di Lima) e Pezzi di ricambio di Carlo Bordini, prose pubblicate dalla romana Empirìa nel 2003. Cos’altro? sicuramente il Commentario penniano di Giuseppe Leonelli (Aragno, 2015) e i racconti di 9 di Francesco Vannutelli pubblicati da La Gru. Ancora un fuori-sacco per un libro molto bello e abbastanza raro (risale al 1988!) che mi è arrivato ultimamente: Le faticose attese di Enrico Testa, che forse qualcuno avrà la voglia e la pazienza di cercare, dato che sicuramente ne vale la pena, e soprattutto Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015) di Marco Belpoliti, forse l’uscita saggistica più importante dell’anno.


Federica Imbriani: 

s_nave_teseo-flaneriIn questi giorni di vacanza leggerò soprattutto – se gli elfi di Babbo Natale saranno stati così diligenti da consegnare la mia letterina – S. La nave di Teseo di J. J. Abrams e Doug Dorst, due storie che ruotano attorno a un unico romanzo che è storia da leggere e scritto da indagare tra le note a margine di due grafomani frequentatori di biblioteche, e, a fare da contrappunto serio, la Storia del Teatro di Cesare Molinari, edito da Laterza, per sentire che è arrivato il periodo nella vita in cui si studia per piacere e non più per dovere. Se potessi invece esprimere un desiderio, vorrei che si rialzasse il sipario sull’Ultimo nastro di Krapp di Glauco Mauri. Qualche anno fa, al Teatro Valle di Roma, ho avuto la fortuna di poterne vedere prima la versione in bianco e nero, registrata, in cui un giovane Mauri dava corpo a un Beckett irrequieto e poi, la stessa sera, la versione in carne e ossa nella quale lo stesso attore, una roccia dai capelli bianchi, riempiva il testo di una malinconia struggente e una solitudine irrimediabile.


Luigi Ippoliti:

Houellebecq_Sottomissione_FlaneríHo sempre pensato che Michel Houellebecq fosse un razzista disgustoso, e credo di pensarlo ancora. Ho sempre pensato che il suo enorme successo fosse dettato unicamente dalle provocazioni di cui sono peni i suoi libri: credevo fosse un fenomeno mediatico e poco più. Niente di più sbagliato. Forse spinto da quanto accaduto a Parigi, sicuramente sollecitato da un amico che in quei giorni stava divorando la sua intera opera, sono andato in libreria e ho comprato Piattaforma, Sottomissione, Le possibilità di un isola e Le particelle elementari (tutti editi da Bompiani). Ho letto i primi due con ferocia e leggerò gli altri due in questi giorni di vacanze natalizie – dietro lo scandalo Houellebecq c’è uno scrittore Houellebecq enorme. Poi proverò ad aggiungere un autore che ingiustamente manca alla mia formazione e che dipende, in questa mia personalissima esperienza, sempre da Houellebecq: Joris-Karl Huysmans (in Sottomissione, il protagonista François, professore universitario, è uno specialista dell’autore diControcorrente). Ecco a cosa mi dedicherò in questi ultimi giorni del 2015 e primi del 2016, magari alternando il tutto con l’ascolto di album usciti quest’anno e che ho perso (Epic di Kamasi Washington) o di cui non ho perso proprio nulla (Die di Iosonouncane).


Giulia Zavagna:paradiso-animali-nn_flaneri

A Babbo Natale chiederei più tempo per leggere, però Babbo Natale non esiste, e i miei genitori non hanno ancora imparato ad azzeccare il regalo giusto. Quindi i libri saranno pochi, ma tanto desiderati. Olive Kitteridge di Elizabeth Strout (Fazi), che voglio recuperare da tempo, e Il paradiso degli animali di David James Poissant (NN editore), che mi incuriosisce molto. Come al solito, ci affianco qualche lettura di lavoro, in particolare La ragazza che vendicò Che Guevara, di Jürgen Schreiber (Nutrimenti).

 


Dario De Cristofaro:

misteri_iperborea_flaneri

La prospettiva di dover passare un buon numero di ore in viaggio, tra treno e nave, mi spinge sempre a illudermi di poter leggere più di quanto, lettore lento e ossessivo, riesca poi a fare, in effetti. Ma trovare un rimedio significherebbe rischiare di rimanere con un forte senso di limitatezza o di necessità. In questo momento ho con me nello zaino Misteri di Kunt Hamsun (Iperborea, 2015), Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia (Ponte alle Grazie, 2015), Poesie di J.R. Wilcock (Adelphi) e Walden di Henry David Thoreau (Mondadori). Intorno all’ultimo dell’anno recupererò poi libri della mia vecchia libreria, due fra tutti 2666 di Roberto Bolaño (Adelphi) e I soldati di Salamina di Javier Cercas (Guanda).

 

 

 

 

 

 

“Anelante”
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

Flavia Mastrella e Antonio Rezza hanno realizzato dodici opere teatrali, tra cui Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth e 7-14-21-28, Doppia Identità e Fratto_X, tre film lungometraggi e una serie sterminata di corto e medio metraggi. Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono autori che chi pretende di parlare di teatro deve aver visto se non altro per dire “Sono stato finalmente a vedere Rezza e Mastrella”. Quando è comparso in cartellone al Teatro Vascello la scelta di Anelante è stata, quindi, praticamente obbligata.

Anelante è l’uomo che esiste nel suo struggimento. Esalta la visione di sé parlandosi addosso, incapace di leggere, ascoltare, inserirsi, soffocato dalla propria incontinenza verbale. Se pure viva le vicissitudini della Terra, dei suoi rappresentanti e della logica matematica che sorregge il mondo, non è in grado di instaurare un dialogo con nessuno ed è costretto a rifugiarsi sott’acqua per farsi soffocare dall’unico blocco sonoro posto da Dio alla logorrea del suo figlio inquieto.

Questo il brevissimo accenno alla (chiamiamola) trama di Anelante e l’estratto dell’estratto di quello che è il significato dichiarato ed espresso dal duo Rezza e Mastrella. Il caos, l’habitat, le grida, l’erotismo esacerbato, il ripetersi ossessivo, le espressioni che rendono il viso di Rezza uno schermo umano di stupefacente espressività, sono messaggi dal senso stratificato e complesso, nulla di tutto questo toglie che Anelante sia uno spettacolo estremamente divertente. Risate genuine, grasse, infantili qui e lì.

Anelante è un divertissement bifronte, complesso e semplice, criptico e lineare, comunque incomprensibile, una festa per un pubblico di affezionati talmente esuberante da mettere alla prova la capienza del teatro. Quello che lascia è la sensazione che tutto il tempo trascorso prima di essere incappati in questo trentennale celebre sodalizio artistico sia stato un po’ sprecato.

 

Anelante
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia
(mai) scritto da Antonio Rezza
habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Mattia Vigo
organizzazione Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini

 

Alcune delle prossime date:

Prato – Teatro Metastasio 29 e 30 gennaio 2016
Milano – Teatro Elfo Puccini dal 16 al 28 febbraio 2016
Cagliari – Teatro Massimo dall’11 al 13 marzo 2016
Firenze – Teatro Puccini 1 aprile 2016
Bologna – Teatro Duse 8 e 9 aprile2016

[Best 2015] I film

È stato un anno particolarmente fortunato per il cinema, nel mondo e in Italia. Dopo stagioni incerte in termini di risultati commerciali, si sono registrati una serie di incassi che sono entrati direttamente nelle classifiche dei più grandi successi al botteghino della storia del cinema. Ci sono stati quattro grandi exploit – Jurassic World, arrivato al terzo posto del box office di tutti i tempi; Fast and Furious 7, al quinto; Avengers – Age of Ultron al sesto; i Minions al decimo –, tutti al di sopra del miliardo di dollari di incasso totale.

In Italia, il botteghino è stato dominato dai cartoni animati, con il capolavoro Inside Out al primo posto (25 milioni di euro di incasso, circa), seguito da Minions. A chiudere il podio, un altro dei casi della stagione: 50 sfumature di grigio. L’unico italiano presente nella top ten nazionale è Si accettano miracoli, opera seconda da regista di Alessandro Siani, arrivata sopra i quindici milioni di euro complessivi. In generale, gli enormi successi internazionali hanno distolto l’attenzione dal cinema nazionale, che non è riuscito ad avvicinare in nessun modo i risultati clamorosi del passato anche recente. Ci sarà da vedere per il 2016, con il ritorno del re del cinema italiano Checco Zalone e il suo nuovo film Quo vado? pronto a invadere le sale dal primo gennaio.

Questo finale di stagione ha comunque riservato ampio spazio al prepotente ritorno di Star Wars che con il suo settimo episodio, Il risveglio della forza, è destinato ad accumulare record su record di incassi.

Al di là del discorso puramente economico e commerciale, questo 2015 di cinema sarà comunque difficile da replicare, almeno in termini di concentrazione. È stato un anno che ha visto tornare sul grande schermo alcuni dei nomi più importanti del nostro cinema. Nanni Moretti, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone hanno guidato da Cannes una schiera completata da Saverio Costanzo, Daniele Luchetti, i fratelli Taviani, Marco Bellocchio, Claudio Caligari, Stefano Sollima e tanti altri. Certo, i risultati non sono sempre stati all’altezza delle aspettative, ma non si può negare che tutti questi autori insieme in sala in un solo anno siano una cosa abbastanza rara.

Senza perdere troppo tempo in ulteriori considerazioni generali, ecco in ordine sparso i dieci migliori film visti al cinema in Italia nel 2015:

• Inside Out di Pete Docter. Abbiamo detto: «La Pixar ha abituato all’eccellenza con i suoi lavori. Dopo tre film al di sotto degli standard, elevatissimi, dei suoi capolavori, con Inside Out fissa un nuovo punto più alto nella sua storia e in quella del cinema, non solo di animazione».

• Star Wars: Il risveglio della forza di J.J. Abrams. Abbiamo detto: «Operazione nostalgia perfettamente riuscita, Il risveglio della forza riesce a portare indietro la saga di Guerre stellari alla grandezza delle origini».

• Mad Max: Fury Road di George Miller. Abbiamo detto: «Nel 1979 Miller fissava i canoni di una nuova fantascienza con Interceptor. Oggi torna con Mad Max – Fury Road per aggiornare la sua lezione e fissare un nuovo livello di qualità per il cinema d’azione»

• The Lobster di Yorgos Lanthimos. Abbiamo detto: «Attraverso la costruzione di un mondo impossibile, Yorgos Lanthimos continua a osservare il mondo d’oggi al livello fondamentale dell’interazione umana. The Lobster è un’immagine gelida, amara e ironica della società contemporanea».

 Birdman di Alejandro González Iñárritu. Abbiamo detto: «Virtuosistico, esagerato, spericolato, ridondante. Birdman è tutto questo, ed è molto altro: è un fiume che travolge. Iñarritu reinventa se stesso e fa un film che verrà ricordato a lungo, sicuramente da Michael Keaton, forse non più Batman ma, per tutti, Birdman».

• Mia madre di Nanni Moretti. Abbiamo detto: «Moretti torna sul tema della perdita quattordici anni dopo La stanza del figlio. Lo fa mettendo tanto di se stesso e allo stesso tempo facendosi da parte, raccontando la forma particolare di un dolore universale. Mia madre è grande cinema, uno dei momenti più alti della sua carriera».

Vizio di forma di Paul Thomas Anderson. Abbiamo detto: «Capolavoro semplice e complesso allo stesso tempo, da vedere più volte, da capire poco alla volta o da non capire mai. Cambia poco. Vizio di forma è l’ennesimo punto brillante nella carriera di uno dei più importanti autori del cinema contemporaneo».

• Leviathan di Andrej Zvjagincev. Abbiamo detto: Film dall’enorme valore simbolico, Leviathan di Andrej Zvjagincev riflette sul potere e sulle sue conseguenze sulla vita degli uomini qualunque. Tutto assume un valore maggiore collegandolo alla realtà della Russia contemporanea, ma già come puro oggetto di cinema – immagini, regia, recitazione, dialoghi – è un film memorabile».

• Sicario di Denis Villeneuve. Abbiamo detto: «Impeccabile sul piano della regia, dell’immagine e della recitazione, Sicario conferma il canadese Denis Villeneuve come uno dei più interessanti registi di Hollywood».

• WhiplashProbabilmente la migliore pellicola musicale degli ultimi anni, Whiplash si interroga su quale sia il prezzo, amaro, della grandezza. Si può vivere con i propri demoni? Si può farne a meno? Chazelle ci dice quanto basta e dipinge un thriller musicale di rara bellezza e intensità».

“Elsamatta” di Alessandra Carnaroli

Nella collana Syn – scritture di ricerca, diretta da Marco Giovenale per IkonaLíber, è uscito da alcuni mesi Elsamatta di Alessandra Carnaroli, un racconto in versi che appare come un accumulo di voci e commenti, una specie di memoria collettiva in cui una comunità aperta e anonima (un gruppo su Facebook) rievoca e racconta da più angolature le prodezze di un personaggio enigmatico, profondamente repulsivo e umano, una “donna matta” dolce e aggressiva che appare per spaventare i bambini, strappare i capelli alle donne o fare un cenno indifferente di saluto; una specie di punto interrogativo ambulante che mette angosciosamente nell’imbarazzo dell’interpretazione, addirittura nel sospetto della civiltà, così si autointroduce “il lavoro”:

Elsa matta quattrocento sessanta sette membri
il lavoro si basa sui commenti postati all’interno
[di un gruppo fb,
«quelli che una volta gli ha fatto la fuga l’elsa matta».
Svago e tragedia normale, quotidiano di una donna
[matta e dei suoi seguaci fedeli, quasi cani. (p. 9)

Probabilmente Elsa è il personaggio più semplice in cui mi sia mai capitato di imbattermi, ma proprio per questa sua semplicità di fondo (quante Elsematte ho incontrato anche io, quante “fughe” e quante scenate hanno fatto anche a me…) il caso e il racconto di questo piccolo disagio infantile e adolescenziale mette in comunicazione una serie di ricordi tutti più o meno traumatici con la violenta umanità di quelle prevaricazioni, di quelle ingiustizie piccole o pericolose. L’amaro e il dolce del ricordo si mescolano allora al rombo della paura, al sospetto, al pericolo; il tutto è vissuto e descritto da una situazione posteriore, quando ormai sappiamo che per la matta è andata a finire male, è stata internata o segregata chissà dove (in realtà non si sa con precisione), e noi rimaniamo ancora col punto interrogativo stampato davanti agli occhi, senza capire di cosa avevamo avuto davvero paura o perché ci sia capitato di avvertire un senso di trasporto e dolcezza. Per intenderci, questo personaggio è uguale a quello che tutti noi prima o dopo ci siamo trovati ad affrontare per lo più nelle periferie delle grandi città, qualcuno che parla ad alta voce sul bus, qualcuno che ci ferma all’angolo della strada e con uno sguardo ci trascina (faccia a faccia, il cuore che magari ci rimbalza in gola) in un mondo allucinato di coerenza ottusa, trascinandoci bruscamente al fondo di una questione (quella umana) che per essere la più urgente viene di prassi scansata (soprattutto dai più pratici) e finisce per essere il sottofondo di un’abitudine (soprattutto alla paura) che con molti altri segnali determina il passaggio dall’infanzia/ingenuità a quello che viene dopo.

povera elsa l’hanno portata in una casa
per curarla
aveva superato il limite
ma però se ci parlavi era buona era dolce
che fine ha fatto
gli volevamo tutti bene
a due persone piace
questo elemento (p. 15)

*

poveretta però che tristezza siamo tutti stati
[inseguiti da lei
adesso però noi c’abbiamo una famiglia un fidanzato
possiamo andare a scuola o averci un lavoro pagato
fare una famiglia
lei niente di tutto ciò
è una delle ingiustizie di questa società che mette
[da una parte i diversi (p. 26)

Almeno apparentemente l’autrice non vuole interessarsi al problema dell’emarginazione e della salute mentale. O meglio dà a intendere di volerlo fare come lo farebbero due signore che aspettando il tram, non fanno nulla di più che sospirare «poveretto» guardando un vagabondo che dorme sotto la pensilina. Essa si limita a riportare uno stralcio di quei lunghissimi post con file di commenti incorporati che ogni giorno leggiamo sul più noto dei social. Dall’altra parte di Elsa la matta, della sua vita altrimenti dissipata, persa, inutile, letterariamente insignificante c’è il muro del ricordo e dell’opinione collettiva colto nel luogo in cui la condivisione di questi scambi(?) si fanno scrittura. Una scrittura un po’ sgrammaticata, mezzo slang, semplificata, che i versi mimano fino in fondo suggerendo anche il tono con cui le brevi frasi per lo più all’indicativo devono essere pensate, forzando l’interpretazione interiore come se si leggessero pure esternazioni in cui il “letterario” è completamente bandito, e con lui è assente l’autore e ogni suo programma, progetto, opinione. Una scrittura non autoriale, senza filtri, in cui confluisce tutta la spontaneità, la limitatezza e l’ipocrisia della (nostra) voce comune.

mia madre straniera nel 1980
girava con me in braccio
(avevo pochi mesi)
si avvicina l’elsa matta e chiede se poteva tenermi
[in braccio lei
mia madre non conoscendo la fama dell’elsa
ancora non conosceva l’italia
con gli stranieri è cosí ci vuole tempo per farli
[abituare
molto ingenuamente ha accettato.
non è successo niente ma ora se mi chiedono
se sono stato mai in pericolo
sí lo sono stato nei suoi bracci
peggio di stare in braccio a uno della mafia alla
[camorra
quelli che tagliano gli orecchi ai sequestrati
forse gli piacevano i bambini piccoli
ne voleva uno anche lei
ma chi glielo faceva fare di sicuro
gli hanno legato le tube a una cosí
per non continuare la razza
commenta (p. 28)

Ma non sarebbe nemmeno del tutto corretto definire questa scrittura non-autoriale o fuori da una tradizione, in quanto i precedenti e le possibili ascendenze, alcune denunciate esplicitamente in chiusura di volume, non mancano alla Carnaroli, e ci riportano a un momento abbastanza preciso dell’ultima poesia italiana. A ben vedere ciò che la Carnaroli fa è sostituire l’arbitrio autoriale con un altro sistema arbitrario come quello che regola le dinamiche di accumulo delle esperienze pubblicate sul wall. E ci sarebbe da chiedersi se questo espediente non serva in realtà a sottolineare l’ingerenza dell’individualità che come una cellula impazzita insegue se stessa ripetendosi e autocommentandosi senza esaurirsi davvero, almeno finché l’io oggettivo del poema non si affranca da sé giustapponendosi alla piattezza del referto e lanciando l’ultima testimonianza di una vita vittima e schiava, paradossalmente pacificata (brutalmente annichilita) nella retrocessione animale cui le “forme evolute del possesso” ora la possono ridurre.

cosa mi toccano i carabinieri gli eroi
[dellapiatra i marò
cosami toccano nel senso di pancia nel senso
[di fregna
come fica o fico alberello che vedo da questa
[camera
sempre questa i muri la finestra il letto
dicono che ci legano al letto non è cosí
si sono evoluti nelle forme di possesso della
[mia costola del prolasso
allutero
senza neanche un figlio piccolino
un bambino un cicciobello bua
un sbrodolino
leucorrea non vuole dire lumaca mi hanno
[detto
ma un tumore
un incesto della pelle […] (p. 58)

La cosa migliore di Elsamatta è nella convivenza di una specie di storiella altrimenti non raccontabile su un personaggio che in qualche modo ci riguarda tutti, e le implicazioni di poetica (di comunicazione) che vengono ad essere sperimentate o rievocate. Anche in virtù del fatto che si legge agevolmente in una seduta, il libro di Carnaroli instilla dei vizi di sistema nella prassi della lettura automatica cui ci siamo velocemente abituati, facendo passare sotto i nostri occhi distratti la spunta segreta di un malware (come ad esempio nella seconda parte di p. 10) che non è più possibile disinstallare.

(Alessandra Carnaroli, Elsamatta, edizioni IkonaLíber, pp. 64, euro 10)