“Star Wars: Episodio VII – Il risveglio della forza”
di J.J. Abrams

È il film più atteso dell’anno, se non di più. Il ritorno della saga cinematografica più amata di tutti i tempi è stato accompagnato da indiscrezioni e mistero, attesa e terrore da parte degli appassionati di tutto il mondo, ansiosi di vedere di nuovo quel mondo cinematografico che più di ogni altro è stato in grado di scolpire l’immaginario collettivo degli ultimi quarant’anni e allo stesso tempo spaventati all’idea di una nuova delusione dopo i prequel usciti a cavallo del cambio di secolo. Ora, il settimo capitolo della saga di Star WarsIl risveglio della forza, è finalmente arrivato nelle sale.

Siamo circa trent’anni dopo la fine del Ritorno dello Jedi. Dopo la distruzione della seconda Morte Nera, i ribelli hanno istituito una Nuova Repubblica per governare la galassia. Dalle ceneri dell’Impero, però, è sorto il Primo Ordine guidato dal misterioso Leader Supremo Snoke. Per sconfiggere il Primo Ordine, la Repubblica ha bisogno di Luke Skywalker, il cavaliere Jedi che aveva guidato alla vittoria contro l’Impero, ma Skywalker è scomparso da anni. Sulle sue tracce, il Generale Leia Organa invia il miglior pilota della galassia.

Della trama diremo solo questo, che è più o meno quello che compare nei consueti liberatori titoli di testa. Nell’articolo non ci saranno i famigerati spoiler che infestano gli incubi da tastiera di chi ancora non ha visto il film e teme di scoprire troppo e troppo presto. Proveremo a parlare, piuttosto di che cos’è questo Episodio VII.

Tutta la saga di Guerre stellari ha a che fare con il confronto con la figura paterna. Anakin Skywalker è cresciuto senza padre. Quando è stato portato via da Tatooine ha trovato nei Jedi nuove guide con cui si è dovuto confrontare sempre. Prima Obi Wan Kenobi, che lo delude, poi Palpatine, che sfrutta la sua debolezza e il suo bisogno di conferme per farne il suo braccio armato. Dopo di lui, Luke cresce con gli zii sapendo che suo padre è stato ucciso da Vader. Trova una nuova guida in Kenobi, lo vede uccidere davanti ai suoi occhi ancora da Vader, scopre che è in verità suo padre e lo combatte per convincerlo a tornare al lato luminoso della Forza. Entrambi gli Skywalker devono combattere i loro padri (putativi e non) per trovare la loro piena identità nei momenti chiave dei primi sei capitoli. È tutto basato su un’uccisione simbolica del padre come momento di svolta.

Senza dire nulla di quello che succede in Il risveglio della forza, anche questo settimo episodio non è nient’altro che un parricidio. A combattere il padre questa volta, però, sono tutti i fan di Star Wars che si sono ribellati a uno George Lucas che aveva evidentemente perso di vista la direzione esatta quando aveva ripreso in mano il suo giocattolo preferito nel 1999. Si sa, la seconda trilogia non è amata da nessuno, per usare un eufemismo. Troppo lontana dallo spirito iniziale, troppo improntata su una fantascienza irriconoscibile rispetto ai primi tre film, troppo piena di stupide contraddizioni rispetto a quanto detto in precedenza. Sono tre film molto brutti, semplicemente, che hanno avuto comunque una fortuna enorme garantita dal marchio (circa due miliardi e mezzo di dollari incassati in totale dalle sole proiezioni cinematografiche, a cui si devono aggiungere i noleggi e le vendite di VHS e dvd), ma che non hanno appagato nessuno, anzi. Per poter risorgere davvero, la saga di Guerre stellaraveva bisogno di sbarazzarsi del suo creatore.

Lucas negli anni ha sviluppato una visione dell’incredibile universo da lui creato lontana da chiunque lo abbia amato. Sentiva il bisogno di spiegare perché certe cose fossero successe e allo stesso tempo di mostrare a che punto la grandezza tecnologica della sua Industrial Light & Magic fosse arrivata. Il risultato è noto: troppe chiacchiere e  un eccesso di computer grafica inutile.

Quando nel 2012 la Disney ha acquistato la Lucasfilm è stato annunciato immediatamente lo sviluppo di una nuova trilogia di Guerre stellari, con una serie di spin-off collegati (sono due, Star Wars Anthology: Rogue One, in uscita a dicembre 2016, e un film ancora senza nome su Han Solo). Il progetto iniziale prevedeva il coinvolgimento di Lucas in fase di scrittura e di sviluppo. In realtà, la sua proposta di sceneggiatura è stata subito bocciata e il controllo è passato completamente nelle mani del regista J.J. Abrams, l’ideatore della serie di culto Lost, già responsabile negli anni passati della rinascita cinematografica del marchio Star Trek.

Abrams è il figlio ideale di una generazione cinematografica che ha in Lucas e Spielberg (e nei film che i due hanno realizzato insieme) i suoi massimi esponenti. È l’erede naturale di un cinema che sa fare grande intrattenimento usando lo spettacolo e le emozioni. Ecco, attraverso Abrams la rimozione del padre Lucas si è completata. Non è la vendita alla Disney che ha fatto perdere a George Lucas il controllo su Star Wars: sono le decisioni di Abrams che hanno restituito la saga al suo pubblico e alla sua vera natura.

Affiancato in sceneggiatura da Lawrence Kasdan, già responsabile dello script di L’impero colpisce ancora Il ritorno dello Jedi, e da Michael Arndt, lo sceneggiatore premio Oscar per Little Miss Sunshine, Abrams ha puntato tutto sulla vera Forza del mondo di Guerre stellari: la nostalgia.

Il risveglio della forza è un omaggio alla grandezza del primo film. Un calco quasi completo, possono dire i più polemici, ai limiti del rifacimento. La verità è che per far ripartire alla grande un universo cinematografico capace di far sognare miliardi di persone negli anni c’era bisogno di un ritorno alle origini, alla semplicità artigianale, all’ironia, alle atmosfere da spaghetti western intergalattico. La trilogia prequel sembra completamente rimossa in questa nuova epoca di Guerre stellari. Insieme al cast originale sembra essere tornato lo stile che aveva reso grande Una nuova speranza e la prima trilogia. Gli appassionati della prima ora troveranno tutto quello che cercano e niente di quello che temono.

È chiaro che dietro all’idea romantica di un ritorno alle origini c’è un preciso calcolo commerciale della Disney, sarebbe da ingenui credere il contrario. La strada della nostalgia che passa per il rinnegamento della trilogia prequel – e quindi per l’uccisione del padre – era quella che garantiva i maggiori e più sicuri ritorni in termini di incassi. Star Wars – Il risveglio della forza è un’operazione commerciale, tra le più grandi mai viste, non solo al cinema. Allo stesso tempo, forse anche per questo, è uno dei film più grandi che si siano mai visti sul grande schermo. Episodio VII è divertimento, emozioni, nostalgia, grandezza, simbolismo semplice, spettacolo. Tutto quello che si chiede al miglior cinema hollywoodiano, in sintesi.

(Star Wars: Episodio VII – Il risveglio della forza, di J.J. Abrams, 2015, fantascienza, 138’)

“Lear” di Edward Bond

In scena al teatro India di Roma la prima nazionale del Lear di Edward Bond, la riscrittura datata 1971 dell’opera di Shakespeare, che traspone il dramma politico e personale del sovrano di Britannia all’interno di un’ambientazione postmoderna, nuda e metallica come l’anima del suo protagonista.

L’opera è una riflessione sul rapporto tra uomo e potere, libertà e sicurezza, giustizia e vendetta. La tessitura paziente di una spirale di violenza ora pubblica, ora privata, ora autocratica, ora democratica, ma comunque finalizzate a stabilire una linea entro la quale si è dentro il sistema e oltre la quale si è fuori.

Non già le vanità bizzose dell’omonimo shakespeariano sono le ossessioni del sovrano, piuttosto una più contemporanea mania per la costruzione di un muro – difesa, frontiera e monumento al potere – mattoni impastati di calce e sangue, dietro i quali l’anziano tiranno immagina un futuro di sicurezza, calore e prati verdi. Un giardino dell’Eden traboccante di una gioia che l’oppressione della clausura non sarà in grado di far appassire. L’ingrata prole non vuole però accettare il dono e si ribella al progetto. Lear cade, prima sul campo di battaglia, poi nella condizione sociale, poi in quella morale e infine brucia la ragione per trovare uno spirito nuovo, ribelle e partigiano, quando alla fine i colori dei pezzi sulla scacchiera saranno irrimediabilmente invertiti. Oligarche mediocri, infatti, Bodice e Fontanelle, sono il frutto marcio del potere e cadono presto, mentre Cordelia, la vera figlia di Lear, spirituale nella versione di Bond, si sostituisce al sovrano e riprende, fatalmente, la costruzione del muro-muraglia destinato a non concludersi mai.

Otto attori impersonano trentacinque personaggi con uno sforzo interpretativo notevole. Danilo Nigrelli, nel ruolo di Lear, e con lui Fortunato Leccese (Il Consigliere; Soldato K; Un Sergente; Soldato Ribelle Ferito; Il Figlio del Contadino), Anna Mallamaci (Il Capomastro; Cordelia; Susan), Emiliano Masala (Il Terzo lavoratore; Nord; Il Ragazzo; Il Fantasma del Ragazzo), Alice Palazzi (Fontanelle), Pilar Peréz Aspa (Bodice; La Moglie del Contadino), Diego Sepe (Un Ufficiale; Cornovaglia; Soldato A; Il Carpentiere; L’Inserviente; Thomas), Francesco Villano (Warrington; Il Giudice; Soldato I; Il Medico della Prigione; Un Contadino; L’Uomo Piccolo).

A rendere più suggestiva la cornice che accoglie Lear c’è Wallonwall. Fotografie e frontiere ai “margini” della città. L’inedita mostra di fotografie “fuori formato” di otto fra le più grandi frontiere esistenti al mondo, documentate nell’arco di dieci anni dal fotografo tedesco Kai Wiedenhöfer. Un progetto di arte pubblica che ha avuto inizio l’8 ottobre con l’esposizione di un’unica grande fotografia presso il MACRO nell’ambito di Fotografia-Festival Internazionale di Roma, e si estenderà nel 2016 alle mura perimetrali delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli.

 

Lear
di Edward Bond
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Tommaso Spinelli
con Danilo Nigrelli, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Pilar Peréz Aspa, Diego Sepe, Francesco Villano

Prossime date:
Roma – Teatro India, dall’8 al 20 dicembre 2015

 

Foto di copertina: Sveva Bellucci

“La legge di natura”
di Kari Hotakainen

«Una nuova vita puzza sempre. La vecchia ha un odore, la nuova puzza. È una legge di natura, incisa a scalpello sulla pietra».

Quando la macchina di Rautala si trasforma in un intrico di lamiere che chiudono alla vita, la bocca si riempie del sapore dei litigi e gli occhi traboccano di ricordi lontani. L’infinito del cielo è il lembo a cui si deve aggrappare per non scivolare via da questo mondo, mentre un letto d’ospedale diviene il guscio che contiene la sua seconda esistenza, non più di semplice uomo ma di sopravvissuto.

In La legge di natura di Kari Hotakainen (Iperborea, 2015), l’immaginazione è una componente accessoria, sono la realtà quotidiana e le esperienze autobiografiche a definirne l’ossatura profonda. Hotakainen, come Rautala infatti, è stato vittima di un grave incidente autostradale che lo ha visto ricoverato in ospedale per lungo tempo. Lì, in quello strano limbo dove i più fortunati entrano da pazienti ed escono da uomini, Hotakainen ha ascoltato febbrilmente i sibili della società finlandese e ha deciso di concedere una seconda opportunità a un piccolo evasore incallito come Rautala.

Il passato di quest’ultimo prende forma e si compone nei lunghi monologhi deliranti delle notti trascorse in ospedale; le ossa di Rautala sono rotte in più punti, il suo corpo è un ammasso informe che non gli appartiene più, l’aridità emotiva mostrata per oltre cinquanta anni, dunque, non può che vacillare. È l’inizio di un’improbabile rinascita: per la prima volta la sua ottusa cocciutaggine viene intaccata da dubbi e sensi di colpa. Finalmente c’è spazio per la figlia Mira e il suo pancione che freme di nuova vita, ma anche per Vaїnö e Kerrtu, gli anziani genitori pronti per l’ultimo salto nell’ignoto.

Tuttavia, Hotakainen non si accontenta della storia di un unico uomo, vuole la storia della sua comunità, ecco perché vira quasi subito dall’universo personale di Rautala verso il macro livello della società finlandese. I due percorsi avanzano insieme, ciascuno specchio dell’altro, in un gioco incessante di rimandi reciproci.

L’edizione originale di La legge di natura risale al 2013, anno in cui il governo finlandese annuncia numerosi e cospicui tagli ai servizi pubblici di vari settori – principalmente cultura, sanità e sport –, puntando il dito verso gli evasori fiscali, considerati i principali responsabili della dolorosa ma necessaria mannaia governativa. Lo Stato sociale è in crisi. Ovunque. La sua struttura si sta sgretolando sotto gli occhi rassegnati dei cittadini, per questo motivo Hotakainen ne vuole scrivere. Dapprima in sordina, disseminando le pagine di brevi accenni sparsi qua e là, poi, in un crescendo che esplode nella riuscita similitudine zoomorfa che vede il Welfare State raffigurato come un pingue maiale, dalle cui mammelle tutti si sono nutriti per anni senza mai preoccuparsi di aver preso più del necessario. Ora però il maiale è smunto e le mammelle sono secche. Non rimane che tagliare.

Da bravo portavoce, Hotakainen osserva e riferisce non facendo mai trapelare alcuna forma di autocommiserazione. Ne emerge dunque una puntuale presa di coscienza dei cambiamenti che stanno interessando la società contemporanea: la critica dell’autore risulta velata dall’ironia con cui costruisce dialoghi e situazioni ma la veridicità delle sue parole è evidente in ogni pagina del romanzo.

(Kari Hotakainen, La legge di natura, trad. Nicola Rainò, Iperborea, 2015, pp. 272, 17.50 euro)

“Mainstream” di Calcutta

La semplicità, diceva Calvino, non è il risultato di una difficoltà evitata, ma il frutto di una difficoltà risolta. In questa attesa seconda prova, Calcutta sembra riproporre il suo metodo collaudato, fondato sull’istinto anziché sul ragionamento, che produce canzoni semplici e malinconiche, inni sussurrati della periferia metropolitana.

Non sia, infatti, d’inganno il titolo: di Mainstream, in queste tracce, c’è ben poco. Nonostante una produzione leggermente più accurata, sia nei suoni che negli arrangiamenti, la fragilità armonica è, come in passato, la cifra stilistica più riconoscibile. La veste semplice, d’altronde, è quella che meglio si presta ad accompagnare le piccole storie e gli eventi minori che affollano questo nuovo, breve capitolo del canzoniere calcuttiano.

Il mondo vissuto è descritto seguendo una prospettiva obliqua. La realtà non è mai osservata direttamente, ma viene intercettata per vie traverse, prediligendo eventi comuni e particolari quotidiani. Sono piccole narrazioni provinciali di un mondo popolato da solitudini notturne, periferie anonime e vite precarie, che si aggrovigliano in contorte storie d’amore a distanza. Un mondo che esce dall’ombra per mostrarsi nella sua estrema frammentarietà, rimanendo, tuttavia, sempre estremamente composto ed educato.

L’architettura del disco oscilla tra una disarmante semplicità e un’assurda follia. Tutto, in queste canzoni, è chiaro senza essere limpido; c’è tutto, ma nulla è realmente tangibile. Le felici intuizioni melodiche – vero marchio di fabbrica di Calcutta – si sommano ad una costruzione armonica che risulta splendida nella sua gracilità: perfetta per accompagnare un racconto pacatamente nonsense, squisitamente semplice.

Un disco fragile, dimesso, a metà strada tra Daniel Johnston e Rino Gaetano: primitivista non per scelta, ma per indole. Canzoni che, per parafrasare Salinger, fanno venire voglia di chiamare l’autore: scambiarci due parole, chiedergli come sta.

 

“Irrational Man”
di Woody Allen

Presentato fuori concorso a Cannes, Irrational Man è il quarantacinquesimo film di Woody Allen in quarantanove anni di carriera, il trentacinquesimo uscito negli ultimi trentatré anni. È un film classico di un certo stile di Allen, quello proprio dei film drammatici, che qui conosce una declinazione nuova che fonde vari aspetti della sua filmografia.

Abe Lucas è un professore di filosofia caduto in una depressione acuta da circa un anno. Sulle cause circolano varie voci che vanno dall’abbandono della moglie alla morte di un amico in Iraq. Quando arriva a insegnare nel college di una piccola cittadina la sua fama lo ha già preceduto. È un noto sciupafemmine, un contestatore, un innovatore del pensiero filosofico, almeno questo è quello che si dice. In verità, Lucas è un alcolizzato nichilista incapace di apprezzare nulla della vita. Stringe due amicizie fondamentali, una con la professoressa Rita Richards, l’altra con la studentessa Jill Pollard. Entrambe sognano che Lucas le porti via dalla loro vita, da un matrimonio che non si rende conto di essere fallito, da un fidanzamento troppo inquadrato in convenzioni per essere stimolante. Il professore però non ha veri motivi per innamorarsi di nessuna delle sue donne, finché un giorno, per caso, non trova uno stimolo nuovo per vivere nella progettazione del delitto perfetto.

L’interesse di Woody Allen per le correnti di pensiero dell’esistenzialismo europeo nasce in maniera indiretta dalla visione dei film di Ingmar Bergman. La curiosità per le suggestioni di Kierkegaard presenti nell’opera del maestro svedese si è trasformata negli anni in uno studio più attento dei testi filosofici, ma ha contraddistinto il cinema di Allen in maniera consistente sin dalla prima svolta verso i toni drammatici con Interiors del 1978.

Questo Irrational Man arriva come una sorta di saggio di fine corso. Woody Allen dichiara in maniera esplicita il debito nei confronti dell’esistenzialismo ateo nella formazione della sua visione del mondo parlando attraverso il depresso professor Lucas di morale, responsabilità e caso. Ogni volta che nella sua lunga filmografia Allen si è avvicinato al thriller ha rifatto, in forme diverse, Delitto e castigo di Dostoevskij, il più grande romanziere esistenzialista di sempre, studiato come un pensatore dai filosofi del secondo Novecento. Basta guardare Crimini e misfattiMatch PointSogni e delitti, per fare alcuni esempio.

In quest’ultimo film, l’omaggio – o il riferimento – si fa ancora più esplicito arrivando a indagare aspetti diversi delle conseguenze dell’azione. Come Raskolnikov, Lucas commette il male per arrivare al bene, eliminando una persona malvagia per migliorare, anche solo in maniera infinitesima, la qualità generale della vita di tutti. A differenza di Raskolnikov, il professore non è distrutto dall’angoscia dell’omicidio ma anzi riscopre il valore della vita proprio attraverso la sua negazione. Capisce dopo un anno di paralisi personale che è l’azione il vero significato dell’essere umano, non il pensare, non il teorizzare sistemi per vivere meglio.

Proprio per questo, Irrational Man conserva, rispetto ai precedenti “thriller filosofici” di Woody Allen, un tono generale molto più vicino alla commedia nera che al dramma, rivelando solo verso la metà la sua natura di indagine esistenzialista sul senso dell’azione umana. In altri tempi, quest’ultimo film del regista di Manhattan sarebbe stato un romanzetto filosofico, un apologo morale che rappresenta in finzione  pratica i contenuti teorici di un sistema di pensiero. Allen, non essendo un filosofo, non riesce a filtrare la quantità di informazioni che vorrebbe gestire finendo per trasformare il suo film in un compendio di filosofia esistenzialista da ripassone generale. Troppo spesso i dialoghi finiscono per assumere il tono di tirate moraleggianti piuttosto vuote, e l’evoluzione della trama affidata assolutamente al caso – nel pieno rispetto di una delle lezioni che un Lucas ubriaco impartisce ai suoi atterriti studenti – è poco più di uno spunto interessante.

Dalla sua, Irrational Man ha una messa in scena splendida grazie ai colori di Santo Loquasto, Suzy Benzinger e Darius Khondji. Joaquin Phoenix, in evidente sovrappeso alcolico, fa bene Abe Lucas nel cliché del beone nichilista. Emma Stone, al secondo film con Allen dopo Magic in the Moonlight, fa bene il cliché della musa del maestro.

(Irrational Man, di Woody Allen, 2015, thriller, 96’)

“Occhi blu capelli neri”
di Marguerite Duras

«Nessun amore vale l’amore», a pronunciarsi così è Marguerite Duras e con Occhi blu capelli neri (Feltrinelli, 1989) la scrittrice ci mostra una prova di come e dove l’amore può arrivare a scompigliare l’esistenza, anche, e forse soprattutto, nella versione più terrificante e magnifica allo stesso tempo.

La quarta di copertina recita: «Leggete il libro. In ogni caso, anche se gli siete ostili per principio, leggetelo. […] Continuate a leggere e, all’improvviso, è la storia che avete attraversato, con le sue risa, la sua agonia, i suoi deserti. Sinceramente vostra Duras»; non solo un invito, uno slancio per i lettori, ma in questa lettera di prefazione è racchiusa la personalità di Marguerite Duras, una donna forte, eccentrica che dominava le parole, ma più spesso lasciava che erano esse a dominarla.

La capacità della Duras è quella di riuscire a scrivere dell’indescrivibile, dell’indicibile, lei non sa cosa vuole scrivere, lo può riconoscere solo dopo l’atto. Occhi blu capelli neri è una storia tra due amanti, una storia sospesa, teatrale, in cui la scrittrice non ha assegnato nomi ai personaggi; li chiama lei e lui, non si conoscono e al lettore spetta la stessa via. I due protagonisti s’incontrano una sera in un hotel, quasi per caso, e da lì iniziano a cercarsi, scoprendo un modo particolare affinché non si perda l’altro.

L’intero romanzo è ambientato in una camera, dove i due amanti s’incontrano, piangono, fanno l’amore senza toccarsi, in silenzio, distratti dallo sciabordio del mare. Non si prendono mai i due protagonisti, ed è come se il lettore non afferri appieno neanche le parole, non si coglie bene il loro centro, parole così vere, così inafferabili.

Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso parlava dell’angoscia provocata dall’amore, quando il soggetto amoroso si sente trascinato da questa sensazione di pericolo, di abbandono, e come lui, la Duras scrive nel romanzo: «Quando si avvicina a lei, si vede che è colmo della gioia di averla trovata e dell’angoscia di doverla perdere ancora. Ha il pallore degli amanti. I capelli neri. Piange».

Due cuori in pena e una tra le più alte di ossessioni: «Una notte. Lei gli chiede se potrebbe farlo con la mano, senza per questo avvicinarsi, senza neppure guardare. Lui dice che non può. […] Se accettasse rischierebbe di non volerla più vedere, mai, e forse anche di farle del male. Dovrebbe lasciare la camera, dimenticarlo. Lei dice che è il contrario, non può dimenticarlo. Che, dal momento che fra loro non avviene niente, resta il ricordo, ossessivo, di ciò che non avviene». Lui soffre, si deprime, piange, non riesce ad attaccarsi più alla vita, resta lontano da ogni forma di movimento vitale.

Secondo Lacan la Duras riusciva a incastrare nella letteratura, nei suoi romanzi, quello che lui teorizzava, permettendo di far parlare l’inconscio; lo stesso Freud credeva che l’artista precedesse sempre lo psicanalista, che gli scrittori sono degli alleati preziosi poiché conoscono qualcosa di inaccessibile al sapere accademico.

Claustrofobico, coinvolgente e teatrale, il lettore legge le pause della storia come se le tende calassero, è la scrittrice a lasciare degli spazi bianchi per far sentire meglio quello spazio vuoto. Molto curata la forma stilistica, un romanzo sperimentale, accompagnato da una scrittura che si riconosce subito come unica: «Lui chiede ancora com’era quell’amore, com’era vissuto. Lei dice: “Come un amore che ha un inizio e una fine, indimenticabile anche quando lo si è dimenticato, non ricordo più”».

La Duras lascia un anelito a una storia che – forse – è costretta a non durare, non resta nulla ai due amanti probabilmente, ma questa storia resterà fissa nella mente del lettore, come quando la puntina del chiodo, impercettibilmente, entra nella parete del muro.

(Marguerite Duras, Occhi blu capelli neri, trad. di Laura Guarino, Feltrinelli, 1989, pp. 136, euro 6,50)

“Il popolo di legno”
di Emanuele Trevi

La mia preferita è sempre stata Pollyanna. E probabilmente l’avrò già citata, starnutendola in qualche altro articolo. Sarà stata quell’edizione, intrisa di un rosa giocattolo, sarà stato l’odore di talco sparpagliato dalle pagine; oppure, semplicemente, il nocciolo limpido di quella storia. La bontà paziente, la purezza corrosiva di una bambina povera, addestrata a valorizzare anche la polvere. Quella vita sbriciolata e impercettibile, capace comunque di innescare l’euforia. Quella pienezza del niente che t’induce a gioire quasi a prescindere, anche se ricevi in dono un paio di stampelle, solo per il fatto che tu non ne hai bisogno.

Che camminare è il tuo regalo. Dovessi scegliere una favola, non avrei dubbio. Il mio istinto bambino l’ha già arpionata più di vent’anni fa. Perché le favole servono. Continuamente.

Sono l’impasto del mito, il carburante di quello che cerchiamo vivendo. Più o meno consapevolmente.

Certo, Vladimir Propp o Joseph Campbell l’hanno formulato meglio delle nostre pance, ma ogni appetito ha fame di favola. Qualunque uso ne faccia.

E Il popolo di legno (Einaudi, 2015) di Emanuele Trevi non fa proprio eccezione.

Anzi, ne è doppiamente accattivata. È una favola plasmata per contenerne un’altra.

Il protagonista, come nelle migliori produzioni fiabesche, non ha un nome proprio. O almeno, maiuscolizza una specie comune. Si chiama il Topo e altro non sapremo mai, non sapremo che suono scelse di affibbiargli sua madre. Ma d’altronde non occorre. A noi basta sapere che così è stato appellato, perché quella realtà lo rappresenta di più di qualsiasi altra traccia depositata all’anagrafe.

Quell’aspetto smilzo e imprendibile, lo scatto di quegli occhi roditori, sagaci, preistorici e brucianti.

Il Topo, uomo animalesco e animale umano, abita una terra altrettanto primitiva, rovinosamente bella: la Calabria. Nell’esatto interstizio del paese di Rosarno, dove indigeni e stranieri coesistono gomito a gomito, strappando pomodori e pochi spiccioli. Ha una moglie, Rosa, morbida e calda nella sua stupidità nuda. Una casa di carne senza parole che lui ama oltre ogni espressione. Ha un amico, il Delinquente, comprimario ideale e solidalmente anonimo, orfano di vendette trasversali e involucro perfetto di alcol e droghe.

Il tipo di creatura cromosomicamente inadatta al suo ambiente: omosessuale, imbelle, sensibile. Incapace di uccidere, ma bravissimo a farsi annientare da qualsiasi dipendenza, soprattutto da quella verso il Topo.

Il tipo di nipote che gli Zii, padrini del potere impronunciabile, non vorrebbero mai sotto la propria tettoia.

Ci sono entrambi: gli innominati e gli innominabili. Tutto procede, languido e identico, nel suo fiume di scontatezze prive di tempo.

Finché al Topo non sopravviene la voglia di narrare una storia. O meglio, di riferirne la sua interpretazione.

E la vicenda in questione è quella di Pinocchio. Il solo libro che il Topo conosca davvero. L’allegoria eccellente della gente di Calabria. Sì, perché il Topo ha rosicchiato quel racconto, lo ha digerito a suo modo e ne ha restituito una lettura s-travolgente. Totalmente e talmente da volerla spartire con i suoi conterranei. Per questo chiede al Delinquente di divulgarla alla regione, approfittando del suo ruolo fantasma di Direttore artistico di Tele Radio Sirena. Le puntate cominciano e la figura di quel burattino si scappotta, si ribalta come in preda a un incidente.

Pinocchio non è più quel pupazzo legnoso che dopo aver disobbedito al Grillo e a suo padre sperimenta il buio, il ventre di balena, lo sfruttamento, la paura. Non è quello che impara dai suoi sbagli e che infine viene premiato con la pelle, con un corpo ragazzino grazie a cui può scantonare quel costume irrigidito.

È esattamente, penosamente il contrario. Pinocchio, come ogni calabrese, è vittima di chi lo vuole come gli altri, civile e addomesticato, una brava molecola incastrata nel sistema. Senza via d’uscita. La scuola lo appiattisce, lo depaupera del guizzo ribelle, di tutto quello che gli pizzica il cuore. Lucignolo, il Gatto e la Volpe vorrebbero sottrarlo alla sua sottomissione, iniettargli quel circo scalciante che terrifica il senso morale. «Quando Pinocchio incontra il Gatto e la Volpe non incontra due balordi che aspettano la loro occasione sul bordo di una strada di campagna. I loro panni di morti di fame sono ali di arcangeli e il rumore sottile delle loro voci, a saperlo ascoltare, è quello delle leggi che incatenano i destini. Quando Pinocchio incontra il Gatto e la Volpe, allora, possiamo dire che le porte del mondo si aprono di fronte a lui come quelle del Regno dei Cieli, secondo la promessa di Gesù, si apriranno all’arrivo dei poveri di spirito.»

Vola alto il Topo, lui che dovrebbe pilotare gli abissi, lui che ha soltanto desideri di fogna, vola fino a grattare quella soglia che non gli è concessa.

Ma forse per questo, perché quel fondo gli appartiene proprio come le ossa, non teme il rischio di saltare.

Trevi lo rende depositario di una sorte universale, che dai confini calabresi esonda fino al burrone di ogni gola. Il Topo scippato d’identità, quel figlio del Nulla con un solo amore addosso, è la busta del messaggio, maschera perfetta per custodire una dottrina nichilista, la favola del Niente, strizzata, capovolta e poi stesa ad asciugare. «Noi non siamo stati creati per essere intelligenti. Non abbiamo nessun bisogno che qualcuno venga a migliorare la nostra vita. La nostra vita è un mistero, una cosa rotta che non si risana, la conseguenza di un inganno…». Tentativo ben diverso quello di Trevi rispetto alle escursioni plastiche di Martino Ferro con C’era una svolta o alla ruvida versione di Cenerentola che Chuck Palahniuk smatassa in Beautiful You.

È quindi questo Il popolo di legno? Pretesto narrativo per la sua visione del mondo? Teoria randagia in cerca di una bocca? Può darsi, ma la cifra spessa della sua lingua, l’azzardo della libertà, malgrado tutti i vacui tentativi di tingerci felici dentro un display, ne fanno comunque un’avventura coraggiosa.

Indicibilmente lontana da Pollyanna. Ma anche a questo serve scrivere. Anche, forse, a indispettire la realtà. Costringendola, per la bolla di un istante, ad essere sincera.

(Emanuele Trevi, Il popolo di legno, Einaudi, 2015, pp. 192, euro 18)

“Il ponte delle spie”
di Steven Spielberg

Steven Spielberg è sempre stato un grande appassionato di storia. Il suo cinema ha guardato molto più spesso al passato che al presente e molto più spesso la storia è servita per parlare anche del contemporaneo e della natura dell’essere umano. Senza stare a soffermarsi troppo, film come Il colore violaSchindler’s List Amistad partono dal racconto di fatti storici per parlare di qualcosa di più. Tre anni dopo il ritratto di Lincoln la telecamera di Spielberg si sposta avanti nel tempo fino alla New York del 1957.

Con Il ponte delle spie si entra nel pieno della guerra fredda con la storia vera di un avvocato, James B. Donovan, che si trovò a ricoprire un ruolo cruciale nella gestione di una potenziale crisi internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Quando Rudolf Abel viene arrestato a Brooklyn con l’accusa di essere una spia del KGB in territorio statunitense, Donovan riceve l’incarico di difenderlo d’ufficio. Dovrebbe trattarsi di un processo semplice e breve con il verdetto, scontato, di condanna a morte, ma Donovan rimane fedele al suo incarico di avvocato e difensore della giustizia e riesce a ottenere la condanna a trent’anni per Abel, convincendo il giudice che un giorno avere una spia sovietica detenuta potrebbe rivelarsi utile per uno scambio con la Russia. Donovan ha ragione, perché nel 1962 un aereo U2 degli Stati Uniti viene abbattuto mentre è in volo non autorizzato in territorio sovietico. Il pilota, Francis Gary Powers, viene preso prigioniero. L’avvocato Donovan riceverà l’incarico di recarsi a Berlino Est per mediare lo scambio di prigionieri, senza nessuna protezione ufficiale, agendo da privato cittadino.

Di tutto il cinema storico recente di Spielberg, probabilmente questo Ponte delle spie è quello che ha maggiori possibilità di confondersi con il presente. Mai come negli ultimi anni le tensioni tra Stati Uniti e Russia sono state a un simile livello di guardia in materia di politica estera. Mai come negli ultimi anni si è tornati a parlare dell’importanza delle informazioni riservate con i nuovi coinvolgimenti dell’informazione digitale e i casi Wikileaks e Snowden. Mai come in questi anni si è discusso il confine tra diritto alla sicurezza e libertà, su quanto sia autorizzato lo stato a intromettersi nella vita del privato cittadino per tutelarne l’integrità.

Spielberg però non sembra interessato a confondere ieri e oggi. Il ponte delle spie si limita a raccontare la storia di un eroe americano di stampo classico, di quelli di cinema di un tempo, pronto anche a raccogliere l’inimicizia del suo stesso Paese per difenderne i valori in cui si riconosce. James Donovan avrebbe tutta la convenienza personale a difendere Abel con il minimo impegno, ma questo non farebbe di lui un vero avvocato e un vero cittadino. C’è una costituzione che garantisce dei diritti, e quei diritti vanno riconosciuti a tutti, anche a un uomo accusato di rivelare i segreti della nazione al suo acerrimo nemico.

Il rischio, evidente, di un film del genere è la retorica patriottica, in confondere l’epica morale con quella politica, il racconto di un uomo con l’esaltazione dei suoi valori come assoluti di un popolo. A scartare, in parte, il pericolo ci pensa la sceneggiatura curata, tra gli altri dai fratelli Coen, capaci di abbassare Donovan a una normalità umana, ricorrendo anche all’ironia, ogni volta che è necessario e di non complicare la trama spionistica più del necessario per quello che è comunque più un thriller giudiziario che un vero film di spionaggio.

Al quarto film con Steven Spielberg, Tom Hanks incarna con maestria tutto il classicismo che Il ponte delle spie vuole ispirare e la normale grandezza di un uomo che fa il suo dovere credendo sempre nei valori che difende e che continua a sognare di fare presto per poter tornare a casa dalla moglie e i figli e potersi mettere a letto. Accanto a lui, la misuratissima spia Abel rivela al grande pubblico il talento d’attore dell’inglese Mark Rylance.

(Il ponte delle spie, di Steven Spielberg, 2015, thriller, 140’)

“Tom Sawyer, detective”
di Mark Twain

Mark Twain è stato uno dei più importanti scrittori americani del suo tempo, tanto che William Faulkner lo descrisse come il «primo vero scrittore
americano» e considerava sé e tutti i suoi colleghi suoi eredi. Non è dunque cosa facile recensire il prodotto di un autore di tale levatura, seppur si
tratti di un breve romanzo, o meglio, del terzo e ultimo racconto del ciclo di Tom Sawyer. Il libro in questione si intitola Tom Sawyer, detective (Mattioli 1885, 2015) ed è un proseguimento del celebre Le avventure di Tom Sawyer e poi di Tom Sawyer all’estero.

Il centro del libro è certamente il suo protagonista, un ragazzino vivace e scaltro, simpatico e leale sempre in cerca di avventure, alle prese questa volta con la risoluzione di un caso di omicidio. A raccontare l’intera faccenda è Huckleberry Finn, amico fidato di Tom e a sua volta protagonista di uno dei capolavori di Twain, Le avventure di Huckleberry Finn appunto. I due personaggi sono legati tra loro come le opere letterarie che ne raccontano le gesta, tanto che l’ambientazione di questo racconto è la fattoria dei Phelphs in Arkansas, punto di arrivo delle peregrinazioni dei ragazzi nel romanzo su Huck.

I Phelphs sono parenti di Tom, che si trova a dover scagionare suo zio Silas da un’infamante accusa d’omicidio, mentre già era impegnato con l’amico a seguire le orme di un ladro di diamanti. Appostamenti, inseguimenti, il ritrovamento del cadavere e la raccolta di indizi e prove sono le tappe verso la risoluzione del caso, che avverrà, in perfetto stile Sherlock Holmes, in un tribunale in cui tutti i presenti, avvocati e giudice compresi, rimarranno incantati e sbalorditi dalla capacità deduttiva di Tom Sawyer e dalla sua ammaliante retorica.

Nonostante Tom Sawyer, detective sia un’opera minore nella prolifica produzione di Mark Twain e si configuri come la cornice e il seguito di uno dei suoi capolavori, è un racconto che si rivela di forte impatto letterario. Un’ottima interpretazione del tema poliziesco e delle sue norme narrative, che riesce a mantenere integro il carattere di personaggi nati per la letteratura per ragazzi e fortemente connotati dai romanzi precedenti; gioco letterario perfettamente riuscito e conferma della grandezza dell’autore.

A rendere più interessante il volume è la breve prefazione del curatore Livio Crescenzi che si sofferma sull’ispirazione del racconto e sulle difficoltà incontrate nella traduzione di un’opera la cui voce narrante è un ragazzo analfabeta. Mi soffermo su questo aspetto, spesso sottovalutato, per sottolineare quanto un’attenta cura editoriale sia necessaria a rendere il giusto valore a un’opera letteraria e ai suoi lettori. Tom Sawyer, detective è stato pubblicato in Italia per la prima volta quest’anno da Mattioli 1885 all’interno del progetto più ampio di «pubblicare l’opera intera del Maestro in lingua italiana prima della Fine dell’Editoria, o della Fine del Mondo, quale delle due avvenga per prima».

(Mark Twain, Tom Sawyer, detective, trad. di Livio Crescenzi, Mattioli 1885, 2015, pp. 125, euro 9,90)

“L’automobile, la nostalgia e l’infinito”
di Antonio Tabucchi

Era il 1964 quando a Parigi il giovane Antonio Tabucchi, appena uscito dal liceo, acquistò da un bouquiniste la raccolta di poesie in versione francese Tabacaria a firma Àlvaro de Campos, uno degli eteronimi, il più metafisico, del poeta Fernando Pessoa.

Fu così che decise di imparare la lingua portoghese. A Pisa, dove si era iscritto all’Università, incontrò Luciana Stegagno Picchio, grande esperta di letteratura lusitana, che gli fece vincere una borsa di studio per Lisbona.

Nella capitale portoghese Tabucchi trovò e coltivò due amori: quello per la compagna di vita Maria José de Lancastre e quello per colui che accompagnerà la sua vita intellettuale e di scrittore fino alla fine, Fernando Pessoa.

Lisbona diventa per il giovane italiano così una seconda patria dopo l’Italia e Parigi. Del resto, saper entrare in un paese straniero dall’interno è un po’ come nascervi. Ancora storditi ci si trova immersi in mezzo alla vita quotidiana della città senza accorgersene acquisendone gusti e abitudini.

L’automobile, la nostalgia e l’infinito (Sellerio, 2015) raduna le lezioni che nel novembre 1994 lo scrittore, scomparso nel 2012, aveva tenuto alla Sorbona proprio sul grande poeta portoghese, una personalità complessa, scissa nei suoi molteplici eteronimi di cui lui stesso si definiva ortonimo.

Il libricino è una fenomenologia dell’esperienza tabucchiana di leggere Pessoa, considerato ‹‹uno scrittore universale›› al pari di Dante, Cervantes, Shakespeare o Dostoevskij, portatore di endoxa, ossia di concetti validi per tutti e in tutti i luoghi (Aristotele). La forma scelta per trasmettere queste idee universali è l’etoronimia. È Pessoa stesso a confessare la genesi dell’eteronimia in un’intervista al critico Adolfo Casais Monterio, dove spiegava la sua tendenza a creare intorno a sé un mondo fittizio, popolato da amici e conoscenti immaginari: «I personaggi sono dunque una finzione; ma i sentimenti che provano sono sentimenti “veri”, appartengono a una verità simbolica e possiedono una verità universale». Inoltre gli eteronimi «sono altri-da-sé, personalità indipendenti e autonome che vivono al di fuori del loro autore».

Ecco allora nascere per scherzo «un poeta bucolico abbastanza sofisticato», l’8 marzo 1914, Alberto Caeiro. Seguono Rocardo Reis e  Àlvaro de Campos, «ingegnere navale e uomo tormentato, che esprime il suo geometrico nichilismo con una capacità d’astrazione vagamente spinoziana», che si rivela attraverso gli oggetti che popolano la sua poesia: un monocolo, segno distintivo del dandy; una Chevrolet, automobile simbolo della modernità per le avanguardie storiche; un volano, una valigia, un transatlantico e poi una sedia, oggetto preferenziale dell’homo melancholicus.

Il più famoso eteronimo resta però Bernardo Soares, quell’«umile contabile di un negozio di stoffe; una vita ordinaria e immaginaria; una modesta camera in affitto; il solito ristorante, la trattoria Pessoa, dove, come ci svela l’ortonimo, Bernardo Soares cenava con Fernando Pessoa». Questo uomo dalla vita monotona e insignificante è l’autore del Libro dell’inquietudine, un diario in cui racconta «le sue depressioni quotidiane e notturne». Sì, perché Bernardo Soares è afflitto da disforia e a lui Pessoa affida due compiti: vivere in modo vicario la sua depressione e osservare dal di fuori la vita in fermento e percorsa da emozioni.

Emergono così tutti i principali temi della poetica del poeta portoghese come ad esempio la «Nostalgia», parola greca che deriva da nostos, ossia «ritorno», e algos, «dolore», il dolore del ritorno. Sembra che la parola fosse stata inventata nel 1678 da un medico, Jean-Jacques Harder, per descrivere la sofferenza dei soldati svizzeri quando restavano troppo lontano dai loro campi. La nostalgia dunque avvelena e allo stesso tempo addolcisce il tempo presente.

Un altro motivo della lirica di Pessoa è il tedio o la noia, in cui è evidente l’influenza di Leopardi: «Con Leopardi, inizia a esistere la discordanza tra il reale e il concetto del reale, tra il desiderio e l’oggetto del desiderio».

Si delinea cioè quella caratteristica della poesia moderna, quando, a partire dalla rivoluzione romantica, la componente intellettuale e speculativa, teorica e in senso lato filosofica si è imposta come elemento costitutivo e irrinunciabile del fare poetico.

Le lezioni di L’automobile, la nostalgia e l’infinito sono solo assaggi, estratti di un dialogo atemporale, durato tutta un’esistenza, fra i due intellettuali, che mi richiamano alla memoria l’ultima maniera di due grandi artisti: quella di Tiziano Vecellio, che, ormai anziano, dipingeva a rapide e sommarie pennellate o addirittura con le dita e il non finito di sculture di Michelangelo Buonarroti, in cui restano visibili i segni della sgorbia e dello scalpello.

(Antonio Tabucchi, L’automobile, la nostalgia e l’infinito, Sellerio, 2015, pp. 120, euro 12)

“Quel fantastico peggior anno della mia vita”
di Alfonso Gomez Rejon

Negli Stati Uniti, tra i vari generi di commedie, negli ultimi dieci-quindici anni hanno conosciuto un particolare tipo di apprezzamento le commedie indie, quei film indipendenti non solo dal punto di vista produttivo ma anche caratterizzati da un animo e da un’estetica precisa che mette insieme umorismo e malinconia, spesso legate a momenti di crescita o comunque di passaggio, ancora più spesso incentrate su protagonisti disadattati o quantomeno stravaganti. Si sa, senza stare a fare inutile storia del cinema, che Little Miss Sunshine è il film fondamentale di questo filone. Partito dal Sundance Film Festival – casa ideale per grande parte di questo genere di commedie – l’opera prima della coppia di registi  Jonathan Dayton e Valerie Faris arrivò nel 2006 a incassare più di cento milioni di dollari e riuscì a portarsi a casa due premi Oscar (su quattro nomination) per la sceneggiatura di Michael Arndt e per Alan Arkin come miglior attore non protagonista.

Quel fantastico peggior anno della mia vita, opera seconda di Alfonso Gomez Rejon, potrebbe avere un destino simile. È partito dal Sundance dello scorso gennaio conquistando il premio della giuria e quello del pubblico per il miglior film statunitense, e se ne parla già in prospettiva Oscar, almeno per la sceneggiatura (non originale).

Il titolo originale, Me and Earl and the Dying Girl, introduce senza mezze misure tutta la trama del film. “Me” è Greg, il protagonista, un ragazzo all’ultimo anno di liceo, assolutamente non integrato nella sua scuola ma capace dopo anni di allenamento di risultare gradevole a ognuno dei gruppi sociali in cui si riuniscono i suoi compagni. Earl è il suo migliore amico con cui coltiva la passione per il cinema europeo e l’hobby di realizzare omaggi/parodie dei grandi classici con mezzi artigianali e titoli di semplice genialità (A Clockwork Orange diventa A Sockwork Orange, con protagonisti dei calzini, tanto per dirne uno, e tutto sommato anche il titolo originale del film ammicca un po’ a Me and You and Everyone We Know). La “Dying Girl” è Rachel, coetanea e compagna di scuola a cui è stata diagnosticata la leucemia. Greg viene obbligato dalla madre a farle compagnia. Nascerà dalla forzatura un’amicizia vera che non sboccerà mai in amore.

All’interno del genere “commedia indie” da qualche tempo si è affacciato un nuovo sottogenere: la cancer comedy, quel genere di commedia che ha tra i protagonisti almeno un malato di cancro e racconta con una certa leggerezza il quotidiano della malattia come percorso di crescita di chi soffre e di chi sta vicino. Alcuni titoli: 50 e 50L’amore che resta di Gus Van Sant, Colpa delle stelleQuel fantastico peggior anno della mia vita si infila perfettamente in questo sottogenere. In fondo, racconta la crescita di Greg attraverso l’amicizia con Rachel, la sua presa di coscienza su come il suo modo di vivere sia sbagliato e su come sia necessario smuoversi, uscire dal guscio per affrontare davvero il mondo, senza mimetizzarsi per piacere a tutti.

Detta così, sembra di essere di fronte a un filmetto già visto tante volte, tutto tormenti di adolescente loser, sofferenze e cose così. A fare la – relativa – differenza ci pensano il tema della malattia, con la crescita di Earl che passa per il confronto quotidiano con l’amica malata, e soprattutto la spudorata cinefilia dei protagonisti che si trasmette a tutto il film. Siamo di fronte a una mole di citazioni inarrestabile, a un continuo gioco metacinematografico di tecniche e stili, di linguaggi e suggestioni che mette insieme Wes Anderson, Martin Scorsese, Werner Herzog, François Truffaut e soprattutto Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm di Michel Gondry da cui è presa l’idea dei remake artigianali. Omaggiando (o copiando) in continuazione i grandi registi, Alfonso Gomez Rejon riesce a creare un suo stile che funziona. Nei tre protagonisti, poi, ha trovato una bella alchimia che funziona (i nomi sono Thomas Mann – sì, come lo scrittore – per Greg, RJ Cyler per Earl, Olivia Cooke per Rachel).

Il limite, magari, di Quel fantastico peggior anno della mia vita è di voler essere strano a tutti i costi, quindi calca la mano sui personaggi, soprattutto sugli adulti che proprio non riescono a funzionare. È come se per poter essere davvero indie a tutti i costi ci debbano essere personaggi disfunzionali ovunque. Non è detto che sia necessario, e che soprattutto sia un bene.

(Quel fantastico peggior anno della mia vita, di Alfonso Gomez Rejon, 2015, commedia, 104’)

“Le ateniesi”
di Alessandro Barbero

Ho terminato la lettura di Le ateniesi di Alessandro Barbero (Mondadori, 2015) e ancora non so spiegarmi quale fosse l’intento dell’autore. Proporre una versione in prosa della Lisistrata? Rievocare l’atmosfera sganasciata e scurrile che accompagnava la messa in scena delle commedie greche? Strizzare l’occhio ai lettori di oggi e alle questioni di genere raccontando una storia di violenza estremamente attuale? Se l’intento corrisponde al primo e al secondo punto, Barbero ha centrato l’obiettivo in pieno, ma in tal caso sarebbe stata sufficiente anche solo la metà del romanzo.

Limitandoci ad analizzare questi due aspetti, la riscrittura dell’opera di Aristofane è un’operazione lodevole: va oltre la filologia per farsi rievocazione storica dettagliatissima. Il lavoro dell’autore è partito da una sua personale ritraduzione dell’opera per proseguire con una vera e propria rappresentazione virtuale: si descrivono con precisione ammirevole gli attori, le voci della scena e del pubblico, le musiche, i costumi, le interazioni tra palco e platea, le aspettative del commediografo sulle reazioni dagli spalti, le movenze e le espressioni degli attori nel pronunciare le battute rinfrescate dall’ottima traduzione. E davvero sembra di stare lì, nell’Atene del 411 a. C., a godere degli spettacoli pubblici sui gradini del teatro, seduti accanto a nobili e contadini nella precaria atmosfera di parità democratica della polis. Allora perché spingersi più in là?

È davvero un peccato, per tutto questo primo aspetto meritevole di lettura, ma nella trama l’autore sviluppa una storia parallela (che si dà il cambio di staffetta con la messa in scena della Lisistrata) la cui funzione risulta incomprensibile, e che ho letto con impulsi altalenanti. In una prima fase, dopo aver completato le prime pagine, non mi allettava particolarmente l’idea di continuare, vista la scarsa curiosità che mi suscitava il testo. Sono poi passata a una seconda fase di repulsione: con l’inizio della descrizione dettagliata delle sevizie alle due protagoniste ho provato il desiderio di distanziarmi dal libro, e congedarmi da quell’indugiare quasi sadico sulle torture sessuali alle adolescenti Charis e Glicera. Sono approdata quindi a una terza fase di impazienza: leggevo in fretta, senza soffermarmi sulle frasi, supplicando che l’accurata esposizione delle violenze avesse presto fine. A momenti, mi assaliva il dubbio che la descrizione delle angherie dilatata all’inverosimile fosse un tentativo disperato di macinare pagine per rispettare la struttura del romanzo e tenere il passo della Lisistrata, dal momento che il libro prevede un’alternanza di capitoli di lunghezza simile, nei quali la commedia si avvicenda alla tragedia.

Sul finire dell’opera, quando la Lisistrata si è ormai conclusa e le fantasie sessuali dei violentatori di Charis e Glicera hanno sperimentato ogni declinazione di malvagità, l’autore si rende probabilmente conto di aver tirato la storia troppo per le lunghe e trova un deus ex machina che riporta eroicamente la situazione alla normalità, punendo i cattivi e ripristinando giustizia. Con ogni probabilità questa scelta narrativa è un omaggio a un espediente inflazionato del teatro classico, ma dal momento che la storia delle due ragazze greche vorrebbe essere una denuncia alle violenze che le donne subiscono ancora oggi, cavarsela con epilogo aggiustatutto è una soluzione che pecca d’ingenuità e approssimazione.

Insomma, Le ateniesi è un romanzo bello a metà. Un’alternativa di lettura può trovarsi nel leggere solo i capitoli dedicati alla Lisistrata, se si amano i classici. Se si è di stomaco forte, chiaramente, si può scegliere di completare il libro per intero.

 

(Alessandro Barbero, Le ateniesi, Mondadori, 2015, pp. 216, euro 19)