“Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick”
di Ron Howard

Alle origini di Moby Dick, il romanzo fondamentale di Herman Melville, c’è una storia vera e poco conosciuta, quella del naufragio, nell’inverno del 1820, della baleniera Essex, partita più di un anno prima dal porto di Nantucket e distrutta lungo una rotta inesplorata nell’Oceano Pacifico da un gigantesco capodoglio. L’equipaggio venne decimato dal cetaceo che attaccò la nave e le scialuppe con una ferocia mai registrata prima tra le balene. I racconti di quel naufragio dei pochi sopravvissuti sconvolsero Herman Melville che ne fece la base di partenza per il suo capolavoro.

A raccontare per la prima volta la storia dell’Essex è stato lo scrittore esperto di mare Nathaniel Philbrick, che nel 2000 si è aggiudicato il National Book Award per la saggistica con il suo Il cuore dell’Oceano. Il naufragio della nave Essex (in Italia è stato pubblicato da Elliot nel 2013). Da quel libro, oggi, viene tratto Heart of the Sea –Le origini di Moby Dick, che sposta la ricerca di Philbrick su un piano di avventura molto più vicina al cinema spettacolare di Ron Howard.

La nave Essex è pronta a partire per fare rifornimento di olio di balena per il mercato di Nantucket. Il primo ufficiale Howard Chase si vede scavalcare, ancora una volta, nelle gerarchie dall’aristocrazia dell’isola che impone al comando il capitano Polard, alla prima spedizione. Per trovare nuovi banchi di balene, Polard e Chase decidono di spingere la Essex verso nuove rotte inesplorate. È a mille miglia a largo dell’Oceano Pacifico che la nave viene attaccata da un enorme capodoglio che la fa colare a picco. Anni dopo, lo scrittore Herman Melville arriva a Nantucket per raccogliere la testimonianza di Thomas Nickerson, uno dei pochi sopravvissuti della missione. Nel 1820 era un ragazzino di quattordici anni. Quando arriva Melville è un uomo distrutto dall’alcol e dai ricordi di quel naufragio di cui non riesce a liberarsi.

Nathaniel Hawthorne definì Moby Dick il libro centrale dell’epica americana e il suo autore Melville l’Omero della narrativa statunitense. Con Heart of the Sea siamo invece dalle parti di quell’epica cinematografica classica che non si vedeva da un po’ di tempo a Hollywood. Fedele alla sua linea, Ron Howard ha realizzato un film di uomini e della loro capacità di reagire quando vengono messi alle strette dalle difficoltà, con la loro ostinata volontà di superare ogni difficoltà.

Non c’è lo scontro tra uomo-natura al centro di questo viaggio alle origini di Moby Dick. Anche la balena si vede poco, la sua presenza è minacciosa solo quando compare, non c’è il senso costante del pericolo in agguato nel mare, della sua grandezza che incombe sempre sull’equipaggio della Essex. L’attenzione si concentra sugli uomini a bordo, sul loro momento immediato del presente, stringendo anche il campo visivo sulla nave, sui volti e sui movimenti, senza mai aprirsi in panoramiche ampie che abbraccino la vastità dell’oceano, ma rimanendo vicino alle lance in caccia, alle manovre sul veliero. Tutto, ancora di più che sull’equipaggio, è su Howard Chase, il primo ufficiale, navigato uomo di mare ma figlio di contadini, lontano dall’aristocrazia marinara di Nantucket e per questo bloccato nella carriera, con il suo incarico di capitano che continua a essere rimandato alla prossima spedizione, nonostante le promesse,  per lasciare spazio alle grandi famiglie dell’isola. È lui l’antitesi del capitano Polard, figlio e nipote di capitani, alla prima esperienza in mare e alla costante ricerca di una prova che ne certifichi il valore, che attesti la sua presenza a bordo per il merito dell’azione e non del sangue. È tutto sullo scontro sull’autorità e l’autorevolezza che si concentra la prima parte del film, con il capitano nuovo Agamennone e Chase nei panni di Achille, per rimanere nell’ambito del paragone con Omero.

Come intrattenimento puro, Heart of the Sea funziona senza flessioni. Le tempeste, gli inseguimenti ai capodogli, l’azione grandiosa sullo spazio ristretto della Essex, inchiodano allo schermo, anche se l’esubero di CGI è evidente e dà al film quella patina di finto che ormai caratterizza ogni grande produzione hollywoodiana. A mancare è l’in più, quella dimensione letteraria che l’avvicinamento a Melville rendeva lecito attendersi e che Ron Howard ha dimostrato, anche di recente con Rush, di saper maneggiare. Certo, qui manca il contributo in sceneggiatura del drammaturgo Peter Morgan, ma siamo davvero di fronte a uno sforzo di scrittura minimo. Del resto, non è quello il fulcro del film ma l’immagine, il mare, la balena, le difficoltà dell’equipaggio. Però, proprio per questa maggiore attenzione allo spettacolo, nella seconda parte, quella successiva al naufragio, più riflessiva, di logorante attesa, Heart of the Sea perde di intensità, non riuscendo ad accompagnare il rallentamento del ritmo con un lavoro che vada più nella profondità dei personaggi e dei dialoghi. E al contrario dell’Essex finisce per rimanere sulla superficie, senza spingersi a fondo degli abissi  umani.

(Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick, di Ron Howard, 2015, azione, 121’)

“Antigone”, per la regia Filippo Gili

Al Teatro dell’Orologio, Filippo Gili propone il suo nuovo lavoro, Antigone, in scena in prima nazionale dal 24 novembre al 6 dicembre. Rappresentata per la prima volta nel 442 a.C., la tragedia di Sofocle appartiene al Ciclo Tebano, la serie di drammi che occorrono a Edipo e a tutta la sua discendenza. Figlia del sovrano maledetto dagli dei, reo di aver ucciso il padre e giaciuto con la madre, Antigone è sangue maledetto che si erge, pazza di dolore, contro la legge emanata da Creonte di lasciare insepolto Polinice, il fratello che, con l’appoggio di Argo Adrasto, aveva dichiarato guerra al sangue del suo sangue, Eteocle, e a Tebe.

Consapevole di non saper uscire dal solco scavato da Laio, così come nessuno della sua stirpe prima di lei, Antigone affronta incolpevole la morte, vincitrice e sconfitta, campo di battaglia vivente nella guerra tra le leggi di natura e familiari dettate dalla propria divinità interiore e la legge dello Stato.

Nei 2457 anni trascorsi dalla prima di Antigone a oggi, sono state scritte infinite pagine circa il senso di questo dramma e il suo potere catartico a cui nulla hanno saputo togliere le evoluzioni che ha assunto nei secoli il sentimento dell’uomo nei confronti della cosa pubblica. Allo stesso modo sono state tentate innumerevoli repliche del dramma, ogni volta allo scopo di estrarne un senso diverso che fosse in assonanza con lo stato di innamoramento del pubblico verso la propria patria.

In questo caso il progetto di Gili mira a contrapporre Antigone e Creonte su tutti i piani, non solo quello propriamente narrativo, ma anche quello del linguaggio. L’uno quasi didascalico, l’altra viscerale, entrambi cristallizzati nelle loro decisioni fino al raggiungimento del punto oltre il quale ogni ripensamento è inutile.

Eppure, in un contesto intelligente che traduce la polis come una piccola manifattura di pellami e inserisce il coro nella scena in maniera organica al punto da conferirgli quell’aura di necessarietà che era gli propria fin dalle origini, manca la perfezione della scelta tra lo svuotare completamente di ogni senso il testo per lasciare che il pubblico si affidi al sentimento dei corpi e al proprio vissuto per riempirlo con il proprio pensiero, e l’umanizzare i personaggi al punto da poter riconoscere in Antigone, Ismene e Creonte, la tabaccaia, la vicina di scrivania e il professore per chiedersi loro quale scelta avrebbero fatto.

Antigone
di Sofocle
regia Filippo Gili
aiuto regia
scene Francesco Ghisu
costumi Daria Calvelli

con Vanessa Scalera, Barbara Ronchi, Omar Sandrini, Alessandro Federico, Filippo Gili, Matteo Quinzi, Piergiorgio Bellocchio, Rosy Bonfiglio, Roberto Dellara.

Prossime date
Roma – Teatro dell’Orologio dal 24 novembre al 6 dicembre 2015

Foto di copertina: Manuela Giusto

“Il Romanzo della Nazione”
di Maurizio Maggiani

Il Romanzo della Nazione di Maurizio Maggiani (Feltrinelli, 2015) è la storia di un aborto. Del Romanzo. Di una Nazione. È l’implosione di quel concetto di unità politica, culturale e sociale che i nostri padri fondatori hanno cercato di edificare.

Si cela qui una sfida frontale alla forma “romanzo”: un libro senza trama dove il protagonista è il pensiero incarnato in un destino e dove è lo stile a creare incessantemente la realtà.

L’incipit è già una resa: «Avevo in mente di scrivere Il Romanzo della Nazione, questa era la mia ambizione, ma disgraziatamente lo scorso inverno è morto mio padre».

Questo è un romanzo che non c’è per dichiarata perdita della sua fonte fondamentale, il padre elettricista, un tipo taciturno, comunista e melomane, gran lavoratore, ammiratore di Kennedy e Pertini, che colpito da Alzheimer ha portato nella tomba il suo segreto di costruttore di nazioni, lasciando al figlio un’enigmatica frase scarabocchiata su un foglio dell’ASL: «Vivere di sogni è un’utopia››. Era un uomo d’altri tempi con un concetto di lavoro che gli rendeva di difficile comprensione il mestiere del figlio: ‹‹Mio padre non è mai stato sicuro che mi guadagnassi il pane onestamente. Mio padre ha vissuto per decenni nell’intima convinzione che ci fosse qualcosa di losco nel mio modo di guadagnarmi il pane. Lui era elettricista, lui era moralmente integro, come poteva capire i sottili meccanismi del mercato di merci inconsistenti?»

Ne Il Romanzo della Nazione ci sono anche la madre Adorna, i nonni, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Napoleone III, l’infame Bava Beccaris, Menotti Serrati e infine l’epopea della costruzione dell’Arsenale militare di La Spezia, il sogno, metafora della nazione, di un’Italia dominatrice dei mari, che culmina nel varo, il 10 luglio 1878, della corazzata Dandolo, in realtà mai impiegata in battaglia ma per soccorrere i terremotati di Messina nel 1908.

Dunque la Dandolo venne meno alla funzione per la quale era stata costruita così come l’Italia è, a ben vedere, è venuta meno alla sua missione di nazione unita fondata sulla sovranità popolare. Il discrimine è tutto in una proposizione: la sovranità è del popolo o nel popolo?

Ho trovato la lettura del libro di Maggiani molto difficoltosa e forse per la prima volta mi sento in imbarazzo nel doverlo recensire. Non nego di essermi più volte arenata perché è un navigare a vista e perché il tutto è raccontato con molto disordine, senza disciplina, a sottolineare la discontinuità del vettore Tempo che trova ostruito il suo alveo da inversioni e cortocircuiti tra passato e presente, un fluire di pensieri che sgorgano nella pagina come uno zampillo d’acqua nel deserto.

Forse Maggiani pensava a una prosa eloquente, poetica e a tratti divertente, invece il risultato è una tonalità sbiadita e indistinguibile. Ho cercato di rintracciare quei passi che potrebbero contenere una più profonda immaginazione, pensieri originali, ma non ci sono riuscita.

Il romanzo non ha l’atmosfera suggestiva del colloqui intimo, ma si presenta più come un libro di rievocazioni e di aneddoti a volte pittoreschi.

Il rischio è una sterile lode del passato laddove invece si voleva esortare alla sensibilità e al riscatto, che devono servire, se non a ricreare ciò che ormai è perduto, a non continuare a trascurare o, peggio, a distruggere ciò che rimane di una parvenza di Nazione.

(Maurizio Maggiani, Il Romanzo della Nazione, Feltrinelli, 2015, pp. 304, euro 17)

“Il Karma del Pinolo”
di Luigi Cecchi

Se cercate una lettura che vi garantisca un sicuro appiglio alla realtà, sappiate che l’ultimo libro di Luigi Cecchi, Il Karma del Pinolo (Del Vecchio editore, 2015), non soddisfarebbe le vostre aspettative. Già, perché in questo caso il reale è solo l’abito che riveste il corpo narrativo e che, sfilandosi pian piano, ne manifesta la vera natura.

Innanzitutto, si tratta di 17 simpatici racconti non eccessivamente lunghi, che sebbene siano cuciti all’interno della stessa copertina, non hanno nulla in comune: sono storie autonome che vantano un’unica chiave di lettura possibile, la fantasia. Cecchi ha lasciato che la sua vagasse incontrollata per dare vita, per esempio, a una specie di puzzola dal «corpo vagamente serpentino» e con due occhi da lumaca, che con uno sturalavandini fa sparire le persone in fila alla posta; a un angelo che fuma Lucky Strike e mangia Kit Kat e che stende una vecchietta con un pugno; a un antico edificio che partorisce; a un uomo che crede di essere Dio; a un signore che rapisce il tempo perso altrui; a un ragazzo che per salvarsi dall’imminente temporale finirà in un negozio da tè e aiuterà il proprietario a trovare il senso della realtà della sorella; a una casalinga maniaca dell’ordine e della pulizia che al posto di un apriscatole acquista un apricervello col quale fa pulizia persino nell’encefalo del marito. Insomma, un miscuglio di ingredienti eterogenei, amalgamati alla perfezione, per una raccolta succulenta.

Ciò che sin dal primo racconto spiazza è la naturalezza e la spigliatezza con cui l’autore, nel descrivere eventi che non hanno una logica spiegazione, introduce ex abrupto un elemento non naturale che immediatamente pone una risoluzione agli enigmi che né i personaggi né tantomeno i lettori riuscivano a spiegare con gli strumenti del mondo reale.

Tutti i racconti (o quasi) hanno una struttura simile: muovono da una situazione all’apparenza normale, che inizia a mostrare però nel corso della narrazione un equilibrio precario, che finisce inevitabilmente per rompersi. È a questo punto che irrompe l’anormale, mescolando in chi legge stupore, incredulità e sorriso. Talvolta Cecchi aggiunge anche qualche finale tragico, per spezzare il continuum umoristico e costruire una variopinta architettura narrativa, prestando sempre attenzione a non confondere i due piani e a tenerli nettamente distinti, evitando una fusione tragicomica.

La scrittura fluisce leggera, indugiando talvolta su alcuni aspetti poco funzionali alla piega che prenderà il racconto, e creando una struttura a incastro che in alcuni punti comporta necessariamente un’accelerazione temporale. Per capire meglio: uno dei racconti più lunghi, “Studenti”, narra il ritorno a casa in treno di tre amici, due ragazzi e una ragazza, dopo la scuola. Ma in apertura si parla di come venga strattonata e inondata da una marmaglia di giovani la signora Anna, proprietaria di una tabaccheria, mentre scende dal treno. Tutto fa presupporre che la protagonista sia lei. Ma la tabaccaia riconosce tre ragazzi, e dai suoi ricordi, la narrazione si sposta su di loro. Ecco, dunque, i veri protagonisti ritratti nei loro discorsi in un vagone deserto? Macché! Su quel vagone c’è anche un ladro di tempo perso, che gli è necessario per sopravvivere. Parlando un po’ con i ragazzi, lo vedremo in due/tre pagine invecchiare di colpo e poi morire all’improvviso. La sua morte è trattata come un flash, lasciando al lettore la voglia di sapere se il corpo verrà ritrovato, che fine faranno i ragazzi una volta scesi dal treno e magari anche che fine abbia fatto la cara signora Anna, di cui nel frattempo ci si è dimenticati.

Ma d’altronde, come ci ha già insegnato tempo addietro Elsa Morante, attraverso il racconto l’autore non ci restituisce un’intera visione di mondo, ma solo una porzione di esso. E in questo Luigi Cecchi è stato davvero impeccabile.

 

(Luigi Cecchi, Il Karma del Pinolo, Del Vecchio editore, 2015, pp. 240, euro 15)

“Cultura generale” dei Ministri

Di recente è apparso su un noto giornale italiano un articolo in cui si citavano cinque nomi di artisti accusati di essere il male della scena indie italiana:  tra questi appariva anche quello dei Ministri, che per il sottoscritto erano l’unico – insieme ad un altro solamente – a meritarsi la grazia visto il pregevole lavoro svolto nella loro carriera. Poi ho ascoltato l’ultimo disco della band milanese e per poco non rivedo il mio parere, poiché Cultura Generale è un bel passo indietro rispetto al bellissimo Per Un Passato Migliore di cui ho tessuto le lodi qualche anno fa sempre qui.

Parliamoci chiaro, fin da subito; Cultura Generale non è brutto: è solo un lavoro di mestiere che a molti – me compreso – suonerà come inutile ed estremamente limitato visto il talento che credo posseggano Dragogna e company. Fino della recensione? Ovviamente no, troppo facile.

In Cultura Generale i Ministri fanno i Ministri e basta, ripetendo in maniera scolastica la formula che li ho portati – giustamente – alla ribalta: ma arrivati al quinto disco la cosa inizia – altrettanto giustamente – a stancare. Le urla nei brani suonano forzate e manca quella grinta autentica, quella verve, quella cattiveria che hanno partoriti inni ormai cutl come “Bevo”, “Abituarsi alla fine” o “Comunque”. I Ministri continuano a trattare i soliti mali del Belpaese ma è come se in Cultura Generale avessero calcato la mano creando così delle caricature forzate piuttosto che spietati e critici ritratti dei mali della nostra società. Musicalmente rimangono impeccabili, ma siamo ormai più vicini ad un rock alla Foo Fighters che all’asprezza punk degli infuocati esordi. La produzione è comunque buona, visto che alla regia degli studi di Berlino dove è stato registrato il disco c’è Gordon Raphael, già al lavoro con gli Strokes.

Cosa salvo? I ritornelli più trascinanti come quello di “Vivere da Signori” e soprattutto “Idioti” (degno lampo di stampo Ministri) ma le frasi e alcune descrizioni quasi comiche di alcuni testi (degne più di Cultura Banale che Generale) e la sterilità delle ballate (che in passato erano la vera bellezza del disco) riportano subito alla quiete.

Arrivato a questo punto giunge la domanda più dolorosa: i Ministri, arrivati al traguardo del quinto disco, hanno esaurito le risorse e questo è ciò che ci aspetta ad ogni uscita discografica?

Vista la loro potenza dal vivo e il fisso stuolo di fan fedeli non credo che abbiano finito la voglia di fare musica: credo solo che siano giunti ad un bivio – dolorosissimo, in cui passano tanti gruppi – e l’unico modo per superarlo è quello di mettersi in completa discussione e rivedere tutte le carte in tavola per non ripetere la sterile copia di se stessi. Per il momento registriamo un disco di cui si poteva fare tranquillamente a meno. Peccato.

“Indirizzo: Unione Sovietica”
di Gian Piero Piretto

Dopo La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo, di tre anni fa, Gian Piero Piretto torna sull’Unione Sovietica con un volume ancora più bello del precedente: Indirizzo: Unione Sovietica (25 luoghi di un altro mondo). Il medesimo editore, Sironi, confeziona il viaggio dello studioso in un volume magnifico ricco di fotografie. Parliamo di viaggio perché – lo chiarisce bene la prefazione di Marco Belpoliti – la ricognizione di luoghi in qualche modo esemplari di ciò che fu l’Unione Sovietica è per forza di cose l’attraversamento di uno spazio, quello reale, ai limiti dell’allucinazione per quanto gigantesco, o al tutto mentale (l’uomo orizzontale che, spesso per contrasto,  aspira a un recesso circoscritto, ove magari fantasticare nella totale immobilità – Oblomov è nome che viene da sé).

Nella geografia che racchiude i confini di questo enorme paese, essi stessi sembrano inarrivabili – la lentezza obbligata di attraversamenti infiniti fa da contraltare la nevrosi febbrile della città, penserei alla Pietroburgo di Belyi – eppure custodiscono luoghi, chiusi o aperti, di singolare connotazione. Essa non può sfuggire alla peculiare determinazione politica di oltre mezzo secolo, ma il lettore, sulla scia del libro, è sollecitato alla ricerca di un’anima russa che persista come un’aura immarcescibile sotto i mutamenti della storia.

V’è di tutto nel libro di Piretto, luoghi pubblici e apparentemente privati: mercati colcosiani, ben più forniti e invitanti dei negozi di Stato, stazioni della metro, aeroporti, chiese, cimiteri, grandi magazzini, strade, cucine (prevalentemente «angoli-cottura» se si trattata di alloggi individuali, e spazi privilegiati di incontri), cortili e stanze (komnata) – gli unici spazi, le ultime, di faticosa intimità. Persone singole, o famiglie, «nell’ambito di un appartamento in coabitazione (kommunalka)» dovevano dividersi con altri tutto il resto. Gli altri erano per lo più perfetti sconosciuti tirati a forza negli spazi ricavati frazionando le ampie magioni borghesi e aristocratiche pre-rivoluzione. La Komnata dunque è un rifugio disperato, perché la riservatezza è messa a rischio di continuo, gli altri sono lì da presso, ne percepisci persino gli odori. Sì che l’uomo sovietico è costretto ad arrangiarsi con una privacy quasi impossibile. E a fare la coda per la cucina, o il bagno. La coda per i russi diventa una figura-chiave dell’esistenza. Lo testimonia, ricorda Piretto, non solo l’ampio interesse dimostrato negli anni da discipline quali la sociologia o l’economia, ma l’attenzione della stessa letteratura (vedasi il romanzo La coda, appunto, di Vladimir Sorokin). Quest’immagine così persuasiva e angosciante di una vita eterodiretta e controllata dall’alto, così vivida dell’uomo-massa, poteva essere persino causa di soddisfazione. Nel caso di una coda fuori da un negozio significava disponibilità di prodotti, e necessari – non, evidentemente, una corsa isterica all’ultimo modello di cellulare. I tempi di codeste (im)mobili stazioni erano tali che potevano nascerne amori e amicizie, ma sempre rispettando le regole, «la fila». Per poi cominciarne un’altra, magari riservata al «tempo libero» di un cinema – anch’esso costretto a dilatarsi, dunque, in una storia che forse meriterebbe un ulteriore indagine: un paratesto della percezione del film. Come se allo spazio infinito del paesaggio russo, alla steppa che lo governa, non potesse non corrispondere una sorta di epica del tempo. Nella cui dilatazione, scossa da improvvisi movimenti tellurici – basterebbe un indice del secolo breve –, un racconto pure si costruisce. Com’è per l’Albergo Centrale di Mosca (sigillo forse non casualmente posto quale epilogo del libro): nato a inizio del ‘900 come hotel per stranieri facoltosi, viene nazionalizzato nel ’17, destinato nei decenni successivi a residenza per comunisti prestigiosi di passaggio prima, e in odor di eresia poi, in condizioni sempre peggiori, mutando il nome, fino all’ulteriore rifacimento degli anni postcomunisti.  Ancora una storia nella storia, come il resto di un libro splendido.

[Gian Piero Piretto, Indirizzo: Unione Sovietica (25 luoghi di un altro mondo),Sironi, 2015, pp. 280 , euro 22,90]

“Chiamatemi Francesco”
di Daniele Luchetti

Alla vigilia del Conclave che lo eleggerà papa con il nome di Francesco I, l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, arriva a Roma per partecipare alla votazione. Contemplando la basilica di San Pietro, Bergoglio si lascia andare ai ricordi della sua vita argentina, dal giorno della vocazione fino agli ultimi anni nella curia della capitale.

Chi si aspettava una specie di nuovo Habemus Papam lasci perdere subito. Chiamatemi Francesco, il nuovo film di Daniele Luchetti prodotto dalla TaoDue Film del gruppo Mediaset sotto la guida attiva di Pietro Valsecchi, non è un film sulla religione o sulla responsabilità del soglio pontificio, non è un film che cerca di capire il senso di domande o la possibilità delle risposte. Con il film dell’amico Moretti non ha niente in comune. Chiamatemi Francesco è un film biografico puro e semplice, di quelli classici, tendenti alla celebrazione.

Attraverso un lungo flashback che parte da un Bergoglio ancora giovane e laico, Luchetti cerca di raccontare la storia dell’Argentina attraverso la testimonianza attiva di un giovane prete che mostrava già in sé i caratteri del pontefice. Ci sono tutti i momenti fondamentali della vita del futuro Francesco: la fidanzatina, la vocazione con il sogno di andare a fare il missionario in Giappone, gli anni da superiore provinciale nel collegio dei gesuiti di Buenos Aires, il rapporto con la dittatura, l’esilio in campagna e il ritorno in città, il rapporto con le periferie e i poveri e così via. È la parabola completa di un uomo destinato a diventare papa, un agiografia, molto più che una biografia, uno sconcertante santino che lascia perplessi non certo per i contenuti o per il taglio che si è deciso di adottare per raccontare Bergoglio, quanto soprattutto per la banalità della messa in scena, della narrazione, della scrittura, di tutto.

È evidente sin dai primi minuti che ci troviamo di fronte a un prodotto pensato per la televisione, e non per il cinema, e del resto Chiamatemi Francesco è destinato a passare su Canale 5 da qui a un anno e mezzo nella sua versione estesa di quattro ore e mezzo, e in questo formato sta venendo venduto in giro per il mondo. Questa versione che vorrebbe essere cinematografica sconta una superficialità estrema nella sua evoluzione narrativa, con una semplificazione a tratti desolante di quelli che dovrebbero essere i momenti fondamentali per comprendere la persona Bergoglio sotto gli abiti ecclesiastici. In poco più di cinque minuti viene liquidata tutta la vita pregesuitica. Gli amici, la fidanzata, il peronismo giovanile vengono sbrogliati nel giro di una visita a un museo e di una cena, ma non che venga lasciato maggior spazio al Bergoglio prete. Tutto è mostrato con superficialità, dalle amicizie alle rivalità. L’unica attenzione della sceneggiatura è quella di mostrare un  Bergoglio sempre più umano dell’umano, pronto ad aiutare chiunque senza preoccuparsi delle ragioni politiche, pronto a chinare il capo per pura prudenza diplomatica, mai incline alla collera, sempre misurato, sempre comprensivo. Questo anche a costo di tralasciare qualsiasi pretesa, anche minima, di coerenza narrativa.

Per assurdo, i momenti migliori Chiamatemi Francesco li offre quando Francesco è lontano dallo schermo e viene raccontata la storia dei desaparecidos e delle violenze del regime, con crudezza e realismo.

Stupisce come, presentando il film alla stampa, Luchetti abbia sottolineato come la sua principale preoccupazione fosse stata quella, in fase di realizzazione, di scongiurare il rischio santino per cercare invece di offrire al pubblico una biografia sfaccettata, con un modello ideale individuato in The Queen di Stephen Frears. Parole condivise, quelle del santino, anche dal produttore Valsecchi. Invece, con Chiamatemi Francesco siamo di fronte alla celebrazione in vita di un uomo divenuto papa ma di fatto già pronto per una canonizzazione a mezzo cinematografico. Una canonizzazione che, per di più, passa attraverso un film che di cinematografico ha davvero poco.

Non è un discorso religioso, la religione non c’entra nulla, questa recensione non deve dire se sia giusto o meno celebrare Bergoglio, se sia opportuno farlo: qui si parla di cinema. Chiamatemi Francesco non è un film, è semplice propaganda pregiubilare, un incomprensibile passo falso da parte di un autore da cui era lecito aspettarsi ben altro impegno nel parlare di papi, dopo Nanni Moretti e in attesa dello Young Pope di Paolo Sorrentino.

(Chiamatemi Francesco – Il papa della gente, di Daniele Luchetti, 2015, biografico, 94’)

“Carne viva”
di Merritt Tierce

Con Carne viva di Merritt Tierce, edizioni SUR inaugura la sua nuova collana BIG SUR con un romanzo forte e sorprendente, che lascia nei lettori sensazioni miste, conflittuali, quasi difficili da interpretare: sgomento, disgusto, rassegnazione e, sorprendentemente, desiderio di andare avanti nella lettura, di scoprire di più, di non cercare un’assoluzione per la protagonista, ma di spingerla più in basso nella sua miseria, ormai completamente avvinti dalla lettura, ormai completamente conquistati.

Il romanzo ci narra di Marie, rimasta incinta troppo giovane e in un momento certamente poco opportuno. La gravidanza la allontana dagli studi, la spinge a una vita che desidererebbe più focalizzata sulla figlia, ma l’impotenza e l’insofferenza con cui si trova a combattere porteranno la sua vita su ben altre strade. Il lavoro che riesce a procurarsi, quello di cameriera in un ristorante, si rivelerà sufficientemente faticoso e impegnativo per tenerla occupata tutto il giorno, con i suoi straordinari e i suoi turni extra, e le darà la possibilità di ottenere mance corpose da utilizzare per garantire alla figlia ciò di cui può aver bisogno. Ma non è tutto: il ristorante è anche il luogo in cui Marie scopre un nuovo modo di dimenticare la delusione e il dolore della propria esistenza attraverso lo sfinimento fisico e il sesso con i colleghi, fatto di rapporti prevalentemente squallidi con cui si cuce addosso il vestito di una ragazza facile, di cui approfittare senza troppi complimenti e in cui nessuno vede una donna che soffre e che cerca la salvezza dalle proprie pene attraverso l’annullamento di se stessa, incapace di amare sua figlia e di vivere una vita diversa da quella che sta conducendo.

Marie riesce a trovare doti in chiunque la circondi, doti che riescono a farla sentire appagata durante il suo cammino lungo la strada dell’annichilimento, il vero obiettivo del suo concedersi a qualsiasi amante, dolce o violento, appassionato o annoiato. Non è il piacere che cerca, non è l’amore; quello per sua figlia, che non sa gestire, che non sa apprezzare, che sente di non essere in grado di valorizzare a sufficienza o nel modo giusto, infatti, le basta e avanza: «Puoi comunque scoparti un sacco di gente. […] Fallo per te stessa, fallo per il piacere. O quantomeno fallo con le dovute precauzioni. Ma non era questione di piacere: era che alcuni tipi di dolore sono il perfetto antidoto per altri».

Il carattere avvincente di una lettura come Carne viva sta nel suo crudo realismo. Citando la stessa Merritt Tierce intervistata da Dwyer Murphy (traduzione di Martina Testa), «Come lettori, vogliamo sapere quanto può rovinarsi la vita un personaggio, in quanti casini può andarsi a cacciare, ma anche cosa verrà fuori da tutta questa autodistruzione. È lo stesso istinto che ci porta a rallentare per guardare i resti dell’incidente stradale sulla carreggiata opposta dell’autostrada. È una rottura di palle quando siamo in mezzo alla coda, ma una volta che arriviamo all’inizio non riusciamo a trattenerci». Ed è esattamente così. Leggendo, il grottesco delle avventure di Marie genera in noi una sorta di assuefazione e più leggiamo, più siamo scossi, più vogliamo continuare a leggere.

Il colpo da maestro di Merritt Tierce sta nel non concedere a Marie quella salvezza in cui, forse, un lettore spera: in questo romanzo, Tierce è solamente una narratrice e non fa che dipingere la realtà per quella che è, lasciando ai lettori tutto lo spazio di cui hanno bisogno per identificarsi in qualche aspetto di Marie o in qualcuna delle sue azioni e facendo di tutto perché, leggendo, questi si soffermino a riflettere sul fatto che la realtà, a volte, è davvero così: in essa troviamo il desiderio di annullarci, di coprire il dolore con tutt’altro, con giornate occupate, con lo sminuimento di sé, con altro dolore. Tierce crea aspettativa, ma si limita a narrare, non osa assolvere. Ci lascia nell’attesa di una redenzione che, in realtà, non arriverà mai. Il suo fine non è la creazione di una favoletta rosa, né la ricerca di qualche sordida sfumatura di grigio: il sesso è descritto in quanto tale, il desiderio anche. Eventuali perversioni, descrizioni minuziose o volgarità non sono mirate ad altro che a dipingere una scena realistica, non sono lì per prepararci a un happy ending che l’autrice non ha l’autorità di regalare al proprio personaggio.

(Merritt Tierce, Carne viva, trad. di Martina Testa, SUR, 2015, pp. 220, euro 16,50)

“A Bigger Splash”
di Luca Guadagnino

Quando è stato presentato all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia  si è capito abbastanza in fretta che A Bigger Splash, il nuovo film di Luca Guadagnino, avrebbe conosciuto un destino vicino a quello del film precedente del regista, Io sono l’amore del 2010. Almeno, c’è da augurarselo per Guadagnino. Dopo una serie di passaggi per festival internazionali, Io sono l’amore è arrivato in pratica senza essere notato nelle sale italiane finendo in fretta in quel dimenticatoio riservato alle opere con eccessive pretese formali, tendenti a un manierismo esagerato e freddo, almeno stando al giudizio critico medio della stampa italiana.

Quando poi è uscito nelle sale statunitensi come I Am Love, tutto si è ribaltato. È diventato un caso, con incassi nettamente superiori negli Stati Uniti che in Italia (cinque milioni di dollari contro poco più di duecentocinquantamila), nomination agli Oscar, ai Golden Globe e ai Bafta e giudizi unanimi nel lodare la capacità di Luca Guadagnino di raccontare l’upper class milanese e i travagli dell’esterna Emma interpretata da Tilda Swinton. Due modi completamente diversi di guardare lo stesso film, in sostanza.

Con A Bigger Splash le cose stanno andando quasi allo stesso modo sul piano del giudizio critico, in attesa della risposta del pubblico. Se date un’occhiata agli aggregatori internazionali di recensioni come Rotten Tomatoes o Metacritic troverete valutazioni medie piuttosto alte. Se vi fate un giro sui siti italiani di cinema, o sui giornali, non solo troverete soprattutto recensioni negative, ma anche una certa tendenza all’astio nei confronti di Guadagnino e del suo film. Questo per una scelta di cambio di registro che può lasciare interdetti, senza dubbio, ma che dal di fuori non è stata neanche notata.

Marianne è una rockstar di fama internazionale in fase di recupero da un intervento alle corde vocali. Si è ritirata a Pantelleria con il suo compagno Paul, un documentarista, e non fanno nient’altro che stare nudi, prendere il sole, andare al mare. Un giorno su di loro piomba – letteralmente – un’ombra dal passato: Harry, storico produttore discografico ed ex di Marianne, arriva sull’isola in compagnia della appena scoperta figlia appena maggiorenne Penelope, di cui ignorava l’esistenza fino a pochi giorni prima. Tutti insieme, nella villa con piscina, saranno protagonisti di un gioco psicologico molto teso che si porta dentro tutto quello di irrisolto che il passato ha lasciato sulle loro spalle.

Il punto di partenza per A Bigger Splash è La piscina, film del 1969 di Jacques Deray con i bellissimi Alain Delon, Romy Schneider e Jane Birkin. La dinamica era la stessa, fino a un certo punto, solo che Delon era uno scrittore in crisi dopo un libro andato male. Guadagnino sposta tutto nel mondo della musica per essere più libero da condizionamenti intellettuali e si affida, ancora, alla musa Tilda Swinton (è il quarto film insieme) per la splendida Marianne, rocker senza voce che si veste come David Bowie e ricorda PJ Harvey. Accanto a lei, è soprattutto lo straordinario Harry di Ralph Fiennes a incarnare tutta l’essenza del film. Dietro l’apparente istrionismo e la carica sempre al massimo – straordinaria, per dire un solo momento, la scena di ballo su “Emotional Rescue” dei Rolling Stones – c’è un dolore che si chiarisce attraverso una serie di flashback e che spiega un po’ alla volta perché sia arrivato lì sull’isola.

Era stato Harry a presentare Marianne a Paul. Era stato Harry ad affidargliela quando era chiaro che le cose tra di loro non potevano più funzionare. Eppure Marianne è sempre rimasto l’amore della vita di Harry, quella da cui sapeva che un giorno o l’altro sarebbe tornato. Quella, però, che non sembra volerlo più.

Tutto A Bigger Splash è una simbolica rappresentazione del superamento della figura paterna, di Harry, nello specifico. Marianne si stacca da quell’amore distruttivo per una normalità più equilibrata in cui è possibile anche il silenzio. Paul (il solito fisico Mathias Schoenaerts) supera l’uomo che le ha presentato la donna della vita, vince le sue stesse dipendenze fino a non essere più sotto di lui ma al suo stesso livello. Penelope (interpretata da Dakota Johnson) fa i conti con una figura che non ha mai conosciuto e che continua a non poter riconoscere.

Sullo sfondo di Pantelleria, questa battaglia di identità si delinea trascinata dalla frenesia di Harry continuando ad alimentare una tensione che arriva a esplodere e a spezzare il film nel pre-finale. È qui il peccato mortale che viene attribuito a Guadagnino. C’è un passaggio brusco che richiede l’ingresso in scena dei carabinieri, di un ufficiale in particolare, interpretato da Corrado Guzzanti, che ha alcuni elementi della macchietta, con l’accento siciliano marcato, la passione neanche troppo nascosta per la rockstar, un certo provincialismo bigotto. È un personaggio straniante, senza dubbio, che introduce un elemento ulteriore di comicità virata al surreale che stride nettamente con tutto il resto, ma che vuole anche sottolineare l’alterità dei quattro protagonisti rispetto al mondo che li circonda, alle sue dinamiche, alla sua morale, anche alle sue leggi

La domanda generale è perché, che c’entra con tutto il resto, era necessario? Il modo migliore per darsi una risposta è guardare il film. Quello che si può dire è che probabilmente, se si fosse trattato di un film non italiano e non ambientato in Italia, ci sarebbe stata molta meno indignazione.

 

(A Bigger Splash, di Luca Guadagnino, 2015, commedia/thriller, 120’)

“Shenzhen significa inferno”
di Stefano Massini

Shenzhen è una città sub-provinciale sita nella regione continentale meridionale della Repubblica Popolare Cinese e appartenente alla provincia di Guangdong. Zona Economica Speciale, è stata definita come il centro nevralgico di una «silk road high-tech» lungo la quale transita almeno il 90% della produzione mondiale di prodotti elettronici. Pochi anni fa Shenzhen è balzata al (dis)onore della cronaca a causa dell’inchiesta che il New York Times ha condotto presso lo stabilimento Foxconn alla ricerca delle cause dietro l’alto tasso di suicidi e incidenti sul lavoro e, seppure nulla rimandi esplicitamente a quell’episodio, sembra esserci questo scenario nel background di Shenzen significa inferno.

Chiusi in una stanza i quattro operai-vittime, due uomini e due donne, vengono e sottoposti a una serie di test al fine di dimostrare, senza possibilità di errore, la loro dedizione all’azienda e le loro eccellenti capacità per sperare di ottenere un aumento di salario. Un solo nemico si erge tra loro e la soddisfazione di vedere riconosciuto dall’azienda il proprio valore, e non è l’operario che siede alle loro spalle. Si tratta del loro nemico interiore fatto di paura e bisogni. Il loro Io umano, quello che lo spietato maieuta chiamato a esaminarli ha il compito di portare alla luce ed eliminare. Per il loro bene, s’intende, prima che per il bene economico dell’azienda.

Nella forma Shenzen significa inferno è un monologo, ma non ha niente di tutto ciò che caratterizza solitamente il monologo. Seppure incorporei, gli operai sono presenti in scena tanto quanto il loro esaminatore, immersi in un’atmosfera asettica, completamente spersonalizzante e densa di interrogativi martellanti ed espedienti mirati ad azzerare l’autostima degli intervistati per farne emergere i punti di rottura.

Massini, già autore di Lehman trilogy, l’ultima regia di Ronconi, e consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, costruisce un testo solidamente ancorato alla realtà presente e ai suoi drammi, musicale ed essenziale nelle sue ridondanze, pieno di voci perfettamente udibili nonostante non se ne oda il suono. Ad amplificare l’effetto disturbante del testo, collabora Luisa Cattaneo, già attrice in altri lavori del drammaturgo. È lei l’inquisitore sofista, la versione deviata di un responsabile delle risorse umane, che dispone tranelli lungo tutto il percorso che, per sessanta minuti, i quattro operai sono costretti a percorrere.

 

Shenzhen significa inferno
Scritto e diretto da Stefano Massini
con Luisa Cattaneo

Produzione Il Teatro delle Donne
con il patrocinio di Amnesty International

Roma – Brancaccino dal 26 al 29 novembre 2015

“Un gioco e un passatempo”
di James Salter

Un gioco e un passatempo di James Salter (Guanda, 2015) è la storia della passione erotica tra Philip Dean e Anne-Marie. Lui, mente brillante ma ribelle, ha ventiquattro anni ed è scappato da Yale; lei è bellissima e di anni ne ha diciotto, fa la commessa e conduce una vita perlopiù modesta. L’amore erotico che lega i due ragazzi è raccontato in prima persona da un narratore voyeur anonimo, che soggiorna per un periodo indeterminato ad Autun, in Borgogna, e qui assiste e rielabora gli incontri intensi e carnali dei due protagonisti.

«Ricordati che la vita di questo mondo non è che un gioco e un passatempo», recita un versetto del Corano, e non ci sarebbe modo migliore per descrivere la passione bruciante che si consuma in una Francia di provincia, confinata nei cieli pallidi e immobili, nelle mattine fredde, nelle antiche glorie che testimoniano che «i giorni del loro splendore sono finiti da un pezzo».

La passione di Dean e Anne-Marie è prima di tutto un gioco, che fissa le sue regole in solitarie stanze di hotel, nelle pause di mezzo tra pranzi e cene silenziose, che si ripete insaziabile di cittadina in cittadina, l’attrazione bruciante di due giovani corpi che si scoprono vivi nella sessualità. Ma è anche e soprattutto un passatempo, che insieme frena e fluttua nella corrente inarrestabile del destino. «Il passato multiforme penetra in noi e scompare», scrive il narratore. «Salvo che al suo interno, da qualche parte, simili a diamanti, esistono frammenti che si oppongono alla distruzione. Lavorando di setaccio, se si osa, e raccogliendoli, si scopre il vero disegno».

Verrebbe da dire che nel testo si scontrano due tempi: quello della storia con la s maiuscola, che corre via con il passare delle stagioni, e quello degli attimi, dei «frammenti che si oppongono alla distruzione». Pur non potendo impedire alla storia di arrestarsi, tali frammenti si elevano affinché siano proprio essi stessi a scandirla. L’appariscente Delage di Dean, macchina presa in prestito da un amico che fa voltare le persone al suo passaggio, è parte determinante di questo processo: accompagnando i due amanti lungo le strade della Francia più autentica e desolata, tradisce la consapevolezza di una corsa che non può arrestarsi.

Lo stile del testo è a pennellate, prende la forma di annotazioni, come rivelato all’inizio del romanzo dalla voce narrante: «Questi sono appunti e fotografie di Autun. Sarebbe meglio dire che sono iniziati come appunti ma sono diventati qualcos’altro, una descrizione di quelli che ritengo essere eventi. Erano destinati a me solo, ma ormai non li nascondo più». Di conseguenza le frasi sono brevi, spesso nominali, modellate sul dettaglio e sulla scelta di descrivere spazi arbitrari di vita lasciando fuori tutto quello che sta nel mezzo – d’altronde «senza i sogni, i fatti non sono che detriti scollegati, perle sciolte ancora da infilare».

«Questa azzurra, indolente città», si legge all’inizio del secondo capitolo, «I suoi gatti. Il suo cielo pallido. Il cielo vuoto del mattino, slavato e puro. Le sue strade cupe, spaccate. Le sue corti anguste. Il lieve odore di marcio all’interno, bucce di arancia buttate negli angoli». L’andamento del testo si adagia su un ritmo che richiama curiosamente il ticchettio di un orologio.

Infine, Un gioco e un passatempo appare anche, per molti versi, una lunga riflessione sulla scrittura. Il rapporto tra Dean e Anne-Marie, filtrato dal punto di vista del narratore, è, per stessa ammissione del primo, una profonda invenzione. «Niente di tutto questo è reale. […] È una storia di cose che non sono mai esistite, sebbene il più debole dei dubbi su questo, la più remota delle possibilità, tuffi tutto nel buio più fitto».

Ed è la forza dell’immaginazione a disegnare i confini degli incontri tra i due amanti, la soggettività e le impressioni di chi scrive a restituire loro una forza e una dimensione reali. Non solo. Il rapporto realtà-invenzione agisce anche a un livello maggiore. Ha a che fare con il nostro modo di vedere il mondo, il nostro modo di creare e ritoccare gli eventi che ci accadono secondo il racconto personale che ne scaturisce o che in un preciso istante ci condiziona. Non esiste mai, in definitiva, uno scarto tra ciò che definiamo reale e ciò che pertiene alla nostra immaginazione.

La storia di Dean, nell’attimo stesso in cui ne veniamo a conoscenza, non può che essere la storia della sua vita, così come ci è dato appurarla. Sia Dean reale, immaginario, la proiezione di un sé così come lo si vorrebbe.

Pur essendo un testo molto diverso, a tratti il rapporto tra i due uomini assomiglia a quello tra Nathan Zuckerman e Seymour lo Svedese in Pastorale Americana di Philip Roth. Scrive Salter: «Bisogna avere degli eroi. Vale a dire che bisogna crearli. E loro diventano reali grazie alla nostra invidia, alla nostra devozione. Siamo noi che li investiamo della loro maestà, del loro potere, che noi stessi non potremmo mai possedere. E in cambio, loro ce ne restituiscono un po’. Ma sono mortali questi eroi, proprio come noi».

Nelle ultime pagine di Un gioco e un passatempo risuonano così le prime di Roth. Non a caso Anne-Marie, senza Dean, diventa «una ragazza qualsiasi, carina, non troppo intelligente forse» e la maestosa Delage perde gradualmente il suo fascino, finché l’orologio elettrico sul cruscotto si ferma per sempre. Se la macchina si arresta è perché la strada è finita. «Silenzio», intima il narratore, «Un silenzio che cala anche sulla mia vita».

Dove finisce l’immaginazione, sembra dirci Salter, termina anche la realtà. È per questo, dopotutto, che continuiamo a leggere e scrivere, mai sazi di ascoltare, di inventare, dopotutto sempre pronti a scommettere sulla forza ipnotica, misteriosa, a ogni modo irripetibile e irreplicabile, del racconto.

 

 

(James Salter, Un gioco e un passatempo, trad. di D. Vezzoli, Guanda, 2015, pp. 253, euro 16)

 

“Anime baltiche”
di Jan Brokken

Mentre in Europa occidentale si svolgevano le vicende che avrebbero influito su gran parte dell’odierno assetto politico, a cavallo tra le due guerre, lungo la costa orientale del Mar Baltico, all’ombra delle due grandi potenze Russia e Germania, le tre repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania soffrivano e lottavano per giungere finalmente a conquistare la propria indipendenza. Cosa che avvenne, in maniera definitiva, solo nel 1991.

Alla fine della Grande Guerra, con la sconfitta della Germania e il ritiro dal conflitto della Russia, i popoli baltici ottennero una prima indipendenza. Siamo nel 1918, anno in cui vennero proclamate le repubbliche: l’inizio di un sogno di libertà e autonomia, di rinascita di identità nazionale che purtroppo, nonostante la politica di equidistanza adottata nei confronti di Germania e Unione Sovietica, si infranse miseramente durante il secondo conflitto mondiale.

Nel 1939, infatti, il patto fra Stalin e Hitler, detto anche patto Molotov- Ribbentrop, permise all’Unione Sovietica di invadere le repubbliche baltiche e annetterle al proprio territorio. Queste ultime opposero ben poca resistenza, soprattutto per la condizione d’isolamento internazionale in cui si trovavano – tutto ciò accadeva sotto gli occhi spenti dell’Occidente, che era impegnato su altri fronti – sebbene, con la dichiarazione di Welles del 1940 il fronte occidentale dichiarava di non riconoscere l’occupazione russa di quei territori, anche se tale dissenso non andava oltre il piano diplomatico.

Dunque una popolazione abbandonata al proprio destino, quella baltica, schiacciata e oppressa dai due mostri Scilla e Cariddi, l’Urss e la Germania nazista.

Nel Giugno del 1941 Hitler violò il patto con Stalin e attaccò l’Unione Sovietica: ebbe così inizio l’occupazione tedesca delle regioni baltiche. Spezzato temporaneamente il giogo russo, i nazionalisti baltici rialzarono un poco il capo e videro riaccendersi la speranza di ottenere l’indipendenza mediante la collaborazione coi tedeschi. Speranza tristemente delusa dalla repressione nazista, violenta al pari di quella russa.

La successiva sconfitta dei tedeschi segnò il ritorno delle repubbliche sotto l’egemonia sovietica: per la seconda volta i russi occuparono il territorio baltico imponendo rigidamente le istituzioni sociali, politiche, economiche e culturali proprie del regime sovietico e deportando in Siberia migliaia di estoni, lettoni e lituani dissidenti.

Sotto l’influsso di questi tristi eventi, sotto le vessazioni e le prepotenze subite a opera dei due regimi totalitari, la popolazione baltica sviluppò il suo carattere in chiave umana ed esistenziale prima che storica.

Tra il 1999 e il 2010 l’itinerante scrittore olandese Jan Brokken visita diversi luoghi dell’Estonia, della Lituania e della Lettonia, allo scopo di riunire in un libro una raccolta di biografie di personaggi per lo più celebri ma anche comuni, che prende il titolo di Anime baltiche (Iperborea, 2014).

Mediante un sapiente gioco narrativo che fonde eventi presenti, flashback e ricostruzioni storiche, lo scrittore compone un grande puzzle da cui affiora l’essenza dell’“anima baltica”: una commistione di abiura del passato, emarginazione, sradicamento e inadeguatezza che caratterizza per lo più ciò che è stata la reazione di chi subì gli eventi storici sopra esposti.

Una raccolta di biografie accomunate dallo scorrere tutte sul filo del rasoio della storia: vite amputate, esiliate, alcune più combattive e desiderose di rivalsa, ma la maggior parte chiuse in un rigido rifiuto del vissuto precedente. Uno spirito, quello baltico, impedito nella ricerca della propria identità, braccato e rassegnato, avvilito ma desideroso, in un primo momento, di evadere fisicamente, di fuggire per poi rifiutare e, infine, addirittura mistificare il proprio passato.

Nonostante ciò, nelle svariate vicende biografiche riportate emergono profili di personaggi geniali, tra i quali spiccano soprattutto Mark Rothko, Hanna Arendt, Roman Gary, Gidon Kremer, i quali, chi più felicemente e chi meno, sono riusciti a sanare le ferite dell’ingiustizia storica mediante la realizzazione personale nel campo dell’arte, della letteratura e della musica.

Ma non solo, la raccolta include anche le vicende di persone comuni, di famiglie, che malgrado l’umiliazione o l’esilio o il fallimento hanno dato prova di grande forza interiore.

Infine, da questo groviglio di vicende dissimili e articolate in tempi, luoghi e condizioni più o meno diverse emerge come sunto la convinzione postmoderna che il pittore estone Arvo Pärt fece sua: «Del passato dobbiamo conservare tutto ciò che ci sembra buono e respingere quello che riteniamo non esserlo».

 

(Jan Brokken, Anime baltiche, trad. di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Iperborea, 2014, pp. 501, euro 19,50)