“Correzione di bozze in Alta Provenza”
di Julio Cortázar

Capita spesso di chiedersi come continua una storia quando si volta l’ultima pagina del libro, cosa ne è di quelle vite quando non possiamo più leggerle. Il distacco si fa ancora più faticoso nel caso dell’autore che di quelle creature è il padre putativo e delle cui vicende è il primo lettore.

L’ultimo giro di bozza equivale dunque al taglio del cordone ombelicale che per mesi se non per anni ha tenuto legati, in un rapporto quasi simbiotico, gli scrittori con i propri personaggi.

Correzione di bozze in Alta Provenza di Julio Cortázar (SUR, 2015), lungi dall’essere un mero gioco metaletterario, è il racconto dettagliato, ricco di umori e gesti quotidiani, delle «esitazioni di romanziere nel momento decisivo in cui ci si deve distaccare per sempre da un originale» (Juan Villoro nella Prefazione).

L’opera in questione è il Libro de Manuel, forse il romanzo più politico di Cortázar, mai tradotto in italiano e questo pamphlet vuole essere «il diario di una routine da scrittore, ma vorrebbe anche essere altro, un raffronto di ciò che succede mentre si lavora».

Lo scrittore argentino, naturalizzato francese ma nato in Belgio, ci introduce nel suo laboratorio narrativo, non il classico studiolo disadorno e colmo di libri con scrivania, bensì un rifugio mobile, da cui osservare l’esterno, che ha le fattezze di un furgoncino rosso Volkswagen, il «drago» da lui soprannominato Fafner, il wagneriano guardiano del tesoro dei Nibelunghi, «che mi ha ispirato una simpatia segreta sebbene fosse solo per il fatto che era condotto a morire per mano di Sigfrido».

Se il mondo è diviso da Cortázar fra «coloro che leggono perché vivono» e «coloro che vivono perché leggono» ed essendo assai preferibile rientrare nel primo gruppo, assistiamo a uno sdoppiamento ontologico e temporale del personaggio Cortázar: da una parte c’è l’autore del Libro de Manuel che appartiene a un io del recente passato; dall’altra c’è lo scrittore che hic et nunc si appresta a dare gli ultimi ritocchi alla sua opera e che contemporaneamente vive immerso nell’attualità che rimbomba nella sua solitudine volontaria veicolata dalle voci alla radio o di amici e dai giornali.

Questo «Robinson deliberato, autonaufrago per i boschi e sulle rive di un fiume», il Rodano, sempre immerso in un assoluto straniamento, si sente infatti «poroso» rispetto alla realtà che lo circonda. In una sorta di osmosi, fatti reali e inventati si confondono e si compenetrano.

Siamo nel settembre del 1972 e dai giochi Olimpici di Monaco rimbalzano notizie di attentati terroristici e il Libro de Manuel parla proprio del clima di violenza repressiva in Argentina sotto il governo dei militari guidato da Videla, che aveva fatto della tortura arma sistematica di potere a partire dal 1970. Cortázar ne scrive pur essendo emigrato a Parigi e fa ruotare la storia intorno a eventi che lui non ha vissuto direttamente ma di cui ha sentito parlare da conoscenti e carta stampata: «qui dentro Fafner c’era gente che reclamava la liberazione dei prigionieri politici latinoamericani in cambio del Vip [n.d.r. personaggio a capo dei meccanismi repressivi dei commando militari rioplatesi], mentre la radio francese passava ogni cinque minuti da Frank Sinatra a Monaco, da Juliette Greco ai fedayìn, da Cannoball Adderley agli ostaggi israeliani».

Correzione di bozze è anche un viaggio nella psiche di un autore nel momento in cui si deve arrendere alla irrevocabilità del testo stampato: «mai come in quel momento, mentre lavoravo alle bozze, mi ha colto una penosa sensazione di distanza perché Marcos e Susana erano lontani da me».

Il lettore avverte una tessitura di meditazioni e stati mentali.

Per chi volesse ripercorrere dall’interno, in compagnia dell’autore, le diverse vicende biografiche e letterarie di Cortázar, Correzione di bozze in Alta Provenza, nell’ottima traduzione di Giulia Zavagna, è una necessità e un piacere.

(Julio Cortázar, Correzione di bozze in Alta Provenza, trad. di Giulia Zavagna, edizioni SUR, 2015, pp. 57, euro 7)

 

“Gli ultimi saranno ultimi”
di Massimiliano Bruno

Luciana va per i quaranta, ha un lavoro in una fabbrica che produce parrucche, un marito disoccupato per scelta e il sogno di avere un figlio. Quel sogno un giorno arriva a travolgere la realtà di ogni giorno. Con la gravidanza non le viene rinnovato il contratto a tempo determinato, i soldi un po’ alla volta finiscono e arrivano le paure, le preoccupazioni e il terrore del futuro. Sulla sua strada, a un certo punto, Luciana incontra Antonio Zanzotto, un poliziotto trasferito con disonore dal Veneto che cerca di espiare una colpa che lo tormenta.

Massimiliano Bruno è partito dal suo testo teatrale Gli ultimi saranno gli ultimi per la sua quarta regia cinematografica, probabilmente la più sentita e la più ambiziosa fino a questo momento. Per andare sul sicuro ha richiamato Paola Cortellesi al suo fianco. A teatro, sul palco, faceva tutto lei in un monologo unico che raccontava tutta la storia. Nel film, è Luciana sullo schermo e co-sceneggiatrice dietro, con lo stesso Bruno, Gianni Corsi e Furio Andreotti che era anche regista dello spettacolo teatrale. Luciana/Cortellesi, questa volta, non è sola a reggere il peso degli ultimi. La trama si allarga sul grande schermo, entrano il marito, gli amici, il poliziotto buono. Ci sono due livelli di tragedie personali che scorrono paralleli, lo sguardo di Bruno si allarga a coinvolgere una realtà più ampia del personale e prova a diventare di più: il documento di un istante storico e sociale di difficoltà condivisa, di lotte di ultimi per la sopravvivenza, di certezze impossibili da consolidare.

Il cinema di Bruno ha dimostrato un’attenzione speciale per le tematiche di carattere sociale sin dal suo primo apparire con il fortunato Nessuno mi può giudicare. Sottotraccia, il racconto della realtà di oggi è rimasto anche nei film successivi, più esplicito e politicizzato in Viva l’Italia, più marginale in Confusi e felici. Con questo quarto film il sociale torna in primissimo piano e conosce, per la prima volta, anche una vena drammatica che prova a guardare a quel cinema del lavoro che ha un modello importante in Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne e nel recente La legge del mercato di Stéphane Brizé (premiato a Cannes per l’interpretazione di Vincent Lindon).

È chiara una cosa sin da subito: Gli ultimi saranno ultimi è e vuole essere, comunque, una commedia, per quanto amaro possa essere il messaggio generale, e per di più una commedia che non si vergogna di puntare al grande pubblico. Quindi per risultare gradevole per lo spettatore non racconta la brutta periferia romana, come il testo teatrale, ma la più rassicurante realtà di Anguillara, con il suo borgo storico, il lago, la campagna e così via. Allo stesso modo, nonostante tutto, i protagonisti sono belli come possono essere belli Paola Cortellesi e Alessandro Gassman. Allo stesso modo, intorno a loro si muovono una serie di personaggi stereotipati quel tanto che basta per essere facilmente riconoscibili e guidare la visione senza intoppi, dal professore all’amico grasso e rassicurante (ovviamente è Stefano Fresi, che è sempre bravo), dalla bellona che mina gli equilibri familiari agli amici rozzi e buoni. Se non basta, poi, c’è il poliziotto allontanato con disonore e dilaniato dal rimorso di coscienza di una scelta forse sbagliata, solo in esilio senza neanche il conforto di un Natale in famiglia e con un’amicizia difficile di cui solo lui non capisce subito la parte nascosta. I cattivi non ci sono, o almeno non sono poi così cattivi, sono tutti giustificati e giustificabili in qualche modo, perché è la società che è ingiusta, perché anche i padroni sono costretti a delle rinunce, perché anche i poveri  che rubano ai poveri lo fanno solo perché sono disperati.

Non mancano le ingenuità per fare di Gli ultimi saranno gli ultimi una commedia il più rasserenante possibile, i passaggi di sceneggiatura a dir poco telecomandati, dei momenti di inutile retorica, una certa confusione di registri tra la commedia e il drammatico e debolezze varie, ma al di sopra di questo non si può non riconoscere il merito di riuscire a raccontare il quotidiano con le sue difficoltà, la dignità di una «vita di merda» comunque da difendere, perché è quella che c’è, la felicità delle cose semplici e banali, come il concerto di una cover band di Raf o un pranzo tra amici da Cacio e pesce, e tutto quanto quello che c’è di bello nella normalità di chiunque. Ci sono degli attori bravissimi che danno una mano a reggere tutto, perché accanto a Paola Cortellesi (che è brava tanto, anche lontana dalla commedia pura) sono perfetti anche Alessandro Gassman e Fabrizio Bentivoglio, e tutti i comprimari di ogni livello.

Se fate un giro su internet, se date un’occhiata ai giornali, troverete soprattutto due tipi di recensioni di Gli ultimi saranno ultimi: quelle che gridano al capolavoro e quelle che lo piombano nell’inferno delle cagate pazzesche. Non è un film che si può liquidare così in fretta. Vale davvero la pena vederlo per farsi un’idea.

(Gli ultimi saranno ultimi, di Massimiliano Bruno, 2015, commedia, 103’)

 

“In Dream” degli Editors

Quando nel 2005 usciva Back Room gli Editors si presentavano al mondo come un gruppo dalle sonorità post-punk, figlio naturale o almeno parente stretto di quelle atmosfere  ansiose e di quelle ritmiche cupe di matrice Joy Division. Un ottimo album d’esordio, poi seguito nel 2007 dal positivo An End Has A Start, in cui il cambio di registro in un suono più barocco, insolito, un new wave rock, aveva fatto presagire il polimorfismo musicale e l’attitudine al cambiamento del gruppo inglese. Cori estatici e risonanti aprivano l’album e la voce di Tom Smith, baritonale e sofferta, sempre più confermava richiami a Ian Curtis, ma anche a Ian McCulloch degli Echo And The Bunnymen, non a caso a loro volta ispirazione di un altro gruppo, gli U2, che ha avuto un notevole peso nello stile degli Editors.

Nel 2009 è stato il momento di In This Light And On This Evening, che ha sancito il passaggio, non senza qualche critica, a sonorità elettroniche; tastiere vintage e suoni elettronici quindi spostavano ora l’asticella di riferimento dai Joy Division ai New Order e quindi ai Depeche Mode anni ’80. Una fusione tanto spiazzante quanto riuscita di rock/pop ed elettronica, che ci ha consegnato un coraggioso e chiaroscuro esempio di synth pop epico.

Nel 2013 esce The Weight Of Your Love, quarta fatica del gruppo ormai orfano dal 2011 per diversità di opinioni sulla “futura direzione musicale” della band dello storico chitarrista e tastierista Chris Urbanowicz. Consci del non (immeritato) successo del loro terzo album, questa volta Tom Smith e soci, tra le cui file si sono aggiunti il chitarrista Justin Lockey, più funzionale alla nuova direzione di Urbanowicz, e il tastierista Elliott Williams, si trasferiscono negli States e alla corte di Jacquire King (già al lavoro con Kings Of Leon, Tom Waits, Norah Jones, James Bay, Modest Mouse e tanti altri). Quel che ne scaturisce è un album che vede il ritorno importante delle chitarre per dar vita ad un rock da arena, somma delle precedenti tre pelli cambiate dalla band. Al suo interno troviamo tutte le loro influenze, Depeche Mode, Echo and the Bunnymen, U2, Joy Division e New Order, ma con un sapore di Coldplay e Muse fino persino a Springsteen, il tutto incentrato sul tema cardine dell’amore.

«E adesso cosa proponiamo?», si sarà chiesto Tom Smith; andare avanti e sperimentare nuovamente qualcosa di inesplorato, o tornare indietro? La risposta è il ritorno, deciso, verso la new wave, anzi, la nuova new wave. In Dream è quindi un mix di chitarre e synth, un incontro tra i primi due album e  il terzo ed elettronico In This Light And On This Evening, ma con l’asta spostata più in favore dell’elettronica. Non rinnegano nulla gli Editors, anzi, recuperano pure una scrittura più noir che più si addice loro, quella dei loro “maestri”; «To  us, it’s interesting if it has a darkness. Whatever that is. On the lyric side of things, if I was singing about dancefloors or happier or rosier things, it wouldn’t ring true for me. I don’t think you need to be sad to write a sad song, everybody has a dark side», dice Tom Smith.

Recuperate liriche più cupe, vengono quindi riesumati anche synth e atmosfere anni ’80, ma sempre strizzando l’occhio a  basso e chitarra elettrica, con la partecipazione di una sezione d’ archi. Non cercano più di “imitare” qualcuno, piuttosto dopo aver esplorato diverse sonorità ora hanno trovato un proprio stile e lo confermano: uno stile che si fonda sull’avvolgente e calda voce del carismatico leader, ora baritonale, ora in falsetto, sempre intensa, sempre in grado di adattarsi sontuosamente  a ciò che la band, ormai chiaramente al suo servizio, gli propone. L’album è stato registrato a Crear, Scozia e mixato a Londra da Alan Moulder, già collaboratore di gruppi quali Arctic Monkeys, Placebo, Smashing Pumpkins, The Killers, Foo Fighters ed Interpol, tra i tanti. E per la prima volta fanno partecipare altri artisti alla registrazione, con Rachel Goswell degli Slowdive presente come voce nei cori di tre delle dieci tracce di “In Dream” (Ocean of Night, The Law e At All Cost).

 È “No Harm” ad aprire In Dream con un elettro pop minimale in cui Tom Smith alterna voce baritonale a falsetto, su un crescendo costante di tastiere e archi e di ritmi tribali fino all’ingresso della chitarra elettrica: un brano cupo dall’iniziale difficile digeribilità.

Con le prime note di “Ocean Of Night” assistiamo ad un cambio di registro, un’illuminazione delle ombre create dal primo brano, una ballata decisamente più ritmata di una melodia pop. Una continua progressione di tastiere, percussioni tribali e chitarra elettrica; un gioco di alternanze ritmiche, tra pianoforte e chitarra, e vocali, tra Smith e la voce calda e morbida di Rachel Goswell. Sicuramente uno dei pezzi qualitativamente migliori di In Dream. “Forgiveness” continua ad illuminare gli animi e le orecchie, con il suo andamento sostenuto in un mix di pop/rock ed elettronica. Un intro di violini apre e chiude “Salvation”, quarto e forse meno riuscito momento dell’album. Sorti subito risollevate da “Life Is A Fear”, destinata probabilmente a diventare presto un classico del quintetto inglese; una breve intro di batteria viene subito vestita da incalzanti tastiere synth, creando così un’atmosfera anni ’80 in stile, ormai, Editors. Il sesto brano, “The Law”, continua la vena elettronica dell’album con le sue tastiere fredde, il suo ritmo serrato ed intenso, le percussioni minimali, e lascia alla soffice e rassicurante voce di Rachel Goswell il coro principale. Il ritmo martellante di “Our Love” fa da contorno alla voce di Smith ora in falsetto, ora no, ora malinconica. Si arriva quindi all’ottavo e al nono brano: “All The Kings”, una sorta di post punk sintetizzato ed incalzante, sempre magistralmente interpretato dalla bellissima e versatile voce di Smith, precede la lenta ed eterea “At All Cost”, anch’essa con la partecipazione della Goswell.

In Dream si chiude con uno dei brani meglio interpretati da Tom Smith in tutta la sua carriera, i 7.46 minuti di “Marching Orders”. Un inizio quieto, un continuo e costante crescendo di synth e delle tastiere in lontananza che si avvicinano accompagnate da un organo. L’epicità cresce e si libera al minuto 2.20, con l’ingresso di batteria e pianoforte, che fanno da apripista per l’arrivo al minuto 3.10 della chitarra elettrica. Il resto lo fa, come consuetudine, la voce perfetta e carica di pathos di Tom Smith.

Concluso il primo ascolto di In Dream i fan di vecchia data potrebbero rimanere spiazzati, confusi: fatta eccezione per il secondo brano, la prima parte potrà lasciare inizialmente perplessi, pervasi da una sensazione di ibridismo mal riuscito tra le differenti identità assunte dal gruppo inglese nell’arco degli anni. Dategli invece una seconda chance, poi una terza, e avrete ascoltato un disco coeso, affascinante, originale in molti degli arrangiamenti e sintesi di stili e della cupezza della band negli altri. Non il miglior lavoro di Smith e soci, quello risale al 2007, ma quegli Editors non ci sono più, hanno nuovamente provato a reinventarsi rimanendo sé stessi. Ed è lodevole.

“La felicità dell’attesa”
di Carmine Abate

Carmine Abate è abile nel raccontare storie di immigrati: la sua è una famiglia di sradicati, un clan di diasporici che da un paesino della Calabria arberëshë si è disperso nel mondo.  Stati Uniti, Germania, molte delle tappe della sua storia parentale ritornano in La felicità dell’attesa (Mondadori, 2015).

Il romanzo è diviso in blocchi scanditi dalle partenze dei vari membri familiari: tutto comincia con la dipartita di Carmine Leto, che a bordo del transatlantico Sardegna raggiunge Ellis Island per tentare la sorte negli Stati Uniti dei primi del Novecento, e finisce per tornare a casa con una bella moglie afroamericana. Tutto finisce con un altro Carmine Leto, il nipote di quel primo migrante, che ritorna a Hora per stare al capezzale del padre e attraverso il ruolo di narratore ricongiunge la ragnatela di storie della famiglia.

Il libro affronta i temi classici della migrazione: la voglia di progresso e la necessità di rimanere fedeli alla tradizione, l’adrenalina del nuovo e la sicurezza del conosciuto, l’educazione dei figli in bilico tra metodi classici e concessioni moderne.  L’aspetto che l’autore riesce a raccontare con più delicatezza, però, sono i sottili malumori che serpeggiano nelle famiglie: i torti irrisolti, le frasi dette e le ferite invisibili che caricano di declinazioni spiacevoli questa istituzione imprescindibile dalle esistenze individuali.

Il personaggio migliore dell’intera storia è senza dubbio Shirley Leto, la donna per metà afroamericana e per metà irlandese che per amore si trasferisce a Hora, impara l’arberëshë, l’italiano, il ritmo delle giornate contadine e l’arte della cucina calabrese, e si guadagna il rispetto locale nonostante le iniziali titubanze: «Mericana? Così nìvura? Sembra che viene dall’Africa», messe presto a tacere dal marito infuriato «Proprio voi parlate accussì, voi che alla bella stagione avete la cera annottata dei fichi nivurelli, più dei nigri veri!». Shirley, ribattezzata Scilla per comodità di pronuncia dagli abitanti del paese, è l’essenza dello spirito nomade, e incarna l’apolidia dei migranti in cerca di un’identità da definirsi: discendente di schiavi africani e di irlandesi approdati negli Stati Uniti per vicissitudini infelici, giunge nel luogo da cui tutti partono, Hora, per stabilircisi, ma dà vita suo malgrado a una nuova generazione di diasporici, che migrerà ancora.

Il linguaggio del romanzo rivela un serio lavoro di ricerca glottologica, e cambia a seconda del tempo e dei personaggi raccontati, ripulendosi mano a mano dalle influenze dialettali e italoamericane per arrivare all’italiano pulito del narratore contemporaneo, Carmine Leto.

Forse La felicità dell’attesa non è un testo memorabile, ma è sicuramente necessario. Non  è indimenticabile perché lo stile narrativo a volte risulta semplice, a tratti scontato, forse un po’ buonista. Ma di questi tempi immedesimarsi in una storia di migrazione – aiutati nel processo di identificazione dalla provenienza geografica dei personaggi  – è una simulazione necessaria per approcciarsi con coscienza alle cronache delle migrazioni attuali. Dev’essere questo lo scopo di Abate, dopotutto.

 

(Carmine Abate, La felicità dell’attesa, Mondadori, 2015, pp. 360, euro 19)

“Nessuno accendeva le lampade”
di Filiberto Hernández

«Se non avessi letto i racconti di Hernández non sarei diventato lo scrittore che sono oggi», è così che la scrittura di Felisberto Hernández viene ritratta da García Márquez; Calvino di lui scrisse: «Non somiglia a nessuno: a nessuno degli europei e a nessuno dei latinoamericani, è un irregolare che sfugge a ogni classificazione e inquadramento, ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile».

In Uruguay, a Montevideo, nel 1902 nasce Felisberto Hernández un genio dalla prosa surreale. In Italia si hanno poche tracce dello scrittore, uno di quei – non rari – casi in cui un autore straniero di grande importanza è riposto nel dimenticatoio.

Il titolo Nessuno accendeva le lampade (laNuovafrontiera, 2012) prende il nome dal primo dei dieci racconti contenuti in questa raccolta.

Lo scrittore imprime le pagine del suo immaginario, di scene umoristiche che oltrepassano il reale, e il surrealismo è una porta che si spalanca al lettore «come chiedere qualcosa all’immagine di un sogno».

Nei suoi racconti è presente lo spaesamento, contornato da personaggi stravaganti, come una donna che non esce mai da casa e che si dispera al crollo di un balcone, così tanto da viverla come un lutto, così tanto da immaginarla come la vedova del balcone suicida. La realtà non si dà mai per scontata e questo crea un effetto quasi ipnotizzante nella lettura di Nessuno accendeva le lampade; lo scrittore gioca col far sembrare le cose insolite e incomprensibili come normali, dove il verbo “sembrare” acquista il valore di una chiave di volta, a volte intrisa di una lieve angoscia – «i suoi occhi sembravano vetri affumicati dietro i quali non c’era nessuno» –, altre simili a un delirio schizofrenico – «mi sentivo circoscritto al cerchio del piatto e mi sembrava di non avere pensieri miei».

Hernández ha una penna bizzarra e fuori dalle righe, un gioco di analogie in cui il silenzio sembra parlare.

E ancora qualcosa che fuoriesce, una vena romantica e platonica nel racconto “Tranne Giulia”, forse uno tra i passi più romantici dello scrittore: «Gli piacciono la solitudine e il silenzio tra i profumi del legname. Una sera ha fatto un salto tra i libri perché il telefono squillava; quella che aveva sbagliato numero ha continuato a sbagliarsi tutte le sere; e lui la tocca solo con le orecchie e le intenzioni».

L’io narrante non ha un posto fisso, è quasi sempre in viaggio, ospite in ville o nei ricordi dei protagonisti, e il lettore, sin dalla prima riga, viene subito calato nella storia. Ritorna sempre quel voler umanizzare gli oggetti, e quella capacità di far diventare delle stoviglie letteratura: «Le nostre mani appaiate cominciarono a posarsi sulla tovaglia: parevano abitanti naturali della tavola. Io non riuscivo a smettere di pensare alla vita delle mani. Molti anni prima, altre mani avevano obbligato le stoviglie a prendere forma. Quelle creature di porcellana sarebbero state al servizio di mani di ogni genere. Alla fine le creature di porcellana sarebbero state lavate, asciugate e condotte nelle loro stanzette. Qualcuna sarebbe sopravvissuta a molte paia di mani e, tra queste, alcune sarebbero state buone con loro, le avrebbero amate e colmate di ricordi; ma dovevano continuare a servire in silenzio».

Hernández lo scrittore che personifica gli oggetti, e anima anche i ricordi, i paesaggi, con una scrittura asciutta e maledettamente cinica è capace di mostrare i lati più bui e intimi dei personaggi, attraverso atteggiamenti e pensieri che rispecchiano l’umanità. E questa è proprio la bellezza dei suoi racconti: essere onirici e reali insieme, due poli che non sono in antitesi nella penna del genio uruguayano.

Pubblicato per la prima volta nel 1972 da Einaudi, con quarant’anni in mezzo per riportarlo in vita grazie a La Nuova Frontiera, Nessuno accendeva le lampade è un libro da riporre attentamente nella propria libreria, trovargli il posto giusto per poi averlo subito sotto mano ogni volta che, ricordandoci un passo, si ha voglia di rileggerlo. A me personalmente è successo questo.

(Filiberto Hernández, Nessuno accendeva le lampade, trad. di F. Lazzarato, laNuovafrontiera, pp. 126, euro 13)

“Il prezzo”
di Arthur Miller

Debutta al Teatro Argentina di Roma, in prima nazionale, Il Prezzo di Arthur Miller diretto da Massimo Popolizio, in scena anche da attore, insieme a Umberto Orsini, Alvia Reale ed Elia Schilton. Rappresentato per la prima volta nel 1968 al Morosco Theatre di Broadway, per 429 repliche consecutive, Il Prezzo è un dramma poco rappresentato in Italia che riflette sulla questione sociale di un’economia basata sul profitto e la Compagnia Orsini ha avuto il merito di riproporlo al pubblico per il centenario della nascita del drammaturgo statunitense e in un contesto di attualità politica particolarmente appropriato.

Victor, un poliziotto di New York deve vendere tutti i mobili accumulati da suo padre perché, a sedici anni dalla morte di quest’ultimo, l’edificio in cui gli oggetti sono stati accatastati sta per essere abbattuto. Per questo Victor, è costretto a riunirsi, dopo anni di separazione e silenzio, a suo fratello Walter. Victor, che da giovane sembrava destinato a grandi cose in ragione della sua propensione allo studio, ha abbandonato la carriera scolastica e a cinquantaquattro anni è un sergente di polizia alle soglie del pensionamento, deluso dalla consapevolezza di aver trascorso una vita insoddisfacente. Ha un figlio che ha lasciato il nido ed è gravato dal peso di una moglie, Esther, depressa e alcolizzata. Walter, al contrario, è un medico abile e rispettato che, nonostante fosse apparentemente meno dotato, ha intrapreso un percorso di successo allontanandosi dalle conseguenze che la crisi economica del ’29 ha avuto sulle sorti della famiglia.

«Con Il Prezzo – ricorda Umberto Orsini, direttore artistico della Compagnia – Miller fotografa con spietata lucidità e amara compassione le conseguenze della devastante crisi economica avvenuta negli Stati Uniti nel ’29». Dietro questo semplice spunto, infatti, emergono tutte le incomprensioni e le menzogne che la paura della perdita improvvisa del benessere possono esercitare. Vengono, inoltre, approfonditi i temi più cari allo scrittore americano: la critica al sistema economico, i rapporti familiari, l’etica individuale.

I due protagonisti del dramma, sono personaggi spessi, densi nella loro profonda umanità, e scolpiti da speranze deluse e grandi dolori costretti a confrontarsi con l’amara consapevolezza che tutto quello che ci si lascia alle spalle al momento della morte non è altro che l’ammontare dei beni materiali che si sono accumulati: quando questi vengono stimati, viene stimata anche la vita di chi li ha posseduti e vissuti.

Victor e Walter, al cospetto del silenzioso fantasma del padre, confrontano così le proprie scelte riguardo la famiglia, la carriera, e l’accudimento del genitore e, colpite dal maglio doloroso delle loro parole, le più radicate convinzioni sulla verità si sgretolano a poco a poco.

In occasione del debutto nazionale dello spettacolo nella Sala Squarzina del Teatro di Roma si è svolta anche la presentazione della prima edizione italiana di Il Prezzo di Arthur Miller pubblicato da Einaudi nella traduzione di Masolino D’Amico. Alle presentazione sono intervenuti Mauro Bersani, direttore delle collane Classici e Poesia, lo stesso Masolino D’Amico e i protagonisti dello spettacolo.

 

 

Il Prezzo
di Arthur Miller
traduzione di Masolino D’Amico
produzione Compagnia Umberto Orsini
regia Massimo Popolizio
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio,
Alvia Reale, Elia Schilton

Alcune delle prossime date:
Roma – Teatro Argentina dal 20 ottobre all’8 novembre
Napoli – Teatro Diana dall’11 al 22 novembre 2015
Torino – Teatro Stabile Torino dal 24 novembre al 6 dicembre 2015
Pavia – Teatro Fraschini dal 15 al 17 dicembre 2015
Firenze – Teatro La Pergola dal 19 al 24 gennaio 2014
Milano – Piccolo teatro Strehler dal 2 al 14 febbraio 2016
Thiene – Teatro comunale dal 16 al 18 febbraio 2016
Lucca – Teatro del Giglio dal 18 al 20 marzo 2016

 

Foto di Filippo Milani

”Manuale di sopravvivenza
all’uomo sbagliato”
di Gilda Bisceglia

Sia chiaro. Il tema sfoderato è d’importanza capitale. Capace d’inerpicarsi in profondità inattese.

Di pizzicare il nucleo, provando anche a sbucciarlo. Qualcuno penserà alla pestifera minaccia del sedicente Stato Islamico, qualche altro alla conservazione della biosfera e agli equilibri farinosi del sistema idrogeologico.

C’è poi chi è convinto che l’armonia interstellare dipenda dalla legalizzazione delle droghe leggere o dall’elaborazione dell’outfit adeguato all’apericena, ma per loro sono in commercio pubblicazioni specifiche. Qui l’argomento scotta. O quanto meno soffrigge.

E già il titolo suggerisce ebollizioni. Manuale di sopravvivenza all’uomo sbagliato di Gilda Bisceglia (Memori, 2015).

Un guizzante prontuario degli abbagli da uomo ideale che tutte le donne (o quante più possibili, immagino per l’autrice) dovrebbero ospitare in borsetta, assieme al correttore per le occhiaie e allo spray al peperoncino. A imbastirlo, ovviamente una donna, Gilda Bisceglia, che prima di aver concepito un progetto di simile ontologica portata, deve averne tracannate di conversazioni tragicomiche, fluidificate da diluvi di vario prosecco, confortando o funestando amiche a perdita di rubrica, con aneddoti ai limiti del nonsenso sull’ultimo acchiappo più o meno urbano.

Il problema, ormai è quasi pleonastico puntualizzarlo, è l’endemica penuria di uomini normodotati. Almeno su scala nazionale. Diciamo che, per mia personalissima rettifica, anche l’aggettivo risulta ridondante. Ci si potrebbe fermare prima. E infatti si resta paralizzate.

Se lo chiedeva un paio d’anni fa anche Simone Perotti, voce autocritica del libro Dove sono gli uomini?

Ecco, fino al momento non ha risposto nessuno. Quindi è altamente presumibile che le domande continuino a grondare. Per amor di onestà casistica, è assodato che, esorbitando dalla crescente fascia di disinteressati al mondo degli estrogeni (se non ovviamente per assumerli in prima persona e cominciare a trafficare col reggiseno ergonomico senza ferretto), la fetta restante, piuttosto esigua soprattutto da Roma in su, annovera al suo interno un misto frutta di categorie inquietanti, che Bisceglia non manca d’inquadrare, col suo approccio furbesco e multidisciplinare.

Zampettando da Seneca a Bay Watch, dai tassi marginali di sostituzione alle forze intermolecolari di Van der Waals, la giornalista spiattella apertamente tutte le tipologie maschili rintracciabili su piazza, prospettando uno scenario piuttosto ombreggiato, in confronto a cui il Medioevo praticamente era illuminato al neon.

Dal «seduttore seriale» al «nidificatore», passando attraverso il «galluccio di Ferragosto» e «l’alchemico metafisico», il pantone cromatico dipinge sempre la stessa smorfia. Preludio di una fuga che avrebbe sbalordito anche Bach. Sì, perché il minimo comun denominatore comportamentale, si rivela sempre il medesimo: imboccare la via d’uscita. Spesso quella sul retro.

E così l’autrice, prima di farci imbattere nell’ennesima profezia che si autoavvera, stilla una serie di consigli su come prevenire il morbo, attenendosi semplicemente ai primordiali sintomi che l’ominiforme di turno disperde lungo il (breve) cammino. «Dirà di amarvi quando ancora non avete imparato bene il suo cognome, al secondo appuntamento vi presenterà come la fidanzata ufficiale ad amici importanti, farà cose che sembreranno bizzarre ma vi piaceranno […] Tutte balle, sta solo sondando quanto siano forti la difese da smontare e calibrando i pesi. […] Sarete costantemente monitorate, il cacciatore non perde mai di vista la preda, solo così può scegliere il momento ottimale per consumare il generoso pasto.»

Insomma, a quanto pare la fenomenologia del soggetto bidone presenta infinite variazioni e sottocategorie.  C’è chi mira solo a testare l’effetto dell’ammorbidente ecologico sul nuovo set di lenzuola e quindi dopo l’ultimo orizzontale spasimo tenderà a nebulizzarsi come un deodorante per ambiente; chi reputa di aver agguantato la donna definitiva solo finché non parlerà senza essere interpellata, mostrando accenni di attività neuronale superiori a uno zainetto Invicta; chi cerca nell’altra pretesti d’inadeguatezza solo per perpetuare la sua ricerca all’infinito.

Le cause di una tale desertificazione testosteronica, abbinata a un’altrettanto desolante inconsistenza strutturale, potrebbero sottrarre molte più ore e molte più pagine di quelle che sia io che Gilda Bisceglia possiamo permetterci. Tanto per esemplificare, i centrifugati d’ipotesi sono assai articolati e annettono tra i macro imputati soprattutto l’emancipazione femminile post ’68, con la limitata concessione del part time alle mamme, la spudorata ostentazione del corpo, le pari opportunità di carriera, la condivisione dei doveri domestici,  la minigonna e forse, come sosteneva Troisi, anche il grammofono.

Ma ad essere colpevolizzato è anche l’ambiente chimico in cui viviamo, così gonfio di cibi adulterati e particelle plastiche da sedare i consueti livelli ormonali. È anche da aggiungere che in un mondo di contatti liquefatti in cui basta un clic per fare o disfare amicizia, s’innesta l’illusione che siamo tutti intercambiabili, basta solo sbirciare un altro account. Non c’è fatica, quindi non c’è speranza.

Ad ogni modo, ciò che conta è il risultato. Un risultato che confina col nulla, è vero.

Ma, come giustamente indica l’autrice col suo tocco arguto e sempre ironico, la sola possibilità per una donna è quella di saper osservare. Di farsi consapevole e di non lasciarsi soggiogare dal bisogno di qualcuno, da un qualunque antidoto alla solitudine.

Perché la solitudine in compagnia è ancora più assordante. Insomma, spesso e volentieri, non ci sono vittime degli uomini, ma solo del proprio desiderio di raccattarne uno, purché sia.

Quindi magari, prima di credere che il copione di una commedia americana iperglicemica possa travasarsi nella nostra vita alla fermata del 23, sarebbe meglio apprezzare ciò che siamo, la libertà che abbiamo, anche di sentirsi sole. Lo scrive una donna sposata, certo, ma che prima di farlo ha intercettato almeno sette di questi soavi tipi. Rispetto ai quali sarebbe stato molto meglio anche la rottura del femore, ma di sicuro l’intrattenimento di un buon libro. Se fosse servito, compreso questo.

(Gilda Bisceglia, Manuale di sopravvivenza all’uomo sbagliato, Memori, 2015, pp. 160, euro 16,50)

“Spectre”
di Sam Mendes

Da più parti, Skyfall è ritenuto il più grande film della saga di James Bond mai realizzato. Lo dice un dato oggettivo – gli incassi, i più alti per un film di 007, superiori al miliardo di dollari nel mondo –, lo dicono una serie di commenti che si soffermano sugli aspetti nuovi introdotti dalla regia di Sam Mendes: il maggior dettaglio psicologico, la fragilità, il passato, un cattivo capace di tenere testa a Bond sotto ogni aspetto.

Sin dal 2006 con Casino Royale di Martin Campbell sembrava chiaro che la linea scelta per il reboot del nuovo millennio della serie dell’agente segreto più famoso al mondo portasse in una direzione nuova. C’era già un indizio evidente nell’attore chiamato a interpretare Bond, il biondo con occhio di ghiaccio Daniel Craig, più freddo e muscolare di tutti i predecessori. Da subito poi sono stati inseriti elementi personali che hanno arricchito di nuove sfumature il personaggio, su tutti l’amata e scomparsa Vesper. Skyfall aveva portato tutte le novità al massimo livello. Qualcuno tra i più appassionati, però, non era soddisfatto. Skyfall andava bene per un pubblico più ampio, non per lo zoccolo duro dei bondiani della prima ora, quelli che vogliono meno riflessione e più azione, meno cinismo e più ironia, quelli che non possono vedere Bond con la birra in mano, solo col famigerato vodka martini. In qualche modo, è un discorso simile a quello che è stato fatto per i due Star Trek di JJ. Abrams, che sono piaciuti molto di più ai non appassionati che ai fedelissimi delle serie classiche.

Spectre, il ventiquattresimo film della storia di James Bond, arriva a rimettere a posto l’asticella del bondismo. La grandezza cinematografica di Skyfall è lontana, lo stile è più vicino al classico. Si dice che né Daniel Craig (anche tra i produttori del film) né Sam Mendes fossero interessati a realizzare un nuovo film, che questo Spectre potrebbe essere l’ultimo per entrambi, che si stia già cercando un nuovo  Bond e tutta una serie di cose. Per ora siamo ancora nel campo delle pure ipotesi. Quello che è certo è che questo ventiquattresimo film (re)introduce l’organizzazione criminale nemica di Bond (la Spectre del titolo) dei film storici della serie, lasciando intendere possibili sviluppi.

Con ordine, dopo la morte di M (quella di Judi Dench), James Bond è in missione in Messico. Missione non autorizzata ufficialmente, perché l’agente 007 sta seguendo le ultime volontà del suo ex capo che in un video messaggio postumo lo ha incaricato di indagare su una misteriosa organizzazione criminale. A Città del Messico c’è una sparatoria, un’esplosione e una fuga in elicottero che costano a Bond una sospensione ordinata dal nuovo M (quello di Ralph Fiennes) che nel frattempo è alle prese con l’ambiziosa riorganizzazione del programma 00 voluta da C, uomo vicino al ministro dell’interno che vuole sostituire le classiche spie con sistemi di controllo tecnologici. Bond, ovviamente, porta avanti la sua indagine anche senza l’autorizzazione di M e gira per il mondo tra Italia, Austria e Marocco per seguire le tracce dell’organizzazione.

Spectre inizia con una sequenza da storia del cinema che strizza l’occhio a Birdman, con camera incollata alla schiena di Bond in un lungo piano attraverso il Dia de los muertos a Città del Messico che dà subito l’idea del movimento e della frenesia a cui dovremo abituarci per il resto del film. A seguire ci sono l’inseguimento in macchina in giro per Roma di cui qui in Italia si è parlato tanto, un momento strano in cui Bond insegue delle jeep in aereo sulle alpi austriache, un po’ di distruzione sparsa per Londra.

Sul piano dell’azione e dello spettacolo, Spectre non manca di fare il suo dovere. È divertente, emozionante, rumoroso ed esagerato come devono essere questo genere di film. James Bond sfodera tutto il repertorio di seduzione su un pugno di donne che mette insieme Monica Bellucci, Lea Seydoux e la solita vittima Moneypenny, sfoggia completi impeccabili anche nelle situazioni più disperate, beve senza mai perdere il controllo, e tutto quello che ci si aspetta da un film di 007.

Il punto è proprio qui: Spectre si limita a fare quello che ci si aspetta da un film di James Bond e niente di più. Skyfall è lontano e si torna indietro, a Casino Royale del 2006, comunque al di sopra del deludente Quantum of Solace del 2008. Il livello, per il genere azione, è comunque molto alto, perfettamente in linea con il Bond del nuovo millennio, quello che rinuncia alle ingenuità del periodo classico e sa anche essere cupo e duro, quando serve, che sa andare a costruire un passato per l’agente segreto e riempirlo di sfaccettature.

Probabilmente, avere ancora gli occhi pieni Skyfall non può che influenzare nella visione di questo Spectre decisamente più ordinario del suo predecessore, ma non è solo questo. In questo Bond 24 manca qualcosa che tenga unita la trama, che sia la suspense o la sorpresa. Tutto va esattamente come ci si aspetta che vada, senza troppi sussulti. È curioso come alla proiezione stampa ci fosse un cartello che invitava i giornalisti a non rivelare troppo della trama per non rovinare la visione agli spettatori. Come se in Spectre ci fosse qualcosa di inaspettato che, invece, si fa fatica a trovare.

(Spectre, di Sam Mendes, 2015, azione, 150’)

“Grey Tickles, Black Pressure”
di John Grant

Inizio l’articolo ringraziando John Grant per averci mostrato i suoi demoni. Lo ha fatto ancora, rimanendo fedele al proprio stile: lirico, simbolico e fortemente ironico. Ciò lo si constata fin dalla copertina dell’ultimo Grey Tickles, Black Pressure (Coop-Bella Union). Vi ricordate la possente e oscura fierezza dalla cover del precedente Pale Green Ghost? Un elegante Grant seduto al tavolo di un rustico locale tipicamente islandese (sua patria da qualche anno) con un libro aperto sul palmo della mano, a simboleggiare l’immersione in una nuova cultura, l’inizio di un viaggio inedito, sia umano – la convivenza con la sieropositività – sia musicale, la svolta elettronica. La copertina di Grey Tickles, Black Pressure è altrettanto simbolica e palesemente più kitsch e sarcastica. Un arredamento e un abbagliamento sgargiante e la presenza di due gufi, simboli sia del dolore derivante da un imminente sciagura, ma soprattutto la chiaroveggenza da sempre incarnata da tali rapaci, soprattutto nella cultura nordica. Questo spiega il bagliore nei suoi occhi? Possibile. Sicuramente Grant ha sempre combattuto i suoi mali con la forza salvifica dell’arte. Ah, tornate un attimo alla copertina di Pale Green Ghost e guardate nell’angolo in basso a destra…

Procediamo: spostiamoci dalla copertina al titolo. Grey Tickles equivale nello slang islandese alla crisi di mezza età, Black Pressure è una delle definizioni di incubo in lingua turca. Il titolo è chiaro e si abbina perfettamente al corredo simbolico già presentato. Andiamo a vedere la cosa più importante: la musica.

Alla luce dell’ormai epico Queen of Denmark e di Pale Green Ghost, Grant sceglie di non scegliere. Mi spiego: anche il terzo album – come il precedente – è una convivenza tra l’anima acustica e melodica e quella elettronica. Sicuramente Grant continua a prediligere la forma synth-pop per creare una originale figura di elettro-cantautore dedito a plasmare involucri di tastiera e drum machine attorno alle sue crisi e dubbi. Il risultato è ancora una volta di valore qualitativo molto alto.

Se la produzione sonora di Pale Green Ghost era cupa e avvolgente, quella di Grey Tickles, Black Pressure è molto più ritmata e sfocia molto spesso nell’ammaliante battito disco music: ne è perfetta incarnazione il primo singolo, “Disappointing” in duetto con Tracey Thorn cantante degli Everything But The Girl.

Ma se qualcuno – dopo questo primo ascolto – aveva tacciato il nostro di eccessivo disimpegno e svago, rimpiangendo la sua inaudita vena drammatica, ascoltando tutto il lavoro ha cambiato repentinamente idea. Il ritmo è avvolgente, i ritornelli inarrestabili ma ciò non toglie nulla alla mole empatica ed emotiva gettata ancora una volta su disco dal cantautore e sapientemente gestita dal produttore John Congleton.

«And there are children who have cancer / And so all bets are off / I’ve got grey tickles and black pressure / And I’d rather lose my arm inside of a corn thresher / Just like Uncle Paul», canta Grant nel ritornello dell’omonima seconda traccia fornendo l’ennesima prova immensa del potenziale creativo. Ma come se non volesse adagiarsi troppo sulla bellezza del tono caldo e baritonale, il cantautore massacra subito dopo la propria voce: in “Snug Slacks” la campiona e la distorce in pure stile anni Ottanta, nella successiva “Guess How I Know” la fa soccombere sotto l’impatto distorto degli strumenti. Brano dopo brano il nostro si mostra in splendida forma e la freschezza di “You & Him” (il pezzo più rockeggiante) e “Down Here” parlano chiaro, soprattutto per l’arrangiamento e il lavoro dei sintetizzatori su quest’ultima. E se in “Voodoo Doll” si sfoga tutta la vocazione disco-sarcastica, ecco arrivare il k.o. che solo il buon Grant si può permettere: mettetevi seduti e lasciatevi scuotere dei brividi, è arrivata “Global Warning”. Altrettanto notevoli le seguenti “Magma Arrives” e “Black Blizzard”. Poiché tutto il disco è un frequente e vivace (ma non frivolo) alternarsi di battiti e campionamenti, il Nostro chiude la terza fatica con “No More Tangles” e “Geraldine” (ennesimo omaggio cinematografico, stavolta all’attrice Geraldine Page): una doppietta vecchio stile con superbe soluzioni orchestrali. Un degno finale.

Concluso Grey Tickles, Black Pressure l’ascoltatore è spiazzato: ha ascoltato un disco magnifico, eclettico, dalle svariate e intense sfumature,
ma dove è la serenità, l’appagamento del felice ascolto? Purtroppo nell’opera di Grant al momento non ci sono lieti fine: solo lo sfoggio di una musica altissima usata per sconfiggere quei maledetti “pallidi fantasmi verdi”. Quanto durerà questa battaglia al momento non lo sappiamo e forse non lo sa nemmeno il diritto interessato: ma finché tale duello genera tale musica, non possiamo che essere grati a chi sta combattendo.

“Piccoli impedimenti alla felicità”
di Carla Vasio

Diceva S. Agostino, nel commento al Vangelo di Giovanni, che «La vita, per l’uomo, è un’esperienza più difficile della morte».

Vivere è più arduo che morire. La morte si consuma in un istante, mentre l’esistenza è una dura prova che si trascina per anni ed è piena di infinite sorprese, cadute e «piccoli impedimenti», ossia di imprevedibilità, di scarti che sparigliano le carte di un accorto calcolo, zone oscure ancora imperscrutabili che generano sgomento e smarrimento.

Se il vostro cuore è intorpidito e assuefatto al grigio e naturale ritmo quotidiano, provate a sintonizzarvi e a intercettare le aritmie palpitanti da un piccolo ma sussultorio libro, Piccoli impedimenti alla felicità (Nottetempo, 2015) della saggista, storica dell’arte, poetessa e scrittrice Carla Vasio (Venezia 1932), unica donna ammessa al Gruppo 63.

I ventiquattro racconti che compongono la raccolta attraggono chi legge nella loro rete di emozioni, nei dilemmi psicologici e morali espressi ora in forma per lo più dialogica, ora in a solo digressivi.

Carla Vasio ha la capacità di trasformare i suoi lettori in tanti piccoli detective dilettanti, investigatori a ben vedere esistenziali, che si appiattiscono lungo i muri e dietro le porte a origliare, si arrampicano su alberi per spiare ciò che avviene dentro una finestra, pedinano la loro preda che si sta recando in tutta fretta a un importante appuntamento a cui rischia di arrivare in ritardo.

Per questo dissemina la scena di indizi: un cesto di lumache; una mosca che preannuncia l’arrivo dell’estate; un treno che, come la vita, sembra trascinare via con sé, disperdendole e soffocandole nella corsa, ogni cosa, luci, case, fiumi e campagne, risucchiate nel gorgo oscuro della notte; una scarpa da tennis in mezzo a una piazza; «schegge di cristallo […] che ammucchiate diventino di un tenue colore verde che ricorda l’acqua profonda»; una corolla di rosa recisa dal suo gambo come il ricordo di qualcosa che si è commesso in un tempo lontano dalla memoria (rimozione o dimenticanza calcolata?) perché «A volte credere di aver dimenticato ha la sua utilità»; un fiume che «scorre, sappiamo che non ritornerà alla sorgente, non riporterà né un minuto né un anno, niente di ciò che è perduto, non c’è possibilità di ritorno»; il canto degli uccelli in una notte suicida; una pianta appassita in un vaso, libri sparsi dalle copertine polverose e deformate, tende consumate, stracci vecchi e una scatola di lettere in un appartamento in rovina; e poi una tempesta improvvisa o il vento che trascina le foglie.

Qui l’enigma è nella vita, non nell’intreccio praticamente inesistente. Questi racconti sono popolati da presenze sfuggenti, già assegnate a un destino bloccato, anime in dissolvenza, disgregate e incoerenti, presenze evanescenti che sembrano inseguire una suggestione e che si rinnegano svelandosi al tempo stesso. Non hanno identità, al massimo possono avere una funzione (la cuoca, la sguattera, l’autista, il nuotatore).

Tutto intorno sembra avere una sottile immaterialità. C’è un’energia mistica e allucinatoria, paradossale ed espressionistica, amara e senza luce in queste storie.

Da queste prose, che hanno la brevità degli haiku e la liricità dei poème en prose, si trae una sensazione di ispirata immediatezza e si viene irrimediabilmente catapultati in medias res in tremende complicazioni. Si affollano intense suggestioni di cui si vorrebbe rubare l’essenza e rimanere rinchiusi in quelle atmosfere senza interferire.

Seduta qui, tengo in grembo questo piccolo gioiello e realizzo che quello che conta sono le vibrazioni, anche lievi, che avverto.

(Carla Vasio, Piccoli impedimenti alla felicità, Nottetempo, 2015, pp. 95, euro 11)

“Tutto può accadere a Broadway”
di Peter Bogdanovich

Presentato fuori concorso a Venezia nel 2014, Tutto può accadere a Broadway segna il ritorno dietro la macchina da presa, dopo oltre un decennio, di Peter Bogdanovich, colonna vivente del cinema mondiale. Regista, sceneggiatore, attore, ma anche scrittore, giornalista e critico, autore di alcuni fondamentali libri-intervista ( la conversazione con Orson Welles su tutti) sempre all’insegna di un’attenzione ai canoni classici del cinema statunitense. Un capolavoro assoluto in carriera, L’ultimo spettacolo del 1971, e una serie di commedie che hanno riportato di moda lo stile della vecchia Hollywood, come Ma papà ti manda sola? Paper Moon. Con Tutto può accadere a Broadway l’intenzione è proprio quella di tornare ai fasti della vecchia commedia.

Isabella è un’attrice di successo fidanzata con un grande regista (cameo finale di un grande regista vero). Fino a poco tempo fa faceva la escort per coltivare il sogno della recitazione. Proprio durante un appuntamento di lavoro incontra Arnold Albertson, regista teatrale che sta preparando un nuovo spettacolo da mandare in scena a Broadway. È proprio per quello spettacolo che Isabella ha un provino il giorno dopo, tra l’altro proprio per interpretare una prostituta. A teatro si scateneranno una serie di equivoci, perché la star dello spettacolo è Delta, la moglie di Arnold, e perché intorno a Isabella si i muovono una serie uomini più o meno allo sbando che finiscono per ritrovarsi e scontrarsi tutti intorno alla commedia.

Ci si aspettava decisamente di più dal ritorno di un regista come Peter Bogdanovich dopo tredici anni di assenza dal grande schermo (ci sono state regie televisive e ruoli da attore, nel frattempo). Anche perché Tutto può accadere a Broadway, titolo italiano che sostituisce l’originale She’s Funny That Way (e come al solito c’è da chiedersi perché), mette insieme un cast di grande prestigio che unisce Owen Wilson, Jennifer Aniston, Rhys Ifans, Will Forte, Kathryn Hahn e Imogen Potts – oltre a una raffica di camei di attori affezionati a Bogdanovich – per una commedia basata su una premessa di cinefilia nostalgica che promette bene nelle battute iniziali. Ci aggiungiamo che i produttori esecutivi del film sono Wes Anderson e Noah Baumbach, due tra i registi più importanti (in modo diverso) di un certo modo di fare cinema indipendente oggi negli Stati Uniti che si sono uniti per permettere a Bogdanovich di tornare a dirigere, forse per l’ultima volta.

Invece, Tutto può accadere a Broadway riesce solo a omaggiare le commedie a cui fa riferimento, senza replicarne lo spirito. Bogdanovich guarda indietro, soprattutto a Ernst Lubitsch (citato a carte scoperte nel finale), e accanto a sé – al Woody Allen “teatrale” di Pallottole su Broadway Broadway Danny Rose, senza le trame criminali – ma da una parte e dall’altra riesce a fissare solo le ombre, non la sostanza. Il risultato è un tentativo di screwball comedy che fa di tutto per assomigliare al passato sin dai titoli di coda, che esplicita nella (ridondante) intervista a Isabel che detta i tempi del film i riferimenti cinematografici con tanto di poster che appaiono e scompaiono.

Si può vedere in due modi, e quindi decidere per un giudizio negativo o positivo. Da un lato, è il film di un grande uomo di cinema che conosce e ama la settima arte al punto di impadronirsene, scomporla e rimetterla insieme in una commedia che non vuole essere presa sul serio. Visto così, Tutto può accadere a Broadway è un film perfetto per tutti gli amanti della storia del cinema col sorriso facile. In alternativa, accantonando ogni discorso sul regista, sul suo valore, sulla sua statura, siamo di fronte a una commedia degli equivoci che non fa nulla per essere originale, che cerca di mantenere alto il ritmo con dialoghi che riescono solo in pochissime occasioni a strappare un sorriso, che pretende una sospensione della credulità degna di un Natale a New York, con la Grande Mela ridotta a un paesino in cui tutti vanno allo stesso ristorante, nello stesso albergo, sullo stesso piano, in cui tutti conoscono tutti e incontrarsi per caso è cosa normalissima. Qui si propende più per il secondo punto di vista. In entrambi i casi, va riconosciuto il merito degli interpreti, in particolare di Jennifer Aniston.

 

(Tutto può accadere a Broadway, di Peter Bogdanovich, 2014, commedia, 93’)

 

“La casa di Parigi”
di Elizabeth Bowen

Fra le riscoperte recenti in libreria targate Sonzogno, l’ultima uscita degna di nota è il romanzo La casa di Parigi della scrittrice irlandese Elisabeth Bowen (la collana è Bittersweet diretta da Irene Bignardi). La Bowen, nativa di Dublino,  trovò a Londra la sua vera casa, entrando nello storico circolo Bloomsbury. Orientata su moduli stilistici meno innovativi rispetto a quelli dell’amica Virginia Woolf, scrisse romanzi di maggior presa sul pubblico, fra cui questo The House In Paris per la prima volta tradotto integralmente in italiano.

È la storia delicata e crudele di un’amicizia fra due bambini finiti casualmente ma non troppo nella stessa abitazione parigina. Henriette vi giunge dall’Inghilterra «un mattino di febbraio cupo e vischioso» (per tornare alla modalità narrativa ottocentesca cui si alludeva sopra). Lì per lì trova Parigi deludente («opprimente», almeno fino a quando la città comincia a svegliarsi e il traffico a farsi intenso – siamo negli anni successivi alla Grande Guerra). Lo stesso effetto le procura l’abitazione in cui è costretta a recarsi per una tappa intermedia prima di proseguire il suo viaggio verso il Sud. La casa appartiene alle signore Fisher, madre e figlia; un tempo era una pensione, e qualcosa di decisamente importante vi è successo diversi anni prima. È intorno a questi fatti precedenti al suo arrivo che ruoterò il romanzo. Che per mettersi in moto ha bisogno dell’altro bambino, Leopold; il quale a Parigi dovrebbe incontrarvi sua madre, che praticamente non conosce. Sia lui che Hanriette sono ragazzini dalla sensibilità sottile, già carichi di una biografia poco serena. L’impatto fra i due non è facile, specie per lei, diffidente un po’ con tutto e tutti. Ma poco a poco i due si aprono reciprocamente e l’incontro sarà un viatico per orientarsi nel mondo degli adulti (di cui sono figli) e dei loro ospiti. Mondo che si rivelerà ricco di sorprese, anche tragiche. Perché un’orfana e un bambino che è come se lo fosse non possono non provenire da storie oscure, tradimenti, ipocrisie e conflitti di una borghesia stretta fra due guerre mondiali e da un senso di pervasiva irrequietezza.

La storia nelle rivelazioni successive procede con un andamento non lineare – dunque non più Ottocentesco, teso fra presente e passato, fra tardoromanticismo e  apprensione sofisticata di una ricostruzione ellittica dei fatti (che sono per lo più intrecci amorosi segreti, appassionati quanto scandalosi).

Grazie a questa concezione del tempo il romanzo della Bowen riesce a trovare un passo parzialmente più moderno accanto ad altre soluzioni più ingenue – ma il suo meglio è nei personaggi.

(Elizabeth Bowen, La casa di Parigi, trad. di Alessandra di Luzio, Sonzogno, pp. 288, euro 16)