“Cattivi ragazzi”
di Veruska Rossi e Guido Governale

Massimo, Vincenzo, Gaetano, Giacomo, Amid, Gabriele e Fabian sono sette adolescenti come tanti. Ragazzi di nemmeno diciotto anni che nascondono goffaggine e fragilità dietro strafottenza e arroganza e lottano per dimostrare di essere e di valere qualcosa con rabbia e aggressività. Niente di strano, se non che i sette sono rinchiusi dietro le sbarre di un carcere minorile.

Quale carcere non importa, uno come tanti, esemplificativo, come lo sono loro, di un campionario di violenza per la quale hanno sacrificato tanto la libertà quanto i nomi trasformandosi nel Romano, nel Milanese, nel Napoletano, nel Siciliano, nel Libico, nel Rumeno e nel Topo.

Cattivi ragazzi, soli e spaventati che Giuseppe, ferito nel corpo e nel cuore, un professore buono che ricorda ora la Pfeiffer di Pensieri pericolosi, ora il Williams di L’attimo fuggente, riesce a raggiungere e a restituire, anche se per pochi momenti al giorno, al proprio futuro.

All’inizio non è semplice, il branco non si fida, lo respinge, quei banchi che il professore vorrebbe in circolo, accoglienti, gli vengono risistemati in ordine di fronte, come una trincea o una barricata. Il professore deve imparare prima di poter insegnare a leggere (e scrivere) la vita, deve ricordare che quelli sono bambini in prigione e, solo quando avrà smesso di nascondere la prigione dietro libri e programmi e l’avrà accettata, gli verrà permesso di raggiungere il cuore del branco, di trovare i bambini, e così mondare la colpa innocente di non aver saputo, bambino, salvare il proprio fratello.

Una storia semplice e lineare, bella perché Rossi e Governale evitano con accuratezza di peccare di buonismo. Tutti i colpevoli devono scontare una pena e «la riscoperta della parte buona di ogni protagonista passa per l’accettazione del proprio errore, cosa che deve avvenire senza lasciarsi sopraffare dalla rassegnazione».

Divisi in due cast che si alternano, i giovani attori della Compagnia Omnes Artes reggono il palco con straordinaria professionalità e verità, tanto da marginalizzare anche Montanari – ma non c’è demerito da parte di quest’ultimo. Del resto, non c’è da stupirsi: nel campo visivo degli adolescenti, quello che il pubblico adotta quando viene invitato ai convegni notturni che i prigionieri improvvisano tra una sigaretta e un sogno pieno di sangue, insegnanti, genitori e adulti sono figure sempre apparentemente marginali.


Cattivi ragazzi
di Veruska Rossi e Guido Governale
regia di Veruska Rossi e Guido Governale
con Francesco Montanari, Andrea Amato, Veronica Benassi, Federico Bizzarri, Francesco Buccolieri, Giovanni Crisanti, Ileana D’Ambra, Manfredi Di Placido, Niccolò D’Ottavio, Gabriele Berti, Daniele Felici, Riccardo La Torre, Giovanni Nasta, Alessio Selli, Diego Tricarico, Lorenzo Vigevano, Lorenzo Zurzolo

Roma – Teatro della Cometa dal 22 ottobre all’8 novembre

“No No No” dei Beirut

Il ritorno di una band è sempre un grande punto interrogativo. L’attesa qualche volte viene premiata, in altre occasioni prevale una certa delusione e si prendono le distanze, “ok, ma ormai sono mainstream, è finita”, è la frase più comune che si sente in queste occasioni. Il vero problema si presenta quando ci si trova nella situazione di mezzo, ovvero quando il disco ti piace e ne riconosci un certo valore, ma scatta il paragone con quelli precedenti e non ti rimane che sbuffare perché qualcosa si è perso lungo la strada. Si, ma cosa esattamente?

È questa la sensazione che lascia No No No, l’ultimo lavoro dei Beirut. Tra il 2006 ed il 2011 la band statunitense pubblica tre album dalle sonorità tipiche del folk balcanico e dell’etno-jazz ma anche della chanson francese raggiungendo un successo sorprendente, sia in America che in Europa. Il vero capolavoro rimane sicuramente il primo disco, Gulag Orkestar, dove le melodie dal sapore dell’Europa orientale e centro-orientale erano una piacevolissima ed esaltante sorpresa: tutto (o quasi) merito di Zach Condon e di quel viaggio che, non ancora ventenne, lo ha portato a visitare l’Europa e i suoi angoli più remoti e misteriosi, zone di conflitti sociali e tradizioni millenarie (anche musicali). “Postcards From Italy”, “Bratislava” e l’omonima “Gulag Orkestar” rimangono dei piccoli capolavori.

No No No è l’ultimo album dei Beirut e contiene solo nove tracce, per un totale di nemmeno trenta minuti. Del resto, chi conosce un minimo il gruppo, è abituato a questa sorta di “avarizia” compositiva: Lon Gisland è uscito con nove tracce, appena sedici minuti.

Se ora andiamo a vedere i contenuti di questo nuovo lavoro, scopriamo due cose: molti degli strumenti tipici delle sonorità balcaniche sono stati messi da parte o comunque in secondo piano; a livello di testi c’è un passo indietro non indifferente. Detto questo, di spunti interessanti ce ne sono. “Gibraltar” (ancora una volta un riferimento geografico) apre ed è subito tamburi, piano e sensazioni un po’ amare: rimane comunque il brano più stimolante, anche grazie al video. “No No No” e “August Holland” si avvicinano invece all’indie pop e si scostano nettamente dal passato. Atmosfere balcaniche e malinconiche che invece tornano con “At Once” e quel ritornello ripetuto in maniera ossessiva. Degna di nota è ancora “As Needed”, brano strumentale dal sapore francese. Il resto del disco scorre via così, in maniera piacevole ma privo di elementi accattivanti o vibrazioni da menzionare.

Tirando un po’ le somme, No No No sembra un album di transizione, un qualcosa che non rimarrà nella storia dei Beirut ma che forse permetterà alla band di esplorare nuovi orizzonti e andare oltre, magari tornando anche passato (come forse dovrebbero fare i Mumford and Sons). Le gradevoli sonorità pop rimangono perfette per un lungo viaggio in macchina ma si sente troppo la mancanza di ukulele, trombe e percussioni.

“L’arcano”
di Juan José Saer

Juan José Saer, nato nel 1937 e scomparso nel 2005, è stato, come spesso si dice, uno degli uomini di lettere più importanti del secondo Novecento argentino, un autore in grado di dare prosecuzione ai fasti di una letteratura nazionale che dopo aver conosciuto la generazione di Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Adolfo Bioy Casares e Roberto Arlt, per citarne soltanto alcuni, difficilmente poteva aspettarsi di proseguire sulla stessa strada superiore dei “maestri”. Saer, a quanto si afferma da più parti, sarebbe riuscito nell’ostico intento, proponendo un’idea totale, riconoscibile e piuttosto caratteristica di letteratura, come d’altronde in modi diversi hanno fatto i suoi predecessori. Dalle nostre parti, disgraziatamente, l’opera di Saer non ha finora occupato lo spazio che avrebbe meritato; tuttavia, negli ultimi tempi, la casa editrice romana La nuova frontiera sta cercato di porre gradualmente rimedio a tale sconveniente disinteresse, ed è così che ha pubblicato, in sequenza, i romanzi Cicatrici (nel 2012), L’indagine (nel 2014, libro tradotto anche da Einaudi una decina di anni or sono) e, infine, L’arcano (nel 2015, nella stessa traduzione di Luisa Pranzetti che nel 1994 era comparsa per Giunti salvo poi precipitare nell’ampio novero dei libri dimenticati).

Quest’ultimo romanzo, di levatura senza dubbio non comune, edito originariamente nel 1983, racconta in prima persona la vicenda di un giovane mozzo senza famiglia né affetti che si lascia coinvolgere in una traversata transoceanica a bordo di una nave spagnola; siamo all’inizio del Cinquecento, quando per gli europei le terre sconosciute che si frapposero tra loro e le Indie rappresentavano ancora un accidente, un’inspiegabile anomalia nel disegno tolemaico del mondo che di lì a poco sarebbe invece diventata un’incommensurabile occasione da sfruttare. Raggiunte le coste del continente all’altezza del Río de la Plata, in quell’immenso Mar Dulce che è l’estuario dei fiumi oggi rispondenti ai nomi di Uruguay e Paraná, e impiegate quelle acque per raggiungere l’entroterra alla scoperta di regioni sconosciute, il nostro mozzo si troverà in balìa di una tribù antropofaga di indigeni che, lasciandolo vivo come unico e ultimo testimone di quel primo sconcertante incontro tra culture, all’ombra umida della foresta farà banchetto di tutto il suo equipaggio durante uno sgomentevole rito panorgiastico. Il mozzo sarà adottato dai silvicoli carnefici, e con loro vivrà per anni fin quando troverà un passaggio per il Vecchio Mondo, dove riporterà un racconto che servirà dapprima come descrizione protoetnografica dell’“altro” e poi come trama di una rappresentazione teatrale ai limiti del grottesco che andrà girando entro i confini del regno di Spagna. Questa, in una breve e brutale sinossi che nulla toglierà al lettore, la trama de L’arcano, un libro che, secondo il costume di Saer, sembra giocare e divertirsi sovrapponendo e rovesciando i modelli e così destreggiandosi in un eclettico plot narrativo che propone, seppure nei termini di una straordinaria coerenza interna che si dipana con la fluidità di una prosa sorprendente dalla prima all’ultima pagina, dei salti improvvisi eppure morbidi grazie ai quali il lettore si trova immerso, nelle diverse fasi della narrazione, in un classico romanzo storico, d’avventura, in una narrativa di viaggio, in un resoconto da cosmografo cronista, in una spirale picaresca e infine in una sorta di confessione.

Nucleo del romanzo, suo tema portante e costitutivo, è naturalmente la fondamentale questione dell’identità, coniugata da Saer in cerchi concentrici che fanno dell’estensione crescente una procedura speculativa oltreché narrativa: al centro c’è l’individuo singolare, poi l’europeo e l’indio nel loro vicendevole e silenzioso rapporto (nell’incontro dei loro incommensurabili sistemi di pensiero), l’uomo in generale e infine il mondo, che nel sistema di connessioni messo a reggerlo sembra avere vita propria e assai pulsante. In quest’ottica, L’arcano può essere letto come una continua interrogazione che il mozzo, incanutendosi ramingo nel corso delle vicende e delle pagine, pone a se stesso circa il senso del proprio consistere tramite il racconto di una vorticosa parabola biografica, vicenda minima cifra della storia grande, che ha nell’incontro con l’altro, nel primo contatto, il suo motivo principale, la solidificazione dell’evento particolare nell’assoluto di una durata che non conosce misura: «Io ero argilla mobile quando toccai quelle coste di delirio», confessa il narratore «e pietra immutabile quando le lasciai, anche se la mia permanenza in esse è stata, tenendo conto dell’età alla quale mi avvicino, relativamente corta, e anche se, negli anni che seguirono, ho vissuto, in apparenza, tante cose che altri chiamerebbero importanti e varie».

(Juan José Sar, L’arcano, trad. di Laura Pranzetti, La Nuova Frontiera, 2015, pp. 160, euro 15,50)

Room

“Room” di Lenny Abrahamson

Solo un anno fa Lenny Abrahamson aveva stupito parecchi con Frank, folle film musicale con Michael Fassbender nascosto per tutto il tempo dietro un’enorme maschera di cartapesta. In questo 2015 è sbarcato all’Auditorium per la Festa del Cinema di Roma con un racconto di tutt’altro tipo ma che mantiene con il precedente il tratto comune della esclusione dal mondo. Room, già premiato con il People’s Choice Award a Toronto, è devastante.

Jack ha cinque anni e non ha mai visto il mondo. È nato e cresciuto in una stanza trasformata in casa in cui c‘è tutto, il letto, il bagno, la cucina. L’unico altro essere umano che conosce è sua madre che sta sempre con lui nella casa-stanza. Il mondo lo osserva dal lucernario e dalla televisione, ascolta i racconti della madre su quello che è reale e quello che non lo è, e la notte, quando arriva “Old Nick” a trovare la mamma, si chiude nell’armadio-letto e aspetta la mattina. Jack non conosce il mondo perché è nato nella stanza. Sua madre è stata rapita e rinchiusa in quello che all’esterno è un capanno degli attrezzi sette anni prima, quando aveva diciassette anni. È stato Old Nick a sequestrarla. È Old Nick il padre di Jack, e fuori dalla stanza, sotto quel cielo visto solo dal lucernario, esiste un mondo in cui è possibile una vita vera.

Tra il 2006 e il 2008 due casi di cronaca che rasentavano l’incredibile arrivarono a sconvolgere il mondo intero dall’Austria. Il primo, del 2006, riguardava Natasha Kampusch, all’epoca diciottenne, riuscita a scappare dopo otto anni e mezzo di detenzione in una stanza. A sequestrarla era stato un pazzo, Wolfgang Prikolpil, quando aveva dieci anni. Il secondo, del 2008, coinvolgeva un’intera famiglia. Elisabeth, la figlia diciottenne dei coniugi Rosemarie e Joseph Fritzl, venne denunciata come scomparsa il 24 agosto 1984. In verità, era stata sequestrata dal padre e rinchiusa in cantina. Nei successivi ventiquattro anni, Elisabeth fu vittima degli abusi del padre che portarono a sette gravidanze.

È soprattutto al caso Fritzl che si è ispirata Emma Donoghue per il romanzo Stanza, letto, armadio, specchio (pubblicato in Italia da Mondadori), punto di partenza di questo sconvolgente Room (dal caso Fritzl è stato scritto anche un romanzo in Italia, Elisabeth, di Paolo Sortino, pubblicato da Einaudi, che dovrebbe diventare un film a sua volta).

Diviso in due parti, una dentro e l’altra fuori la stanza, il film di Abrahamson non si limita a raccontare la storia, già in sé di potenza sufficiente a sconvolgere, di un sequestro, ma ne indaga con discrezione ogni tipo di dinamica psicologica coinvolta, dal rapporto ossessivo – e non può essere altrimenti – tra madre e figlio fino alla reazione dei genitori che si ritrovano a esserlo ancora, dopo sette anni, e a essere nonni, alla difficoltà che ci può essere a tornare alla vita piena dopo aver visto i propri giorni limitati a una stanza, a come, tutto sommato, vivere nascosti possa essere meglio di vivere esposti (qui torna un collegamento possibile con Frank, con la maschera simbolo di disagio che si sostituisce alla stanza).

È un peccato dover dire troppi dettagli della trama perché più che per altri film per Room è fondamentale per l’esperienza dello spettatore lo svelamento graduale della storia di Jack e di sua madre. Ci limiteremo quindi a dire che molto facilmente il film di Lenny Abrahamsson sarà il film statunitense “indie” dell’anno, quello che avrà un riscontro di pubblico superiore alla media del genere, quello che probabilmente tornerà in auge al momento delle nomination agli Oscar. Sarebbe tutto giusto, perché Abrahamson amministra la tensione con maestria, è capace di cambi di registro veloci che restituiscono l’intensità del dramma e la pienezza dell’amore tra madre e figlio, perché il copione scritto dalla stessa Emma Donoghue non conosce flessioni, perché Jacob Tremblay, il ragazzino che fa Jack, è sorprendente e perché Brie Larson, la mamma, al primo ruolo da protagonista praticamente assoluta, lascia intendere che nei prossimi anni troverà sempre più spazio a Hollywood.

(Room, di Lenny Abrahamson, 2015, drammatico, 118’)

“I capelli di Harold Roux”
di Thomas Williams

Uno scrittore che fatica a ingranare. Il suo libro ha un titolo, I capelli di Harold Roux, ma poco altro. C’è la vita che preme intorno. Moglie, figli, studenti – insegna in un’università del New England. A poco gli serve l’anno sabbatico: la concentrazione latita, qualcuno dei suoi studenti (o dei loro genitori) lo chiama, ha bisogno di lui. Uno in particolare, Mark Rasmussen, lo mette alla prova facendogli passare una giornata in mezzo a un gruppo di pescatori balordi, come per saggiarne la forza virile, la consistenza umana fuori dal mondo delle idee, delle lettere. Né lo scrittore protagonista di questo libro può lasciare un amico un po’ troppo idealista e sprovveduto con un mutuo da pagare a sbrigarsela da solo quando è evidente la sua incapacità a farlo. La vita insomma sta addosso con tutta la sua forza ad Aaron Benham. Lo distrae, lo allontana dall’opera.

Non v’è scrittore che possa dirsi davvero tale che non conosca questa condizione. A volte dilaniante. E molti sono gli scrittori che come Thomas Williams (1926-1990), appena tradotto da Fazi, l’hanno raccontata, al punto che ancor di più sono quelli (spesso la critica) che poco tollerano ciò che viene indiscriminatamente definito metanarrativa. Invece, al solito, è un falso problema, come altri ammucchiati dentro sterili generalizzazioni, da quello del famigerato ombelico, all’altro, apparentemente opposto, dell’impegno (quale impegno?) – contando, evidentemente, solo la qualità e la capacità di dare senso alla letteratura stessa – ossia il suo valore conoscitivo.

Thomas Williams,  che con I capelli di Harold Roux vinse il National Book Award (a scapito di Philip Roth – con My Life as a Man, non una delle sue opere migliori –, Joseph Heller, peraltro un suo ammiratore, come Stephen King, o Donald Barthelme), – fece, se la vedessimo dal punto di vista dei detrattori del metaromanzo, di peggio. Ché Aaron, il protagonista del suo libro, non solo è uno scrittore che cerca di dar vita all’opera, ma ne scrive una in cui a sua volta un terzo scrittore sta cercando di fare la stessa cosa. Ora, la forza del libro “vero” (quello che leggiamo noi) sta intanto nel peso che la vita quotidiana di Aaron – anche contro di lui – sa intrudere fra lo sforzo creativo e la volatilità astratta sempre incombente in una vita sacrificata all’opera. Ciò si traduce in una concretezza della pagina che mostra di conoscere bene la lezione di Flannery O’Connor: raramente le immagini di una scrivania, dei fogli, dei libri hanno trasmesso questo sentore vivido, tattile di cose materiali e quasi organiche («Siede nel suo studiolo circondato di dagli stimolanti e caotici frammenti del lavoro di una vita – libri, pile di vecchie bozze, tagliacarte, matite, penne, una macchina da scrivere, dizionari, scaffali di vecchi e nuovi trimestrali, cataloghi, incunaboli»). Ma c’è ovviamente di più: il racconto che il protagonista del libro tenta di scrivere (storia di un veterano di guerra, psichicamente assai problematico, come il suo rapporto con la violenza) si confonde con la vita più o meno vera più o meno fantasmatizzata dei ricordi, impastati con quelli del narratore, e – congetturando – con quelli dell’autore empirico. E tutto si complica («parte di questo lavoro è ricordo, ma i ricordi non sempre sono affidabili»). Il romanzo ne accumula potenzialmente diversi (anche drammatici, storie di follia e amicizie, di violenza, di passioni mal governate) e li confonde, in un’opera di tutt’altro tenore rispetto all’incastro combinatorio del gioco letterario fine a se stesso: un’inquieta avventura conoscitiva che è il sale della letteratura. Che della letteratura esibisce lo straordinario potenziale che è sempre stata la sua specifica ragione.

(Thomas Williams, I capelli di Harold Roux, trad. di Nicola Manuppelli e Giacomo Cuva, Fazi, pp.  478,  euro 18)

“Alaska” di Claudio Cupellini

Nel 2010 Claudio Cupellini si era presentato alla Festa del Cinema di Roma con Una vita tranquilla, noir psicologico che segnava il suo passaggio dalla commedia più leggera (aveva esordito nel 2007 con Lezioni di cioccolato, in precedenza aveva diretto un episodio dell’ottimo film collettivo 4-4-2 Il gioco più bello del mondo) a un cinema di maggior impegno e introspezione. C’era molta attesa, quindi, ed era lecito, per questo Alaska che segna il suo ritorno all’Auditorium e sul grande schermo dopo cinque anni.

Fausto lavora come cameriere in un grande albergo di Parigi. Il suo sogno è di diventare maitre e aprire un giorno un suo ristorante. Mentre è sul tetto dell’albergo a fumarsi una sigaretta conosce Nadine, una ragazza finita a fare un provino da modella quasi per caso. Tra i due nasce subito un’attrazione forte che preannuncia l’amore, solo che a strettissimo giro Fausto finisce in prigione. Nadine sembra dimenticarlo ma in realtà lo aspetta per due anni e tutto sembra pronto per una vita insieme, che non sarà semplice, sarà piena di ostacoli, incidenti e violenza, attraverso cinque anni difficile che riporteranno i due ragazzi a quell’incontro iniziale e alla sua purezza.

Dopo Toni Servillo, Cupellini si affida a un altro dei migliori attori italiani viventi scaricando sulle spalle di Elio Germano il compito non semplice di tenere una storia che si sviluppa per un arco di tempo (eccessivamente) lungo, che porta i protagonisti su e giù per una serie di scale, da quella sociale a quella dell’equilibrio psicologico, che carica con ogni tipo di tragedie e drammi le vite potenzialmente semplici. Germano come sempre dimostra tutto il suo valore di cui diventa quasi ridondante parlare. Se dici Elio Germano, ormai, dici ottima interpretazione. E accanto a lui, Àstrid Bergès-Frisbey, modella e attrice di origine franco-spagnola, è brava a reggere il livello del suo partner.

Cupellini, dopo la parentesi televisiva con Gomorra, conferma il suo talento registico e la sua capacità di mostrare solitudini e misteri. Fausto e Nadine si prendono subito perché sono soli al mondo, non hanno nient’altro che il desiderio di avere qualcuno a spingerli oltre. Quel qualcuno lo incontrano per caso sul tetto di un albergo, e non sono pronti a lasciarlo andare via mai, anche quando sembra impossibile tornare ad avvicinarsi. Perché c’è sempre la speranza e il bisogno che tornano a spingere i due uno verso l’altro, che li fanno scontrare, che li mettono in pericolo. Schiacciati dai sogni di Fausto, che non è mai in grado di accontentarsi di quello che è e cerca sempre un di più, una vita migliore, un luogo in cui trovare riparo, che siano le braccia di Nadine, che sia l’Alaska (non lo stato unito, ma un locale di Milano di cui diventa socio) o un altro grande albergo, non sono in grado di trovare una felicità che duri per sempre.

Che cos’ha che non va Alaska, quindi? Ha troppo. Troppi minuti di durata, un arco temporale troppo lungo da seguire, un susseguirsi eccessivo si catastrofi da superare, una serie non meglio precisata di ambizioni a cui resistere. Esattamente come Fausto che non è in grado di accontentarsi di quello che ha, il film di Cupellini si trascina alla ricerca di qualcosa che neanche il regista e gli sceneggiatori (Filippo Gravino e Guido Iuculano) sanno bene cosa sia e finiscono per disperdere tutto quello che di buono e di bello era stato costruito in precedenza. Come per i due protagonisti, Alaska non riesce a mantenere per tutti i cinque anni la forza di quel primo incontro. Il messaggio è che un amore simile è in grado di resistere a tutto quello che gli può succedere. La verità è che per un film tutti questi eccessi non sono altro che un peso.

(Alaska, di Claudio Cupellini, 2015, drammatico, 125’)

Carol

“Carol” di Todd Haynes

Seconda interpretazione magistrale di Cate Blanchett alla Festa del Cinema di Roma. Dopo il film di apertura Truth è il turno di Carol di Todd Haynes, già acclamato all’ultimo Festival di Cannes e arrivato nella Capitale per una proiezione speciale e un incontro con il regista.

La Carol che dà il titolo al film è una elegante signora della New York anni Cinquanta, sofisticata e benestante. Cercando un regalo per la figlia piccola incontra Therese, una giovane commessa che sogna di diventare fotografa con un fidanzato che la vorrebbe sposare e portare in Francia. Carol cerca una bambola, Therese la convince a comprare un trenino elettrico. Tra le due donne nasce subito un’intesa che confonde la ragazza, mentre Carol vive un difficile divorzio con il marito che vuole portarle via la figlia con l’accusa di indegnità morale.

Tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith del 1952, adattato per lo schermo da Phyllis Nige, in cui la scrittrice affrontava la scandalosa – per l’epoca – tematica omosessuale partendo da un’esperienza personale, Carol ha tutte le caratteristiche tipiche del cinema di Todd Haynes, da sempre attento alle problematiche legate alla sessualità. Qui torna agli Stati Uniti degli anni Cinquanta come già in Lontano dal paradiso, in un’epoca in cui la società era ferma a un rigore che condizionava ogni aspetto della vita pubblica. Rispetto al film del 2002, l’omosessualità sembra non essere un mistero nella vita di Carol. Il marito conosce l’inclinazione della moglie e ne soffre più per gelosia che per scandalo. Non è tanto l’immagine pubblica, il problema, è il sentimento, che infatti diventa il vero terreno di scontro tra i coniugi Aird. Legato a un’estetica curata ancora una volta dal direttore della fotografia Edward Lachman, già responsabile di Lontano dal paradiso, e fortemente condizionata, ancora, dal cinema di Douglas Sirk, fatta di colori, di forme (l’inquadratura iniziale del tombino) e di richiami costanti a un immaginario da cartolina pubblicitaria, Haynes continua la sua indagine sul mondo femminile che aveva approfondito anche nel lavoro tv per la HBO Mildred Pierce.

Rispetto ai due film già ricordati, però, in Carol Haynes è interessato in misura minore ad approfondire il contesto sociale in cui si muovono le sue protagoniste. Non ci sono riferimenti evidenti al momento storico, all’attualità politica, ai fenomeni culturali. Le due donne vivono in un mondo in cui non esiste un esteriore se non quello che viene portato volontariamente in casa dalla musica, dalla televisione. Le immagini che si vedono, nonostante Therese finisca pure a lavorare al New York Times, sono solo quelle delle fotografie che scatta la ragazza.

Sia Carol che Therese sono due persone in cerca di un posto preciso in cui vivere. Nessuna delle due si riconosce nelle regole che governano la società. Carol è una madre, devota, pronta a tutto per la figlia, anche a rinunciare a se stessa, ma non è una moglie come il marito – e la famiglia del marito – vorrebbe che fosse. Therese non è pronta a rinunciare ai propri sogni per sistemarsi. La sua passione per la fotografia ha bisogno di essere esplorata senza un uomo al fianco, senza le scadenze della crescita, il matrimonio, un figlio e così via. Al di là dell’attrazione che le lega, è questa incapacità di adeguarsi alle aspettative sociali a renderle diverse, a distinguerle e ad avvicinarle. Therese è il «piccolo angelo caduto dal cielo» per Carol, una creatura di un mondo straniero, diversa da tutto quello che ha sempre conosciuto.

Cate Blanchett è una Carol di inarrestabile magnetismo, perfetta come signora di salotto e attraversata da una costante e silenziosa sensualità. Rooney Mara dà a Therese tutta la fragilità della confusione (a tratti, soprattutto nell’ultima parte, è identica a Audrey Hepburn).

(Carol, di Todd Haynes, 2015, drammatico, 117’)

Il suonatore

Per tutti in città Nebbio era il suonatore, e tutti sapevano che sarebbe bastato un bicchiere di vino per far correre le sue dita sull’organetto.
«Va a prendere lo strumento che stanotte è festa!», gli urlavano al bar Speranza in quelle sere che c’era allegria nell’aria e si capiva che avrebbero fatto nottata.
Nebbio sbuffava e si voltava dall’altra parte. Poi però qualcuno faceva un cenno a Stefania che metteva i bicchieri in lavastoviglie e sbuffava pure lei perché le sarebbe toccata la notte lunga. Di solito era Gaetano a pregarla con il suo sguardo mieloso e le mani giunte: allora lei mollava il canovaccio e si rivolgeva seccata a Nebbio: «Dai ragazzo, non fare il prezioso…»
Quello si girava verso Stefania e spiegava un ampio sorriso da mimo.
«Si può fa… fa… fare!», balbettava soffiando con forza l’ultima sillaba.
Tutti avevano imparato che l’unico modo per fargli fare qualcosa era farglielo chiedere dalla barista. La sera del 27 dicembre Nebbio si alzò e guardò Gaetano con lo sguardo torvo, come se volesse mostrare a Stefania che aveva autorità.
«Beh, forza gio… gio… giovane, mica ci arrivo da solo a casa!»
«Agli ordini, caporale!», disse Gaetano scattando sulla sedia e fingendo un saluto militare.
Vuotò il mezzo boccale di birra e si prese Nebbio sottobraccio dirigendosi verso l’uscita.
Di Nebbio si sapeva poco: che viveva da solo alle case popolari e che suonava l’organetto. Nessuno possedeva altre informazioni sul suo conto: quale fosse il suo cognome e se Nebbio fosse il suo vero nome, nessuno lo sapeva. Riusciva sempre a schivare le domande sulla sua età, che poteva oscillare fra i trent’anni di quando il viso assumeva certe espressioni buffe e i quarantacinque di quando appariva accigliato. Era grassoccio e non molto alto; nel suo vestiario non c’era mai una maglia o un pantalone della taglia giusta, e questo attirava su di lui gli sfottò dei bambini che incrociava per strada.
Quella sera Gaetano, mentre lo accompagnava a casa in macchina, provò a chiedergli qualcosa della sua vita, ma quello taceva o interrompeva a metà la domanda per dare indicazioni sulla strada.
«Lo so, Nebbio, ti ci ho accompagnato cento volte…», era costretto a ribadire.
Fu rapidissimo nel salire in casa e prendere lo strumento. Gaetano, ripartendo, gli domandò a che piano della palazzina abitasse, ma lui fece finta di non sentire ed estrasse l’organetto dalla custodia.
Quella sua riservatezza era spesso argomento di discussione al bar Speranza. Una domenica mattina di poche settimane prima, dopo una nottata trascorsa a bere e cantare, ci si trovò a parlarne all’ora del caffè.
«Con quell’organetto è un maestro», aveva esordito Giovanni riferendosi a Nebbio, mentre con un movimento del dito chiedeva di rinforzare la correzione di Sambuca, «è sprecato!»
Carbellini, il geometra del comune, che ogni volta che apriva bocca sfoderando quel suo vocione pareva che tuonasse all’orizzonte, si chiese cosa facesse per guadagnarsi da vivere.
«So che ha una pensioncina di invalidità», se ne uscì Stefania, che in vent’anni dietro al bancone ne aveva sentite tante.
«Sarà così» aggiunse Giovanni «d’altronde si vede che è un po’…», e picchierellò con un dito sulla testa di Carmine, il figlio della barista, che si divincolò infastidito.
«È possibile che non si sappia nient’altro? Sarà nato da una madre pure lui?», strepitò Carbellini, senza ricevere risposta.
La notte fra il 27 e il 28 dicembre fu una notte di baldoria al bar Speranza. Quando Nebbio e Gaetano tornarono con l’organetto, una dozzina di bottiglie già riempivano di nuovo il tavolo liberato soltanto mezz’ora prima.
«Vi siete dati da fare!», rimarcò Gaetano con un sorriso, e corse ad afferrare il boccale che gli stavano porgendo.
Nebbio scansò con il palmo della mano quello che avevano riempito per lui.
«A Nebbio solo vino, non lo avete imparato!»
Nebbio mandò giù il Lambrusco e attaccò a suonare. Dopo qualche nota, un paio di mani cominciò a battere il tempo e ben presto se ne aggiunsero altre. Giovanni riconobbe la canzone e la cantò fino alla fine, sbagliando miseramente tonalità: «Dammi il tuo bel fazzoletto / In guerra lo voglio portar / che se non muoio sopra al tuo petto / almeno il sangue mi devi asciugar…»
Finito il primo stornello portarono altro vino per Nebbio, e lui lo vuotò tra mani che lo acclamavano. Gaetano fece un cenno a Stefania per fargli intendere che ne preparasse un altro, ma quella lo guardò malissimo e si mise le mani sui fianchi.
«Pago io, lo sai…», la rassicurò Gaetano strizzando l’occhio.
Di solito Nebbio riusciva ad arrivare alla fine di quelle nottate senza che dalle sue tasche uscisse un solo centesimo. Le sue serate al bar Speranza iniziavano con lo stesso copione: girava i tavoli dove si giocava a Scopa, non diceva quasi nulla e osservava i giocatori. Poi qualcuno gli offriva un bicchiere di vino; ma la sua fortuna cominciava per davvero quando gli chiedevano di andare a prendere l’organetto. Per avere il suonatore bisognava pagarlo a suon di bicchierini, questo era chiaro a tutti. Giovanni spesso lo prendeva in giro dicendogli che nelle sue tasche dovesse esserci una vipera o qualche altro animaletto velenoso, visto che aveva paura a metterci le mani dentro. Un giorno, per dimostrare pubblicamente che il suonatore, come diceva lui, fosse un “gran taccagno”, riuscì a convincere Stefania a fargli uno scherzo. La barista disse a Nebbio che nessuno aveva pagato il vino della sera prima e che quindi gli toccava di saldare il conto. Quello si fece rosso come un melograno e in un minuto una grossa chiazza di sudore apparve attorno al colletto della polo striminzita. Se non fosse stata Stefania a parlargli, avrebbe forse capito la burla fin da subito e alzato un braccio per mandare tutti a quel paese. Con lei, però, non voleva fare figuracce: allora col suo balbettare nervoso disse che sarebbe tornato il giorno dopo con i soldi.
«E lo avrebbe fatto di certo, se non gli avessimo detto che giocavamo!», aveva commentato Martelli qualche giorno dopo, quando si raccontava lo scherzo.
«E come?», lo aveva subito incalzato Carbellini «Vendendo l’organetto?»
«Può darsi, per la barista farebbe di tutto».
Erano quasi le due di quella mattina del 28 dicembre e le dita agili di Nebbio riempivano il locale di note allegre mentre altre dita si occupavano di far saltare i tappi delle bottiglie. Qualcuno aveva allineato su un tavolo quelle vuote, che parevano soldati schierati in parata. Solo Nebbio beveva vino, un Lambrusco a buon mercato che Stefania comprava solo per lui, e al quinto bicchiere la mano era diventata più veloce e le gote più rosse. Gaetano aveva chiuso la saracinesca del locale beccandosi il solito sguardo di Stefania, al quale rispose con quel suo sorriso irresistibile da bel ragazzo. Se quella sera l’alcol non avesse indebolito i sensi di gran parte degli avventori, certamente qualcuno avrebbe letto in quel sorriso una complicità non comune. Erano ormai anni che la loro storia andava avanti, e a volte loro stessi si chiedevano come fossero riusciti a nasconderla così a lungo.
«Non m’immagino proprio come reagirebbe mio marito… «aveva detto lei una mattina, dopo che avevano fatto l’amore nel bar chiuso».
«Secondo me sarebbe contento», le aveva risposto serio Gaetano, mentre le accarezzava il viso.
«Ma che dici, cretino!», e gli diede uno schiaffetto sulla testa.
«Dai, parliamoci chiaro, non ti pensa proprio più…»
Il volto di Stefania si fece malinconico.
«Non mi pensa più nessuno, ormai…»
«E io sarei nessuno? E poi hai uno spasimante accanito, Nebbio…», le disse per farla tornare a sorridere.
«Ah, sempre Nebbio, certo che ce lo hai qua!», e gli puntò dolcemente un dito sulla tempia.
La nottata del 28 dicembre filava via trascinata dal ritmo dell’organetto di Nebbio. Verso le tre qualcuno cominciò ad andarsene.
«Bu… bu… buonanotte!», urlava Nebbio euforico a tutti quelli che uscivano.
Col vino e l’allegria era diventato disinvolto e quando non suonava parlava in continuazione. Erano rimasti in pochi nel locale ma ormai cantava solo Giovanni e la sua voce, già poco aggraziata, lo era ancor meno dopo le grosse bevute. Stefania cominciò a mostrarsi seccata per far capire ai rimasti che era ora di andare a letto.
«Io però resto…», le sussurrò Gaetano abbozzando quel sorriso a cui lei non sapeva dire di no.
«Scemo, non se ne parla…», le rispose lei senza crederci.
Cominciava a fare freddo. Stefania aveva spento i riscaldamenti e sperava di mandarli via così, raffreddando il locale, ma quelli si scaldavano bevendo e cantando.
«L’ultima ca…ca… canzone! È festa, è Natale!», gridò Nebbio brioso, sollevando il bicchiere come per prendere la rincorsa e mandarlo giù più in fretta. Poi attaccò con lo stornello più allegro che conosceva: «Per lasciarti solo un fiore / t’ho aspettata quattro ore / per darti un bacio vero / c’è voluto un anno intero…»
All’inizio della seconda strofa il suo bicchiere era di nuovo pieno.
«Benzina al suonatore!», urlò qualcuno.
Soltanto una volta Nebbio aveva bevuto più di quanto fosse in grado di reggere. Una sera d’estate gli avevano fatto trovare una vasca di sangria, e in poche ore non ne era rimasto più nulla. A un certo punto aveva mollato l’organetto e si era incupito guardando Stefania. Lei e Gaetano lo avevano accompagnato sotto casa chiedendogli se dovessero portarlo fin nel letto, ma lui aveva risposto offeso che nessuno lo aveva mai accompagnato dentro casa come un ubriacone.
Ora il freddo lo sentivano anche Nebbio e Giovanni, dopo che Stefania, nel mandare via bruscamente Burani, che da un pezzo dormiva su una sedia, aveva lasciato la porta aperta.
«Forza, il concerto è finito», disse aspramente agli ultimi due rimasti, mentre Gaetano, appoggiato al bancone, guardava divertito la barista strappare l’organetto dalle mani del suonatore.
Davanti alla porta, Giovanni chiese a Nebbio se voleva un passaggio, ma si dimenticò che era uscito a piedi quella sera; Nebbio, che aveva buona memoria e il vino non gliela intaccava affatto, scoppiò a ridergli in faccia.
«Stupido, mi porti in bra… bra… braccio?»
Giovanni si accigliò e lo mandò a quel paese; poi scoppiò a ridere pure lui.
«Ti accompagno io, Nebbio», disse Gaetano sulla porta, mentre si accendeva una sigaretta, «la fisarmonica è pesante».
«Organetto, è un organetto, stupido pure tu!», gridò Nebbio, e di nuovo rise di gusto abbracciando Gaetano.
Stefania, intanto, era uscita sbuffando e disse che con quel baccano la vecchia al primo piano di sicuro avrebbe chiamato i carabinieri. Nebbio si fece serio e disse a Gaetano che non doveva preoccuparsi.
«Va… va… vado a piedi. Fa bene, lo dicono pure i medici».
Fece un pezzo di strada con Giovanni fino ai portici, poi si divisero. Erano le quattro e la notte era fredda e senza luna; nulla si muoveva, e Nebbio mormorò fra i denti che le luci di Natale fanno tristezza quando in strada non c’è nessuno.
Passò sulla piazza e vide che c’era gente. Alcuni ragazzi urlavano appoggiati ai sedili delle loro moto e si passavano una bottiglia. Uno allineò minuziosamente una striscia di polvere bianca sulla sella e, schiacciando deciso una narice col dito, usò l’altra per tirar su la polvere. Accanto a lui una ragazza urlò qualcosa e fece per andarsene, ma quello l’afferrò per un braccio e la sventolò come un palloncino, trascinandola verso di sé. Nebbio passò accanto al gruppetto e fece una smorfia di disgusto quando vide che la bottiglia che si passavano era gin.
Odiava il gin da quel pomeriggio d’estate che al bar Speranza gliel’avevano messo in un bicchiere facendogli credere che fosse acqua: era così assetato che mandò giù senza annusare. Fino a sera fece avanti e indietro in bagno, raccontando che aveva vomitato anche un pezzo di budella.
«L’acqua fa male…», lo canzonarono per giorni.
«Tutti bravi a prendervela con lui, io vi avrei fatto saltare i denti!», lo aveva difeso Gaetano.
Nebbio superò il gruppo e qualcuno prese a urlargli contro, ma lui non si voltò e proseguì dritto per la sua strada. Il ronzio nervoso di una moto rimbombò nella piazza e Nebbio sentì che puntava dritto su di lui. Voltandosi, si trovò davanti un ragazzo che lo superava in altezza di una trentina di centimetri. Era poco più che un bambino, pensò Nebbio, e avrebbe voluto invitarlo a tornarsene all’asilo, ma le pupille dilatate di quello lo stavano fissando in maniera spaventoso, sicché non riuscì a dire nulla.
«Rispondi quando ti chiamano, scemo!», gli urlò il ragazzo, lo stesso che aveva sniffato la polvere bianca sulla sella della moto.
Nebbio lo guardò con la bocca mezza; il ragazzo gridò di nuovo e sembrò che le pupille gli stessero per scoppiare.
«Perché non ti sei girato, eh? Non sei forse lo scemo tu?»
«Ma… vai a dormire!», rispose seccato Nebbio e si voltò per andarsene.
«Scemo, guardavi la mia ragazza! Eh, scemo?»
Qualcuno dal gruppo cominciò a chiamarlo; la ragazza che prima aveva strattonato gli si avvicinò e lo pregò di lasciarlo andare e tornare da loro.
«Fatti i cazzi tuoi! Lo sai chi è questo? Il suonatore, il suonatore scemo!»
«Ma va… va… vaffanculo!», biascicò nervosamente Nebbio.
Quello avvampò e gli si gonfiò una vena sul collo. Diede a Nebbio uno spintone così violento che gli fece perdere l’equilibrio e indietreggiare di una decina di passi prima di franare rovinosamente a terra. Il ragazzo fece in tempo a mollargli un calcio nello stomaco prima che quattro braccia lo trascinassero via urlandogli che non si potevano permettere di farsi beccare dagli sbirri.
Nebbio restò a terra qualche minuto serrando i denti in un ghigno di dolore che sembrava stesse ridendo. Era notte, la gente dormiva, e a lui quasi venne naturale sopprimere le urla che pure gli salivano in gola. Le moto ronzarono all’unisono e Nebbio le sentì allontanarsi verso i portici. Il dolore si attenuò e lentamente si mise in piedi; recuperò l’organetto che, cadendo a terra, aveva perso una dozzina di tasti. Li raccolse a uno a uno e se li ficcò in tasca.
Improvvisamente, scoppiò a piangere. Lacrime grosse come pioggia d’estate gli colavano dagli occhi bagnandogli il collo. Sentì il bisogno di un volto amico e pensò a Gaetano e a Stefania. Si incamminò verso il bar sperando di incontrare Gaetano che faceva la strada a piedi per tornare a casa; oppure di trovare Stefania ancora al bar, che puliva i pavimenti. Sentiva dolore allo stomaco e cercava di spiegarsi il perché di tutta quella crudeltà: stava soltanto tornando a casa, senza dar fastidio a nessuno!
Imboccò un vicolo del corso e appoggiò la mano a un muro per reggersi mentre vomitava. Si riavviò, e anche se si sentiva meglio non riuscì a smettere di tremare. Qualcuno, al sentire quel piagnucolare sommesso, fece capolino da una finestra, ma subito richiuse le imposte farfugliando qualcosa sulle forze dell’ordine che non ci sono mai quando servono.
Da lontano il bar sembrava chiuso, ma avvicinandosi Nebbio vide un filo di luce passare sotto la saracinesca mezza fracassata che Stefania non aveva mai fatto riparare. Picchiettò piano piano e da dentro vennero rumori deboli e nervosi: a Nebbio parve di sentire un grido e pensò dispiaciuto che di sicuro aveva spaventato Stefania.
Soltanto un’altra volta a Nebbio era capitato di tornare al bar chiuso e di picchiare per farsi aprire. Quella notte tutti ballavano come posseduti e qualcuno aveva tirato via Nebbio dalla sedia e lo aveva messo in mezzo. Aveva perso il conto dei Lambrusco e questo lo aiutò a suonare e ballare nello stesso tempo senza difficoltà. Davanti casa, non trovando le chiavi nelle tasche del pantalone, si era convinto di averle perse in quel ballo scemo ed era tornato indietro prima ancora di perquisire il cappotto.
«Quel cretino di Gio… Gio… Giovanni… m’ha tirato a ballare e ho perso le chiavi!», aveva detto quella volta a Stefania, farfugliando mille scuse.
«Sei sicuro? Ho lavato a terra e non ho trovato niente. Hai controllato nelle tasche del giaccone?»
Le chiavi le aveva con sé, e si mortificò per quella figuraccia fatta davanti a Stefania; ma lei lo mandò a dormire sereno dicendogli che non si preoccupasse, che non era successo niente.
Quasi albeggiava il 28 dicembre e Nebbio aspettava invano che Stefania gli aprisse. Dopo un po’ ebbe una crisi e ricominciò a piagnucolare e poi a piangere a dirotto; infine, prese a gridare e a picchiare forte sul metallo freddo della saracinesca.
«Sto male Stefania… per favore! Stefania scusa…»
La donna lanciò in aria la saracinesca e si trovò davanti la faccia sporca e spaventata di Nebbio: si teneva la pancia con tutte e due le mani e un po’ di sangue gli macchiava la fronte.
«Gesù mio, Nebbio, ma che t’è successo?», urlò Stefania.
A quel grido Gaetano, che nel frattempo si era ficcato in bagno, si buttò fuori con la camicia mezza aperta. Quando se lo vide davanti, Nebbio smise improvvisamente di piangere e si staccò da Stefania che intanto lo aveva abbracciato e gli diceva di calmarsi. Gaetano gli sbucò davanti con la faccia di chi ha visto un morto uscire dal loculo e Nebbio replicò con uno sguardo eloquente che esprimeva insieme dolore e delusione. Lui e lei, la saracinesca abbassata, l’esitazione ad aprire: cosa stava succedendo? Il volto di Nebbio si accese di rabbia; nel suo stomaco nacque una nuova amarezza, ben diversa da quella causata dal brutto episodio vissuto.
«Nebbio, che hai fatto?», domandò agitato Gaetano, «Vieni dentro che chiamiamo un medico e parliamo un po’», disse benevolo, perché gli sembrava che Nebbio avesse capito tutto.
Nebbio guardò adirato prima lui e poi Stefania: fece qualche passo indietro continuando a fissarli come si fissa uno scarafaggio sul cuscino. Poi si voltò e cominciò a correre come mai nessuno lo aveva visto fare prima. Gaetano fece per inseguirlo ma Stefania lo fermò sulla porta.
«A che serve? Mica è stupido…»
«Che vuol dire? Non possiamo lasciarlo andare così!», le rispose quasi offeso Gaetano che ora aveva una faccia da cadavere.
«Non dice niente a nessuno, lo so, ma ci sta male lui! Domani ci parliamo… vedi che ora fa giorno…»
La sera dopo Nebbio non si fece vedere al bar, e dopo le otto a Stefania e Gaetano fu chiaro che non sarebbe venuto e si dissero sottovoce che, in fondo, se lo aspettavano. Giovanni e Carbellini si chiesero dove fosse finito il suonatore, ma soltanto quando i bicchieri erano diventati tanti e la voglia di cantare saliva dal fegato alla gola. Gaetano voleva andare alle case popolari a cercarlo, ma Stefania lo sconsigliò perché secondo lei a Nebbio serviva qualche giorno per realizzare ciò che aveva visto; poi, di sicuro, sarebbe tornato. Lui le disse che avrebbe aspettato qualche altro giorno e poi sarebbe andato a cercarlo; per tutta la settimana il suonatore non si fece vedere, e il sabato pomeriggio Gaetano andò a casa sua. Stefania volle seguirlo e lasciò Carmine al bar, dicendogli che non facesse credito a nessuno, specialmente a Giovanni.
Alle case popolari chiesero a un gruppetto di bambini radunati nel cortile dove abitasse Nebbio: quelli prima indicarono l’appartamento, poi aggiunsero che da qualche giorno il suonatore non si vedeva in giro. Gaetano e Stefania passarono mezz’ora davanti alla porta a suonare e bussare e chiamare Nebbio. Gaetano l’ansia non la tratteneva, e allora pensò al peggio perché aveva avuto un amico che si era impiccato a un lampadario dieci anni prima. Gli avevano raccontato di una scena simile a quella stava vivendo: mezz’ora davanti a un portoncino e nessuna risposta dall’interno. Dominato da quel ricordo, cominciò a prendere a spallate la porta mentre Stefania gli urlava di fermarsi, dicendogli che sarebbe stato più ragionevole chiamare i vigili del fuoco. Gaetano non la sentiva e caricava come un montone: il legno mediocre della porta fracassò dopo qualche spinta e per poco non venne giù anche lo stipite. Gaetano corse in tutte le stanze; aprì porte e armadi, si affacciò a tutte le finestre e si chinò a guardare sotto il letto. Stefania, invece, entrando in quella casa buia e silenziosa aveva subito pensato che non ci fosse nessuno.
«Gaetano…», chiamò lei dalla cucina con una strana calma nella voce.
Arrivò col cuore che gli tamburellava follemente in petto e si fermò davanti a Stefania, la quale gli dava le spalle e fissava qualcosa davanti a sé. Gaetano si accostò e guardò pure lui.
Sul tavolo della cucina c’era l’organetto di Nebbio, e accanto una manciata di tasti rotti.

 

Lorenzo Del Sole (1982) è nato in provincia di Campobasso. È laureato in Lingue e Letterature Straniere e ha conseguito una laurea specialistica in Lingue per la Cooperazione Internazionale e un master in Marketing e Comunicazione. Attualmente vive a Roma dove è impiegato in una società di servizi. Sta lavorando al suo primo romanzo.

“Dobbiamo parlare”
di Sergio Rubini

Terzo film italiano della selezione ufficiale della decima edizione della Festa del Cinema di Roma, Dobbiamo parlare segna il ritorno alla regia di Sergio Rubini due anni dopo Mi rifaccio vivo. Cambia la cornice e il tema, non più la Puglia e il racconto di ampio respiro ma un cast ridotto in un unico ambiente romano.

Dobbiamo parlare, come la frase standard che dà il via ai discorsi conclusivi delle relazioni si concentra su una doppia coppia in crisi in cornice borghese. Vanni è uno scrittore cinquantenne autore di numerosi romanzi di successo. Da qualche anno la vena si è un po’ spenta, ma continua a vendere grazie al contributo in scrittura di Linda, la sua giovane compagna che gli fa da ghostwirter, segretaria, addetto stampa e così via. Una sera, prima di una cena con l’editore, si vedono piombare nel loro elegante attico nel centro di Roma l’amica di sempre Costanza, in piena crisi con il marito Alfredo, detto il Prof, luminare della cardiochirurgia. Costanza ha scoperto che Alfredo la tradisce e si sfoga con gli amici progettando il divorzio. Arriva anche Alfredo e quella notte diventa una resa dei conti generale per tutti e quattro.

Ci sono due diversi tipi di borghesia, in Dobbiamo parlare, da un lato quello radical chic intellettuale, astratto, indifferente al denaro e incline a ogni forma d’arte. Dall’altro quello concreto, in carriera, organizzato e gestito come un’impresa, che minimizza le forme d’arte a categorie minimali (parlando di Basquiat, «Questo potrebbe farlo pure mio nipote di cinque anni», che sarebbe una battuta trita e ritrita, ma viene servita bene). Dovrebbero essere, ancora, sinistra e destra. La differenza politica, però, emerge soprattutto da alcuni scambi decisamente fuori contesto, con riferimenti al PD messi lì così.

Si sente molto l’impianto teatrale del progetto, che infatti nasce come testo per il teatro per poi essere convertito per il grande schermo. Perché Sergio Rubini, con Diego De Silva e Carla Cavalluzzi, ha iniziato a scrivere Dobbiamo parlare per il palcoscenico, poi è passato al grande schermo e nei prossimi mesi il testo torna a teatro, con lo stesso cast e il titolo leggermente cambiato Provando… Dobbiamo parlare.

L’influenza del teatro di Yasmine Reza è evidente, in particolare di quel Dio del massacro trasformato in Carnage e in grande cinema da Roman Polanski. La struttura di confronto tra due coppie, la cornice dell’appartamento e della borghesia, l’isteria crescente servono infatti come camera di incubazione del massacro finale, della mostra delle bugie della vita insieme, delle ipocrisie delle amicizie e delle relazioni. È simile infatti anche a Il nome del figlio che a Polanski già doveva un bel po’. Proprio per questo, Dobbiamo parlare non ha molto di nuovo da dire nel panorama del cinema borghese che parla a se stesso e la gabbia del teatro è troppo stretta per lasciare piena libertà di sviluppo. C’è anche quella ridondante e superflua voce fuori campo che presenta il film affidata ad Antonio Albanese nei panni, o nelle pinne, niente meno che del pesce rosso di casa.

Quel qualcosa in più viene dai personaggi, da come sono costruiti e come sono interpretati dal cast: Sergio Rubini che fa Vanni, Isabella Ragonese che fa Lidia, Fabrizio Bentivoglio che fa il Prof, con una carica di romanità volgare inedita, e Maria Pia Calzone (la donna Imma di Gomorra – La serie, che ormai ha una carriera cinematografica lanciatissima). Pur giocando con gli stereotipi dell’intellettuale e del generone romano, dell’ipocrisia borghese e dello snobismo radical chic, Rubini riesce a muoversi all’interno del modello del teatro francese già responsabile di Carnage Il nome del figlio inserendo alcuni elementi di novità per la resa dei conti finale che porta fragilità inattese e una sostanziale accettazione dell’ipocrisia come rimedio necessario per la vita d’oggi.

(Dobbiamo parlare, di Sergio Rubini, 2015, commedia, 98’)

“L’amico ritrovato”
di Fred Uhlman

«Ora il problema fondamentale non era più la natura della vita, ma ciò che di questa vita, priva di valore e al tempo stesso preziosa, dovevamo fare. Come impiegarla? A che fine? E per il bene di chi, il nostro o quello dell’umanità? Com’era possibile, insomma, mettere a buon frutto quella brutta realtà che era l’esistere?»

A chiunque si chieda di questo libro, L’amico ritrovato di Fred Uhlman, la risposta resta identica e intatta, al di là di qualsiasi circostanza: «Un piccolo capolavoro».

Ed è davvero questo che si prova, che si pensa. Perché diciamo “piccolo” pensando allo spessore, al suo essere così poco ingombrante, e non certo per quanto abbia lasciato alla letteratura, e a noi lettori.

L’amico ritrovato ci riporta nella Germania dei primi anni ’30, tra i banchi di un liceo di Stoccarda: «L’aula scolastica, con le panche e i banchi massicci, l’odore acre, muschioso, di quaranta pesanti cappotti invernali, le pozze di neve disciolta, i contorni bruno-giallastri sulle pareti grige in corrispondenza del punti in cui, prima della rivoluzione, erano appesi i ritratti del Kaiser Guglielmo e del re del Württemberg».

Credo non capiti tutti i giorni, di trovare la poesia più sincera, intima, incontaminata, in un romanzo che in sole 92 pagine, riesca a ripercorrere episodi vissuti in uno dei periodi più tristi della storia dell’uomo. Ecco perché penso a Fred Uhlman, e mi viene in mente un uomo divenuto avvocato solo perché qualcuno magari gli gridava nelle orecchie che la poesia è una sciocchezza, che rende gli uomini morti di fame e basta. E poi me lo immagino mentre dipinge, e mi vengono in mente solo i colori più tenui, puliti e caldi. Di quelli che solo a guardarli ti accendono il cuore, e ti fanno vedere tutto ciò che ti circonda con una nostalgia che in realtà non ti appartiene.

L’amico ritrovato è un po’ come uno di questi dipinti, un olio su tela lavorato da mani affidabili e occhi attenti a non creare incompatibilità tra i vari pigmenti. Occhi che hanno vissuto e sentito sulla pelle la follia di un uomo che ha saputo plagiare troppi conterranei, troppi uomini. Un uomo salito al potere per disseminare morti e gettare sangue sulla bellezza che la storia e molti altri uomini hanno provato a lasciare ai posteri. La Germania che ci racconta Uhlman è la stessa di Goethe e Schiller, è la stessa terra che ha visto esplodere un’amicizia intensa, tra un ragazzino ebreo e un aristocratico figlio di nazisti.

La terra che conserva il meglio e il peggio della storia dell’umanità e, per nostra fortuna, anche capolavori letterari come questo. Un piccolo romanzo dedicato all’amicizia dal sapore fanciullo e romantico, messa a dura a prova dalla storia, quella con la S maiuscola. Quella che ti cambia anche se non vuoi. Che ti porta dove non vorresti.

Un testo da inserire obbligatoriamente nelle nostre scuole, nelle nostre vite.

 

(Fred Uhlman, L’amico ritrovato, trad. di M.G. Castagnone, Feltrinelli)

“Land of Mine”
di Martin Zandvliet

Una delle conseguenze meno conosciute della seconda guerra mondiale è il perno narrativo di Land of Mine (in Italia sarà distribuito come Sotto la sabbia) del danese Martin Zandvliet, visto stamattina all’Auditorium dopo essere passato, secondo una prassi ormai consolidata negli ultimi anni, per il Toronto International Film Festival.

Nel 1945, subito dopo la fine del secondo conflitto globale, nella Danimarca appena liberata dal nazismo si contavano quasi due milioni di mine nascoste sotto la sabbia delle coste, più di quante ce ne fossero in tutto il resto d’Europa messo insieme. Per liberare il Paese dagli ordigni, il comando alleato decise di usare i prigionieri di guerra tedeschi per smantellare le bombe a mani nude e senza nessuna preparazione specifica. Il sergente dell’esercito danese Rasmussen riceve l’incarico di comandare un reparto di quattordici prigionieri per bonificare un tratto di costa infestato da quarantacinquemila mine. Si troverà davanti un gruppo di ragazzini spaventati che vogliono soltanto tornare a casa.

Nella verità della storia, circa duemilaseicento soldati tedeschi vennero costretti a sminare le coste danesi alla fine della seconda guerra mondiale. La maggior parte aveva tra i quindici e i diciotto anni ed era stata reclutata a forza dal Reich nei mesi drammatici che precedettero la resa, per rimpolpare un esercito sempre meno numeroso. Più della metà di questi ragazzini perse la vita nelle operazioni di sminamento o rimase gravemente ferito. La Danimarca e il comando britannico costrinsero i prigionieri in aperta violazione della Convenzione di Ginevra del 1929 che vieta per i detenuti in tempo di guerra i lavori forzati o potenzialmente pericolosi. Nelle immediate conseguenze di un conflitto, e di un occupazione durata cinque anni, il sentimento prevalente tra il popolo danese era un odio senza troppe riserve per tutto quello che fosse tedesco. Lo si vede all’inizio del film, con il sergente Rasmussen che brutalizza un prigioniero in marcia colpevole di essersi portato via una bandiera danese. L’odio verso un’entità astratta, del resto, verso una categoria umana, un’idea, il tedesco (o altro in generale) in assoluto, è un sentimento da cui è molto facile lasciarsi sopraffare, soprattutto quando c’è un passato di soprusi e prevaricazioni. A quel punto è facile, per un comando distante, decidere di affamare i prigionieri, di usarli come esche umane per l’esplosivo come catarsi violenta per la colpa dell’invasione. Diventa tutto un altro discorso quando questa entità inizia ad assumere un volto, un nome, una vita.

Lo sfruttamento dei prigionieri di guerra in Danimarca è ancora oggi un argomento tabù, un motivo di profonda vergogna per l’identità nazionale. Il regista Martin Zandvliet sceglie di non dare nessuna inquadratura politica al suo racconto limitandosi a mostrare e a raccontare i fatti. Non c’è condanna per i vertici danesi che decisero di sfruttare i tedeschi, non c’è ideologia. È una storia di umani che incontrano umani, di ragazzini che sognano di tornare a casa per mangiare il cibo cucinato dalla madre, per avere una ragazza, per fare i muratori in un paese da ricostruire alla fine della guerra.

I ragazzi agli ordini di Rasmussen sono vittime della guerra, non sono responsabili delle colpe del Reich nazista. Questa è la novità del punto di vista di Land of Mine che riesce a far capire come le distanze, per quanto immense, siano superabili con l’incontro e come anche tra i vincitori e vinti non ci siano differenze. Lo spettatore è abituato a vedere la Germania nazista come il Male per eccellenza. Qui viene ricordato che il male non risponde a una sola bandiera, ma solo all’istinto umano.

Piuttosto schematico in alcuni passaggi chiave, questo quarto film di Martin Zandvliet ha il pregio di essere un apologo non banale sul senso della vendetta e del perdono, sul peso della responsabilità collettiva su quella individuale, sulle colpe della storia e sui suoi silenzi.

(Land of Mine, di Martin Zandvliet, 2015, drammatico, 101’)

“L’appartamento”
di Mario Capello

Dispiace non parlare bene di un romanzo. Ma a volte non se ne può fare a meno, benché il punto di vista di chi elabora un giudizio sia sempre estremamente soggettivo e idiosincrasico.

La scrittura, presente in questo testo, è così trasparante da scivolare via senza lasciare traccia. Fluisce, sì certo senza inciampi e ostacoli, e si dipana, sì certo senza garbugli e intrecci, e procede, sì certo senza fraintendimenti, però non soddisfa, come quando si beve un bicchiere d’acqua e non un calice di champagne millesimato.

La storia sembra ruotare intorno al rapporto tra realtà e letteratura. Almeno a me è sembrato.

Angelo, il protagonista, abbandona un lavoro nell’editoria per andare a vendere appartamenti: dall’astrattezza dei libri alla concretezza di una casa da proporre e da vendere.

L’incontro con Ferrero, un probabile acquirente che diventa amico di Angelo, reintroduce il tema della letteratura: Ferrero ha scritto un romanzo e lo propone in lettura ad Angelo. Ma, qui, nel romanzo di Ferrero, la fiction si mescola con una realtà fin troppo presente e difficile.

Il circolo si chiude: letteratura, realtà, letteratura più realtà. Una tesi, un’antitesi e una sintesi hegeliane? Rimane un senso di insoddisfazione nel lettore che attraversa la filigrana leggerissima del romanzo. Nel finale si profila una specie di piccola suspense. È sufficiente per dare forza al testo? Non credo.

Personaggi e scrittura hanno una loro invertebrata essenza, e anche il plot narrativo. Non mancano, poi, accenni a una qualche vita che Angelo ha vissuto, prima che comparisse nelle sue vesti di agente immobiliare. Una ex moglie e un figlio piccolo. Si intravede un disagio affettivo che Angelo sublima nell’incontro con Ferrero. Ferrero: un sostituto di padre? L’esistenza di Angelo si muove tra minuscole scelte. Angelo è un uomo dissanguato che non sa bene cosa cerca e se cerca.

Insomma… c’era bisogno di questo romanzo? Lo si legge e lo si dimentica con la medesima velocità.

I tentativi di dare riscatto alla scrittura naufragano in scelte del tipo: «I platani fremevano nella brezza […] come grandi sonagli», «macchiando la plastica di energia», «una piccola voragine di senso e di tempo», «le tapparelle abbassate come palpebre chiuse», «tatuato dentro nelle circonvoluzioni dei neuroni».

Non me ne voglia l’autore. Non ho trovato in L’appartamento né poesia, né dramma, né eccitazione. Amen.

 

(Mario Capello, L’appartamento, Tunué, 2015, pp. 144, euro 9,90)