“The Walk”
di Robert Zemeckis

Sette anni dopo, il funambolo francese Philippe Petit torna all’Auditorium con la storia della sua impresa più celebre. Nel 2008 era stato Man on Wire di James Marsh a conquistare il pubblico romano prima di arrivare ad aggiudicarsi l’Oscar per il miglior documentario, oltre a tanti altri premi. Quest’anno è Robert Zemeckis a raccontare in un film la storia vera di una delle imprese più impensabili dell’essere umano, un atto di coraggiosa follia che ha cambiato la geografia di una città. Una passeggiata, The Walk come dice il titolo, solo che è stata fatta su un cavo di acciaio teso a più di quattrocento metri d’altezza, da una all’altra delle due Torri Gemelle del World Trade Center, senza nessun cavo di sicurezza.

The Walk racconta la storia vera dell’impresa compiuta dal funambolo Philippe Petit il 7 agosto 1974 quando riuscì a spostarsi da una all’altra delle due torri camminando su una fune tirata tra i tetti delle Twin Towers, centodieci piani l’una, inaugurate poco più di due anni prima e non ancora completamente aperte al pubblico. Petit riuscì nella passeggiata intrufolandosi di notte sul tetto seguendo un piano a cui aveva iniziato a lavorare anni prima, quando aveva letto nella sala d’aspetto di un dentista la notizia della costruzione dei grattacieli. Petit aveva ventiquattro anni. Da bambino aveva deciso che sarebbe diventato un funambolo e aveva iniziato a studiare per conto suo, fino a cominciare a esibirsi per strada, a Parigi, per pochi spicci. Alla ricerca di un’impresa sempre più grande, aveva già camminato tra le  torri di Notre Dame ed era già stato arrestato, ma non ha mai lasciato perdere il suo sogno, quello di camminare su una corda tesa tra i due edifici più alti al mondo.

Il cinema di Robert Zemeckis, da sempre, si trova molto più a suo agio con le immagini che con le parole. È un regista che ha fatto la sua fortuna con l’innovazione visiva, da Chi ha incastrato Roger Rabbit? fino ai più recenti esperimenti di in CGI Polar Express, La leggenda di Beowulf A Christmas Carol. Non che siano mancati titoli dall’approccio più classico che sono considerati comunque dei capolavori (uno su tutti, Forrest Gump), ma vedendo i suoi film sembra evidente che Zemeckis si trovi molto più a suo agio con il lato spettacolare dell’intrattenimento che con quello più riflessivo. The Walk lo conferma. Scritto dal regista con Christopher Browne, questo racconto della storia vera di Petit si affida sin dall’apertura a un impianto che rimanda allo spettacolo circense, con Petit interpretato da Joseph Gordon-Levitt che presenta al pubblico la storia del progetto. È una voce fuori campo ridondante, che si limita a ripetere quello che già si vede, che serve solo a dare all’intero film un tono tra l’ironico e il sornione che può anche allontanare lo spettatore. Non c’è molto spazio, quindi, per una problematizzazione degli aspetti psicologici di Petit, del perché della sua ossessione, o della dicotomia costante tra vita e morte che pure viene posta come una delle possibili chiavi del film sin dalle prime scene.

Aggiungiamoci che sul piano visivo, la scelta per un 3D radicale supportato da una computer grafica insistente nella prima parte può risultare a dir poco straniante, ma tutto è funzionale allo spettacolo che nel film coincide con la preparazione e l’attuazione del folle piano. È nella parte finale che The Walk diventa un grande film, emozionante, spettacolare, da brividi. Allora sì, il 3D diventa uno strumento potentissimo per costruire il vuoto in cui galleggia Petit, per dare tutta la profondità del nulla di quattrocento metri che rimane in agguato sotto di lui. A guardare quelle scene ci si dimentica tutto – gli effetti speciali, le situazioni stereotipate, un gabbiano impresentabile – e si rimane a bocca aperta come davanti alla vera impresa di Petit.

Probabilmente, la parte più difficile di The Walk non è stata quella tecnica di girare in un set inesistente (ormai è prassi a Hollywood, non esiste praticamente più un fondale che non sia aggiunto in computer grafica) quanto andare a ricostruire le Torri Gemelle e rischiare di grattare una cicatrice ancora troppo fresca per essere dimenticata. Quel filo teso tra i due grattacieli porta indietro a quando c’erano ancora due palazzi gemelli a dominare New York. Non è un argomento di cui al cinema si ha il coraggio di parlare spesso. Robert Zemeckis è riuscito a trovare la nota giusta di affettuosa e sofferente nostalgia.

(The Walk, di Robert Zemeckis, 2015, commedia, 125’)

Lo chiamavano Jeeg Robot

“Lo chiamavano Jeeg Robot”
di Gabriele Mainetti

Non poteva partire meglio il cinema italiano in questa decima edizione della Festa del Cinema di Roma (qui trovate tutti i dettagli del programma). È vero che il cinema nazionale è presente con solo quattro titoli tra i trentasette della selezione ufficiale, ma se sono tutti come Lo chiamavano Jeeg Robot, il film di esordio di Gabriele Mainetti, c’è da esserne felici.

Enzo è un piccolo criminale che se la cava con scippi e furtarelli. Un giorno, mentre scappa dalla polizia che lo sta inseguendo, cade nel Tevere, in un bidone di scorie radioattive. Si accorge il giorno dopo che il contatto con i materiali tossici gli ha dato una forza e una resistenza eccezionali. Sarà Alessia, ragazza turbata dalle molestie del passato e che vive nel mito costante del cartone animato Jeeg Robot d’acciaio, a convincerlo a usare i suoi poteri per fare il bene.

Gabriele Mainetti è noto soprattutto come attore per la televisione (CriminiLa nuova squadra) e per la regia di un cortometraggio del 2008, Basette (lo potete vedere qui), con Valerio Mastandrea, Daniele Liotti, Marco Giallini e Flavio Insinna, in cui erano già presenti alcuni elementi che sono poi finiti in questo suo originale, divertente e perfettamente riuscito lungometraggio d’esordio. Il riferimento alla cultura manga giapponese, ad esempio, Lupin III nel corto, Jeeg Robot qui, la realtà della Roma difficile delle periferie (in entrambi i casi è Tor Bella Monaca), la fuga dalla realtà dolorosa nell’immaginazione. Con Lo chiamavano Jeeg Robot è riuscito nell’impresa tutt’altro che semplice di trovare una via italiana al cinecomic, riuscendo dove aveva fallito Gabriele Salvatores con il deludente Il ragazzo invisibile dello scorso anno. La via giusta la trova modificando di poco la realtà e immaginando una Roma vittima di continui attacchi terroristici gestiti dalla camorra per fare pressioni sul governo. Nel clima di incertezza e paura quello di cui c’è bisogno è un eroe che sappia rassicurare le gente. E l’eroe può venire da ovunque, anche dalla più abbandonata delle periferie e da una casa buca piena di vasetti di yogurt e film porno.

Funziona tutto, in Lo chiamavano Jeeg Robot. È divertente, riesce a fondere insieme tutti i generi, dal noir alla commedia romantica, passando per il cinema criminale e lo spaccato sociale, e soprattutto raggiungendo i modelli di cinema supereroistici più “alternativi” tipo Chronicle Kick-Ass e fondando un linguaggio nuovo per la produzione nazionale, finalmente libera da eccessive pretese autoriali e felice di riunirsi con il cinema di genere, e allo stesso tempo consapevole dei propri limiti e di quello che può offrire. Ci sono effetti speciali solo quando servono, non c’è un eccesso di computer grafica. Insomma, c’è un approccio funzionale a quello che bisogna raccontare, senza cercare di fare la Marvel ma facendo quello che è necessario. A parte i riferimenti fumettistici, a tratti sembra di essere davanti a uno di quei racconti di periferia di Niccolò Ammaniti, pieni di personaggi sgangherati e irresistibili con una passione smodata per la musica leggera degli anni Ottanta.

Claudio Santamaria, dopo aver dato la voce al Batman di Christopher Nolan nella versione italiana, ingrassa di venti chili e diventa l’asociale Enzo Ceccotti, eroe per caso. A fargli perdere la testa è l’Alessia interpretata da Ilenia Pastorelli che arrochisce la voce alla Micaela Ramazzotti e si immerge nel ruolo tutt’altro che semplice della malata di mente, ma è soprattutto Luca Marinelli nei panni del supercattivo a prendersi gli applausi e l’attenzione dello spettatore.

Il finale, che rimanda direttamente a Batman, sembra preludere alla possibilità che la storia di questo Jeeg Robot con maschera fatta a maglia che veglia sulla Capitale dalla borgata possa andare avanti. Sarebbe veramente una bella notizia per il cinema italiano.

 

(Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, 2015, azione, 115’)

 

Truth

“Truth” di James Vanderbilt

Inizia all’insegna del cinema d’inchiesta la decima edizione della Festa del Cinema di Roma con Truth, esordio alla regia dello sceneggiatore James Vanderbilt (Zodiac), già passato al Toronto International Film Festival, che ha portato sullo schermo il cosiddetto “Rathergate” che scosse l’opinione pubblica statunitense nel 2004.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Mary Mapes, giornalista e produttrice per il canale televisivo CBS del programma 60 Seconds, riceve delle informazioni sul servizio militare del presidente in carica, George W. Bush. Da ragazzo, Bush jr. avrebbe ricevuto dei favori per aggirare la leva obbligatoria (e di conseguenza la guerra del Vietnam) ed essere assegnato alla Guardia Nazionale come pilota. Mary inizia a costruire un servizio per scoprire la verità con l’aiuto di Dan Rather, amico e mentore e volto storico del giornalismo tv statunitense. L’inchiesta avrà delle conseguenze che coinvolgeranno Mary, la sua squadra e tutta la CBS.

James Vanderbilt è partito dal libro di Mary Mapes Truth and Duty, con cui la giornalista ricostruì nel 2005 tutta la vicenda del Rathergate che finì per costarle il posto e ogni possibilità di carriera televisiva, per parlare in senso più ampio della trasformazione del giornalismo nell’era digitale e del potere della politica sull’informazione. Mary Mapes prima di partire con il servizio su Bush jr. era stata responsabile dello scoop che aveva portato alle confessioni relative alle torture nel carcere di Abu Grahib. Insomma, era (e probabilmente lo è ancora), una che il suo lavoro lo sapeva fare e che lo faceva per inseguire sempre la verità. Mapes e con lei l’anchorman Dan Rather sono esponenti di un giornalismo ispirato al l’ideale della domanda in più, del chiedere sempre per trovare la verità.

Vanderbilt, che ha anche sceneggiato Truth con l’aiuto della stessa Mary Mapes, si rifà alla migliore tradizione del cinema giornalistico statunitense, da Tutti gli uomini del presidente in poi, e arricchisce il suo film con la testimonianza di un passaggio epocale, con la fine della prima epoca della vita digitale e l’avvento del web 2.0, con le conseguenze che comporta anche per il giornalismo che si trova affiancato e incalzato costantemente dai blog di opinione. Il servizio di 60 Seconds viene smontato prima di tutto sul web, con attacchi che si rivolgono non tanto alla sostanza dei fatti sostenuti quanto ai dettagli dell’esposizione, al tipo di font usato nei documenti attribuiti al comando della Guardia Nazionale, alle spaziature e agli apici. La verità si perde di vista nei dettagli insignificanti e alla fine quello che non si vede più è la domanda fondamentale che il bravo giornalista deve porre. In tutto questo, c’è anche il canto del cigno del giornalismo d’inchiesta, ormai non più redditizio per le piattaforme televisive già nel 2004 pronte a inclinarsi sempre di più verso il puro intrattenimento e un tipo di informazione che lascia in secondo piano l’attualità e l’approfondimento per mettere in mostra il superfluo e tutto ciò che possa garantire ascolti.

Sorretto soprattutto dalle interpretazioni, con la già due volte premio Oscar Cate Blanchett che allunga già le mani verso la terza statuetta (ci sono due momenti in cui è veramente da brividi) e Robert Redford che sembra divertirsi a tornare nei panni del giornalista in un film vicino anche alle tematiche del suo cinema da regista (Leoni per agnelli, ad esempio), Truth non si fa problemi a mostrarsi vicino a Mary Mapes e alla sua squadra contro le istituzioni televisive e si lascia andare anche a teorie di complotto sulla manipolazione dell’informazione a opera di un controllo centrale in mano allo stesso Bush. A volte finisce per girare a vuoto, per mostrare troppo velocemente i suoi passaggi, ma riesce a mantenersi sempre teso e compatto e a mostrare come funziona l’informazione televisiva negli Stati Uniti, o almeno come funzionava prima dell’esplosione di internet.

(Truth, di James Vanderbilt, 2015, drammatico, 125’)

“Anna” di Niccolò Ammaniti

Pare che l’idea di Anna, l’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti uscito per Einaudi lo scorso 29 settembre, sia nata durante una vacanza siciliana. Ammaniti era in spiaggia e osservava un gruppo di bambini giocare sotto lo sguardo attento dei genitori. Come si comporterebbero quegli stessi bambini se il mondo adulto non esistesse, se fossero loro gli unici su quella spiaggia, in tutta la Sicilia, in tutto il pianeta?

È proprio questo lo spunto di partenza. In Sicilia, nell’anno 2020 circa, Anna è una bambina di forse tredici anni rimasta sola con il fratellino Astor. I genitori sono morti, come tutti gli adulti. Un virus, arrivato dal Belgio, fa ammalare e poi uccide tutti. I primi sintomi compaiono con l’inizio della pubertà, il corpo si riempie di macchie rosse, sale la febbre e si muore. La chiamano La Rossa. Al mondo sembrano essere rimasti solo i bambini, senza un mondo adulto a cui affidarsi. Vivono senza regole. Forse la salvezza è fuori dall’isola, ma non ci sono certezze. Anna decide di partire verso la Calabria con il fratello, un cane guerriero che ha iniziato a seguirla dopo uno scontro e un ragazzo di nome Pietro.

L’adolescenza è sempre stata centrale nei libri di Ammaniti, come momento di passaggio, come momento di confronto con le regole consolidate del mondo adulto. In Io e te, il suo ultimo romanzo di ormai cinque anni fa, aveva isolato un ragazzino dal mondo dei grandi confidandolo, volontariamente, in una cantina. Con Anna questa idea di un mondo senza grandi è stata portata alle estreme conseguenze. Questa adolescenza libera, però, non è spensierata perché la consapevolezza della morte è in agguato. Tutti sanno che è questione di pochi anni prima di essere colpiti dalla malattia. Riuscire a mantenere la calma e la lucidità è difficile. Anna, ad esempio, non riesce a dormire se prima non si ubriaca, gli altri bambini intorno a lei, sprovvisti di regole, si organizzano in bande armate, lasciano scatenare una violenza primordiale che ha in sé la ferocia del gioco.

C’è sempre la speranza, però, di fronte alla catastrofe. Anna non si arrende mai, cerca sempre un modo per un ritorno alla normalità che vada oltre le suggestioni più basse e magiche (il mito della Picciridduna, strega adulta sopravvissuta al moro e capace di curare chiunque) che alimentano gli altri bambini in un mondo privato tra le altre cose di qualsiasi divinità per aderire invece a una vocazione razionale di ricerca, ancorata a quell’ultima traccia del mondo dei grandi che le è rimasta: il libro di suggerimenti lasciato dalla madre prima di morire. Lì c’è scritto tutto.

Anna è un romanzo di ottimismo senza speranza, di paure e fragilità. Si può prestare a vari livelli di letture simboliche, con il morbo che uccide con l’arrivo dell’adulta che può rappresentare la fine dell’innocenza e cose simili; l’anarchia e lo spaesamento dei bambini senza genitori si può leggere come il pericolo di un mondo senza guide, ma non è necessario stare a cercare significati per apprezzarlo. Il problema che si incontra leggendolo è con il genere in cui Ammaniti si inserisce più che con la qualità in sé di Anna. Il survival post-apocalittico ha precedenti letterari evidenti e importanti, su tutti La strada di Cormac McCarthy e, pur in un genere diverso, Il signore delle mosche di William Golding, ma è soprattutto con l’abuso che se ne sta facendo in televisione e al cinema negli ultimi anni che il romanzo sembra guardare. L’interesse per le forme più popolari dell’intrattenimento di Ammaniti non è un mistero che lo scrittore ha mai voluto nascondere, anzi anche Anna lega alcuni suoi passaggi chiave a canzoni della musica leggere italiana  e a film di largo consumo. Sembra evidente che il riferimento visivo che Ammaniti ha avuto in mente nella stesura di Anna sia stato The Walking Dead, sia come serie tv che come graphic novel. All’interno del genere, Anna non offre molto di nuovo, a parte lo spunto iniziale del mondo fatto di bambini. Ci sono situazioni classiche di questi on the road di sopravvivenza, con bande inquietanti, paura, la fame e illusioni di salvezza in posti da raggiungere, che si susseguono senza una precisa coerenza narrativa, senza uno sviluppo costante. Sembra quasi che Anna avrebbe potuto essere montato, per rimanere in ambito cinematografico, in un altro ordine e poco sarebbe cambiato.

La differenza nel mucchio la fa lo stile di Ammaniti, la sua scrittura come sempre inclinata a una velocità, a una fluidità che riescono sempre a renderla avvincente, con un carico di ironia che, pur essendo molto più sottotraccia rispetto ad altri momenti, riesce comunque ad affiorare. L’interesse consolidato per il mondo adolescente si traduce in una padronanza praticamente assoluta delle dinamiche psicologiche della crescita e delle sue incertezze. Questa è la vera forza della scrittura di Ammaniti, e con Anna lo conferma ancora una volta.

(Anna, di Niccolò Ammaniti, Einaudi, 2015, pp. 274, euro 19)

 

“Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato” di Joachim Meyerhoff

Sono sempre stata attratta dall’irrealizzato. Non che la cosa mi affranchi dalla massa, anzi. Sono arruolata in stato permanente nella sovraffollata schiera di quelli che avrebbero potuto. Militare di carriera nel battaglione dei delusi. Richiedente asilo nei tempi ipotetici. Col midollo convinto che basterebbe così poco. Ma quel poco è sempre di spalle. Quindi è altamente intuibile che un titolo del genere mi ghermisse senza neanche arrotare gli artigli. Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato (Marsilio, 2015). Traduzione praticamente letterale dell’idea tedesca di Joachim Meyerhoff, attore teatrale rovesciato nelle quinte di un romanzo. Dove sceneggiatura e protagonista si corrompono come colori primari.

La storia è la sua, quella di terzo figlio di una famiglia perfetta per l’impasto letterario. Il padre è direttore di un ospedale psichiatrico per infanzia e adolescenza e casa sua è un fortino contornato da grida invereconde. Slanci incoercibili, entusiasmi e lamenti per ragioni di altri mondi. Joachim e i suoi fratelli si addormentano tra nenie di delirio e questo lo conforta perché quei versi gli arredano le notti e il silenzio ronzerebbe troppo forte. Tutto lo strambo equilibrio domestico (e quindi narrativo) s’impernia sull’ingombrante figura paterna. Demiurgo, medico, uomo enciclopedico, mangiatore, lettore e fumatore incallito, depositario di risposte e carisma. Amante devoto di ogni sorta di teoria, sprofondato nelle pagine fino a prosciugarne il peso. Lasciando la pratica quasi sempre a sua moglie.

Il padre studia e la madre agisce. Sola, lontana dal tepore dell’Italia e di altra compagnia. Non ci sono amici a gravitare tra le mura, le sole visite sono quelle dei «dementini», che condiscono le feste con i loro spropositi. C’è chi implora di accarezzare il cane da cui è terrorizzato, chi inghiotte parole e le risputa senza spilli né intervalli, chi mulina all’aria braccia scampananti. C’è tutta un’orchestra di follia sinfonica che accompagna la sua crescita e che non si distacca poi molto da quella prodotta direttamente in casa.

Un fratello maggiore che vive ammuffito in una stanza-acquario, un altro che crede già di possedere ogni scienza e lui, piccolo e schernito che reagisce agli insulti con tempeste di rabbia da cui resta sfinito.

I pazzi sono intorno, i pazzi sono dentro. Il confine spesso è ideale e serve a eleggere zone di comfort, perimetri imbottiti davanti a cui pretendere che si bussi con cautela.

Non subentrano colpi di scena. Il romanzo è una ficcante sequela di aneddoti, lo snodarsi sgangherato delle esperienze dell’autore, dall’infanzia all’età adulta, sbucando attraverso varie tappe della disillusione.

Prima fra tutte, quella scaturita dal rapporto tra i suoi genitori. Scoprire che i loro letti sono sempre più distanti, come brandelli alla deriva di un arcipelago annoiato. Scoprire che il padre fissa altri corpi al di là di quelli amati, che la madre sopporta fino a deflagrare. E poi socializzare con l’irrimandabile. L’atroce beffardo quotidiano. La morte che serpeggia, tra i pazienti e ancora più addosso, fin quando l’Istituto, il monumento feticcio della sua prima vita, non viene trasformato. Chiuso, demolito, sbriciolato a dovere come un capitolo senza memoria. Con l’impulso imbattibile di andare altrove. «In seguito mi sono chiesto spesso dove fosse andato a finire tutt’a un tratto quel dolore così tenace. Quel dolore rimpinzato di morfina che aveva succhiato tutta la vita di mio padre, che l’aveva spolpato come si spolpa un osso sugoso. Quel dolore così potente, sì, in tutto e per tutto vivo e vegeto, non poteva essere sparito. […] Era forse seduto da qualche parte, si nutriva della forza che gli aveva rosicchiato e aspettava di avere di nuovo fame per attaccare me?».

Ma non c’è solo spazio per digrignare i denti. Qui si ride e anche parecchio, perché l’ironia non ha nessun accesso che le sia interdetto. È forse questo il segreto sovversivo di ogni intima follia. La manipolazione della prospettiva, la facoltà indomita di disattendere ogni ritaglio di ragionevolezza, d’inscrivere il riso e il pianto nello stesso circo-lo emotivo, fino al punto di confonderli.

Non c’è niente di introvabile o di realmente originale nell’ambientazione del libro di Meyerhoff. Il romanzo si aggiunge al plotone marciante di ennesimi altri con richiami e contesti psichiatrici, in cui la normalità è sempre un patto scricchiolante con l’empito di offenderla. Il festival è densamente abitato da letture a cui è stato splendido abboccare, come Follia di McGrath, Un angelo alla mia tavola di Janet Frame, La ragazza interrotta di Susanna Kayes, La campana di vetro di Sylvia Plath fino agli italianissimi Cattiverìa di Rosario Palazzolo e La casa del sollievo mentale di Francesco Permunian. Qui, come in altri esempi, c’è una piccola esistenza tra altre infinite/sime; c’è la vicenda ombelicale di un uomo cresciuto in mezzo ad anime labili, che ha afferrato con gli occhi e la lingua il senso ineluttabile del vivere. Perché tornare non è mai ritrovare ciò che è stato, perché alcune stagioni sopravvivono solo nel limbo d’ovatta del nostro immaginato.

A meno che forse la pazzia non ci indichi la strada. Rimettendo tutto in sesto, rimettendo tutto in gioco. Con noi pronti a riabbracciare tutto quello che solo mai abbiamo posseduto.

 

(Joachim Meyerhoff, Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato, trad. di Giovanna Agabio, Marsilio, 2015, pp. 324, euro 19)

“Atlante delle micronazioni”
di Graziano Graziani

Esistono luoghi fisici in cui le istituzioni generalmente riconosciute, le amministrazioni, le forze armate, persino i sistemi di istruzione con cui conviviamo abitualmente, hanno molto poco o nessun valore. Sono luoghi rappresentativi di vitali eccezioni alla storia che conosciamo dai libri, e incarnano di sovente i sogni di libertà e indipendenza che pigramente albergano in molti di noi. Parliamo delle micronazioni, di cui ora è disponibile un atlante compatto (Atlante delle micronazioni, Quodlibet Compagnia Extra, 2015), curato da Graziano Graziani, ripresa e prosecuzione del lavoro avviato nel precedente Stati d’eccezione, uscito nel 2012 per le Edizioni dell’asino. Il lettore curioso, e abbiamo ragione di credere che chi acquisterà questo libro non possa che essere un curioso, potrà dunque scoprire le vicende di cinquanta piccole realtà.

La definizione che Wikipedia offre di micronazione è quella di «un’entità creata da una persona, o da un piccolo numero di persone, che pretende di essere considerata come nazione o stato indipendente, ma che tuttavia non è riconosciuta dai governi o dalle maggiori organizzazioni internazionali». Il problema del riconoscimento affanna infatti la gran parte di questi stati eccezionali, perché chiunque decidesse di proclamare indipendente, per esempio, il proprio appartamento, potrà anche credersi sovrano in casa sua, ma se nessuno dovesse approvare quel ruolo nulla sarà stato fatto. Per tale ragione, alcune delle micronazioni hanno reciprocamente avviato rapporti diplomatici al fine di una vicendevole legittimazione, che possa fungere da punto di partenza.

Esistono anche degli esempi in cui un riconoscimento piuttosto formale c’è stato, per poi essere – scientemente o meno – cancellato: è il caso del piccolo regno sardo dell’isola di Tavolara, che avrebbe ricevuto nel 1841 l’avallo scritto di Carlo Alberto; oppure della più internazionalmente nota Christiania, la comune anarco-ecologista di Copenhagen, che riconosciuta lo è davvero, avendo avviato e concluso – nei suoi oltre quaranta anni di storia – numerose trattative con le istituzioni danesi per tutelare il proprio status di città libera.

L’Italia, basti pensare all’età comunale, o all’esistenza di San Marino e Città del Vaticano, ha una certa affinità con i piccoli stati e non è quindi un caso se Graziani si è imbattuto, attraverso le sue ricerche, in numerose micronazioni lungo la penisola. Persino una pompa di benzina nella provincia di Matera può trasformarsi in una repubblica indipendente, se questo può servire a combattere gli assurdi impedimenti che la macchina burocratica di una nazione come l’Italia pone sulla strada dell’iniziativa personale. Contro l’autorità, dunque. Ma l’autorità può anche fallire o non accorgersi di un proprio errore, consentendo così il formarsi di un territorio plurisecolarmente indipendente, porto franco e dedito alla coltivazione del tabacco. Si tratta della Repubblica di Cospaia: un lembo di terra al confine fra Stato della Chiesa e Toscana, che per una distrazione dei cartografi si è trovata al di fuori delle mappe ufficiali, e dal 1441 al 1826 si è autogovernata.

Insomma, lo spirito con cui vengono fondate le micronazioni può essere vario, e può rappresentare la consacrazione di progetti anarchici, quella di sogni utopici o artistici – come il Regno di Elgaland-Vargaland, il cui territorio si estende negli interstizi del mondo e lungo i confini – ma può anche rappresentare lo stimolo per una battaglia ecologista più ampia, addirittura mondiale, se pensiamo al Garbage Patch State, un arcipelago formato dalle vastissime isole di rifiuti che galleggiano sugli oceani, la cui fondazione – voluta da una italiana – ha visto il consenso delle Nazioni Unite. Ma attenzione, anche in queste realtà minute si nascondono delle insidie: che possano alcune di esse essere sfruttate alla stregua di paradisi fiscale con il fine di speculazioni finanziarie? Sembrerebbe di sì.

Ma a noi piace pensarla come alcuni micronazionalisti, secondo i quali «nonostante la frammentazione possa apparire come un’involuzione della società, il destino dell’uomo è quello di superare l’idea di stato-nazione per approdare a una federazione globale di stati individuo in cui ogni cittadino avrà piena cittadinanza su sé stesso».

 

(Graziano Graziani, Atlante delle micronazioni, Quodlibet Compagnia Extra, 2015, pp. 384, euro 16)

“Suburra” di Stefano Sollima

Vedere un film come Suburra fa male. Vederlo se vivi a Roma fa ancora più male. Vederlo il giorno dopo le dimissioni del sindaco può essere devastante. Suburra, il nuovo film di Stefano Sollima, già passato al cinema con A.C.A.B. ma noto e apprezzato soprattutto per i lavori televisivi su Romanzo criminale Gomorra, mostra in una sintesi di fantasia di due ore abbondanti tutto quello che di marcio e storto è successo e succede al potere italiano e capitolino, anticipando, trasformando e raccontando fatti veri e verosimili.

Siamo nel 2011, è il 5 novembre. Nei suoi appartamenti il papa annuncia al suo segretario la volontà di dimettersi dal soglio di Pietro (Ratzinger ha rimesso il mandato nel 2013, ma siamo lì). Segue una settimana di fatti che preannunciano l’Apocalisse. Il litorale romano sta per essere trasformato in una Las Vegas di sale giochi, alberghi e ristoranti. Ovviamente dietro il progetto ci sono una serie di interessi loschi che uniscono con un unico filo politica, malavita e impresa e che sono retti da Samurai, quello che è di fatto il re di Roma, eminenza grigia con un passato di banda della Magliana che regge nelle sue mani tutti gli equilibri, comprese le intemperanze di Numero 8, giovane boss di Ostia che non sa come ci si comporti a un livello più alto di delinquenza ma fa sempre comodo per la parte violenta. Un parlamentare della maggioranza, con croce celtica dorata al collo, in una notte in cui la moglie lo sa immerso nei lavori di commissione, combina un casino con una prostituta minorenne. Sarà la miccia che farà esplodere il mondo sommerso di Roma, mettendo a rischio gli affari di Samurai e tirando in ballo la famiglia zingara degli Anacleti e Sebastiano, un organizzatore di feste che non sa niente del mondo criminale.

Rispetto al romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini da cui è tratto, Suburra cambia un po’ di cose. Mancano i riferimenti al passato, agli anni Settanta e alla banda della Magliana con i personaggi inventati da De Cataldo, e manca soprattutto il bravo carabiniere che sa fare il suo mestiere che metta insieme tutti gli elementi e ricostruisca la trama criminale. Nel film, la legge, la giustizia, l’autorità superiore, non esistono. Esistono solo gli uomini che sono coinvolti, esiste solo il livello più basso della costruzione della Suburra, con una legge e un codice che non sono le stesse del mondo normale, quello che vive le conseguenze degli accordi presi al buio. Non c’è un buono che arrivi a risolvere tutto, non c’è una morale che punisce. Non c’è Dio, col papa che si arrende prima ancora che tutto abbia inizio, non c’è Cesare, con il presidente del consiglio che si dimette lasciando il Paese nell’indeterminatezza (era il 12 novembre 2011 quando Silvio Berlusconi rassegnò le sue dimissioni. È il 12 novembre 2011 quando nel film si consuma l’Apocalisse preconizzata). Nella Roma di oggi non c’è neanche il sindaco, ma questo non potevano prevederlo neanche Bonini e De Cataldo, né Sollima con Rulli e Petraglia che hanno sceneggiato il film.

Non c’era neanche Mafia Capitale quando è stato scritto il libro, e in teoria non c’era neanche mentre veniva girato il film. Eppure è tutto così simile, tutto così vicino a quello che si legge ogni giorno sui giornali che sembra di essere davanti alla cronaca piuttosto che alla fantasia. Suburra, però, non limita il suo valore alla capacità di sintetizzare e trasformare la realtà. È un film teso e inquietante, filmato dal basso, in una Roma che non si vede se non per i suoi aspetti più lontani dalla grandezza e dalla meraviglia. È una città schiacciata dall’alto, dalla pioggia che cade senza fermarsi per una settimana, dai passi pesanti di chi la calpesta, dalle ruote degli scooter e dei suv, dal piscio della politica arrogante e impunibile.

Stefano Sollima, responsabile con De Cataldo di grande parte del filone criminale che negli ultimi anni ha popolato il cinema e la televisione italiani unendo politica e azione, ha realizzato il suo film migliore – finora – e il migliore del genere, quello che più riesce a mostrare la verità attraverso la finzione. Lo aiutano gli interpreti, Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola che quando si ricorda di essere un attore fa sempre una bella figura, Adamo Dionisi che ha imparato la lingua sinti per fare Manfredi Anacleti. Il problema comune di questo tipo di cinema, però, è l’estetizzazione del male. Suburra riesce ad aggirarlo quasi sempre, scivola solo su Numero 8 e sulla sua compagna tossica, belli e dannati, troppo belli e dannati, con soprattutto Greta Scarano che finisce per avere un ruolo sproporzionato nella in tutta la vicenda. Alessandro Borghi torna a fare il criminale di Ostia a poca distanza da Non essere cattivo. Nel film di Caligari il suo Vittorio, privo di alcun tipo di dimensione titanica, aveva tutto un altro realismo.

A livello di “storia” del cinema è interessante sottolineare come Suburra sia il primo film prodotto con il contributo del network digitale Netflix, pronto a sbarcare in Italia il prossimo 22 ottobre, che si occuperà di distribuire in streaming il film negli Stati Uniti e in Europa e che ha già trovato l’accordo con Sollima per produrre una serie tv dal film per il 2017.

(Suburra, di Stefano Sollima, 2015, thriller, 130’)

“Rumore bianco”
di Don DeLillo

Jack Gladney è il fondatore del dipartimento di studi hitleriani presso il College on the Hill. Vive a Blacksmith, piccola cittadina di provincia, insieme a Babette, la sua quarta moglie, e ai loro quattro figli, avuti da precedenti matrimoni. In un mondo in cui il tempo è scandito dai servizi televisivi e la domenica ci si raccoglie al supermercato o al Mall, la loro sembra essere una famiglia non troppo diversa dalle altre, consumistica e bizzarra. C’è Heinrich, il figlio maggiore, quattordicenne che ha per amici uno scacchista pluriomicida e un ragazzo che si allena per resistere il maggior tempo possibile in una gabbia di serpenti. C’è Denise, che porta sempre con sé il manuale medico dei prodotti farmaceutici, e Steffie, novenne abbastanza scaltra da offrirsi come vittima durante la simulazione di una catastrofe. E poi c’è il piccolo Wilder, che parla poco e tuttavia sembra essere il più consapevole della realtà distorta che li circonda.

Lungo tutto il romanzo molti fili corrono e si intrecciano: il consumismo che imperversa senza che nulla possa scalfirlo, lo spettro dell’inquinamento incontrollato, il bisogno quasi spasmodico di un evento catastrofico e spettacolare. Quando, un giorno, una nube vaporosa e informe fa la sua comparsa nel cielo, intrisa di Nyodene D, sostanza altamente tossica, la famiglia abbandona la casa seguendo direttive governative e si rifugia, insieme a centinaia di altre persone, in un campeggio boyscout. Nella paura e nello scompiglio, ciò che più risalta è il fatto che si tratti di un avvenimento spettacolare e stupefacente (non a caso, “the airborn toxic event”). Durante l’evacuazione, mentre la fila di macchine e pedoni prosegue lentamente lungo la strada, alzando gli occhi alla nube nera, Jack dice: «Era qualcosa di segreto e suppurante, un’emozione sognata che segue il sognatore anche dopo il sonno».

E poi, su tutto, svetta la paura della morte. Marito e moglie si rimbalzano la palla su chi morirà prima: «Voglio morire prima di te» si ripetono ingenuamente, ma la preoccupazione più grande è sempre la propria, di morte. Il punto sembra essere: se tutto è sostituibile, se ogni oggetto dimenticato, perso, buttato, è presto sostituito da un altro, che ne sarà di me, di un me che scompare? Jack si affida, riluttante ma affascinato, ai dati malauguranti di un computer, Babette cerca conforto e cura nel Dylar, una pastiglia che nessuno ha mai testato prima.

Leggendo Rumore Bianco, di Don DeLillo, non si può non pensare alla società simulacro descritta da Jean Baudrillard, inevitabilmente attratta dalle dinamiche di consumo e dall’infinita potenza dei simboli. «Fotografano il fotografare», dice Murray, collega di lavoro, a Jack, quando i due vanno a visitare la stalla più fotografata d’America. E quest’affermazione potrebbe ripetersi innumerevoli volte. La televisione è un simulacrum, il supermercato è un simulacrum, la stessa nube tossica è un simulacrum.

Su questo terreno comune a DeLillo e a Baudrillard, immagini, segni e codici inghiottono la realtà oggettiva dei fatti.

In un rumore bianco di simulazione e recita, si assiste impotenti alla perdita del reale. L’effetto di déjà vu, segnalato come possibile sintomo a seguito della dispersione di Nyodene D, depotenzia la stessa memoria, inducendo i personaggi a credere che anche i loro ricordi possano essere privi di fondamento.

Rumore Bianco, pubblicato nel 1984, sembra essere immune allo scorrere del tempo, e non a caso continua a essere uno dei grandi capolavori di Don DeLillo. A libro concluso gli umori sono oscillanti: si passa in un attimo dall’approvazione divertita alla desolante tristezza per la specie umana. Conoscendo l’autore, c’è da scommettere che sia voluto anche questo.

 

(Don DeLillo, Rumore bianco, trad. di Mario Biondi, Einaudi)

“Cartel Land”
di Matthew Heineman

Al festival Internazionale a Ferrara c’è stata l’opportunità di vedere in anteprima italiana Cartel Land, il documentario del regista Matthew Heineman già premiato al Sundance Film Festival. Una storia dura, difficile anche da accettare oltre che da vedere.

La zona di frontiera tra Messico e Stati Uniti, di fatto, è una terra di nessuno. O meglio, è la terra dei Cartelli. Lo dice Tim Foley, un veterano ex tossicodipendente e alcolizzato che ha deciso di mettere su un gruppo di vigilantes, l’Arizona Border Recon (hanno pure una pagina Facebook, questa qui) per pattugliare il confine, per fermare gli immigrati irregolari e il traffico di droga, per bloccare i cartelli. La polizia è a un’ora e mezzo di distanza, di fatto non c’è nessuno che può difendere gli abitanti del profondo sud dell’Arizona. Per questo Foley e gli altri hanno deciso di organizzarsi per conto loro, perché lo stato non c’è, perché il governo non difende più il popolo e segue interessi che sono altri rispetto a quelli dei cittadini. Molto più a sud, nello stato messicano centrale di Michoacán, il dottor Manuel Mireles ha deciso di prendere le armi e organizzare l’Autodefensa, un’organizzazione paramilitare per contrastare l’avanzata dei cartelli e la corruzione delle forze ufficiali. Da piccolo gruppo di volontari, l’Autodefensa diventa sempre più grande fino a costituire un problema per il governo messicano.

Le attività criminali dei cartelli messicani lungo il confine tra Stati Uniti e Messico sono cosa nota da quando esiste l’attuale organizzazione del mondo occidentale e da quando la letteratura e il cinema, dopo la cronaca, hanno iniziato a occuparsene con sempre crescente attenzione, non è una novità. Quello che non si è mai visto è la verità dei fatti. Heineman si è calato nella realtà della lotta contro la malavita organizzata, esponendosi in prima persona con la sua telecamera per filmare quella che si può chiamare resistenza allo strapotere dei cartelli. È una visione dal basso, quella che si vede in Cartel Land, un punto di vista che coincide con quello delle persone schiacciate dalla criminalità e abbandonate dall’autorità. Da una parte del confine, negli Stati Uniti, è il white trash, gli ultimi della società, i dimenticati, a opporsi a quel senso di abbandono che sente su se stesso e sul paese, a lottare per un cambiamento che sente necessario, come momento evolutivo personale e collettivo. Foley ha fatto i conti con gli eccessi del suo passato e ha provato a cambiare se stesso e il Paese che abita. Nel Michoacán, il dottor Mireles ha iniziato a lottare per riportare quella legalità che manca, quel senso di sicurezza e di tranquillità che il governo non è più interessato a garantire e che i cartelli distruggono ogni giorno con decapitazioni e minacce.

Il regista Matthew Heineman si è esposto in prima persona filmando da vicino l’attività del gruppo di Autodefensa in quella che è di fatto una zona di conflitto. Perché nel Michoacán le sparatorie sono all’ordine del giorno, e la telecamera di Heineman non si è tirata indietro neanche per un momento, è rimasta lì a raccontare sempre quella che è una guerra a tutti gli effetti. Sul piano puramente cinematografico, Cartel Land riesce a unire insieme i ritratti di umanità perduta di Roberto Minervini, in particolare quello della seconda parte di Louisiana, con l’azione di film come Sicario (c’è tutta una sequenza con i visori notturni), con la differenza chiave che quello che Heineman film è la verità. Il valore del documentario, però, va molto oltre il puro discorso filmico.

Cartel Land trascina oltre le porte dell’inferno, scaraventa in una terra di solitudine in cui regna l’anarchia e la corruzione. Dalla parte statunitense del confine, Foley pattuglia una normalità minacciata e sente il senso di giustizia della sua lotta. Di là, in Messico, Mireles si illude che il cambiamento sia possibile e sopporta tutto, il pericolo, le minacce, un misterioso incidente aereo che gli paralizza metà volto. La sua è una lotta serena che non vorrebbe neanche essere armata. Non è solo una lotta contro il crimine, è una battaglia contro la desolazione in cui è sprofondata la natura umana. Proprio per questo, è una lotta che non può vincere in nessuno modo, e che lascia con quel desolante senso, anche da parte di chi guarda, che niente possa essere fatto per bloccare un declino di cui tutti sanno tutto ma che interessa a pochi fermare.

(Cartel Land, di Matthew Heineman, 2015, documentario, 100’)

Il signor Pascal

Durante le sessioni d’esame universitarie, Lisa andava spesso in biblioteca per consultare vecchi saggi di letteratura che online risultavano fuori commercio. Al bancone dei prestiti leggeva trasversalmente i titoli dei dvd disposti sullo scaffale più vicino. Capitava che allungasse la mano e ne scegliesse un paio;li avrebbe restituiti la settimana seguente.
Un giorno ad attirare la sua attenzione era stato un avviso scritto a penna su un A4. Il foglio era affisso con delle puntine alla bacheca in sughero della sala studio. «Cercasi volontari per letture ad alta voce a pazienti affetti da Alzheimer». Quattro persone interessate avevano aggiunto a penna nome e numero di telefono. Era tornata a immergersi nei suoi studi, ammassando pile di libri sul tavolo. Nel tardo pomeriggio, di ritorno a casa, si era fatta una doccia ed era uscita con Nico. Avevano tirato fino a tardi, in un pub che passava musica rock anni ’80. La notte, poi, aveva faticato a prendere sonno. La mattina dopo la sveglia era puntata presto, la prima lezione cominciava alle 9.
Alle 8.50 era passata in biblioteca soltanto per aggiungere il suo nome alla lista.
«Ci saranno due incontri preparatori, non appena fissiamo le date la chiameremo. Che disponibilità può lasciarci?», aveva domandato Bianca, la bibliotecaria.
«Una volta alla settimana?», aveva domandato lei timidamente.
«Una volta alla settimana andrà più che bene».
I loro incontri avvenivano ormai da sei mesi e mezzo nella sala dedicata alle letture per i più piccoli, ci era voluta qualche settimana perché entrambi mettessero da parte timidezze e premure. Il signor Pascal le sedeva sempre di fronte, al tavolo più lontano della stanza.
«Che storia mi hai portato quest’oggi, Lisa?»
Avevano stabilito di leggere di volta in volta una notizia tratta da un vecchio giornale. Qualche curioso avvenimento che per un motivo o per un altro era passato alla storia. Alla storia con la s maiuscola o a quella spicciola di tutti i giorni.
Il signor Pascal si sarebbe riappropriato di fatti ed eventi che la malattia gli aveva segretamente portato via.
Aveva l’abitudine di ascoltare in silenzio per tutta la durata della lettura, salvo cominciare ad annuire verso la fine del terzo o quarto paragrafo. All’inizio si trattava di cenni incerti, poi, gradualmente, era come se ognuno di quei caratteri riportasse alla sua memoria momenti seminati chissà dove.
«Adesso ricordo…», bisbigliava quando Lisa sollevava gli occhi dalle pagine. «Adesso ricordo tutto».
Allora appoggiava i gomiti sul tavolo e incrociava le mani accavallando una sull’altra le dita spesse e nodose. La notizia gli scavava dentro lentamente, andando a recuperare un nome, un volto, un pomeriggio di settembre di venti o trent’anni prima.
«Sai» cominciava «conoscevo un tale che…»
La biblioteca era un vecchio prefabbricato costruito in riva al Po, a due passi dal centro. Dagli anni ’70 agli anni ’90 aveva svolto la funzione di archivio statale, poi dismesso e trasformato in biblioteca. A Lisa piaceva pedalare lungo il sentiero che costeggiava il fiume, era un percorso che poteva dire di conoscere quasi a memoria, e che apparteneva alla sua infanzia. Da bambina lo attraversava a piedi, stringendo la mano della nonna. A quindici anni, tra le panchine del vecchio parco giochi, si era innamorata di un ragazzo; più tardi, nello stesso parco,aveva passato diversi sabato sera in compagnia dei suoi compagni di liceo, fumando qualche sigaretta e bevendo birra. Ora ci passava per andare all’università, quasi tutte le mattine. Pensava fosse uno di quei luoghi diventati suoi senza far rumore, senza necessità di enfasi.
Il signor Pascal indossava sempre camicie profumate, di colori tenui e Lisa si domandava se avesse una moglie, un figlio, qualcuno che si prendesse cura di lui. Nelle sue condizioni era impossibile immaginare che potesse vivere da solo. Bianca, la bibliotecaria, passava a prenderlo a casa tutti i mercoledì; lui si faceva trovare in strada, di fronte della palazzina signorile in cui abitava, e aveva uno sguardo sempre sperso, come di uomo che porti ai piedi scarpe di una misura eccessivamente grande.
«Da quanto tempo è malato?», aveva domandato Lisa nei giorni precedenti al loro primo incontro.
Bianca non lo sapeva con esattezza. In qualità di bibliotecaria non aveva accesso alle cartelle cliniche degli anziani. Ciò nonostante, una volta, il giovane assistente sociale le aveva descritto i primi sintomi provati dal signor Pascal.
«Chiamò la polizia convinto che ci fossero dei ladri dentro casa. Aveva confuso la propria immagine, riflessa in uno specchio, per qualcun altro. L’hanno trovato mentre vagava inquieto, aprendo e chiudendo le persiane delle finestre».
«Che storia mi leggerai oggi, Lisa?»
«Le ho portato un articolo del ’67».
Quel giorno Lisa lesse la storia del crollo del ponte che collegava Point Pleasant, cittadina del West Virginia, a Kanauga, nell’Ohio. L’incidente causò quarantasei vittime, due delle quali non furono mai trovate. L’articolo era datato qualche settimana dopo la caduta e metteva la storia in relazione a uno strano fenomeno che si era verificato nei mesi precedenti. Nella zona limitrofa al luogo della tragedia, era stata più volte avvistata una figura misteriosa, a metà strada tra un uomo e un uccello. L’uomo-falena, così era stato ribattezzato, era comparso e scomparso in più occasioni, salvo poi andarsene, per sempre, dopo l’incidente.
Quando Lisa terminò la lettura il signor Pascal socchiuse entrambi gli occhi.
«Mi ricordo di quel giorno, sai? Conoscevo un uomo, un tale originario di Napoli. Si era sposato a novembre, mi aveva invitato alla cerimonia. La sposa era così minuta che per cucire il vestito la sarta aveva preso le misure sulla sua figlia più piccola. I due avevano programmato il viaggio di nozze per dicembre, avrebbero percorso gli Stati Uniti da est a ovest. Questo tale diceva di aver attraversato il Silver Bridge appena un paio di minuti prima. Raccontò di aver sentito il boato del crollo spegnersi dietro di lui, a due chilometri di distanza. Disse che nei giorni seguenti, di sera, la gente si sarebbe incantata osservando le acque del fiume tingersi di tratti argentei. Erano i pezzi di metallo e di vetro rimasti incastrati. Ne portarono a casa uno e lo misero sotto teca. Era il loro trofeo. Da quel giorno, ogni mattina, la sposa passava un panno morbido sul vetro affinché la polvere non si depositasse. Chissà» disse il signor Pascal riaprendo gli occhi «chissà cosa resta… E dell’uomo-falena si è più parlato?»
«L’articolo non lo dice, non lo so. Se le interessa nel weekend farò una ricerca su internet».
«Oh no, non ti scomodare. Per come la vedo io, fu soltanto un tentativo di sfuggire al dolore. Il mostro, come tutto il resto, sarà scomparso col tempo, succede sempre così…»
A volte il signor Pascal pronunciava frasi che, estrapolate dal contesto, sembravano caricarsi di un significato lontano.
«E poi così non ti darò da fare, hai già questo buffo impegno settimanale. Leggere a un vecchio notizie senza valore».
Un giorno Lisa si era intrattenuta qualche minuto in più con Bianca, la bibliotecaria.
«Il signor Pascal è in grado di ricordarsi un sacco di cose», le aveva rivelato entusiasta. «Non è vero che non ha memoria. Quando leggo un articolo non passa neanche un minuto e ha già cominciato a raccontare…»
Bianca aveva alzato le mani al cielo. «Vorrà dire che questi incontri stanno fruttando dei buoni effetti…», le aveva risposto sorridente, senza smorzare il suo entusiasmo.
Lisa era iscritta al primo anno di magistrale. Si era laureata qualche mese prima in Lettere moderne, con una tesi su Dino Campana. Il giorno della proclamazione – le ore precedenti alla discussione, ma soprattutto quelle che erano seguite – si erano trascinate in un lungo e faticoso riflettere. Aveva da sempre poca confidenza con i cicli che si chiudevano e in quella situazione avvertiva un peso più forte del solito. La laurea la costringeva a guardare fuori dalla porta la vita che si incanalava davanti ai semafori. A domandarsi cosa sarebbe successo dopo, dopo ventidue anni passati a trascrivere in bella copia istruzioni per l’uso, prima di prendere il volo per davvero. E ripensava a quanto fosse diversa l’immagine che si era fatta di quel momento. Per anni, si era soffermata davanti alla cornice che ritraeva i suoi genitori da giovani, con addosso la toga e il tocco, neolaureati, gli occhi pieni di curiosità. Per anni aveva creduto che la parte più bella della loro vita fosse iniziata quel giorno. Ma in trent’anni le cose erano cambiate e per lei era diverso. Temeva che buttarsi nel mare aperto avrebbe significato lasciarsi alle spalle la sensazione di stringere tra le dita una certezza. Aveva la certezza che le piacesse quello che studiava e aveva la certezza del palazzone fatiscente dell’università che sapeva accoglierla la mattina,con i suoi finestroni squadrati dietro ai quali la città si spezzava in innumerevoli prospettive. Aveva la certezza della vista che si ammirava dalle scale arrugginite del sesto piano. Aveva la certezza del bar che aveva raccolto l’ultimo giro di ripasso prima di ogni esame, e delle macchinette del caffè che, settimanalmente, mostravano la scritta «Fuori servizio», dopo aver ricevuto i suoi cinquanta centesimi. Aveva soprattutto la certezza che fino a quel momento, in un certo qual modo, le tappe fossero state stabilite dall’alto. Così non sarebbe stato più.
Il signor Pascal oscillava tra momenti di estrema lucidità a frequenti prese di distanza dal mondo. Un pomeriggio, alzatosi per andare al bagno, era entrato nella sala di studi storici e si era arrampicato in cima a una delle scale a pioli assestata a un ripiano.
«Presto, nasconditi!», le aveva gridato in un soffio di voce quando lei, non vedendolo tornare, si era messa a perlustrare la biblioteca stanza per stanza, ritrovandoselo a due metri da terra.
Dopo aver ridisceso le scale, affaticato, si era ammutolito come un bambino a cui avessero appena mostrato che le ombre misteriose che vede proiettarsi sulla parete si dissolvono non appena viene accesa la luce.
«Non mi capite», aveva detto il signor Pascal. «Mi preoccupo solo per voi».
Una volta Lisa gli raccontò di un esperimento condotto a Varazze nel 1971, con l’obiettivo di creare luoghi adatti alla proliferazione della fauna marina. L’articolo celebrava la scelta di gettare in mare, una sopra l’altra, carcasse di vecchie automobili, e raccontava nei dettagli il modo in cui i fatti si erano svolti. In tono enfatico, sottolineava i benefici che il gesto avrebbe riscosso sui pesci, quasi un sodalizio uomo-animale di cui chiunque, negli anni a venire, avrebbe potuto far vanto.
Quando terminò la lettura Lisa sorrise. «Stanno ancora ringraziando», disse.
«Chi?»
«I pesci! I pesci di tutto il mondo. Ancora oggi pare che si organizzino in visite guidate subacquee per celebrare il miracolo che è stato compiuto in loro onore».
Il signor Pascal accolse l’ironia. «Erano altri tempi, dopotutto. Ed è bello vederti sorridere per fatti che un tempo abbiamo preso così sul serio».
«Lei dice che un giorno, ripensando a oggi,qualcuno farà altrettanto?»
Il signor Pascal dapprima annuì, poi si fece serio e scosse la testa.
«Non ti sto dietro Lisa, mi confondo…»
C’era questa possibilità, che le cose, a volte, potessero sfuggire di mano. Lisa aveva l’impressione che parlare del passato – immergersi in storie vere o presunte tali – rendesse il signor Pascal improvvisamente lucido, più forte della sua malattia. Bastava poco, poi, un accenno di troppo, un tuffo nel presente, e così spesso i confini della sua percezione tornavano sfumati. Allora, egli si sentiva disorientato, seduto nella grande stanza di un luogo sconosciuto, di fronte a una giovane donna di cui ricordava appena il nome.
Dopo la laurea Lisa aveva fatto domanda in quattro case editrici per l’assegnazione di uno stage. Da tre di queste non aveva ricevuto alcuna risposta ed era probabile che la sua lettera fosse scivolata dalla buca delle lettere al cestino della carta. La quarta casa editrice le aveva fissato un colloquio. Il giorno prestabilito si era presentata puntuale, venendo a conoscenza degli altri tre candidati. Uno per volta erano entrati in una stanza e avevano risposto a una serie di domande riguardo a questa o a quella esperienza. Poi erano stati congedati con una stretta di mano, in attesa degli esiti. Da allora non aveva più avuto notizia, si sforzava di pensare che non le importasse più di tanto.
Al netto dei fatti, poi, c’era il signor Pascal,che riusciva a trasformare ogni notizia in una storia singolare e appassionata – la descrizione di un vecchio amico perduto, di una primavera che non aveva fatto fiori, di un comune nel grossetano che registrava all’anagrafe soltanto figli maschi.
«Ti hanno poi presa per quel posto al bar?», le chiese lui un giorno, prima che lei cominciasse a leggere.
«Intende lo stage? Non mi hanno più detto nulla».
«Pazienza», le disse lui. «Ne troverai uno migliore, sono sicuro… In cosa ci lanciamo oggi?»
Lisa aprì la borsa e la appoggiò sul tavolo «è la storia di una quercia millenaria».
«E parliamo del?»
«2004».
«Dieci anni fa».
«Undici».
«Undici» ripeté lui, annuendo con la testa. «Sono pronto».
«Il titolo è “Salvata la quercia millenaria tanto cara a Ovidio”».
Era accaduto in Abruzzo. Il caso di una quercia di oltre duemila anni salvata all’ultimo minuto dal braccio metallico di una gru. Un centro benessere di grande lusso che per poco non aveva vinto l’eterna lotta contro madre natura. L’albero aveva radici lunghe centinaia di metri e si trovava in un’area apparentemente nascosta, che per secoli l’aveva reso sconosciuto ai più. Era necessario inerpicarsi per un ripido colle, arrivare in cima e poi ridiscendere in direzione del mare. Per questo, per secoli e secoli,raggiungere la quercia aveva significato fede e fatica. La leggenda voleva che ai suoi piedi le persone avessero depositato centinaia di migliaia di racconti. Dai miti antichi del Peloponneso, ai proverbi in latino rustico e consumato. E poi racconti d’amore e racconti di battaglie, ninne nanne e filastrocche. Storie, storie, storie. Nessuno aveva mai smesso di raccontare storie.
«Conoscevo questa leggenda», disse il signor Pascal quando Lisa alzò gli occhi dal foglio «ma per molti anni non ho creduto alla sua esistenza. Nella mia testa si trattava di un mito, di quelli che si tramandano di generazione in generazione. Ma ho amato una donna, tanti anni fa, una donna che era promessa a un altro uomo. L’ho amata con discrezione, facendo attenzione che il nostro legame non inficiasse mai la sua libertà. Abbiamo soggiornato per molti anni nella sua casa estiva. Abitava proprio lì, a Querceto sul mare. Una mattina mi svegliò presto e mi portò ai piedi del colle. Ricordo la fatica di quel cammino, il percorso arso dal sole che sembrava farsi sempre più ripido. Dalla cima, guardando il mare, era possibile scorgere anche la costa iugoslava. E poi la discesa insidiosa, le pietre che si sbriciolavano sotto i nostri piedi. Mi disse che voleva narrare alla quercia la nostra storia, che qualcuno l’avrebbe conservata per sempre: era la sola dignità che potevamo permetterci. Sulla via del ritorno capii che la nostra relazione sarebbe presto terminata. Infatti passò appena un anno e non ci vedemmo più».
Mentre parlava, Lisa provò a immaginare il signor Pascal da giovane, trenta o quaranta anni prima. Pensò a un uomo nel pieno degli anni. Riuscì a vederlo mentre camminava, la pelle arrossata dal sole, una vita – la sua, quella di tutti – passata ad affrontare la salita del momento. Che volto aveva la donna che lo accompagnava? Qual era il colore dei suoi occhi? Lisa questo non poteva saperlo.
Un pomeriggio le arrivò una mail dalla casa editrice: lo stage era stato assegnato a lei. Il messaggio annunciava che il lavoro sarebbe cominciato la settimana seguente, e che l’avrebbe occupata tutti i giorni, per quattro mesi.
Il suo primo pensiero andò al signor Pascal, che inevitabilmente non avrebbe più potuto vedere. Sarebbe restato un solo incontro, poi qualcuno – una giovane donna come lei, un ragazzino o un uomo in pensione – avrebbe preso il suo posto: le cose, che lo si voglia o no, vanno avanti.
Chiamò Bianca per darle la notizia. La donna si congratulò senza cogliere la sua malinconia.
«Oggi non le ho portato niente signor Pascal», disse Lisa sedendosi al tavolo.
«Sono contento che ti abbiano preso al bar. Ero sicuro che prima o poi sarebbe successo. E poi quest’oggi sono io ad averti portato una cosa».
Mentre parlava allungò a Lisa un pacchetto avvolto nella carta di una rivista. Lisa ci trovò dentro un ciondolo in madreperla a forma di stella. Lo prese tra le dita e lo portò al collo.
«Oh la ringrazio davvero», disse sorpresa. «Lo conserverò con cura, sarà il nostro ricordo. Come quel pezzo di metallo e di vetro che i due sposini napoletani tenevano sotto teca…»
Il signor Pascal scosse piano la testa, disorientato.
«Di cosa stai parlando, Lisa? Non conosco nessuno che…»
«Non si preoccupi», disse lei alzandosi in piedi per salutarlo «non ha importanza…»
Sulla via del ritorno, lungo il fiume, Lisa sentì a ogni passo i rintocchi del ciondolo sulla pelle.

 

Virginia Giustetto (1992), nata e cresciuta a Torino, è laureata in Lettere Moderne e sta terminando la specialistica. Nel 2014 si è diplomata alla Scuola Holden in Storytelling. È attualmente finalista al Premio Chiara Giovani 2015 e sta scrivendo il suo primo romanzo.

Immagine tratta da: www.roberthannaford.com.au

 

“Kruso” di Lutz Seiler

Kruso (Del Vecchio Editore, 2015), di Lutz Seiler, mi ha attratto sin da subito o almeno da quando – lo scorso maggio – mi sono trovato di fronte la copertina durante il Salone internazionale del libro di Torino. E, sinceramente, ho difficoltà a recensire questo romanzo perché, in quanto anche io piccolo-medio editore, ho provato invidia nei confronti della casa editrice, la Del Vecchio (bravi, bravissimi!), che ha avuto il coraggio e la bravura di proporlo ai lettori italiani, tanto da farmi pensare: Perché non l’ho pubblicato io?

Per almeno tre motivi però – la non rivalità che c’è in questo settore; la mia passione per l’arte recensoria e per la critica letteraria; la qualità oggettiva di quest’opera narrativa – non posso esimermi dal parlare di un libro che mi ha incuriosito, emozionato, colpito come nessun altro quest’anno (fatta eccezione forse per Anima di Wajdi Mouawad, edito da Fazi).

Lutz Seiler – che conoscevo per alcune, notevoli, raccolte poetiche uscite anche in Italia qualche anno fa – scrive probabilmente il “suo” libro, quello cioè che per forza di cose diventa la linea di confine tra un “prima” letterario e un “dopo”. Il romanziere diventa un tutt’uno con il poeta trasformando la frase in invisibili versi così imperfetti da renderli efficacissimi.

Tutto il libro è imbevuto di poesia – quella pura, malinconica e saturnina di Georg Trakl, autore austriaco morto del 1914, figlio di quell’antica Europa ancora in cerca di eroi, e quella dura, moderna, di un Novecento che ha lasciato troppe ferite aperte –, di storia – la caduta del Muro di Berlino come momento di passaggio fondamentale e di cambiamento radicale –; di filosofia – i concetti di libertà e anarchia che, nonostante tutto, continuano a sopravvivere –; di letteratura – i continui riferimenti ai grandi classici del passato, Robinson Crusoe di Daniel Defoe su tutti.

Si fa difficoltà a capire il protagonista di questo libro. Potrebbe essere Ed – la voce del libro, un ragazzo che, perduta la fidanzata in un incidente, decide di lasciarsi tutto alle spalle, e partire per il Baltico. Potrebbe essere Kruso, Alexander Krusowich, un paladino della libertà d’origine russa che permette a Ed di lavorare e di scoprire la libertà, portandolo a combattere per essa. Il protagonista potrebbe essere una persona, è vero, ma anche un luogo: la leggendaria isola Hiddensee o L’Eremita, il pittoresco ristorante che divora energia fisica e nutre l’animo e il cuore, il mare stesso – linea di confine bagnata di sangue.

È un romanzo che incanta, Kruso, e che gioca con la dissoluzione della Germania dell’Est e della vecchia Europa, alternando suspense, giochi linguistici (grazie per avermi fatto cercare molti vocaboli sul dizionario), rimandi, il semplice piacere del “bel raccontare”.

Tutto sembra meravigliosamente reale e ti conduce a una nostalgia del non vissuto che ti distrugge dal di dentro. Vorresti essere lì a lavorare, servire i tavoli, sbucciare le cipolle, distruggerti le mani con montagne di piatti luridi, convivere con blatte e sporcizia. Essere lì, all’Eremita, e far parte di quello che chiamano “equipaggio” e farti protagonista – ora flâneur, ora uditore, ora declamatore – di un moderno cenacolo di poeti, filosofi, scrittori, pensatori, sognatori.

La “svolta”, la caduta cioè del Muro di Berlino è per la prima volta un nodo cruciale per fare letteratura, quella con “l” maiuscola e un significante che va troppo stretto al significato.

C’era una canzone di Guccini di tanti anni dedicata con nostalgia alla sua città, Bologna, epicentro della lotta degli anni Sessanta e Settanta, parlava di “morti per sogni di fronte al tuo santo Petronio”. Mi è tornata in mente molte questo testo, mentre leggevo Kruso. Questo libro è per loro: per chi vuole ancora cambiare il mondo e per quelli che hanno sognato anche troppo di cambiarlo.

 

(Lutz Seiler, Kruso, trad. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 608, euro 18)

“Black Mass – L’ultimo gangster”
di Scott Cooper

L’ultima volta che Johnny Depp era passato per la Mostra di Venezia era il 2010. L’attore preferito di Tim Burton arrivava al Lido per presentare il molto più che deludente The Tourist, girato proprio tra i canali del capoluogo veneto. Nei cinque anni seguenti Depp ha fatto fatica a mantenere il suo prestigio di attore infilandosi in film e ruoli sempre peggiori (dal flop di Lone Ranger ai recenti Transcendence Mortdecai). Il ritorno in Laguna di quest’anno poteva rappresentare una nuova rinascita per Depp. Perché Black Mass, il film che era arrivato a presentare tra la curiosità generale, poteva contare su numerosi elementi di potenziale presa, dalla storia vera di “Whitey” Bulger, il più spietato gangster di Boston, alla trasformazione fisica di Depp, per una volta non grottesca ma funzionale a una somiglianza fisica, fino alla regia di Scott Cooper, che in passato era stato capace di tirare fuori il meglio dai suoi attori, basti pensare a Crazy Heart e al premio Oscar per Jeff Bridges nel 2009, o alla direzione corale del più recente Il fuoco della vendetta.

Alla fine è andata che dell’apparizione veneziana di Depp si è parlato quasi esclusivamente per la sua forma fisica imbarazzante rispetto alle ultime uscite pubbliche. Del film si è detto poco o niente, e quel poco che si è detto non è stato particolarmente lusinghiero.

Black Mass racconta la storia vera di James “Whitey” Bulger, boss irlandese della malavita di Boston che negli anni Settanta strinse un patto segreto con l’FBI attraverso l’agente amico John Connolly per ridurre la presenza della mafia italiana in città. In cambio di informazioni e collaborazione, Bulger avrebbe ottenuto una certa indulgenza da parte dell’agenzia federale verso le sue attività. In poco tempo, Whitey divenne il più importante criminale di tutta Boston, fino a che alcuni cambi al vertice all’interno dell’FBI non hanno rivelato le irregolarità dell’accordo e hanno portato a una resa dei conti sia all’interno dell’agenzia che nei confronti di Bulger, che ancora oggi, a ottantasei anni, è detenuto con due ergastoli da scontare dopo essere stato arrestato nel 2011 dopo quasi vent’anni di latitanza.

Johnny Depp torna, in modi molto diversi, a confrontarsi con la malavita dopo quel gran film che era stato Donnie Brasco nel 1997. Uno dei punti di forza del film di Mike Newell era l’interpretazione dei due protagonisti, Johnny Depp agente infiltrato e Al Pacino boss criminale. In Black Mass, Depp si trova dall’altra parte, a fare il capo che collabora, almeno all’apparenza, con la giustizia. Il problema, però, è che le cose nel film di Scott Cooper non vanno come dovrebbero.

Ex attore, Cooper nel suo cinema fino a oggi è sempre stato particolarmente attento alla direzione del cast. Le interpretazioni, lo abbiamo detto, sono sempre state la parte migliore dei suoi film. In Black Mass ha a disposizione un cast immenso che oltre a Depp può contare su Joel Edgerton, Beneditct Cumberbatch, Kevin Bacon e Dakota Johnson, ma di fatto non se ne fa nulla, per una serie di motivi.

Partiamo da Depp. Per una volta, la trasformazione fisica serve a qualcosa e non a fare la macchietta. Come mostrano le immagini di repertorio dei titoli di coda (forse la parte migliore del film), la somiglianza con Bulger è completa. Da un lato quindi, è da lodare il lavoro di Joel Harlow, il truccatore di fiducia di Johnny Depp che ormai lavora con lui a ogni suo film. Dall’altro, però, proprio il trucco conferisce all’interpretazione di Depp una rigidità posticcia, una patina di innaturalezza che finisce per limitarne il potenziale espressivo. Le lenti a contatto azzurro ghiaccio, poi, gli danno un aspetto da alieno, da vampiro inumano che lo allontana da tutto.

Il problema più grande, però, riguarda la gestione psicologica dei personaggi e la loro rilevanza all’interno della trama. All’inizio Bulger appare come un bandito dal cuore d’oro, che aiuta le vecchiette, adora la mamma e il figlio, si prende cura della moglie. Poi i lutti che lo colpiscono lo trasformano in un criminale spietato, ma non si tratta di trasformazione: era lui in persona a massacrare di botte i suoi rivali, già prima che morissero i suoi cari. Semplicemente, il lato umano sparisce a un certo punto, non è più interessante mostrarlo, come diventa non rilevante mostrare le sorti di alcuni personaggi di contorno che da un momento all’altro spariscono dallo schermo. Tipo la moglie di Whitey, interpretata dalla Dakota Johnson di 50 sfumature di grigio, che viene rimossa dalla storia senza una parola di spiegazione, o il direttore dell’FBI interpretato da Kevin Bacon, che risulta a essere, a dir poco, un cretino nel non capire che non si tratta propriamente di un accordo bilaterale con la malavita.

Fallendo in quelli che erano sempre stati i suoi punti di forza – la costruzione dei personaggi e la direzione degli interpreti –, Cooper non riesce a offrire un gangster movie all’altezza della grande tradizione a cui sembra puntare. Dovremo aspettare un altro film per vedere Johnny Depp tornare ai suoi vecchi livelli, ma almeno questa volta ha mostrato segnali di ripresa.

(Black Mass – L’ultimo gangster, di Scott Cooper, 2015, thriller, 120’)