Copertina di Gli inganni di De Feo

Quant’è facile lasciarsi ingannare da sé stessi

Gli inganni, esordio narrativo di Sandro De Feo, pubblicato nel 1962 e ora fortunatamente riproposto da Cliquot, è un’opera invecchiata benissimo, che ancora oggi ci parla di illusioni perdute e mancate occasioni. “Romanzo di bilancio”, per usare la parole adottate da Massimo Raffaeli nella prefazione al volume, può essere letto come una resa di conti che il protagonista Antonio, intellettuale pugliese di mezz’età trasferito a Roma per scrivere per il cinema e chiaro alter ego dell’autore,  porta avanti con sé stesso, con le proprie ossessioni e le proprie idiosincrasie, e soprattutto con Roma; la città è un palcoscenico tanto fatiscente nei suoi splendori quotidiani quanto mitologizzato e vampirizzato dal suo riflesso cinematografico, che contende alla realtà dei luoghi – i caffè di via Veneto, Piazza del Popolo, Caffè Rosati – il senso stesso con cui esperirli, rendendo labile e poroso il confine tra verità e invenzione.

Calatosi gradualmente nei riti sfarzosi di una Roma millenaria e decadente, Antonio affronta la città e l’esperienza che la città produce come fosse uno spettatore comodamente seduto in platea, interpretando i segnali ambigui dell’Urbe come un uomo del Sud che non è riuscito ancora del tutto a emanciparsi dai propri fantasmi, dai propri retaggi familiari e, in definitiva, da una latente nostalgia per la giovinezza trascorsa spensieratamente in provincia, tra le campagne e i poderi. Lo scirocco che imperversa fastidiosamente sulla Roma di Antonio nelle poco più di ventiquattro ore inscenate nel romanzo, e che lo accompagna sin dal livido risveglio, si rivela presenza talmente assidua da acquisire a pieno titolo lo statuto di personaggio centrale dell’opera. La condizione di languido otium che s’instilla subdolamente nel procedere lento di fatti, miraggi e pensieri, induce nel protagonista un atteggiamento contemplativo e introspettivo, latore di memorie e ricordi che collaborano a saldare la già spessa membrana che lo separa da un contatto diretto, non mediato, non spurio, con il reale circostante.

Antonio sembra fare esperienza del mondo esterno con un certo altero distacco, più interessato a ricamare e a raccordare in sé l’immagine di quella “società dei caffè” (parodia della matrice originaria settecentesca) che lo affascina e lo respinge che a viverla davvero in prima persona; sembra sperimentare un continuo indebolimento della volontà, per cui i propositi e le promesse che va facendo a sé stesso e agli altri non combaciano mai, per indolenza e fatalismo, con le azioni intraprese. La “mollaccia” romana – declinazione autoctona e papalina della nausea sartriana – ingloba entro le sue spire magnetiche ogni guizzo di slancio sincero e di libero desiderio, appiattendo qualsiasi proposito o voglia che vada oltre la dimensione voyeuristica del guardar vivere e del lasciarsi vivere.

Ecco perché Antonio è sempre svogliato, contrito e fuori fuoco e non ha alcun interesse ad accompagnare Vituccio – l’amico d’infanzia che è venuto a trovarlo per farsi aiutare a risolvere piccole scaramucce createsi al paese – da suo cugino Alfonso, gesuita appartenente a un’importante congregazione. Vituccio rappresenta l’eterno volto della provincia, retaggio natale che non può essere reciso e che a intermittenza si ripresenta, nonostante i tentativi per emanciparsene: con i suoi modi bizzarri, i suoi tic linguistici, i suoi paludati convincimenti, i suoi vizi latenti, è un personaggio che risulta essere dotato, almeno apparentemente, di forti e ben espressi lineamenti identitari, sebbene essi risultino patetici e anacronistici. Cosa che, invece, non si può dire di Antonio, consapevole che il suo dislocamento esistenziale ha provocato un traumatico dissesto identitario, che necessita di essere puntellato sistematicamente mediante una rievocazione del proprio passato, delle proprie radici e un dialogo reiterato con le figure – la madre, Raffaele il “famiglio”, Vituccio – che quel passato lo hanno abitato, riempito e lo proiettano in un presente svuotato di senso e, dunque, privato di tassonomie e paradigmi certi con cui continuare a leggere e interpretare il proprio cammino nel mondo.

Per sopravvivere all’interno di una società che muta rapidamente e caoticamente, alla ricerca di nuovi miti e falsi idoli, e che pare disinteressata a valorizzare la propria vera millenaria eredità, a fare da tramite tra lo ieri e il domani, Antonio è consapevole che occorre avere una propria storia personale da recuperare, un vissuto che bisogna tornare a illuminare quando sembra si faccia labile e confuso. Anche nella noia, nella spossatezza, nel tedio esistenziale esacerbato dallo scirocco, è necessario far leva su ciò che di più saldo ci tiene a terra, le nostre radici. E però, la memoria delle proprie radici può divenire fallace e ingannevole se alimentata costantemente da una tensione immaginativa che si adopera per accrescerne alcuni tratti specifici e per adombrarne degli altri, secondo traiettorie di accomodamento abili ad architettare con maggior piacere e letizia i propri rassicuranti miti personali.

Anche la componente emotiva che soggiace l’arco narrativo del romanzo è ridotta a caricatura, stanca parodia, gioco di specchi in cui si riflettono le fatue illusioni dei personaggi, e non potrebbe essere altrimenti in una Roma in cui apparire è più importante che essere, luogo del vizio ostentato e sbattuto in prima pagina, in cui è annullato al principio ogni possibile affetto sincero, ogni potenziale innamoramento puro e disinteressato. Per questo motivo, l’affetto che Antonio sembra provare per la giovane Silvana sa di compassione più che di  amore: è un sentimento nato sulla scia del supposto convincimento che Silvana provi piacere a far credere agli altri di essere ciò che in realtà non è.

Eppure, in una città come Roma, non si può essere mai sicuri di non aver sovrainterpretato, di non aver mitizzato inconsciamente i fatti, gli uomini, le proprie emozioni. Antonio sopravvive attraverso i continui processi di tipizzazione con cui alimenta il senso della propria esistenza, ma, quando comincia a intuire la possibile discrepanza che esiste tra ciò che egli crede di credere e la reale natura che gli altri posseggono e con cui sono costretti a negoziare quotidianamente, viene invaso da un senso di perdita e di disperazione. Non si può scappare da sé stessi così come non si può scappare da Roma una volta che ci si è lasciati ammantare dal suo opprimente splendore, dalle sue scene da repertorio, dai suoi melodrammi barocchi.

Nello scioglimento finale del romanzo, al concludersi di questa lunga giornata in cui non sembra essere accaduto nulla e invece è accaduto tutto, Antonio comprende, dopo aver tentato di smascherare la subodorata liaison tra Vituccio e Silvana, di aver smascherato invece sé stesso, la sua indole cinica e trasfigurativa che lo spinge a proiettare costantemente il proprio malessere sugli altri. All’apice della sua crisi esistenziale, Antonio si accorge di aver falsificato la realtà più di quanto essa tenda a falsificare sé stessa, di aver sublimato le fisionomie delle persone intorno a lui per farne pupazzi più adatti alla farsa che ha messo in piedi per proteggersi dal mondo reale e dalla condanna alla solitudine che esso reca con sé.

A questa epifanica consapevolezza si accompagna la drammatica coscienza che non c’è davvero possibilità di conoscere la realtà, di mettere ordine al caos, se non filtrandola e corteggiandola attraverso la propria distorta immaginazione, a sua volta colonizzata da archetipi mediatici e cinematografici che ne mistificano la direzione. La sensazione di vertigine che tale scoperta provoca è troppo tragica per poter pensare davvero di accoglierla, elaborarla intimamente e farne punto di partenza per inaugurare una nuova parabola esistenziale. Più facile, accogliente e sicuro ricadere coscienziosamente nelle antiche mitologie parentali e affettive, nei rodati processi di elaborazione di promesse e scuse e giustificazioni che si alternano in un circolo vizioso senza fine, uniche strategie di sopravvivenza da mettere in atto per difendersi dai dubbi erosivi di un’identità sfaccettata, sfuggente, dalla sofferenza insita nell’amore vero e totalizzante, dall’insensatezza dell’esistere.

 

(Sandro De Feo, Gli inganni, Cliquot, 2021, 168 pp., euro 16, articolo di Niccolò Amelii)

Cheap! di Brunori Sas

All’improvviso Brunori Sas fa uscire un mini album, un Ep, Cheap!, due anni dopo Cip! e un mese dopo lo strumentale Baby Cip!. A Gennaio 2022, dunque,  quello che è il cantautore italiano contemporaneo per eccellenza decide che è arrivato il momento per qualcosa di nuovo, nella forma, proseguendo un discorso che va avanti da Vol.1.

Brunori oramai ha raggiunto un livello di credibilità assodato: nei suoi lavori c’è impegno, senza però pedanteria, una ricerca sonora che rende il tutto sempre intellegibile, ironia e retorica che gli permettono di essere estremamente trasversale. Le sue sono canzoni con tutti i crismi possibili, sono riconoscibili, cantabili, ci si può entrare ed empatizzare. Ci sono storie, ci sono contatti più che evidenti con la scuola cantautorale italiana e allo stesso tempo si percepisce il filtro del pop recente.

Chiaro che la percezione di Brunori-grande-cantautore derivi anche da un vuoto (oggi come chiaramente due anni fa) profondissimo del cantautorato italiano:  crisi che non vede, al momento, una soluzione. Ma fino a quando le cose saranno così, non possiamo far altro che prendere atto di quello che la realtà ci racconta.

A che serve un mini album del genere, quindi? Lui stesso lo definisce un  divertissement, qualcosa buttato lì senza troppo ragionamento attorno. Gestazione quasi inesistente, registrazioni a dicembre 2021 e uscita a gennaio.  Da un punto di vista formale e di prassi, abbiamo di fronte un lavoro che può essere incasellato come un unicum nella sua carriera, e la definizione di divertissment può calzargli, ma allo stesso tempo può essere fuorviante parlarne in questi termini. Perché è sicuramente qualcosa di più.

In questi 15 minuti che potrebbero passarci accanto senza avere un grosso impatto sulla discografia di Brunori, ci confrontiamo con quello che invece somiglia a un compendio della sua poetica, più centrato rispetto a diversi lavori del passato, Cip! su tutti.

5 brani, 15 minuti. Spunti interessanti e come sempre De Gregori/Dalla iper presenti. “Yoko Ono” è forse, a livello testuale, il pezzo più ambizioso della sua carriera: materia complessa le conseguenze storiche del machismo.  Ne riesce a fare un discorso estremamente esplicito, intriso della sua tipica retorica a cui siamo abituati e che è la sua cifra stilistica. Emerge comunque con una certa sensibilità, nonostante in alcuni momenti ci siano riflessioni smaccatamente conservatrici-ingenue («E non so se Montanelli debba esser rinnegato», che messa così sembra ricalcare posizioni del tipo non si può più dire nulla per colpa del politically correct).

Ode al cantautore” suona volontariamente come uno stornello da sagra. È un brano autoreferenziale, ironico fino a un certo punto che sa di autocoscienza sia collettiva (i cantautori) sia individuale (io-cantautore), con rimandi al “Manuale del cantautore” di Flavio Giurato. “Il giallo addosso” è la prosecuzione della sua “L’uomo nero“: pregiudizi, esclusione, razzismo, questa volta nel tempo del covid. “Italiano-Latino” è l’unico vero scherzo, nostalgici e reggaeton, che funziona come ponte verso l’ultimo brano, il pezzo più Brunori, “Figli della borghesia“, dove si ci si confronta con un topos classico, battuto più e più volte nella storia musicale italiana: la borghesia, i suoi privilegi e la sua ambiguità. Da Claudio Lolli al Signor G di Giorgio Gaber fino al più recente “Borghesia” di Giovanni Truppi gli esempi si sprecano.

Cheap! è quindi più di un semplice sfizio: dove Brunori in passato sembra perdersi, qui, paradossalmente, sembra ritrovarsi.

 

Copertina di La notte delle farfalle di Bender

Oggetti magici e tende dei ricordi

Gli oggetti non sono mai solo oggetti: benché la loro funzionalità risulti preponderante nel vivere quotidiano – ne maneggiamo decine e decine, ogni giorno, senza soffermarci più di tanto sulla loro origine, sulla storia che li ha condotti a noi, sui significati che in essi si celano – le scienze umane ne hanno individuato la molteplicità valoriale già da decenni.

Anche gli oggetti, infatti, hanno la loro agency o agentività, vale a dire la capacità di agire socialmente veicolando idee, valori, status sociale e creando dinamiche di interazione e influenza tra gli esseri umani. Nonostante, o forse proprio in virtù, della loro natura inanimata.

Lo sa molto bene, o quantomeno lo intuisce sagacemente, la protagonista dell’ultimo romanzo di Aimee Bender, talentuosa scrittrice statunitense che si colloca a buon diritto tra gli esponenti più significativi di un nuovo Realismo magico letterario. L’atmosfera che aleggia tra le pagine di La notte delle farfalle (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, minimum fax, 2021) sa di fiabesco nel senso più autentico: Bender costruisce un impianto narrativo in cui magia e sgomento si mescolano e in cui gli oggetti, in particolare, acquisiscono prodigiosi poteri di connessione tra il mondo ordinario e quello straordinario.

Francie, protagonista e io narrante del romanzo, è una giovane donna apparentemente comune: il suo grande talento consiste nello scovare oggetti usati, impolverati, sgangherati ai mercatini delle pulci intuendone il potenziale economico. Così li acquista per pochi dollari, li pulisce, li ripara, li resuscita per poi rivenderli online a cifre considerevoli. La sua capacità di individuare il valore ancora in essere delle cose di cui la gente vuole disfarsi viene da lontano.

L’infanzia di Francie non è stata affatto ordinaria: a seguito di una grave crisi, sua madre Elaine, affetta da problemi psichici, è stata costretta a ricoverarsi in un istituto specializzato e da quel momento la bambina è stata affidata agli zii.

Questo importante momento di transizione emotiva e familiare, che coincide con un trasferimento fisico da una parte all’altra del paese, è correlato a un evento decisamente insolito. Francie trascorre la prima notte lontano da sua madre a casa della baby-sitter, in attesa che lo zio arrivi da Los Angeles: la prima cosa che nota, sedendosi sul divano che sarà il suo giaciglio notturno, è una lampada dal paralume decorato di farfalle. Al suo risveglio, una di quelle farfalle ha inspiegabilmente preso corpo e galleggia, morta, sulla superficie del suo bicchiere d’acqua. Senza pensarci troppo, Francie beve quell’acqua, farfalla compresa, e da quel momento comincia il suo viaggio meraviglioso e terribile al contempo, proprio come nelle fiabe. Accadrà qualcosa di simile, in seguito, con il disegno di un cervo volante e poi, di nuovo, con la stampa di una rosa.

Diventata adulta, Francie va a vivere da sola e si avverte ben presto la necessità di esplorare fino in fondo il suo passato: così, decide di costruirsi una tenda sul terrazzo e ogni mattina trascorre le prime ore della giornata tra le morbide pareti che delimitano questo spazio sospeso per riavvolgere il filo della memoria e rivelare il senso di quella farfalla, di quel cervo, di quella rosa. Davvero quegli oggetti pensati, immaginati, disegnati hanno acquisito una forma reale? Come hanno potuto valicare la soglia tra realtà e immaginazione?

La notte delle farfalle è la storia di una metamorfosi che ha a che fare non solo con il corpo e con la mente dei suoi personaggi ma anche con lo spazio e con gli oggetti attraverso i quali le stesse relazioni umane si plasmano e vivono. La scrittura di Bender mette al centro la sensorialità e la percezione soggettiva della sua protagonista che è capace di posare lo sguardo sul mondo riempiendolo di poesia e di immaginazione: così, «l’autobus verso casa è un corridoio meravigliosamente illuminato che percorre le strade» mentre Victory, il viale che percorre ogni giorno, si trasforma in «una collana bianca e rossa di case a schiera che segue la morbida ondulazione delle Verdugo Hills».

Il mistero kafkiano che avvolge la vita di Francie si dipana progressivamente – anche se mai del tutto – pagina dopo pagina, con un ritmo che talvolta accelera per poi rallentare, alternando ricordi e rievocazioni a note diaristiche sul presente: il pensiero della protagonista viaggia su un binario sospeso nel tempo, talvolta deraglia ma ritrova infine la sua direzione e la sua destinazione.

La notte delle farfalle è la storia di una bambina che sperimenta una dimensione familiare atipica, senza dubbio, ma colma di affetto, di cura e di reciprocità. Proprio grazie al rapporto con gli zii e con la cugina, al loro legame che si rivela saldo e profondo nel corso degli anni, Francie saprà riavvolgere il filo della memoria e ritrovare, infine, il nodo che la lega a sua madre e che connette il mondo ordinario, reale e concreto, a quello straordinario che alberga nella sua mente e che si nutre della sua immaginazione.

 

(Aimee Bender, La notte delle farfalle, trad. di Damiano Abeni e Moira Egan, minimum fax, 336 pp., euro 18, articolo di Cristina Cassese)

 

Matrix Resurrections Poster

Ritorno alla finzione

È un film strano, Matrix Resurrections, che avrebbe potuto avere il potenziale per fare la storia come il primo film della serie, ma che invece si perde tra due pulsioni opposte. Nel tornare alla serie che le ha dato la celebrità, la adesso Lana Wachowski, senza il supporto della sorella Lily, ha provato a forzare le regole di Hollywood, ma non ha voluto spingersi troppo in fondo.

Matrix Resurrections riparte da zero rispetto a quanto visto nella trilogia di Matrix che tra il 1999 e il 2003 ha cambiato l’immaginario collettivo. Neo, morto nell’ultimo film, Revolutions, è vivo nel mondo di simulazione di nuovo sotto le sembianze di Thomas Anderson. Non ha memoria del suo passato, almeno non una memoria cosciente. Ha però sviluppato una trilogia di videogiochi di enorme successo – Matrix appunto – che raccontano le avventure che ha vissuto, e ora su pressione della Warner Bros. è al lavoro su un quarto titolo, a distanza di vent’anni. C’è qualcosa però che non va nella sua vita. Tra tentativi di suicidio e un’irresistibile attrazione per Tiffany, una donna che incontra ogni giorno al bar Simulatte, sente crescere la consapevolezza che c’è un passato da scoprire.

Se si potesse dividere Matrix Resurrections in due parti avremo una prima metà che è un’interessantissima riflessione sul cinema contemporaneo e le sue dinamiche. Qui Wachowski ha voluto dare libero sfogo alle proprie riflessioni sulla trilogia e sul condizionamento che il successo commerciale ha avuto sul suo sviluppo. Il primo Matrix si era imposto all’attenzione della critica e del pubblico con intuizioni narrative e visive uniche. I due film successivi erano stati nettamente al di sotto dell’originale. La dimensione anche filosofica del primo titolo, soprattutto sul rapporto uomo-macchina, lascia spazio ad azione, esplosioni e combattimenti, forse allontanandosi per motivi commerciali dalle intenzioni delle due autrici.

In Resurrections Lana Wachowski sembra approfittare del film per mettere in scena le proprie difficoltà nel tornare a Matrix. Questa prima parte in cui Keanu Reeves interpreta Thomas Anderson è un trionfo di riferimenti metatestuali all’industria cinematografica e al concetto di sequel. La regista sembra voler demolire il valore iconico del primo film, come a rivendicare una propria libertà di autrice al di fuori della gabbia dorata del successo di Matrix. Quindi via con la distruzione dei simboli, a partire dal bullet time che contribuì a fare del film un fenomeno di massa, ora sostituito da una semplice imposizione delle mani.

Il problema di Matrix Resurrections è che questa interessante presa di posizione di Wachoski si scontra con lo sviluppo del film. Parliamo comunque di un blockbuster, e le regole del mercato prevalgono sempre sulle eventuali velleità d’autore. La seconda ipotetica metà del film è quindi un continuo strizzare l’occhio al pubblico con apparizioni di vecchi personaggi, combattimenti e calchi di vecchie scene.

La spinta metacinematografica che fa partire Resurrections si esaurisce presto per lasciare spazio alla preoccupazione di come conquistare nuovi spettatori. Largo quindi a personaggi giovani, con tratti distintivi riconoscibili e pop – Morpheus ora tutto colorato, o il capitano Bugs –, per eventuali seguiti o spin-off. Largo all’amore in tutte le sue forme. Dopo aver spiazzato il pubblico con qualcosa di inatteso, Wachowski sembra tornare sui propri passi per non scontentare nessuno.

Il risultato, inevitabile, è un film che non è né una vera e propria provocazione, ma solo un sequel confuso che non riesce a replicare la potenza e la pulizia del primo, inarrivabile, film.

(Matrix Resurrections, di Lana Wachowski, 2021, fantascienza, 148’)

cover di “El Niño de Hollywood” di Óscar e Juan José Martínez

MS-13: la storia inquietante della gang più pericolosa
del mondo

Colpi di machete sui mezzi pubblici, qualche rissa più sanguinosa del solito nei parchi di periferia, foto online (di solito decontestualizzate) di uomini dallo sguardo torvo, cosparsi fin sul viso di inquietanti tatuaggi: per quei pochi che ne hanno sentito parlare in Italia, la Mara Salvatrucha 13 si limita generalmente a questo. Eppure si tratta della gang (o sarebbe meglio dire pandilla) più diffusa a livello globale: un network criminale, o se vogliamo un franchising, fondato negli anni Ottanta in California dagli immigrati salvadoregni sfuggiti alla guerra civile e vessati dalle bande locali statunitensi, che dopo le deportazioni nel paese d’origine decise dall’amministrazione Reagan si è esteso al Centroamerica e da lì quasi in tutto il mondo. Oggi conta circa 70.000 affiliati, e per quanto in Europa si riproduca per ora in forme più sbiadite e folcloristiche, si tratta anche della gang più spietata e pericolosa del pianeta.

La storia della Mara Salvatrucha è una storia di sangue che scorre copioso, di lame affilate e rituali macabri, pestaggi di iniziazione e vendette sadiche, rivalità insanabili e tradimenti mai impuniti. Una storia che riguarda El Salvador, il paese con il più alto tasso di omicidi al mondo, tanto quanto i bassifondi anonimi di vari angoli della Terra, in cui la legge della strada impone un codice d’onore e fratellanza fondato sulla mera violenza. Negli anni l’eterna faida con i rivali del Barrio 18 (o 18th Street Gang) ha lasciato sul campo centinaia e centinaia di morti. E oltre a gestire in proprio spaccio di droga e traffico d’armi, la MS-13 ha prestato spesso la propria ferocia al servizio delle organizzazioni criminali messicane in lotta per il controllo delle rotte della cocaina. Una storia globale, dunque, perché globali sono i processi politici, sociali e criminali che intreccia; ma fatta di mille storie locali, di strade contese, subculture urbane in contesti di emarginazione e povertà.

Per raccontare la Mara Salvatrucha, i fratelli Óscar e Juan José Martínez, rispettivamente giornalista d’inchiesta e antropologo, hanno scelto la prospettiva locale, microscopica. Si sono concentrati su Miguel Ángel  Tobar, marero del Salvador rurale, responsabile di più di cinquanta omicidi, a sua volta ucciso dalla MS-13 per aver tradito e assassinato altri homeboys. Dopotutto, un personaggio di secondo piano che, con occhi a mandorla, capelli lunghi e ben pochi tatuaggi, smentisce ogni stereotipo impresso nell’immaginario collettivo.

El Niño de Hollywood (dal soprannome di Miguel Ángel) è l’esito di anni di interviste e lavoro sul campo, e permettetemi l’asserzione, forse banale: è uno dei libri più straordinari che abbia mai letto. Reportage giornalistico, ricerca etnografica, storia sociale e analisi politica si inseguono al ritmo di un thriller: un saggio-noir nel cui stile, a volte, sembrano addirittura convivere Rodolfo Walsh e Don Winslow (a Milieu il merito di averlo tradotto in italiano, a cura di Paolo Grassi e Andrea Freddi).

El Salvador è un paese che non lascia margini di riscatto, soprattutto a chi nasce povero. Dilaniato negli anni Ottanta da un feroce conflitto civile tra guerriglieri e squadroni della morte (sostenuti dagli Stati Uniti), ha poi dovuto subire il rientro dei suoi pandilleros, espulsi dal suolo americano e subito pronti a rinfocolare in patria le loro guerre infinite, su tutte quella tra MS-13 e Barrio 18. Risultato, un tasso di omicidi che si aggira tra i 35 e 100 ogni centomila abitanti: «un’epidemia di morte». È in questo contesto che si svolge la vita atroce del Niño.

Reclutato con l’inganno da Chepe Furia, boss marero deportato dagli USA, Miguel Ángel diviene sicario tra i più affidabili e spietati della sua clica (cellula locale). I fratelli Martínez lo hanno incontrato negli ultimi mesi della sua vita. Tentava invano di sfuggire alla vendetta dei vecchi sodali, dopo aver aiutato la sgangherata polizia salvadoregna a individuare e arrestare molti capi locali, tra cui lo stesso Chepe Furia. Dal racconto reso agli autori, in questo pistolero infallibile non c’è traccia né della ferocia né del romanticismo di una grande epopea criminale, ma solo il senso tragico di una vita inesorabilmente condannata.

El Niño, ingranaggio di un meccanismo perverso, ha vissuto in balia di processi globali insondabili e delle politiche fallite degli Stati Uniti nel “cortile di casa”. Ha ucciso seguendo decisioni criminali prese a migliaia di chilometri di distanza per motivi sconosciuti, è stato tradito e ha tradito senza mai capire davvero perché. La sua esistenza è dolore che provoca dolore, banalità del male ma anche stupidità del male, e ripercorrerla insieme agli autori è un tuffo negli abissi più profondi della società umana, ben più che di un uomo.  «Abbiamo reso onore» scrivono i Martínez «alla frase infame che un giorno dicemmo a Miguel Ángel, a cui avevamo promesso onestà: “Perché volete raccontare la mia storia?” ci chiese un giorno […]. “Perché purtroppo crediamo che la tua storia sia più importante della tua vita” rispondemmo addolorati».

La Mara Salvatrucha 13 è stata definita «una mafia dei poveri». Pochissimi si sono arricchiti militando nelle sue clicas, pochissimi ne sono usciti indenni. La maggior parte dei suoi affiliati sembra considerarla come una famiglia che non hai scelto: nel bene e nel male, l’unica che hai; l’unica occasione di riconoscersi in un’identità stabile, l’illusione di poter evadere da una vita alienante e senza prospettive. Non dobbiamo solo temerla, questa gang globale: questo libro indimenticabile insegna che dobbiamo sforzarci di comprenderla, perché la sua parabola può dirci molto più di quanto possiamo immaginare sul mondo in cui viviamo. La storia di Miguel Ángel – ma anche delle sue vittime e dei suoi carnefici – è in definitiva il racconto di una «cosa mostruosa, transnazionale», uno sguardo senza sconti sul lato oscuro della globalizzazione.

 

(Óscar Martínez e Juan José Martínez, El Niño de Hollywood. Una storia personale della gang più pericolosa al mondo, edizione italiana a cura di Paolo Grassi e Andrea Freddi, Milieu, 2021, pp. 320, euro 17,90. Articolo di Paolo Ortelli)

Copertina di Madame Andata e Ritorno di Lisa Morpurgo

«Andò a finire che sposai un inglese»

Nel settembre di un anno non definito, in un castello che sorge in un punto dei Pirenei non precisato, vive Madame, donna raffinata e libera da qualsiasi forma di etichetta sociale. L’incantesimo iniziale di questa atmosfera surreale e suggestiva, dove cartomanti predicono il futuro mentre mangiafuoco e acrobati sono intenti a portare a termine le loro esibizioni – e che parrebbe ricordare quella di Il castello dei destini incrociati di Calvino –, viene interrotto dal crollo di una torre del castello dove la protagonista vive e da una morte forse non del tutto casuale.

Tutto questo, che potrebbe apparire insolito e fuori da ogni logica di tempo e spazio, in realtà descrive bene ciò che accade nelle prime pagine di Madame Andata e Ritorno, opera prima di Lisa Morpurgo pubblicata nel 1967 da Longanesi e riportata alla luce da Atlantide Edizioni. Dopo un oblio durato diversi decenni – troppi – questa straordinaria autrice del Novecento italiano torna ad avere l’attenzione che merita grazie alla felice operazione editoriale di Giulio Perrone Editore e di Atlantide, che a poche settimane di distanza hanno portato in libreria rispettivamente la sua biografia, opera di Melissa Panarello e secondo volume della collana “Le mosche d’oro”, e il suo esordio letterario.

Lisa Morpurgo, nata Elisa Dordoni, era originaria di Soncino, piccolo borgo del cremonese. Negli anni la sua fama è cresciuta soprattutto grazie al lavoro di astrologa ma in realtà l’autrice si avvicinò a questa materia piuttosto tardi, quando le fu affidata la traduzione di un testo sui ritratti zodiacali di François-Régis Bastide. Lavorava infatti per Longanesi come traduttrice editoriale e, successivamente, responsabile dei diritti esteri. Forse in molti avevano dimenticato che prima di avvicinarsi agli astri Morpurgo è stata però un’autrice di narrativa. Fu l’editore per cui lavorava a pubblicare Madame Andata e Ritorno (1967) e Macbarath (1975) mentre il suo ultimo romanzo, La noia di Priapo, uscì per La Tartaruga. Il suo esordio è stato riscoperto da Melissa Panarello mentre lavorava al volume per la neonata collana di Perrone; l’autrice catanese ha poi rintracciato gli eredi dell’astrologa e oggi ne gestisce i diritti tramite la sua agenzia letteraria.

Protagonista e voce narrante di Madame Andata e Ritorno è una donna di cui non si conoscono né nome, né età, né tantomeno caratteristiche fisiche. È nota solo come Madame, vive in un castello sui Pirenei di proprietà dello scapestrato pittore per cui lavora come assistente e segretaria, Filippo, discendente di una famiglia aristocratica spagnola. Il romanzo comincia dalla fine: il matrimonio di Madame con un uomo inglese di nome John, con il quale vive «in un bell’appartamento a Knightsbridge. Una volta era molto rumoroso, ma adesso il traffico è scarso, poche automobili scivolano via in fretta verso il Crescent». Come sia arrivata a sposare proprio quell’uomo e a vivere proprio in quel posto è il perno attorno al quale sembra girare l’intera vicenda. L’espediente narrativo usato è il vecchio trucco della madeleine di Proust, con la differenza che Morpurgo sceglie come appiglio per la memoria non un sapore ma un rumore, quello della pioggia incessante «che cade sempre più violenta». Madame ricorda la notte del crollo della torre e della morte dell’amante di Filippo, Costanza. Una settimana prima dell’incidente si era tenuta la grande festa che la Signora, ossia la madre del pittore, ogni anno era solita organizzare verso la fine di settembre: dai paesi vicini arrivavano valligiani in costume, nelle cucine non c’era tregua, e nelle radure venivano innalzati grandi padiglioni che ospitavano spettacoli circensi, specchi deformanti ed esperte cartomanti rivelavano il futuro.  È proprio una di queste, originaria di Carcassonne, ad annunciare a Madame l’imminente tragedia. E non solo.

«Vide una disgrazia imminente, ma che non mi toccava da vicino. Complicazioni nell’ambiente familiare. E infine l’amore di un giovane biondo che abitava in terre lontane».

La notte del crollo segna l’inizio per la protagonista di una sequenza sconfinata di viaggi, partenze e arrivi – prima al seguito di Filippo, poi sola – che, per citare ancora Calvino, ricorda al lettore che «di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». La prima tappa è Hong Kong e coincide con l’incontro del suo primo amante, un italiano di nome Paolo commerciante di perle e appassionato di archeologia; il secondo è il bulgaro Boris, conosciuto a Parigi, funzionario del Ministero delle Belle Arti nel suo paese e per questo interessato alle opere di Filippo. Madame ha anche un marito, Andrea, o almeno il ricordo di uno pseudo tale, che ora “vive” ibernato in una clinica di Losanna diretta dall’inquietante dottor Austerlitz.

«Andrea era mio marito. Ogni mattina, quando gli portavo il vassoio della prima colazione, nascondeva il capo sotto un lembo di lenzuolo per non essere ferito dalla luce, poi sbucava fuori piano piano, tastava l’orlo del vassoio a occhi chiusi per assicurarsi che ci fosse davvero, che non si trattasse di un brutto sogno, infine si drizzava sul gomito con un sospiro che lo squassava tutto, anzi, più che un sospiro era un gemito da agonizzante, da uomo torturato».

I personaggi con cui la protagonista interagisce sono molti e ognuno di essi è ben caratterizzato a partire dal nome che porta, mai casuale. Ci sono il già citato dottor Austerlitz e il professor Dunkirk da Londra – entrambi chiari richiami alle note battaglie che, insieme all’importanza data alla Guerra di Secessione spagnola, dimostrano la curiosità storica dell’autrice –, ma anche il notaio Guernica e il signor Guadalajara: nomi che dimostrano quasi più delle azioni e di qualsiasi fisionomia, e lo fanno attraverso luoghi ben precisi.

Se i protagonisti di questa storia si muovono in spazi peculiari – a ogni città descritta corrispondono suoni e profumi –, lo stesso non si può dire della dimensione temporale. All’inizio i fatti sembrano svolgersi in un contesto passato – la festa della Signora somiglia molto a una giostra rinascimentale –, ma l’arrivo di polizia, pompieri e detective riporta la narrazione nella contemporaneità, interrompendo quell’incantesimo e quella sospensione temporale cui si accennava all’inizio.

Parrebbe semplice, a questo punto, pensare che Madame sia una donna cinica e senza scrupoli, che firma il consenso per la vetrificazione del marito solo per non perdere il treno che la condurrà da uno dei suoi amanti. E in effetti le copertine delle prime due edizioni del romanzo – edite da Longanesi nel 1967 e nel 1974 – mettono in evidenza il lato sensuale e disinibito della protagonista. Eppure il punto non è questo. Il personaggio costruito da Morpurgo è scaltro e riesce in qualche modo a prendersi gioco del lettore: mentre le pagine scorrono la sensazione è quella di un’imminente svolta, un evento radicale che ribalterà lo status delle cose. Ma ciò non avviene e arrivati all’epilogo l’unico pensiero possibile è che tutto sia stato un grosso tranello. Ciò non vuol dire che con Madame Andata e Ritorno Lisa Morpurgo inganni i suoi lettori: anzi, dimostra di essere una narratrice abile e per nulla avversa alla sperimentazione. La sua è una prosa raffinata e non convenzionale che riesce a dare vita a una storia sì bizzarra, ma allo stesso tempo unica nel suo genere – se di genere vero e proprio si può parlare – come la sua protagonista. «I sentimenti sono come le opere d’arte, possono essere il risultato di una simulazione», afferma Donald Sutherland nei panni di Billy Whistler nel capolavoro cinematografico di Giuseppe Tornatore La migliore offerta, e poche frasi descrivono così bene questo romanzo fuori da ogni logica prestabilita e dai canoni cui siamo stati abituati dalla narrativa italiana del Novecento.

 

(Lisa Morpurgo, Madame Andata e Ritorno, Atlantide Edizioni, 2021, 128 pp., euro 20, articolo di Manuela Altruda)

Cosa ascolteremo nel 2022?

Eccoci qui per una panoramica su quello che uscirà o che potrebbe uscire in questo 2022.

 

 

 

 

 

 

 

The Cure: non c’è molto da dire attorno ai Cure e al loro mito. L’ultimo album risale al 2008, 4:13 Dream. Quello che ascolteremo sarà il loro ultimo. Fa male pensarci, ma non potrebbe essere altrimenti. Data di uscita da confermare.

Francesco Bianconi: fresco del duetto con Baby K, il più importante cantautore italiano del momento e leader dei Baustelle si appresta a scrivere il suo secondo lavoro solista. Riuscirà a tenere il passo di Forever?

Placebo: la band di Brian Molko non ha la stessa allure di Robert Smith e compagnia, ma un nuovo album dei Placebo è sempre qualcosa che ci emoziona. Sappiamo che non si raggiungeranno mai più i livelli di Without You I’m Nothing, ma mai dire mai. 25 marzo, Never Let Me Go.

Tommaso Paradiso: i Thegiornalisti non esistono più, fagocitati dalla figura del suo cantante. Non poteva andare diversamente. Che vi piaccia o no, il suo primo album solista è un momento importante per la musica pop italiana.  4 marzo, Space Cowboy.

Alt-J: una delle più grandi next big thing degli ultimi anni. Una carriera fatta di grandi attese, di alcuni alti e di alcuni bassi. Arrivano al quarto album,  ancora indecifrabili. Vediamo che succederà l’11 febbraio con The Dream.

Manuel Agnelli: due singoli, un tour. Non siamo pazzi a pensare che quest’anno potrebbe essere l’anno buono per ascoltare il primo album solista del più grande rappresentante dell’indie italiano tra i ’90 e i ’00. X Factor o no, sarebbe una grande notizia.

Animal Collective: l’ultimo Tangerine Reef non aveva impressionato, anzi (mentre è da riascoltare Painting With). Il punto più alto rimane sempre Merriweather Post Pavilion, vediamo se riescono a regalarci di nuovo  quell’incredibile psych-pop. 4 febbraio, Time Skiffs.

Verdena: noi ci proviamo anche quest’anno. La speranza di ascoltare il nuovo album del terzetto bergamasco è alimentata dall’uscita dal film dei fratelli D’Innocenzo, Anima latina. È loro, infatti, la colonna sonora.

Bjork: sì, proprio lei. Sarebbe un’altra notizia incredibile, dopo quella dei Cure. Sono passati 4 anni da Utopia, ma sembra molto di più. Ha detto di aver scritto un album sugli 80 o 90 Bpm, ovvero il ritmo che segue quando cammina. Non dovrebbe mancare molto.

 

Copertina di Quaderno dei fari di Barrera

Viaggio intimo, tra fari e collezionismo

«Non ho la disciplina del diarista. Manco di ordine. Ci sono cose che mi vengono in mente dopo, cose che mi dimentico, o che penso in seguito o che finisco di scrivere in un altro momento. Credo che questo, in un diario, significhi barare. […] Quindi questo non può essere un diario. È solo un quaderno.»

Quaderno dei fari (La Nuova Frontiera, 2021, trad. Federica Niola) è l’approdo nel panorama letterario italiano della scrittrice messicana Jazmina Barrera. Il libro potrebbe essere definito un memoir atipico che fissa in parole la passione dell’autrice di collezionare fari. Fermarsi a questo, però, sarebbe riduttivo; equivarrebbe a rimanere sulla soglia di quello che invece si dimostra essere un testo ben più profondo: saggio raffinato, trattato letterario e riflessione introspettiva condotta con sincerità e acume.

«L’atto di collezionare è una forma di evasione. […] si evade dalle mancanze e dai vuoti. […] Di fronte al timore della deriva, il collezionare. Collezionare fari, per esempio, conferisce una direzione, per quanto arbitraria. Diventa dunque non soltanto un modo di scappare, ma anche di costruire. Si può creare per mezzo della fuga».

Con l’inestimabile pregio di narrare sommessamente, in modo intimo, pur mantenendo un lucido vigore, Barrera sceglie con cura i propri compagni di viaggio. Oltre ai fari, alle loro storie e alla loro evoluzione, a farle compagnia c’è anche chi di fari ha narrato, come Stevenson, Walter Scott, Virginia Woolf, chi li ha dipinti come Hopper o chi li ha omaggiati nei propri film come Bergman.

E poi ci sono le persone che l’autrice ha incontrato lungo il percorso, chi per poco, chi invece ha assunto valore fondativo. Forse è per questo motivo che leggendo Quaderno dei fari ci si sente un po’ voyeur, ma tutto ciò Barrera lo sa e non se ne cura, come quando ci si scrolla di dosso lo sguardo di uno sconosciuto incontrato per strada. Lei continua a passeggiare per le pagine del libro, rivolta verso una meta che in alcuni casi sembra imperscrutabile. Eppure, quand’anche capitasse di perdersi, ecco che, immancabilmente, ci si ritrova sempre ai piedi di un faro, ultima propaggine antropica in costante dialogo con la natura.

Ed è proprio una volta arrivati alla conclusione del viaggio, che Barrera inizia a scoprire le sue carte. Quanto intuito in modo velato durante tutta la lettura del libro sembra definirsi, compiersi. Così il testo inizia a curvare su sé stesso per chiudersi come un anello e prendere commiato dai propri lettori tornando in qualche modo al punto di partenza, all’inizio della collezione dei fari e della stesura stessa del quaderno, il quale si configura come un «appunto per la memoria».

Essere colti dal mal di mare seguendo questi vortici narrativi è possibile, quello che fino a un momento prima si è creduto un portolano su cui fare affidamento sembra confondere le sue coordinate. Come se non fosse più chiaro il punto di arrivo di questo viaggio fisico, mentale, letterario. Faro dopo faro, la scrittrice ci ha spinti a vagabondare, talvolta in modo distratto. Ma i fari – reali, perduti o metafisici − mai vengono meno al proprio ruolo, e conducono i lettori fuori dei pericoli e delle insidie della tempesta che talvolta agita la scrittrice. E, alla fine, con lo strappo deciso e inaspettato di chi finalmente ha trovato la forza di confessare, si delinea all’orizzonte lo scopo preciso che ha scandito una simile peregrinazione.

A ogni modo, una cosa occorre tenere a mente: collezionare fari può avvicinarsi a un’idea di bellezza troppo simile alla morte. Nel palazzo-isola dove Barrera ha scelto di abitare, il suo appartamento è diventato l’equivalente di un faro che la separa dal mondo esterno. E se da una parte questo le ha permesso di lenire il dolore e curare le proprie ferite, allo stesso tempo vi è il rischio di trovarsi rinchiusi in una torre dalla quale è sempre più difficile scendere. Fin quasi alla trasformazione di Barrera stessa in faro.

«Certe collezioni saranno sempre incomplete e a volte è meglio non portarle avanti». Così, accettare il limite e l’incompletezza segnano l’inversione di rotta di Barrera, e di chi leggendo ha viaggiato con lei.

Quando la traversata in mare finisce, o al limite ci si ferma momentaneamente in qualche porto sicuro, quando si trova il coraggio di tornare sulla terraferma, magari alla ricerca di nuove collezioni-ossessioni, una consapevolezza continuerà a darci conforto e a guidarci: «I fari resteranno sempre lì, per quando ce ne sarà bisogno».

 

(Jazmina Barrera, Quaderno dei fari, trad. di Federica Niola, La Nuova Frontiera, 2021, 128 pp., euro 15, articolo di Giulia Eusebi)

 

[Best 2021] I film

Un altro anno strano per il cinema si sta per concludere, tra sale a mezzo servizio, recuperi di uscite rinviate e crescita inarrestabile delle piattaforme di streaming. È stato un anno di nuovi grandi successi al botteghino, con il ritorno dei film Marvel che sono deflagrati sul box office con il grande botto di fine anno di Spider-Man: No Way Home destinato a entrare nella storia dei più grandi successi di tutti i tempi.

È stato anche un anno di delusioni d’autore, con il modesto The French Dispatch di Wes Anderson e il primo vero tonfo della gloriosa carriera di Nanni Moretti con Tre piani. È stato, però, un anno positivo per il cinema italiano, che ha dimostrato un buono stato di salute con film molto diversi che hanno catturato l’attenzione degli spettatori e della critica.

Ecco quelli che sono stati secondo noi i migliori film visti in sala o in streaming tra quelli usciti nel 2021 in Italia, rigorosamente non in ordine.

Nomadland di Chloe Zhao

Iniziamo con un film che sembra appartenere al 2020. Il vincitore degli Oscar per miglior film, regia e attrice protagonista è arrivato nelle nostre sale il 29 aprile 2021. Un titolo già ampiamente lodato dalla stampa internazionale, ma che merita di essere ricordato ancora una volta.

È stata la mando di Dio di Paolo Sorrentino

Passato in sala, ma prodotto da subito per Netflix, il nuovo lavoro di Paolo Sorrentino mostra un lato diverso del regista napoletano che ha pescato a piene mani dalla propria storia personale per un racconto di crescita delicato e toccante. Quelli che erano diventati i limiti del cinema sorrentiniano dopo il trionfo di La grande bellezza vengono superati con un film meno grandioso e più sentito. Ottimo la prova del giovane Filippo Scotti.

Get Back di Peter Jackson

Passiamo a un’altra piattaforma di Streaming, Disney +, per un titolo che non è proprio un film, non è proprio una serie, non è esattamente un documentario. Il regista di Il signore degli anelli si è chiuso in cabina di montaggio con centinaia di ore di filmati realizzati durante le prove dei Beatles nel gennaio del 1969. Sono passati due mesi dall’uscita di The Beatles, comunemente noto come The White Album. I Fab Four sono divorati da tensioni interne, ma vogliono tornare a fare musica dal vivo. L’idea è quella di realizzare uno show tv, ma i piani cambiano e si arriverà al leggendario concerto sul tetto. Get Back segue l’evoluzione del piano dei quattro musicisti mostrando malumori, intuizioni, amicizia e gelosie. La spontaneità è la cifra assoluta di questi 468 minuti di immagini incredibili desinate a diventare un documento di valore assoluto, non solo per gli appassionati di Beatles.

Qui rido io di Mario Martone

Torniamo in Italia con il film più riuscito finora della filmografia di Mario Martone con Toni Servillo al comando. «Qui rido io è un commedia dove tutti i palcoscenici sono una recita, e la vita reale non è altro che una scena nella trama più ampia di una carovana di commedianti. La storia è in fondo quella di un padre che fa ridere di mestiere, e di tanti figli che non possono far altro che seguirlo».

Scarpetta: il padre di una stirpe

Un altro giro di Thomas Vinterberg

Altro apparente salto indietro nel tempo con Un altro giro, opera di Thomas Vinterberg premiata con l’IOscar per il miglior film straniero 2020 e arrivata da noi a maggio 2021.  «Un film splendido, commovente e ricco di speranza: quattro uomini si ubriacano di vita, toccando con mano la vertigine della libertà. Thomas Vinterberg ci regala il suo capolavoro, quasi un testamento alla figlia scomparsa giovanissima; e Mads Mikkelsen la sua interpretazione migliore».

Il potere del cane di Jane Campion

Torniamo su Netflix, che finalmente sembra aver alzato il livello di qualità della proprie produzioni originali anche nel campo dei film. Il potere del cane vede il ritorno al lungometraggio di Jane Campion a dodici anni di distanza da Birghtstar. Un film carnale, in cui il desiderio vibra tra i personaggi, di enorme eleganza anche nel raccontare la vita di una fattoria del 1925. Straordinario e inquietante Benedict Cumberbatch.

Dune di Denis Villeneuve

Cambiamo universo con Denis Villeneuve e il suo Dune. Nel rielaborare i libri di Frank Herbert, il regista canadese conferma la sua visione di un cinema di fantascienza colto e silenzioso, ma allo stesso tempo spettacolare. Rimane un film incompiuto, che si assume soprattutto il compito di introdurre un mondo da sviluppare con altri film, ma quello che si vede è grandioso.

Il primo sguardo su un nuovo universo

Freaks Out di Gabriele Mainetti

Il coraggioso colossal all’italiana di Gabriele Mainetti unisce cinecomic e spaghetti western, Tarantino e Monicelli. «Dopo la rivelazione di Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti torna al cinema con Freaks out, uno dei migliori film italiani usciti di recente, per coraggio e lungimiranza. Nello scenario della seconda guerra mondiale, due compagnie di circensi combattono la loro personale battaglia, a colpi di magia e poteri straordinari, tra visioni del futuro, partigiani mutilati e supereroi inconsapevoli».

Minari  di Lee Isaac Chung

Film intimo e universale su una famiglia coreana negli Stati Uniti, nel racconto autobiografico del regista Lee Isaac Chung si intravede una riflessione sul famigerato sogno americano e sull’epica del successo a tutti i costi della cultura statunitense.

Tick, tick… boom! di Lin Manuel Miranda

Concludiamo con un musical uscito su Netflix da poche settimane. Per il suo esordio alla regia dopo i successi a Broadway, l’attore e compositore Lin Manuel Miranda sceglie un film musicale ispirato a un’opera di Jonathan Larson, il compositore di Rent. Ne viene fuori un film che unisce i registri del teatro, del cinema e del musical e che riesce a parlare con passione e sincerità dei sogni e del dolore della New York del 1990 divorata dall’AIDS. Ottimo Andrew Garfield.

[Best 2021] In Musica

Come ogni volta,  rigorosamente in ordine sparso, ecco gli album che abbiamo preferito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ira, Iosonouncane: Complesso, lunghissimo, monumentale. Album italiano del 2021 per distacco, l’artista sardo conferma di avere pochi eguali dalle nostre parti. Ascolto necessario.

Forme complesseFine Before You Came: Non i FBYC a cui siamo abituati.Album più cerebrale, che lavora per sottrazione. Più melodico e cantautorale rispetto al passato, il gruppo tanto caro a Niccolò Contessa tira fuori qualcosa di veramente importante.

 

Hey What, Low: La carriera del duo americano è incredibile. Dopo trent’anni di album scrivono un lavoro clamoroso, sperimentale, intimo. Uno dei picchi dei coniugi Mimi Parker e Alan Sparhawk.

A Way Forward, Nation of Language: non è la ripresa degli anni ’80, sono gli anni ’20 che si trasformano negli anni ’80. Il trio americano scrive un album bellissimo che spazia dai Kraftwerk ai New Order, passa per gli Interpol di Turn On The Bright Lights  e arriva a noi.

For The First Time, Black Country, New Road: post rock, jazz, avant rock, post punk. Ci vuole un po’ di tempo per metabolizzare il quantitativo di input che arrivano da quest’album, ma è qualcosa di potente che trasuda vita. Difficile non perdersi nel dedalo costruito dal settetto inglese.

Best libri 2021

[Best 2021] I libri

Quali libri ci ricorderemo ripensando a questo 2021?
Il secondo anno dall’inizio della pandemia di Covid-19 ha visto l’assegnazione, rigorosamente online, del Premio Nobel per la Letteratura allo scrittore e romanziere tanzaniano Abdulrazak Gurnah, fino al mese scorso pubblicato in Italia da Garzanti (a dicembre è uscito per La nave di Teseo Sulla riva del mare); per quanto riguarda il Premio Pulitzer, la vincitrice è stata la scrittrice e poetessa statunitense Louise Erdrich con il romanzo Il guardiano notturno (titolo originale: The Night Watchman), pubblicato in Italia in autunno da Feltrinelli.

In bilico fino alla fine e con esiti niente affatto scontati sono stati invece i due premi letterari più importanti a livello nazionale: il Premio Strega è stato vinto da Emanuele Trevi per Due vite (Neri Pozza), mentre il Premio Campiello è andato a Giulia Caminito per L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), affiancata da Daniela Gambaro, vincitrice del Campiello Opera prima con Dieci storie quasi vere (Nutrimenti).

Ancora buone notizie dal fronte degli esordi narrativi, numerosi e di qualità: a cominciare dal pluripremiato Lingua madre di Maddalena Fingerle (Italo Svevo – già Premio Calvino 2020), per continuare con L’arte di legare le persone di Paolo Milone (Einaudi), Sangue di Giuda di Graziano Gala (minimum fax), Isla bonita di Nicola Muscas e Bravissima di Paola Moretti (66thand2nd – entrambi provenienti dalla raccolta di racconti Per rabbia o per amore, curata da effe proprio per 66thand2nd), Tutti gli appuntamenti mancati di Alice Zanotti (Bompiani), Chi se non noi di Germana Urbani (Nottetempo), Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone (Ponte alle Grazie), Il primo che passa di Gianluca Nativo (Mondadori), La casa delle madri di Daniele Petruccioli (TerraRossa), Uccidi l’unicorno di Gabriele Sassoni (IlSaggiatore) e la raccolta di racconti di Francesca Mattei Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa (Pidgin), solo per citarne alcuni.

Ma per tonare alla domanda di apertura, vi proponiamo quindici titoli (cinque di narrativa italiana, cinque di narrativa straniera e cinque di saggistica) che pensiamo possano aggiungersi a quelli sopra citati e che rappresentano secondo noi le proposte più interessanti dell’anno.

 

 

Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio)
All’inizio della narrazione il protagonista Mario sembra guidato dalla volontà di tracciare una narrazione coerente di sé stesso, di una vita comune e per molti versi non invidiabile, ma basta un profumo incontrato durante una passeggiata a rimettere in moto la sua memoria, dando l’avvio al racconto di fatti realmente accaduti, o rivoluzionati dagli anni e dalla dimenticanza, o persino inventati di sana pianta; persone senza volto, luoghi, cose e sentimenti assopiti tornano come fantasmi nel presente. In questo bestiario umano ciò che emerge è un inossidabile lavorio dell’inconscio, che si affanna, nell’insensatezza dilagante, per fare chiarezza tra doppie o triple vite, e scene di violenza fulminante, stratificando la materia narrativa ed esasperando le derive psicologiche.

 

Storia aperta di Davide Orecchio (Bompiani)
Ripercorrendo la parabola di Pietro Migliorisi – alter ego del padre dell’autore e di molti uomini di quella generazione –, Davide Orecchio compie un’indagine storica e insieme esistenziale sul Novecento italiano, procedendo dal fascismo alla guerra in Etiopia, dalla Resistenza alla militanza nel Partito comunista. Il metodo narrativo è quello tipico dello scrittore: ibridare in una miscela apocrifa lo scrupoloso studio delle fonti all’invenzione letteraria.

 

Libro del sangue di Matteo Trevisani (Atlantide Edizioni)
Matteo Trevisani riceve una mail con in allegato un albero genealogico che preannuncia la sua morte imminente. Comincia così un racconto in bilico tra realtà e magia – una sorta di “autofiction fantastica” – che si interroga sul significato del tempo e sui lasciti, e le ferite, della famiglia. Dopo Libro dei fulmini e Libro del Sole, Trevisani continua a esplorare i suoi temi prediletti, le sue ossessioni: la genealogia, la magia, il valore dei simboli e dei riti.

 

Urla sempre, primavera di Michele Vaccari (NN Editore)
Un futuro cupo, dominato da una dittatura di anziani, e un passato alternativo, in cui risiedono le radici del tracollo. E poi, finalmente, la rivolta: lo spunto di Michele Vaccari è quello di costruire un racconto epico intorno all’idea che le nuove generazioni abbiano diritto a costruirsi il proprio destino. Urla sempre, primavera si muove ai confini tra distopia e ucronia, fantascienza e romanzo storico; è una radiografia dell’Italia di oggi, devastata ma con in grembo il seme del cambiamento.

 

I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio)
Protagonista del romanzo d’esordio di Bernardo Zannoni è Archy, una faina, che affrontando una serie di tragiche peripezie si confronta con la spietatezza del mondo e l’inevitabilità della morte. L’impianto esopico della “favola di animali” fa così da sfondo a una storia esistenzialista con al centro tre temi: Dio, la crudeltà, il destino.

 

 

Piranesi di Susanna Clarke (Fazi Editore)
Un labirinto sterminato di vestiboli, scalinate, stanze piene di statue dall’aspetto indecifrabile: la Casa è l’unico mondo che Piranesi ricordi di aver mai conosciuto, e che condivide con un solo altro, enigmatico, abitante. Eppure nella Casa cominciano a manifestarsi i segni di una presenza terza: una speranza di novità o una minaccia per la loro pace? Il romanzo di Susanna Clarke è una favola borgesiana lucida nella sua visionarietà, che mette in scena meraviglie e pericoli dell’immaginazione umana.

 

Cronorifugio di Georgi Gospodinov (Voland)
Cosciente che il passato è l’ultimo baluardo di felicità quando la memoria comincia a declinare, Gaustìn, amico al contempo reale e immaginario del protagonista, crea dei cronorifugi, delle cliniche per anziani in cui è possibile tornare a vivere come in epoche passate. Questi luoghi attirano però presto anche persone sane, così che ognuno comincia a scegliere in quale momento vivere per sfuggire alla propria realtà, portando a un collasso della nozione collettiva del presente. L’opera di Gospodinov, vincitore del Premio Strega Europeo 2021, si muove tra il romanzo politico, quello apocrifo-autobiografico e il saggio narrativo, ed è un monito all’Europa delle nostalgie, che cerca una sicurezza impossibile rinchiudendosi in un passato mitizzato quanto irreale.

 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut (Adelphi)
L’opera di Labatut, ibrida e ambiziosa nel suo tentativo di mescolare saggistica, biografia, fiction e contraffazione storica, pone il lettore davanti ad alcune delle più importanti scoperte scientifiche degli ultimi secoli, mettendo in luce la violenza e l’ossessività che accompagnano il genio e i pericoli, spesso intuibili solo da pochi, che si celano dietro una sempre migliore comprensione, e un maggior controllo, della materia.

 

Tre anelli di Daniel Mendelsohn (Einaudi)
Il grande critico Erich Auerbach, l’arcivescovo francese François Fénelon e lo scrittore W.G. Sebald: tre uomini in esilio, le cui vite e peregrinazioni si intrecciano a quelle dell’autore, che attraverso di loro racconta anche uno dei topoi più antichi della letteratura occidentale: la maturazione attraverso il viaggio, la narrazione ad anello e la divagazione come tentativi di comprendere e dare senso al mondo.

 

Mandibula di Mónica Ojeda (Alessandro Polidoro Editore)
Un’adolescente si ritrova legata in una capanna, rapita da Clara, sua insegnante in un liceo privato femminile. È il punto di arrivo del rapporto sempre più stretto e morboso tra un gruppo di ragazze, fatto di storie di terrore, giochi violenti e prove di iniziazione. Mónica Ojeda, con una lingua densa e immaginifica, porta alle estreme conseguenze tutta la noia, l’energia e la brutalità dell’adolescenza.

 

 

Killer High di Peter Andreas (Meltemi)
Il 2021, inaugurato dal successo su Netflix di una docu-serie come SanPa, che ha cercato di riportare a galla il rimosso di uno Stato che negli anni Ottanta si è trovato a far fronte a migliaia di giovani devastati dal consumo di eroina, e terminato con la raccolta di oltre 600mila firme per il referendum per la legalizzazione della cannabis, è un altro anno in cui abbiamo sentito parlare moltissimo di droga.
Purtroppo le occasioni di dibattito – pur con meritevoli eccezioni – si riducono spesso al siparietto fra Stanis e René nella serie Boris («Ma quando mai uno nella vita usa la parola “droga”, scusa? Tu usi la parola “droga”? “Dammi la droga”, “Sono fatto di droga…” Dai René!»). Eppure sapere di più sulle droghe, sulle dinamiche storiche che stanno dietro a diffusione, consumi e mercati, può aiutare a comprendere meglio questioni fondamentali per l’economia e la politica internazionale.
In questo senso è utile e prezioso Killer High, da poco uscito per Meltemi, in cui il politologo Peter Andreas ripercorre il ruolo delle sostanze psicoattive – pesanti o leggere, lecite o illecite, naturali o sintetiche – nei conflitti armati. Da vino e guerra nell’antichità a cocaina e controinsurrezione negli anni più recenti, passando per caffeina, tabacco, oppio e amfetamine.
Un testo ricchissimo e a tratti sorprendente, per esempio quando spiega che la droga di guerra più diffusa storicamente è l’alcol, a lungo usato sia «come integratore liquido di coraggio sia per aumentare le entrate destinate alla guerra attraverso la tassazione», o che le metamfetamine hanno avuto un ruolo determinante nei blitz nazisti della Seconda guerra mondiale. O ancora quando racconta le guerre commerciali che la Gran Bretagna combatté nell’Ottocento per imporre alla Cina l’importazione di oppio indiano, oppure i disastri – soprattutto in Messico – della guerra alla cocaina scatenata dagli Stati Uniti a partire dall’amministrazione Reagan.
Un libro di storia stupefacente, è proprio il caso di dire.

 

L’altro mondo di Fabio Deotto (Bompiani)
Il fenomeno Greta Thunberg e il rinnovato attivismo green – vero o, più spesso, presunto – di governi e imprese ha imposto finalmente all’attenzione generale il tema inesorabile della crisi climatica. Non è facile orientarsi nella discussione, fra transizioni ecologiche complicate, conferenze internazionali strombazzate, paradigmi di sostenibilità d’impresa e millenarismi da catastrofe inevitabile. Alla base c’è soprattutto la difficoltà culturale di concepire in concreto quali conseguenze il cambiamento climatico avrà o sta già avendo sulle nostre vite. Perché ci siamo svegliati così tardi? E perché anche oggi, di fronte a una minaccia ormai riconosciuta, ci rifiutiamo di mettere in discussione stili di vita e sistemi economici palesemente insostenibili?
L’altro mondo di Fabio Deotto è un tentativo, brillantemente riuscito, di rispondere a queste e altre domande, in un pianeta che cambia mettendo a rischio la civiltà umana per come la conosciamo. Un viaggio-reportage nei luoghi in cui il riscaldamento delle temperature sta già dispiegando i suoi effetti: dalle Maldive, «paese con la data di scadenza», a Miami Beach, dove le case costiere sono state rialzate di un metro, con conseguenze a catena sul tessuto socioeconomico della città; dalla Louisiana in cui interi paesi finiscono sommersi ma non tutti gli abitanti accettano di trasferirsi altrove, a Venezia, con le sue incerte strategie di adattamento all’acqua alta; dai luoghi delle sempre più frequenti “migrazioni climatiche” al villaggio di Babbo Natale in Lapponia, in cui ogni anno la neve si fa attendere qualche giorno in più.
Il grande pregio dell’inchiesta narrativa di Deotto è la capacità di raccontare come le persone affrontano la crisi climatica quando le loro vite ne sono travolte, e così di riflettere sui limiti cognitivi, culturali e biologici che impediscono a chi invece non ne è ancora stato investito di agire contro il riscaldamento globale.

 

L’acquario di quello che manca di Enrico Ghezzi (La nave di Teseo)
«Blob non è mai stato una trasmissione elegante. Forse è stata scambiata per eleganza quella specie di freddezza chirurgica […] del puro montaggio, che rende più selvaggio il nichilismo, più astratta la comicità, meno corporeo il tutto, perché più ancora che sui corpi degli attori televisivi ci illudiamo di lavorare sulla tv come corpo e sul corpo della tv», scrive Enrico Ghezzi in uno dei testi raccolti nel bellissimo L’acquario di quello che manca, curato da Aura Ghezzi e Alberto Pezzotta e appena uscito per La nave di Teseo. «Comunque noi siamo con i bambini, ringraziamo per l’eleganza, ci scusiamo per vomiti e puzze, ma con loro diciamo “Dammene troppa”».
E “dammene troppa” (sottinteso la marmellata: è la parafrasi di un aneddoto di Chamfort in cui un bambino chiede così alla mamma) è espressione ricorrente nel libro, tanto che avrebbe potuto essere un titolo alternativo – come ricorda anche l’editore Elisabetta Sgarbi che per prima, venticinque anni fa, iniziò a mettere insieme il florilegio degli scritti del padre di Blob e Fuori orario.
Restiamo nella metafora per dire che siamo davanti a un irresistibile barattolo di marmellata per cinefili: Zibaldone stracult di 700 pagine, che raccoglie interviste, rubriche, poesie, appunti sparsi e persino riproduzione di fax di una delle menti più geniali della nostra epoca italica.

 

Il potere segreto di Stefania Maurizi (Chiarelettere)
Il potere è «tanto più efficace quanto meno è visibile alle parti in causa e agli osservatori», scriveva il sociologo politico Steven Lukes, e sulla tensione implacabile tra democrazia e segreto Norberto Bobbio ha lasciato pagine memorabili. La vicenda di Julian Assange, troppo a lungo dimenticata (almeno in Italia) e riemersa nelle ultime settimane dopo una sentenza dell’Alta corte britannica che apre alla sua estradizione negli Stati Uniti, è emblematica di questa tensione. La colpa del fondatore di WikiLeaks, che negli USA rischia una condanna all’ergastolo? Avere inventato un nuovo modo di fare informazione, diffondendo grazie alla Rete migliaia di documenti coperti dal segreto di stato, nei casi in cui quest’ultimo non era usato per proteggere la sicurezza dei cittadini ma per occultare crimini.
Da undici anni Assange, a cui si devono alcune delle più terribili rivelazioni sulle guerre americane in Iraq e Afghanistan (massacri di civili, torture, scandali…), vive da prigioniero per aver squarciato il velo del potere segreto su cui si fonda l’impero americano. E Il Potere segreto è proprio il titolo di un libro recente, e davvero illuminante, dedicato al caso Assange: un libro che «fa arrabbiare», come scrive Ken Loach nella prefazione.
L’autrice è Stefania Maurizi, giornalista che ha pubblicato in Italia i principali documenti segreti di WikiLeaks, da anni impegnata con le sue inchieste nella battaglia per salvare Assange e i suoi giornalisti. Come dimostra in ogni sua pagina, il caso WikiLeaks trascende la libertà di un uomo, per quanto geniale, coraggioso e ingiustamente vessato: è in gioco il futuro del giornalismo e del suo ruolo fondamentale per la democrazia. Perché la verità e la possibilità di raccontarla sono l’unico strumento con cui contrastare il dominio di chi decide guerre, colpi di stato, assassinii, e influenza elezioni e governi (in particolare i nostri), al riparo da qualunque responsabilità pubblica.

 

Milano sotto Milano di Antonio Talia (minimum fax)
Da sempre Milano è città di paradossi. Capitale morale o «città degli untori», come la definì il grande Corrado Stajano? Motore economico del paese o specchio delle disuguaglianze che lo attanagliano? Global city vivibile e culturalmente vivace o riserva dell’ipocrisia borghese imbruttita e inaccessibile ai non ricchi? Avamposto di una rivoluzione verde, come pretende il sindaco Sala, o piuttosto del greenwashing politico, come accusano i suoi detrattori?
Comunque la si pensi, Milano è il principale centro economico d’Italia. Prima del Coronavirus il Pil viaggiava al doppio della velocità e gli investimenti diretti esteri affluivano copiosi; oggi il capoluogo lombardo resta ben integrato nei mercati finanziari internazionali e nelle catene globali del lavoro, ma dalle macerie della pandemia comincia a emergere qualche lato oscuro. Per chi preferisce scavare anziché far finta di non vedere, l’inchiesta di Antonio Talia Milano sotto Milano è una lettura imperdibile, capace di aprire le porte – come mai era stato fatto prima – di un mondo sommerso nel quale vecchie bande locali e ’ndrine protagoniste della globalizzazione criminale si incrociano con nuove organizzazioni di tutti i continenti, professionisti del riciclaggio, spietati affaristi immobiliari e un sottobosco di avvocati, amministratori e politici.
Mentre l’economia si riprende dopo la pandemia e i tassi di omicidi e altri reati continuano a calare, a Milano il culto del denaro (e dell’immagine pubblica) spinge molti insospettabili a condurre doppie e triple vite. Dopo aver letto questo libro, sembrerà ancor di più città dei paradossi.

Copertina di Dasvidania

Le cicatrici di Kola

Dasvidania di Nikolai Prestia (Marsilio, 2021) comincia con lo sguardo esterno di un narratore che descrive un bambino taciturno e asociale, in un istituto per orfani o per chi è stato portato via ai genitori indigenti, nella regione del Volga in Russia. Il bambino si chiama Kola (da Nikolai) ed è stato lasciato nell’istituto con sua sorella poco prima della morte della madre. A quel punto è Kola a prendere la parola, a narrare in prima persona la sua vicenda, l’abbandono che lo incupisce, lo rende fragile e diffidente. Si attacca a sua sorella, e conserva l’unica cosa che sua madre gli ha lasciato: un sacco di mele verdi di cui una marcia. Parte così questo romanzo memoir, pensato come un viaggio dell’eroe, in cui Prestia ricostruisce quei giorni duri della sua infanzia nelle terre natie, prima di essere adottato con sua sorella da una famiglia siciliana che lo riporterà in vita, anzi gli darà una vita.

La non appartenenza che accresce il desiderio di identità soggiace all’intera vicenda. La ricerca di un ambiente che sia familiare, che echeggi a una famiglia ossessiona il piccolo Kola. La mancanza di una figura adulta, in particolare, lo prostra. Quegli adulti che ai tempi gli fa dire che «ero convinto che i grandi non avessero mai paura», anche perché «i grandi sanno tutto, almeno così credevo».

Allora, la prima figura cui si aggrappa è il direttore dell’istituto, che si chiama come lui, e che il bambino prende come punto di riferimento; è quel padre che non ha mai conosciuto. Poi c’è la zia Faya che lui e la sorella chiamano «Babushka» (che in russo sta un per «nonna»), colei che materialmente li porta e li lascia nell’istituto e che, alle feste e talvolta nei fine settimana, va a prenderli e li tiene con sé in un appartamento che Prestia descrive nei dettagli. Quei momenti però durano troppo poco, solo il tempo «per alleggerire il cuore».

Ma a dargli una parvenza di famiglia ci sono i suoi compagni di stanza, Sergej, Mishka, orfani come lui, e Sasha che una madre ce l’ha ma la povertà lo ha costretto in quell’istituto. Con loro instaura un rapporto di complicità, gioca, si aiutano e si difendono dal nonnismo degli altri ragazzini più grandi, sfidano le regole, fino a quando Mishka gli dirà: «Sei mio amico». Quella parola gli riempie il cuore di calore, una parola che al protagonista, per un attimo, lenisce il «senso di solitudine: la differenza tra me, la mia vita e quella degli altri».

Il tempo trascorso all’istituto lo vede anche ammalarsi gravemente, una brutta febbre che non passa e che lo costringe al ricovero in ospedale. Qui, la solitudine si aggraverà. Kola osserva gli altri bambini che a fianco hanno le mamme, mentre lui non ha nessuno, soprattutto quando arriva il Natale. Saranno le madri degli altri e le infermiere a fare da surrogato, a impietosirsi di quel bambino solo e tenergli compagnia, a fargli piccoli doni.

E poi ci sarà un secondo ricovero, stavolta in una struttura psichiatrica, quindi tentativi falliti di adozioni, rapporti turbolenti con uno zio, fratello della madre, uomo violento che lo va a prelevare dall’istituto per usarlo come schermo nei suoi traffici illeciti. Kola vive il trauma di un continuo abbandono, da cui il titolo Dasvidania, una lunga sequela di addii finché alla fine arriva una coppia di siciliani che scelgono di adottare lui e la sorella. Sarà allora per la prima volta che sentirà la sensazione di affetto degli adulti, che si accorgerà altresì che i grandi possono amare e amarsi; qualcuno compie un atto d’amore incondizionato nei suoi confronti. Il punto di partenza di una nuova vita.

Prestia scrive con semplicità e chiarezza, attraverso frasi brevi o paratattiche. Questo permette di accelerare il ritmo narrativo che rischierebbe altrimenti di incepparsi, data la natura da memoir e interior monologue. Talvolta le situazioni sono troppo raccontate e non sempre mostrate, in un’alternanza di scene e pensieri filtrati dall’io narrante. Alla fine comunque, il risultato è buono, nonostante alcune ingenuità che però potrebbero ascriversi a un esordio.

È affascinante l’immaginario collettivo di un bambino russo, i suoi ricordi raccontati direttamente in italiano senza il filtro di una traduzione. Forse anche per questo gli si può perdonare qualche luogo comune nell’uso delle metafore e delle analogie. Nel complesso, il romanzo non scade mai nel pietismo né nell’eccessiva esaltazione violenta di certi cliché abusati, dall’infanzia difficile, al barcamenarsi per sopravvivere. Molto esemplificata, al riguardo, è la scena di quando lui ruba cento rubli da un cassetto di Babushka e poi se ne pente, li riporta e confessa il misfatto. Nikolai Prestia, nel descrivere la reazione della zia, la definisce spaventata dal gesto del nipote, perché sapeva a cosa sarebbe potuto andare incontro vivendo in strada, «abbandonato in un istituto, in mezzo a ragazzi simili a me, senza nulla da perdere […] potevo diventare un ladro o qualcosa di peggio». Ma ciò non succede, malgrado alcune situazioni al limite, nonostante la realtà difficile e violenta.

Del resto è la stessa Babushka a lasciargli una massima che Kola porterà con sé, in ogni momento difficile della sua vita, fino a scrivere questo memoir: «Le cicatrici sono dure perché servono a rinforzarci».

(Nikolai Prestia, Dasvidania, Marsilio, 2021, pp. 160, euro 16, articolo di Fernando Coratelli)