“I Melrose”
di Edward St Aubyn

Nei quattro romanzi di St Aubyn raccolti in I Melrose (Neri Pozza, 2013), realtà e finzione sono impossibili da separare. Dalla precisione clinica e comportamentale delle sue narrazioni traspare l’esperienza personale dell’autore; i ritratti dei genitori di Patrick rispecchiano le caratteristiche di quelli di St Aubyn: David Melrose, padre sadico e narcisista, Eleonor, madre sottomessa e passiva che finge di non sapere dei dolori fisici e morali che il marito infligge al figlio. Patrick, il protagonista, dai cinque agli otto anni è stato vittima di abusi sessuali da parte del genitore, abusi che vengono raccontati nel primo romanzo Non importa.

Nella saga di St Aubyn le descrizioni minuziose degli eventi riflettono l’appello a una ricerca assoluta della realtà circostante; risaltano l’accuratezza e i dettagli nelle descrizioni, riguardo ai luoghi e ai personaggi, come a voler rappresentare la realtà evidenziandola, quasi a supplicarla di esistere. La scrittura ha quasi il dovere di rappresentare la realtà, arrestare la confusione, dove la realtà circostante è vista come unica certezza da tenere in vita.

Concettualizzare un’esperienza di dolore, di paura, di disperazione, consente di associare il sollievo che deriva dalla scarica motoria con quello dell’elaborazione psichica. Tanto più il dolore sembra devastare quanto meno si riesce a padroneggiarlo per mezzo delle parole e del linguaggio.

La saga I Melrose, come dicevamo, raccoglie quattro romanzi: Non importa; Cattive notizie; Speranza; Latte materno – che nel 2011 è stato adattato al grande schermo dal regista Gerald Fox. L’ultimo capitolo che termina la saga Lieto fine, è stato pubblicato separatamente. Ognuno di questi romanzi racconta, in un lasso di tempo molto circoscritto, un momento fondamentale della vita del protagonista.

La narrazione è in terza persona. Questa scelta, probabilmente, è fondamentale per St Aubyn per distanziarsi dall’orrore degli eventi – in parte – vissuti, perché come sostiene l’autore:«Se vuoi scrivere qualcosa di veramente intimo, scrivi in terza persona».

Nei romanzi di St Aubyn la funzione della scrittura è quella di allontanare l’angoscia e lo smarrimento; è l’autore a dire che, prima di scrivere Non importa, voleva suicidarsi, e che nella stesura del libro pensava a due possibili vie d’uscita: terminarlo o ammazzarsi. In Non importa Patrick è vittima di violenze fisiche e di un abuso sessuale, e l’intero romanzo sembra che ruoti intorno a questo racconto. In Cattive notizie il protagonista ha ventidue anni, è un tossicodipendente che si reca a New York per raccogliere le ceneri del padre; in Speranza l’intero romanzo si svolge in una festa presso una nobile dimora nel Gloucestershire e, Patrick è un ex tossico che osserva disgustato il suo status sociale e inizia a prendere consapevolezza del suo impulso autodistruttivo. È ormai un quarantenne spostato e infelice nel penultimo romanzo, Latte materno, la cui madre morente ha deciso di lasciare la sua eredità a una fondazione New Age, tradendo definitivamente la fiducia del figlio.

Nell’ultimo romanzo, Lieto Fine, Patrick partecipa ai funerali della madre e in una sorta di illuminazione gli appare una verità: lui, figlio ferito irrimediabilmente dal padre, è stato solo una vittima della relazione sadomasochista tra i suoi genitori.

Con una prosa che ricorda Wilde e Waugh, St Aubyn riesce a descrivere l’Upper-class inglese in uno stile classico e contemporaneo insieme, dove il racconto autobiografico ne ricama l’essenza.

 

(Edward St Aubyn, I Melrose, trad. di L. Briasco, Neri Pozza, 2013, pp. 730, euro 19)

“Sopravvissuto – The Martian”
di Ridley Scott

Durante una missione su Marte, l’astronauta Mark Watney viene considerato morto dopo una forte tempesta e per questo abbandonato dal suo equipaggio. Watney però è ancora vivo, su Marte, a 4 anni di viaggio di distanza dalla prima missione in grado di recuperarlo, e ha pochissime provviste.In qualche modo deve trovare la soluzione per sopravvivere e per comunicare con la Terra . A milioni di chilometri di distanza, la NASA e un team di scienziati internazionali lavorano instancabilmente per cercare di portare “il marziano” a casa, mentre i suoi compagni cercano di tracciare un’audace, se non impossibile, missione di salvataggio.

Si può fare un film divertente parlando di un uomo rimasto solo su Marte? Si può, inaspettatamente, e si può fare anche un film di ottimismo totale e di voglia di sopravvivere (vedi i titoli di coda). E si può fare un grande film. Sopravvissuto – The Martian, ultimo film di uno dei grandi del cinema contemporaneo come Ridley Scott, che non ne azzeccava uno ormai da non si sa neanche più quanto tempo, è uno spettacolo assolutamente godibile, una forma di intrattenimento intelligente e spiazzante (per il registro scelto per il contenuto) che deve molto, come ovvio, al romanzo L’uomo di Marte da cui è tratto, autopubblicato come ebook nel 2011 da Andy Weir e diventato nel tempo un best seller mondiale.

Andy Weir non è un astrofisico o un esperto di scienza, è un appassionato, uno di quelli che adesso chiamiamo nerd anche in Italia per colpa di Big Bang Theory, che ha messo nel suo romanzo tutta la passione per la fantascienza.  La sorpresa, però, è che The Martian, sia libro che film, è una delle opere di fantasia scientificamente più rigorose che si siano viste. Tutto quello che fa Watney per sopravvivere, dal realizzare una coltivazione di patate all’usare le radiazioni per riscaldarsi, è plausibile, così come sono possibili i tentativi di recupero che vengono portati avanti dalla NASA. Questa vena scientifica, unita alla leggerezza del registro, fanno di The Martian un film sorprendente per la chiarezza espositiva e la vitalità che è in grado di comunicare. Non c’è un momento drammatico, non c’è una ricerca di facili sentimentalismi, non c’è la retorica della solitudine disperata.

Il confronto più semplice che può venire in mente è con il grande film di fantascienza della scorsa stagione, Interstellar di Christopher Nolan. È inevitabile, vista la vicinanza temporale, visto il cast in parte condiviso (Matt Damon e Jessica Chastain) e visto il tema in parte accostabile. Se il film di Nolan si perdeva e indeboliva in spiegazioni pseudo-scientifiche incapaci di far presa sullo spettatore, The Martian riesce invece a essere sempre chiaro e semplice, oltre che, da quello che è stato detto da chi è in grado di capire, assolutamente verosimile. Se Interstellar contava molto sul senso drammatico dell’isolamento del protagonista e sulla sua voglia di tornare dalla famiglia per rispettare una promessa fatta alla figlia, il film di Scott riesce invece a mettere in mostra il senso più puro della sopravvivenza, quella basata su un’intelligenza istintuale che porta l’uomo a recuperare la sua capacità di adattamento e la sua inventiva. In qualche modo, The Martian è Interstellar come avrebbe potuto essere se davvero lo avesse girato Steven Spielberg invece di Nolan.

La dimensione del dramma è marginalizzata anche per il fatto che Watney appare come un uomo solo anche nella vita terrestre. Non ha nessuno sulla Terra da rimpiangere, non c’è una famiglia ad attenderlo, una fidanzata, una moglie o dei figli. È chiaro, questo escamotage narrativo è stato usato proprio per ridurre al minimo le possibilità drammatiche della distanza e poter giustificare l’ostinato buonumore del protagonista, solo con se stesso e con i suoi video diari.

All’interno della carriera di Ridley Scott, che di fantascienza ne ha già fatta tanta e di fondamentale per la storia del cinema, Sopravvissuto – The Martian è un’assoluta novità. Cambiano tutti i presupposti di partenza della sua idea di cinema, ovviamente con l’aiuto del libro di Weir e della sceneggiatura di Drew Goddard. Volendo azzardare parallelismi, The Martian può essere accostate ad Alien. Anche lì Ripley finiva per rimanere sola nello spazio. Certo, lì era braccata da un alieno sputa-acido mentre Watney non ha minacce dirette, ma la morte è sempre in agguato. Tra i due film cambia l’idea portante, quella, cioè, della solitudine come condizione esistenziale negativa, di minaccia, di isolamento paralizzante, di angoscia. In The Martian, invece, la solitudine è lo stimolo, la spinta all’in più.

Solo su Marte, in attesa di essere riportato a casa da persone pronte a mettere a rischio la propria vita – un po’ come il soldato Ryan salvato da Tom Hanks e compagni – Matt Damon dà il suo pieno contributo di ironia e titanismo quotidiano a un personaggio già pronto a diventare un’icona.

(Sopravvissuto – The Martian, di Ridley Scott, 2015, fantascienza, 140’)

 

Ostaggio del romanzo, in nome della bibliodiversità

Ostaggio del tempo, della placida monotonia di una città di provincia, della solitudine dopo un amore perduto, l’esistenza del Prof. Massimo Fronte – Max per gli amici – precipita bruscamente un tranquillo pomeriggio di inizio estate.

Le parole si ispessiscono a tal punto da divenire una minaccia reale e la noia inquieta che fino ad allora ha dominato la sua vita assume inaspettate tinte noir. Incurante del fragile limbo esistenziale in cui Max si dibatte, solo lo sferragliare dei treni sembra rimanere fedele a se stesso.

L’inchiostro scarlatto di una lettera anonima rende Max un prigioniero impotente, imbratta il suo animo sporcandolo di sospetti e paranoie. Completamente in balìa del piano architettato dal suo crudele Sequestratore, la piazza quadrata del centro storico si trasforma in una cella a cielo aperto dove recarsi ogni giorno alle 17 in punto per scrivere. Ed è la paura, quella che attanaglia e fa contorcere le viscere, che fa muovere la penna di Max fino a fargli riempire un intero quaderno, fino a farlo traboccare di personaggi e voci. Un intreccio di vite immaginate ed incontri reali trasformano il suo romanzo in un best seller nazionale. Come si sa, però, c’è sempre un prezzo da pagare per il successo e nessuno, neppure Max può sottrarvisi.

Un epilogo inatteso, intriso di speranza frenetica per un improbabile lieto fine, chiude il cerchio narrativo rivelando ai lettori una verità insospettabile.

Parliamo di Il romanzo dell’ostaggio (Koi press, 2015), di Marco Belli, al quale abbiamo rivolto qualche domanda.


Da professore precario a ostaggio dell’urgenza – in questo caso tutt’altro che metaforica – di scrivere un romanzo. Dove nasce l’ispirazione per Max Fronte?

Il ritratto del protagonista è in parte autobiografico. Sono un insegnante di scuola superiore come Max e mi piacciono i bar e il vino come al personaggio dell’Ostaggio. Scrivo spesso come il prof. Fronte, seduto a un tavolino di un bar, molti esami dell’università non li ho preparati in aula studio, ma davanti a un buon bicchiere di vino. Forse non avrei mai terminato di scrivere il libro se un incidente stradale non mi avesse costretto a letto per quindici giorni. Ostaggio del mio corpo, poi ostaggio del romanzo.


Dalle pagine del romanzo trapela con forza una passione profonda per il vino, la fotografia e la letteratura. Cos’altro c’è di te in questo romanzo?

Da qualche anno sono diventato sommelier, ma la passione per il vino e il territorio era già esplosa durante la mia adolescenza, a quei tempi però bevevo molto peggio rispetto a oggi. La fotografia accompagna la mia vita da ormai quindici anni (tutto iniziò con l’acquisto di una Seagull 6×6 in un mercatino dell’usato di Bucarest), ho lavorato con lo scrittore Lorenzo Mazzoni a due romanzi noir dove immagine e parola si incontrano. E poi la passione per la letteratura e l’editoria. Molti degli autori citati nei misteriosi biglietti del Sequestratore sono scrittori o filosofi che hanno fortemente influenzato la mia vita. Poi c’è il mestiere di editore, che all’interno del noir ritorna con forza: nel 2008 ho fondato insieme a un gruppo di amici Linea BN Edizioni, ora sono presidente di Meme Publishers, una casa editrice digitale italo-francese.


Dedichi un intero capitolo alla piccola libreria Omero, prezioso custode di libri pubblicati da case editrici indipendenti, il richiamo dunque alla bibliodiversità come necessità culturale è evidente. Qual è secondo te il ruolo attuale dell’editoria indipendente in Italia?

Un ruolo importantissimo, credo che l’editoria indipendente debba continuare a farsi promotore del concetto di libro come bene pubblico a fronte di uno Stato italiano che fa poco o niente per incentivare la lettura attraverso programmi di sistema poco efficaci. Una sinergia tra scuola, piccoli comuni e editoria indipendente potrebbe essere un’avventura culturale innovativa e avvincente.


Lo scorso luglio si è svolto l’Elba Book, festival dell’editoria indipendente, che ti ha visto impegnato in prima persona in qualità di direttore artistico. Cosa ha significato per te questo progetto?

Un’esperienza entusiasmante. Abbiamo avuto più di 2000 presenze alla prima edizione in un comune molto piccolo come Rio nell’Elba. Sono stati tre giorni di incontri tra editori e lettori, tavole rotonde molto seguite sia dai Riesi che dai tanti turisti presenti, concerti jazz e numerose presentazioni di libri indipendenti. Tre giorni per portare alla ribalta le piccole realtà editoriali e disegnare strategie per la valorizzazione delle case editrici piccole e medie, della bibliodiversità appunto, e per la tutela del lavoro.


Cosa ha in serbo per te il futuro? Continuerai a dedicarti alla scrittura?

Il mestiere di editore e la direzione artistica di Elba Book occupano molto tempo della mia giornata, ma ci sto prendendo gusto a pensarmi anche come narratore di storie. Sto scrivendo un nuovo romanzo noir ambientato tra Ferrara, la mia città d’origine, e il Polesine. Sarà il primo di una serie che avrà come protagonista una detective donna un po’ fuori dagli schemi.

 

(Marco Belli, Il romanzo dell’ostaggio, Koi press, 2015, pp 116)

 

“Tutameia”
di Guimarães Rosa

«Sprovvisto d’altro, annullai la mia presenza, di matita, riga e carta mi circondai la testa».

Si può leggere un libro con metodo, andando dalla prima all’ultima pagina e sentirsi soddisfatti di avere un finale tra le mani e poi si può aprire a caso un libro di storie e perdersi in una terra sconosciuta e accettare di essere un’estranea.

Dopo il successo del Grande sertão, l’unico romanzo scritto da João Guimarães Rosa e pubblicato nel 1956 che lo consacra come uno dei migliori autori brasiliani del Novecento, esce per la prima volta in traduzione italiana, Tutameia. Terze storie (Del Vecchio Editore, 2015) un insieme di quaranta brevi racconti lucidi, selvaggi, comici che interagiscono tra loro nella complessità di un linguaggio fatto di immagini desertiche, flashback di vite e ritmi frenetici.

Nelle storie di Guimarães Rosa il non detto ha lo stesso potere della parola scritta, poiché quelle stesse storie vivono di circostanze al limite del definito, in sprazzi narrativi insubordinati al tempo e allo spazio.

O meglio, lo spazio è delimitabile al sertão minerario – la regione semiarida del nord-est brasiliano che abbraccia molti stati tra cui Minas Gerais, patria dello scrittore – ma si rivela nelle esistenze degli innumerevoli personaggi che lo abitano: opprimente e consolatorio al tempo stesso, un luogo non luogo mistico, dimensione del mondo.

Questa percezione del grande sertão viene ulteriormente enfatizzata dal linguaggio di Rosa che elude le regole risolute della sintassi, creandosene delle proprie, e non digiuna su allusioni, gerghi e detti più o meno autentici, gettando il lettore in una condizione di spaesamento linguistico quasi al limite dell’incomprensione.

Gli stessi traduttori Virginia Caporali e Roberto Francavilla nella nota a fine libro sostengono che effettivamente esiste una difficoltà lessicale, poiché Rosa «non indugia nei neologismi, o non quanto ci si aspetterebbe, solo perché ripesca termini desueti o regionali, e intanto scollega le parole dai loro significati abituali, quelli che permettono di riposare».

Ma persino l’autore, nella bellissima apertura del racconto “Se io sarei personaggio”, sembra che cerchi una “giustificazione” in buona fede al suo stile snodato e ribelle, come se quelle parole fossero rivolte con la massima franchezza proprio al lettore: «Si noti e si mediti. A me stesso sono anonimo; la parte più profonda dei miei pensieri non capisce le mie parole; conosciamo noi stessi sono con grande confusione».

Eppure nonostante il caos di una narrazione frastornante, Rosa riesce a rassicurarci disseminando nel testo piccole gemme di rara bellezza poetica, ed è quasi inebriante incappare in questi brevi aforismi liberi ma non troppo dal contesto in cui compaiono, esistenze a sé che rendono profondo qualsiasi pensiero, anche del più scialbo e sventurato dei protagonisti.

«Il fiore è solo fiore. L’allegria di Dio ha un vestito di amarezze».

 

(João Guimarães Rosa, Tutameia, Trad. di Virginia Caporali e Roberto Francavilla, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 288, euro 16)

“Io e lei” di Maria Sole Tognazzi

Arrivata al quarto film da regista, Maria Sole Tognazzi conferma due aspetti fondamentali del suo cinema. Da un lato, l’indagine sui sentimenti e la loro potenza, emersa in tutta la sua evidenza dall’opera seconda L’uomo che ama, dall’altra lo sguardo su figure femminili che possono essere definite atipiche per lo stile narrativo del cinema italiano: forti, autonome, indipendenti, e proprio per questo assolutamente normali.

Dopo le diverse solitudini di L’uomo che amaViaggio sola, Tognazzi ha aperto il suo cinema alla coppia. Una coppia diversa nelle premesse perché formata da due donne, ma normalissima nell’affrontare i problemi del vivere insieme che arrivano a un certo punto della vita individuale e condivisa, quando gli anni iniziano a non essere più pochi e l’orizzonte del futuro inizia a fare sempre più paura.

Federica e Marina stanno insieme da cinque anni. Hanno i loro lavori, i loro passati e un presente da costruire ogni giorno. Marina era un’attrice, ma ha smesso per tornare al mestiere di famiglia nella ristorazione. È sempre stata omosessuale e non ne ha mai fatto mistero. Federica invece ha avuto un marito e un figlio diventato ormai adulto. È stato proprio quando il suo matrimonio stava per crollare che ha conosciuto Marina e si è innamorata. Non si è mai detta lesbica, semplicemente ha incontrato una persona da amare. Un giorno nella vita delle due donne si intromette un uomo arrivato dal passato di Federica che farà cambiare alcune certezze e le porterà a un momento di crisi.

Gli opposti si attraggono, si dice. Marina e Federica, in comune, hanno solo il genere sessuale e quello che l’amore le ha portate a costruire negli anni. C’è la complicità dell’intimità, c’è la sopportazione reciproca e il sostegno, e c’è la normalità totale del quotidiano da tollerare e assaporare ogni volta. Parlando di una coppia di lesbiche di mezza età, Maria Sole Tognazzi riesce a parlare di amore universale, dell’amore contemporaneo che come tutto il resto conosce forme di precarietà sempre nuove, senza un oggi in grado di diventare per sempre ma che ogni volta va consolidato. In fondo, Federica, il personaggio di Margherita Buy, non gay ma innamorata dell’altra, rende il tema del film universale: non si tratta (solo) di una preferenza di genere, si tratta di una scelta di persona, amare qualcuno per quello che è, indifferentemente dal sesso.

La forza fondamentale di Io e lei è in questo, nel saper parlare dello stare insieme con spontanea autenticità. La totale diversità di Marina e Federica le rende indivisibili più di quanto loro stesse se ne rendano conto, in quell’amore unico e assolutamente normale che vivono gli esseri umani da sempre.

C’è parecchia commedia, in Io e lei, e questo tiene lontano il confronto con l’approccio, molto più inclinato verso il dramma, di Ferzan Ozpetek, uno dei pochi registi in Italia a trattare abitualmente il tema dell’amore omosessuale, ma non è una commedia farsesca farcita di cliché come quella, per fare un esempio recente, del terrificante Non c’è 2 senza te visto lo scorso anno, ma una commedia sentimentale raffinata e intelligente, mai stereotipata.

A dare una spinta ulteriore sono le interpretazioni delle due protagoniste. Semplicemente perfetta Sabrina Ferilli, che attinge aa tutta la sua romanità per creare un personaggio unico, meno esplosiva Margherita Buy (verrà detto che fa sempre lo stesso personaggio in ogni film, non date retta) ma comunque perfettamente credibile. La loro è una coppia di perfetta credibilità, unita da quell’amore che non è passione ma è bisogno. Il lusso è nei personaggi di contorno, nel sempre bravissimo Ennio Fantastichino (il marito di Federica) soprattutto, che sanno dare quel qualcosa in più. La scrittura, curata dalla stessa Tognazzi con Ivan Cotroneo e Francesca Marciano, restituisce una quotidianità verosimile, una brillantezza autentica. Peccato solo per quei difetti di messa in scena che troppo spesso tendono ad appiattire i film italiani su livelli produttivi degni della fiction televisiva.

(Io e lei, di Maria Sole Tognazzi2015, commedia, 97’)

“Quello che non ti ho mai detto”
di Celeste Ng

Facile. Potrebbe sembrarlo in modo lampante. Lydia non c’è. Al suo posto, nel ronzio mattutino, un piatto bianco, una sedia leggera, tutta una piccola geografia disabitata. Altrettanto facile, quasi impulsivo per me, ripensare a Elsie, la bimba svanita (e poi trucidata) nel film M – Il mostro di Düsseldorf, capolavoro d’inquietudine del maestro tedesco Fritz Lang. Anche lì, a imperversare, è un’assenza parlante, la tromba delle scale che come un gorgo ha risucchiato quel nome e i suoi passi entusiasti. Campo e contro campo che si rimpallano, a rammentare l’orrore e a scolpirlo nel suo quotidiano. Senza sangue, senza ossa, con la sola scia di ciò che manca. Anche questa vicenda esordisce così, anzi precipita alla fine, scegliendo di non essere tortuoso per poterla toccare. «Lydia è morta. Ma questo ancora non lo sa nessuno. 3 maggio 1977, sei e mezza del mattino. Nessuno sa nulla se non una semplice cosa: Lydia è in ritardo per la colazione. »

Si spalanca in questo modo Quello che non ti ho mai detto (Bollati Boringhieri, 2015), primo romanzo di Celeste Ng. Una sparizione, piantata nel petto di una famiglia “come tante”. Una madre Marilyn, un padre James, un fratello maggiore Nath e una sorella minore Hannah.

Una geometria più che diffusa e consolidata a cui all’improvviso viene a sottrarsi un lato. E logicamente, il perimetro traballa. E allora, a questo punto, per chi consuma e vende libri con una certa intensità, non possono che balenare in mente almeno altri due esempi, ancora freschi di scaffale: L’amore bugiardo di Gillian Flynn e Una famiglia quasi perfetta di Jane Shemilt. Nel primo caso una coppia, scoperchiata bruscamente dalla scomparsa della moglie. Un doppio diario che smatassa la follia di starsi accanto e slabbra ogni vano tentativo di fingersi normali. Se davvero è possibile. Nel secondo titolo, la somiglianza si fa quasi bruciante. Anche qui, in un quadro di apparente benessere, un’altra adolescente si dissolve. E la vernice si sgretola.

Poi però, inoltrandosi più giù, ingollando il corridoio di similitudini e richiami, si scopre che questa è un’altra storia. Certo, il meccanismo è il medesimo. La falla aperta da un vuoto repentino disordina il tavolo, sparecchia malamente le dinamiche in gioco e col baricentro così spettinato, ogni nucleo si mostra per quello che (spesso) è: fragile, nudo. E scontento. E la squadra familiare non è più così compatta, ma solo un ammasso di individui che vi si nascondono, col coro sommesso delle proprie frustrazioni.

Ma qui c’è anche di più. Sì, perché Marilyn e James non sono due soliti coniugi, soprattutto nell’ingessata provincia americana anni Settanta. Lei è una donna che scalcia, che non scorge in un grembiule infarinato il punto apicale della sua esistenza. È quindi una donna che vorrebbe sottrarsi al suo status. E lo fa studiando, in un ambito-enclave dell’orgoglio maschile. Si appassiona alla fisica, vorrebbe essere un medico, perché al grembiule preferisce il camice.  In lei tutto vuole differenziarsi, fiutare la corrente per nuotare in senso inverso. James, al di là del suo nome, è cinese. Tremendamente, ineluttabilmente cinese. Infiltrato di soppiatto in un Paese nuovo, che sembrava promettergli ben poco. Anche James ha sgobbato, anche lui ha respinto il suo destino. È diventato un professore, ma per ragioni opposte. Marylin vuole distinguersi, non si amalgama come un ingrediente delle ricette di sua madre; si rifiuta di credere che la sua salvezza sia un buon matrimonio.

James pagherebbe coi suoi denti per essere inserito, perché i suoi occhi non stridessero con gli altri, perché non risultassero così strizzati, segregati in una mandorla d’ombra e di distacco. L’uno riscatta i sogni dell’altra. È il terreno tanto ambito e non ancora conquistato.  Soprattutto per James che incontra Marilyn come una rivelazione. «Poi la sua risata disinvolta sfavillava in quella stanza bianca e spoglia; mentre chiacchierava trafelata, le mani si agitavano finché lui non le stringeva nelle sue, e restavano sdraiati, caldi immobili come uccellini a riposo, finché lei non lo attirava di nuovo a sé.  Era come se l’America intera lo stesse accogliendo». Tutta la sostanza della loro unione si addensa nell’affollata dialettica tra apocalittici e integrati. E tutti le colpe di James e Marylin risiedono proprio nei loro desideri, in quella astrusa forsennata proiezione di ciò che volevano in ciò che dovrebbero volere i propri figli. E tra i tre Lydia diventa in fretta il nido prediletto, il canale di scolo dei propri sogni castigati o deposti in tutta fretta.

Bersagliata da un padre che la (si) vuole popolare e da una madre che la (si) pensa emancipata e assorbita da passioni scientifiche. Ma lei è solo se stessa,sballottata nei suoi sedici anni, incorniciata da tratti orientali e da un paio di occhi azzurri. Disorientata anche dal suo viso. Costretta solo a incorporare il suo ruolo, preferendo non dire, scegliendo di lasciarsi vivere dalle battute altrui. Ed è qui che Quello che non ti ho mai detto dimostra quanto basti “poco” a generare il danno, quanto il carico di aspettative di una famiglia schiacciata dal peso sociale divenga deflagrante. E allora? Chi è davvero il responsabile di quella scomparsa? E allora la macchia si dilata e mostra radici allargate, a quella smodata fetta d’America così periferica e perbenista, in cui alla fine degli anni Settanta una coppia ibrida è ancora un fastidio, un «atto ingiusto» come lo definisce la madre di Marilyn.

Celeste Ng ci ha impiegato sei anni a scrivere questo romanzo. Ci ha versato anche la sua storia, quella di figlia di un matrimonio misto, che ormai conosce una realtà diversa, ma che con grazia e sensibilità restituisce nel testo il senso vitreo di un equilibrio difficile: quello di una famiglia respirata dall’interno.

Con i suoi sottotesti e i suoi non detti. Come il termine “razzismo”, che scorre sotto pelle senza bisogno di venire pronunciato. Come il timore mai sconfitto di un viso che in fondo non ci somiglia abbastanza.

(Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto, trad. di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, 2015, pp. 272, euro 17,50)

“Everest” di Baltasar Kormàkur

C’era molta attesa per Everest, il film di apertura della settantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Attesa perché le ultime due edizioni del festival erano state aperte alla grande da film che in seguito si sarebbero affermati come dominatori della stagione quali Gravity di Alfonso Cuarón e Birdman di Iñarritu, che sarebbero arrivati a conquistare premi su premi fino ai rispettivi trionfi agli Oscar. Everest sulla carta aveva le caratteristiche per un terzo botto iniziale consecutivo: un grande cast, un grande budget e una storia di sicura presa sul pubblico, ma le attese non sono state rispettate.

Siamo nel maggio del 1996, da quattro anni le scalate sul monte Everest, la montagna più alta del mondo, sono diventate un affare turistico grazie a una serie di tour operator che addestrano e guidano comitive per raggiungere il tetto del mondo. Il neozelandese Rob Hall è stato il primo a fondare una società per l’arrampicata turistica, l’Adventures Consultants, poi ne sono seguite altre, dall’americana Mountain Madness, guidata da Scott Fischer, a gruppi taiwanesi e sudafricani. In qual maggio del ’96 erano tutte lì ai piedi della montagna, in un ingorgo che finì per costare la vita a otto persone, tra cui Rob e Scott, rivali in affari ma uniti dall’amore per la montagna che approcciavano con stili completamente diversi, rispettoso e calmo il primo, veloce e spericolato il secondo.

Quella raccontata da Everest di Baltasar Kormàkur è una storia vera che prende un po’ dalla cronaca e un po’ dal libro di Joe Krakauer Aria sottile, che partecipò a quella spedizione del 1996 per scrivere un reportage per una rivista specializzata. Il regista islandese ha preso la vicenda per farne una nuova declinazione di un tema classico e molto caro a Hollywood, quello della sfida dell’uomo contro la natura, della ricerca di ciò che è oltre il confine dell’umano attraverso il contatto con gli ambienti più ostili. Viene ripetuto più volte, in Everest: quello che proveranno gli avventurieri sulla montagna sarà puro dolore, pura sofferenza, perché superata un’altezza limite il loro corpo semplicemente inizierà a morire per le condizioni ambientali troppo ostili per la vita umana, tra aria rarefatta all’inverosimile e temperature troppo fredde per essere sopportate dal corpo. È lì, in quel brivido di morte, che si trova il vero godimento, più che nel raggiungere un posto in cui pochissimi nella storia dell’umanità sono arrivati.

La presenza della montagna e il pericolo che porta con sé per chi decide di sfidarla fanno da soli la prima parte di Everest, quella in cui gruppi si organizzano per la scalata in un campo base affollato come un villaggio vacanze. È qui che si costruiscono le storie, che si accumulano le trame, che si fanno i personaggi. Rob ha una moglie in Nuova Zelanda incinta che lo aspetta, Scott ha chiaramente un problema con l’alcol e un’esuberanza che lo porta oltre i propri limiti. C’è un postino ostinato che vuole arrivare in cima per qualcosa di più della sfida con se stesso, una giapponese a cui manca solo l’Everest per poter dire di aver scalato tutte le montagne più alte del mondo, e un politico texano arrogante che è partito nonostante le paure della moglie. Ognuno ha un motivo per essere lì, ma lo tiene per sé. Krakauer – interpretato da Michael Kelly, già visto in House of Cards – tenta di arrivare ai motivi profondi della scelta di ognuno, ma tutto sommato non importa, perché in Everest lo spazio per l’introspezione è limitato, quello che conta è l’azione e l’emozione.

È proprio sulla leva emotiva che il film di Kormàkur, sceneggiato da William Nicholson (Il gladiatoreUnbroken) e Simon Beaufoy (127 oreThe Millionarie), trova i momenti di maggiore debolezza. Il tentativo di conciliare il titanismo della sfida uomo-natura con il racconto collettivo di un film catastrofico non riesce. La costruzione del dramma annunciato si disperde tra i vari personaggi e le loro vite, ferme a quello che è poco più di un abbozzo non portato avanti. Accanto a quelli che sono i due protagonisti principali – Rob, interpretato dal lanciatissimo Jason Clarke che ormai è ovunque (Terminator Genisys e la saga del Pianeta delle scimmie), e il texano Beck a cui dà corpo Josh Brolin –appaiono e spariscono una moltitudine di personaggi che hanno rilevanza intermittente a seconda delle esigenze narrative. Insieme ai personaggi, compaiono di sfuggita alcuni temi che avrebbero meritato maggiore spazio, come lo sfruttamento commerciale di un luogo unico al mondo, la spettacolarizzazione del rischio, i modi diversi di vivere la montagna e la natura. Alla fine c’è troppo, e questo troppo non riesce a creare il coinvolgimento emotivo sperato e resta anche il sospetto di aver unito tanti attori di prestigio (ci sono anche Samantha Morton, Keira Knightley, Robin Wright) e non aver saputo realmente come sfruttarli.

È probabile che Kormàkur e i suoi pensassero che bastasse la montagna e i suoi paesaggi – è stato girato un po’ in Nepal, un po’ a Cinecittà, nei Pinewood Studios e nella Val Senales in Trentino – per fare il film. Ci voleva qualcosa di più, come ad esempio una sceneggiatura.

(Everest, di Baltasar Kormàkur, 2015, azione, 121’)

“Il giorno perduto”
di Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto

«Tuttavia il corpo non riesce a liberarsi del ricordo. È una rete, una ventosa, il ricordo, prende i muscoli le ossa il respiro. Tu lo mantieni presente e lui ti mantiene vivo. A volte, tu e il tuo ricordo siete il futuro».

29 maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool: doveva essere un momento di festa, di attesa, di tensione sportiva. Si è trasformato in tragedia. Alle 19.20 un gruppo di inglesi rompe le recinzioni che separano i settori; è il panico: sotto il peso della carica inglese, la tribuna crolla su se stessa. Le vittime saranno trentanove: «Trentadue italiani, quattro belgi, due francesi, un nordirlandese. E seicento i feriti. Intorno tutto è infinito. Voci suoni colori deflagrano e raggiungono il silenzio. Sono le 21.40. L’assurdo è così banale che le squadre entrano in campo».

Questo è Il giorno perduto (66thand2nd, 2015) che Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto raccontano in un romanzo a voci alternate dando vita, pensieri e parole il primo all’inglese Christy soprannominato Monk per la sua vita solitaria eccezion fatta per la Kop, la mitica curva del Liverpool dove però «nessuno ti dedica troppa attenzione, al massimo un’occhiata di sbieco, ogni discorso è rivolto al campo», l’altro a Domenico detto il Mitch e ai suoi amici Angelo, Charlie e Miranda sfegatati tifosi juventini tutti provenienti da Rueglio, provincia di Torino.

La narrazione è costruita intorno a loro, al viaggio che li porterà a Bruxelles, alla prospettiva della propria vita che entrambi, il Mitch e Christie, vogliono cambiare in meglio. La partita di calcio, le formazioni, i tifosi, la goliardia del gruppo di Rueglio, la solitudine dell’inglese compongono lo scenario emotivo e il sottofondo di questa rappresentazione. Per i due «questa è l’avventura da cui ripartire», il momento in cui ritrovare se stessi. L’inglese con un passato ricolmo di frustrazioni e difficoltà a causa dell’abbandono della madre in giovane età e della malattia terminale del padre da buttare alle spalle, l’italiano alla ricerca di una nuova vita non vincolata alle aspettative del defunto padre. I vite dei due si sfioreranno inconsapevolmente per un momento, un attimo che rimarrà per sempre impresso nella memoria: una partita di “calcio” con una lattina di birra nel cuore della capitale belga.

Il destino tuttavia non ripagherà le attese, non in quella giornata, che rappresenterà per sempre, per loro e per tutti i ragazzi di quella generazione, la fine dell’adolescenza e la perdita dell’innocenza perché «se qualcuno vi racconta che gli anni Ottanta sono stati felici non credetegli. Sono stati terribili. Per un paio di generazioni in tutta Europa hanno rappresentato la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’illusione».

I capitoli finali del libro sono dedicati alla tragedia, e sono costituiti di molte pagine lasciate in bianco, lunghi silenzi intermezzati solo dai nomi delle vittime e da brevissime frasi come se solo il tacere potesse dare tributo, forma e memoria a coloro che quel giorno persero la vita.

Cartwright e Favetto con una scrittura potente ed emotiva, legando due storie apparentemente distanti, riescono perfettamente a compiere quello che è uno dei miracoli della letteratura: dare voce a un’intera generazione, lasciando ai posteri il monito di non dimenticare.

 

(Anthony Cartwright/Gian Luca Favetto, Il giorno perduto, trad. di Daniele Petruccioli, 66thand2nd, 2015, pp. 336, euro 18)

“I costruttori di vulcani”
di Carlo Bordini

Già dopo poche pagine, attraversate le prime sezioni di I costruttori di vulcani (Luca Sossella editore, 2014), tutte le poesie (1975-2010) di Carlo Bordini, nonostante la sua opera si immagina in costante elaborazione, emerge l’immagine di un poeta diviso, capace della più profonda depressione e subito dopo di una gaiezza quasi adolescenziale, nell’assorto specchiarsi di una presenza sconosciuta a se stessa.

Per ritrovarsi, il poeta fa affidamento sulla somatizzazione più che sull’autobiografia, descrivendo le varie fasi di una malattia che impersona come un ruolo o una ragione personale, e che estende anche al mondo circostante; la morte e l’idea vagante del suicidio stanno sulla faglia di contatto e giustificano la contraddizione di un io sospeso: «una persona amo sopra tutte le / altre / amo sconfinatamente me stesso […]» (p. 32); «io mi odio al punto, / che odio chi mi ama» (Odio, p. 44). Questi due frammenti in rapida sequenza sarebbero in contraddizione se la prima delle poesie citate non si sciogliesse continuando in questo modo: «non sono chi credete / questo è un nome che / mi hanno appioppato / non so chi sono / comunque    mi amo», con quel lungo ed eloquente spazio grafico fra il conclusivo «comunque» e il «mi amo», meno reciso, evidentemente, di quanto deve apparire.

Il fatto di non poter credere del tutto alla propria esistenza né tanto meno alla propria identità e alla propria discendenza, al punto da voler chiamare il vecchio numero di casa per parlare con il se stesso di vent’anni prima e fare due chiacchiere di circostanza (Poesia scritta di notte, p. 31), ha però la capacità di rompere una impasse apparentemente fatale nella sua radicalità: nella latenza dell’uno e dell’altro polo il poeta costruisce la sua casa.

Inchiodato alla sua indefettibile debolezza interiore Bordini finisce per farne l’apologia, declinandola sul piano continuo della spiritualità e della materia, dall’infanzia all’identità sessuale, tutte cose colpevolmente create all’ultimo momento (insieme alla morte) da Dio e dalla cricca dei suoi aiutanti/disturbatori ingegneri del cosmo (Poesia demente, p. 120).

Dall’altra parte della fame, il poeta ha orrore della distruzione che comporta il vile atto della nutrizione, e per esprimere il profondo schifo e il profondo terrore di un esercito di stomaci che digeriscono il mondo, la sua poesia retrocede alla parodia di una petulante voce materna che ingiunge al figlio di Mangiare (questo il titolo della sezione che comincia a p. 71). La sostanza, anche quella economica («mangia mangia / Lo stipendio», p. 98), si pone dunque al centro di un horror pleni che può essere riscattato solo dalla pre-vita, dalla debolezza dei secoli, dalla mollezza del sedimento:

Se non fosse stato debole non sarebbe potuto nascere,
né farsi penetrare dal sole. Se la tempesta
non l’avesse sbattuto non si sarebbe frantumato e non avrebbe
raggiunto piano piano la palude, coi suoi simili frantumati,
per farsi penetrare dal sole.
Così nacque la vita. Dalla polvere, dalla
catastrofe. Dal frantumarsi e dai detriti
frantumati. Così nacque la forza. Dalla
debolezza, dall’argomentare della
debolezza. Dal suo accettare di farsi
penetrare dal sole.
(da Polvere, p. 134)

La maturità di Bordini si gioca sul prodigio di un tono familiare e di uno stile discorsivo e narrativo orchestrati in scene in cui si conducono i momenti dell’orrore e del terrore esistenziale come se fossero piccole feste, riunioni collettive in cui amici e parenti si stringono intorno al suicida fallito che spiega placidamente i motivi del suo gesto, mentre sembra spirare un paradossale vento di fiducia e di rigenerazione sociale e personale (Fine della tragedia, p. 146-7); è sullo scampato pericolo, sul dopo la catastrofe che Bordini ragiona con pazienti elenchi di cose e di motivi, con pensieri semplici e affilati, menando una lirica che non può non essere del quotidiano, dell’effimero, della dolcezza fredda e diffidente, se davvero può essere ancora. Bordini guarda il mondo come un bambino, intellettuale e incasinato, si rivolge all’albero che ha ucciso per stampare l’ultima variante del suo lavoro «inutile, o, comunque, evitabile», (p. 158) si siede insieme al suo lettore davanti alla tv e commenta l’ingiustizia delle cose che passano sullo schermo.


Amico

ho visitato un amico che stava morendo.
mi perdonò di essere vivo. mi sono accorto
che m’ero sempre vergognato. lui invece mi spiegò
che non era una colpa. non l’avevo fatto apposta, io.
mi spiegò che essere vivo non era una colpa. non facevo male
a nessuno. ma ci volle lui per spiegarmelo. a lui ho creduto.
mi spiegò che se facevo male non era con intenzione. mi perdonò.
mi consolò. sei simpatico, mi disse, anche se non stai morendo. nella
vita avrai tante cose belle, piacerai alle donne. mi fece far pace
con la vita, come si fa con una fidanzata riottosa.
(p. 199)

È nella faticosa conquista di sé, nella pace con la vita che si fa vedendo un amico che muore, che l’autore matura il suo più profondo senso di condivisione. Rivolto col pensiero all’intero genere umano, il poeta di La genesi di un pensiero (p. 261 e ss.) ha i suoi capisaldi nella conservazione della natura e nell’eterna simpatia per le vittime, gli ultimi, gli esclusi, anche al di là dei semplici diritti umani, come dimostrerà l’ultima provocazione prima delle Effimere conclusive. Il poeta misura su di sé l’entropia, si dibatte pensando che il mondo così com’è non può andare avanti, è atterrito e sollevato dall’idea della fine collettiva, confronta i titoli di giornale col suo senso di colpa e di nuovo è sospeso fra la fiducia verso i movimenti utili e necessari, e gli inganni dei potenti e delle classi dominanti, una sintesi storica sembra irraggiungibile.

Dall’eterno ritorno al suo vizio assurdo (Suicidio, p. 310) Bordini si concede molte vite, una serie di esistenze fredde e crudeli, in cui l’io recitante può ammettere senza troppi fronzoli di vivere senza che per lui sia possibile fare il bene degli altri. Il meglio della sua tecnica è espresso in certi (anti-)apologhi fulminanti in cui lo vediamo, ora, alle prese con la maturazione del trauma, prima e durante lo sbaglio che lascerà sulla vecchia carcassa della sua anima ammaccata una nuova microfrattura, un’intolleranza, una stranezza, una crisi di nervi. L’esistenza non può non essere il campo privilegiato di questo infastidito e un poco settecentesco avventuriero del dolore, che torna con la memoria a tutti i momenti in cui ha amato perdere, fallire, fare e farsi del male perfino, nell’imperativo assurdo e straniante di non essere umano.


Microfatture

L’idea della catastrofe, una catastrofe silenziosa,
appena avvertita, ma inevitabile.
Oppure le microfratture psichiche,
le microfratture di un’anima.
La mia anima è piena di
microfratture. Sono i piccoli traumi nascosti,
dimenticati, che tornano ogni tanto, quando l’anima è sotto sforzo,
quando non te ne accorgi. Dentro sono franato tutto. Non me ne accorgo,
ma lo sono. Magari quando attraversi una strada e un rumore ti fa rabbrividire,
quando tremi alla pronuncia di un nome, quando
hai un improvviso soprassalto di insicurezza. Le microfratture
sono le telefonate e gli appuntamenti che ti snervano,
improvvisamente,
l’andare in una stanza e chiedersi: che ci sto a fare,
ecc. ecc.
tutto un elenco dei nervosismi, dei soprassalti, delle cose che ti feriscono,
e le minuzie che ti snervano, ecc ecc
il cervello che funziona troppo,
(p. 313)

Solo alcune parole sullo straziato pugile sentimentale di Strategia, la breve sequenza uscita in prima edizione da Savelli nel 1981 e qui posta nella seconda metà del volume, in cui l’autore, all’apice della maturità, offre la sua cosa all’apparenza più adolescenziale, un corpo a corpo apertamente amoroso che racconta un lungo e complicato rapporto sentimentale, un «Rosa fresca aulentissima finito male» (p. 10) e scritto per non impazzire, come ricorda Francesco Pontorno nella sua introduzione.
Rinuncio per ora ad approfondire i motivi metrici, che pure sarebbe vantaggioso indagare nello specifico. Soltanto un cenno alla varietà della voce, che dal frammento di pochi versi può arrivare all’estensione del poemetto e ancora del discorso-fiume organizzato in capitoli, come nel caso di Pericolo (p. 222 e ss.). Si segnala la grande libertà con cui l’autore estende il suo strumentario di effetti grafici (passaggi in corpo maggiore, spaziature o interlinee doppie, sottolineature, a capo marcati) nel tentativo di accentuare o meglio indirizzare il tono della lettura, ma anche per assecondare un moto di ribellione e provocazione contro la gabbia testuale, a tal proposito si può confrontare la poesia tu sei la mia (p. 376) che lambisce il margine inferiore del foglio, quasi a oltrepassarlo.

Dal 1975 al 2010, e dal 2010 al 2014 con la nuova ristampa, il tutto-Bordini, che nella fascetta Guido Mazzoni definisce «uno dei libri più importanti usciti in Italia nel XXI secolo», è l’occasione per incontrare e conoscere la voce di un divino dilettante, positivamente sospeso sulle potenzialità del mezzo, avanguardista, informale, sperimentatore e comunicativo nel senso pieno, come l’ultimo geniale Sereni (quello di La poesia è una passione? e Un posto di vacanza) quasi imbarazzato davanti alla cronaca della propria e dell’altrui vita, perplesso e corroso dal senso di colpa, ma anche orgoglioso, rifugiato dentro il tic delle lettere come nella camera separata della sua odiata/amata esistenza.

Come dice Roversi nella prefazione, I costruttori di vulcani, rivissuto e ricostruito in occasione dell’accorpamento di tutte le raccolte, è un fiume, lo scorrere dalla fonte al mare di una massa liquida a volte impetuosa a volte in rigagnoli, in molte occasioni, e per lunghissimi tratti, insabbiata sotto la superficie del suolo.

 

 

“Sicario”
di Denis Villeneuve

Da quando il canadese Denis Villeneuve ha attraversato il confine ed è sbarcato negli Stati Uniti ha fatto di tutto per imporsi come regista da tenere assolutamente sotto controllo. Del resto, già il suo ultimo film in francese, La donna che canta del 2010, lo aveva imposto all’attenzione internazionale e gli era valso, tra le altre cose, una nomination all’Oscar per il miglior film straniero. Nel 2013, per far capire a Hollywood che intendeva comunque mantenere un certo stile, uscì con due film quasi in contemporanea, prima Prisoners, progetto già preso e lasciato da tanti altri registi, poi Enemy, rilettura personale di L’uomo duplicato di José Saramago, con Jake Gyllenhaal che si impegnava per ricordare a tutti che è un grande attore.

Adesso con Sicario cambia confine scendendo ancora più a sud per arrivare alla frontiera che separa Stati Uniti e Messico. L’agente dell’FBI Kate Macy, esperta in sequestri di persona, viene scelta per essere inserita in una task force speciale incaricata di combattere il traffico di droga attraverso il confine. Kate non conosce il vero scopo della missione e non capisce i metodi del misterioso caposquadra Matt e del suo collaboratore Alejandro, ma è decisa ad andare fino in fondo per trovare i responsabili della morte di alcuni suoi uomini durante l’ultima missione. Quello che non sa è che il vero scopo della task force è di decapitare uno dei più importanti cartelli del narcotraffico messicano.

Sicario è uno di quei film in cui il genere si sposa perfettamente con il cinema d’autore, in cui attraverso una forma narrativa vicina all’intrattenimento puro si riesce a fare anche arte, per usare parole scomode. È impossibile non pensare al cinema migliore di Michael Mann guardando il nuovo lavoro di Villeneuve, sicuramente assimilato nella sua capacità di costruire eroi solitari in mondi spietati. Qui non c’è un uomo al centro, c’è una donna, forte, che a un certo punto capisce che la stanno sfruttando e lo accetta perché sa che sta succedendo qualcosa con cui lei non è in grado di confrontarsi, non con il codice che fino a quel momento ha seguito. Matt e Alejandro portano Kate nelle zone del grigio più scuro della legalità e delle azioni governative, del caos funzionale alla costruzione dell’equilibrio. Il confine non è solo geografico, ha un valore più esteso, tra quello che è giusto e quello che non lo è, tra quello che è necessario e i modi per raggiungerlo.

Sarà l’ambientazione, sarà Josh Brolin (fa, bene, Matt), sarà la fotografia superba di Roger Deakins, ma viene in mente, accanto a Mann, Non è un paese per vecchi dei Coen e di Cormac McCarthy per la brutalità dell’uomo contro se stesso. C’è meno simbolismo e più aderenza al reale, ma l’eco si sente. Di Mann, Villeneuve riprende la tecnologia applicata alla regia, il senso costante dell’innovazione. Da McCarthy, più che dai Coen, prende insieme allo sceneggiatore Taylor Sheridan la psicologia e il dubbio costante su cosa sia il bene e cosa sia il male. Da se stesso, riprende la ferocia umana di fronte alla perdita (già in Prisoners) e il sospetto che chi sia deputato a controllare non si impegni a farlo realmente e lasci prevalere altri interessi.

Villeneuve riesce a fondere lo spettatore con Kate, a trasmettere lo spaesamento dell’agente di fronte alle cose che accadono e alla velocità con cui le accadono intorno. Kate Macy non capisce praticamente nulla di quello che vede, e lo spettatore con lei. Ogni tanto la visione si allarga in una coralità che mostra brandelli di qualcosa che sta a chi guarda mettere insieme, come fossero dettagli da cogliere nella visione d’insieme, come se, tutto sommato, quello che importasse davvero è la figura intera e non le sue parti.

Dietro la perfezione visiva di Sicario e all’ottima prova di tutto il cast (Emily Blunt come Kate, ma soprattutto Benicio Del Toro nei panni di Alejandro, spiegazzato e inquietante come non si era mai visto) si muove il sospetto che la costruzione costante della tensione serva a nascondere una certa debolezza della trama e dei suoi sviluppi, dei suoi passaggi troppo veloci, delle sue spiegazioni lasciate passare così senza troppa cura. Basta fermarsi al primo livello di visione, però, per trovare un film di rara potenza.

(Sicario, di Denis Villeneuve, 2015, azione, 121’)

“Perché non sono un sasso”
di Gianni Agostinelli

Come diceva Aristotele, ci si appassiona a una storia per due ragioni: perché ci commuove o perché ci spaventa l’idea di essere al posto di chi narra.

Gianni Agostinelli in Perché non sono un sasso (Del Vecchio, 2015), finalista alla XXVII edizione del Premio Calvino, dà libero sfogo a uno dei tanti ultratrentenni italiani dalla visione del mondo densa di pessimismo nella quale il sorriso disincantato sembra essere l’unico sollievo all’assurdità dell’esistenza contemporanea.

Matteo Gemmi è un perdente nato. Un metro e sessantatre centimetri di fallimenti. Non ha mai concluso nulla nella vita: «Mi hanno sempre affascinato le sconfitte. Io anche quando andavo allo stadio e la mia squadra vinceva, alla fine della partita guardavo come rientravano nel tunnel quelli che avevano perso».

Abbandonata la Facoltà di filosofia a sette esami dalla laurea, dopo aver provato un paio di lavoretti con scarsi risultati (per tre giorni la vendita di abbonamenti a una tv satellitare e poi per otto mesi quella di assicurazioni sulla vita porta a porta) e aver intrapreso corsi di formazioni senza mai portarli a termine, si ritrova a trentasette anni con un pugno di mosche in mano.

Comincia così, disilluso, «a girare in auto senza meta e curiosare nella vita altrui», ossia di coloro che hanno una casa seppur condannati per anni a pagare un mutuo, con l’agognato posto fisso, una donna e una famiglia.

Insomma quello che fino a pochi anni fa era la normalità e ora è diventato un’eccezione, a Matteo appare un miraggio, una scalata impervia verso la cima più alta e pericolosa da raggiungere.

Questa assuefazione all’inferno della precarietà sia dei sentimenti che della situazione lavorativa è oggi probabilmente una condizione universale di tutta una generazione di cui Matteo rappresenta una sorta di palingenesi in negativo. La mancanza di prospettive e di orizzonti attanagliano il nostro protagonista.

In questo nostro Paese tisico, in via di consunzione, i più sofferenti appaiono anche i più smarriti: «Mi sembrava che tutti avessero la loro vita incanalata in un binario prestabilito. Lavoro, casa, famiglia e tutto quello che ne conseguiva. Io ero una di quelle conseguenze, e li guardavo ammirato e desideravo tanto anche io avere un binario spianato sul quale far correre la mia vita banale e stupida come la loro. Invece non avevo moglie, non avevo figli, non avevo casa e non avevo un lavoro».

Matteo è un disadattato, incapace di comprendere le contraddizioni del proprio tempo. L’amore e lavoro gli appaiono «così lontane da apparire irreali», il suo è un procedere «a gomme sgonfie».

A un certo punto smette di desiderare, di ambire a mete che non gli somigliano e si mette a cercare di decifrare le storture del presente.

Osserva e annota su un quaderno di quarta elementare con in copertina la Ferrari una serie di esseri umani, smascherandone conformismo e ipocrisia, inettitudine e incapacità di relazionarsi: l’incallito giocatore di videopoker Giovannone; l’idraulico Pierluigi Manni; una donna al volante di una Tipo grigia «mora truccata pesantemente»; una giovane mamma «con il pigiama rosa, il piumino lungo fino alle ginocchia, un cappello di lana» che aspetta davanti la sua villetta lo scuolabus con la figlia; gli avventori di un bar che discutono di calcio il lunedì mattina.

In una sala da tè incontra poi un vecchio con un loden verde, apparentemente istruito e loquace, il signor Alunni, «l’unico che mi ha dato considerazione e che forse conosce quello che può provare una persona sola e solitaria in questo pezzo di mondo».

Forse perché condivide il suo stesso pessimismo, che cola, distillato come un veleno, ma talvolta anche come un vaccino, il signor Alunni riesce a suscitare in Matteo una reazione seppur scomposta e infruttuosa (ad esempio protestare contro chi il fine settimana si reca a lavare la macchina piuttosto che in una manifestazione contro il precariato) rispetto alla sua apatica immobilità da voyeur nichilista.

Lo rende consapevole della sua incapacità di guardare e di guardarsi. La sua intenzione è quella di scuotere il giovane trentenne frustato, costrettosi ore e ore a osservare la realtà altrui, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi inesorabilmente. Tenta di risvegliarlo dalla sua cattiva illusione.

La verità è che il tempo è prezioso e come dice un saggio aforisma zen «Ogni istante vale una gemma inestimabile».

La nostra noia, la nostra inquietudine dipendono da noi, non dal tempo in cui si vive. Sta a noi raddrizzare le storture della nostra esistenza. Ma questo è un sogno ingenuo, sempre destinato ad arenarsi contro le secche del quotidiano, sempre destinato a grandi delusioni.

Perché non sono un sasso è un libro dolente e appassionato, o per meglio dire accorato. Il suo lessico sgrammaticato e l’uso insistito del “che” polivalente e dell’ombelicale pronome “io” fanno pensare al balbettio di un bambino capriccioso cui nessuno presta ascolto: «Guardo il muretto per concentrarmi su cosa scrivere, ma vengo rapito da un pensiero triste. E riguarda proprio questa pietra marrone chiaro che ho davanti. Qui immobile da centinaia d’anni. Perché non sono un sasso?

Se ero un sasso non dovevo stare a cercare una risposta perché non avrei nemmeno la domanda, invece mi metto a pensarci».

(Gianni Agostinelli, Perché non sono un sasso, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 174, euro 14)

“Via dalla pazza folla”
di Thomas Vinterberg

Dopo il grande successo internazionale di Il sospetto – premiato a Cannes per l’interpretazione di Mads Mikkelsen, candidato all’Oscar per il film straniero nell’anno di La grande bellezza – era un po’ difficile immaginare che il danese Thomas Vinterberg, co-ideatore con Lars Von Trier del manifesto Dogma 95, decidesse di affidare il suo ritorno al grande schermo al romanzo vittoriano di Thomas Hardy del 1874 Via dalla pazza folla, già portato al cinema un secolo fa (nel 1915 da Laurence Trimble) e di nuovo nel 1967 con Judie Christie protagonista, senza trascurare la versione graphic novel e poi film Tamara Drew.

Difficile perché è quanto meno lecito definire “distante” il cinema rigoroso di Vinterberg dall’immaginario classico che evoca il romanzo di Hardy e le sue successive trasformazioni, se non altro per l’apparato puramente sentimentale che caratterizza questo tipo di letteratura. Eppure, Vinterberg ha approcciato Via dalla pazza folla senza rinunciare al suo stile votato all’asciuttezza dell’esposizione registica, pur riuscendo a mantenere intatto lo spirito di cinema classico che un film del genere richiama.

Siamo nel Dorset del 1870, Bathseba Everdeen è una ragazza che preferisce il lavoro dei campi alla vita domestica. Rifiuta la proposta di nozze del fattore Gabriel Oak, forte e buono come il cognome suggerisce, per mantenere la propria indipendenza. Quando riceve una grossa eredità decide di subentrare allo zio defunto nella gestione della fattoria di famiglia, senza l’aiuto di uomini e andando contro il costume generale. Alla fattoria la raggiunge Oak che non ha mai dimenticato quel rifiuto e nel frattempo è caduto in disgrazia ed è finito a lavorare come pastore per gli altri. Non è il solo a spasimare per Bathsheba, ci sono anche il ricco Boldwood e il sergente dell’esercito britannico Troy a contendersi la libertà della ragazza.

In fase di scrittura, Vinterberg e lo sceneggiatore David Nicholls hanno deciso di ridurre la mole di cinquecento e passa pagine del romanzo concentrando il film quasi esclusivamente su Bathsheba, senza seguire gli altri personaggi nelle loro vicende personali. In questo modo, Via dalla pazza folla diventa il racconto di una forte personalità femminile che, in un’epoca tutt’altro che incline a riconoscere diritti e libertà alle donne, rivendica il suo spazio di autonomia nel mondo, non solo come moglie di qualcuno ma come persona assolutamente autonoma e sufficiente. Del resto, le lusinghe che i suoi spasimanti hanno da offrirle fanno ben poca presa su di lei rispetto alla libertà di scegliersi ogni giorno, soprattutto a fronte del fatto che gli agi che un marito potrebbe portarle lei già li possiede di suo («Avrete un pianoforte», «Ce l’ho già, il pianoforte»). Bathsheba mantiene una razionalità costante nel valutare le proposte di matrimonio che le arrivano che va al di là del puro elemento sentimentale. L’unico errore nel suo percorso verginale (non ha neanche mai baciato nessuno, ma la morale non c’entra nulla in Vinterberg) lo commette quando a travolgerla è proprio la passione che non aveva mai conosciuto.

Fotografato in maniera sublime da Charlotte Bruus Christensen, che avvolge di colori caldi i personaggi e si esalta nei paesaggi (pochi), Via dalla pazza folla riesce a non esagerare in suggestioni moderne nella descrizione di Bathseba, che è sì una donna in anticipo sui suoi tempi, ma non è un oggetto del futuro infilato a forza in una cornice vittoriana. La versione di Vinterberg cala piuttosto nell’evoluzione della trama che si trascina con eccessiva lentezza verso un finale che è a dir poco scontato. Il regista punta su un racconto frammentato e rapido che non indugia troppo nei momenti di passaggio e si concentra sul mostrare i momenti essenziali, senza approfondire i retroscena. Questo indebolisce le psicologie dei personaggi su cui fanno comunque un ottimo lavoro gli attori, da Carey Mulligan come Bathsheba a Mathias Schoenaerts come Gabriel, ma è soprattutto il Boldwood di Michael Sheen, silenzioso, remissivo e sofferente fino a un exploit di follia, a prendersi la scena.

 

(Via dalla pazza folla, di Thomas Vinterberg, 2015, drammatico, 119’)