“Scritto sulla tua terra”
di Mauro Libertella

L’amore può persistere anche nell’assenza fisica di coloro che amiamo. Scriverne è un modo terapeutico di dare un nome al proprio dolore.

Scritto sulla tua terra (Caravan Edizioni, 2015) di Mauro Libertella è un tentativo di rendere visibile ciò che è invisibile, quella fitta schiera di pensieri e sentimenti che rimarrebbero altrimenti nascosti nell’anima. È una rielaborazione del lutto paterno che non cede mai al didascalismo dei buoni sentimenti quali pietà e autocommiserazione.

È un fare i conti con una figura ingombrante. Il padre di Mauro è infatti Héctor Libertella, uno degli scrittori più rappresentativi della letteratura sudamericana, ma da noi colpevolmente sconosciuto.

Mauro ha ventitré anni quando il padre muore nel 2006, gli stessi che Héctor aveva quando scrisse il suo primo libro e ricevette un primo premio letterario. La sua eredità è «un fila di originali mai pubblicati, libri già belli e pronti, uno accanto all’altro in uno scaffale della libreria», i ricordi fissati in una serie di fotografie. La sensazione è un senso di inappartenenza, un vano tentativo di rispecchiarsi in un’immagine che riflette una realtà di diversità: «A tratti sento ancora che questo cognome non mi appartiene. Mi capita di sentirmi uno straniero, un usurpatore di quelle dieci lettere latine. Una volta lui aveva detto: “Etimologicamente, Libertella, significa ‘libro per la terra’. Questo è il libro che annaffio tutti i giorni.”».

Il pericolo è quello di perdersi: «Guardavo quelle foto e cercavo me stesso».

Esiste tutta una letteratura sul rapporto, spesso conflittuale, padre-figlio, attraversata da una contraddizione che cerca di superare scrivendo: da un lato l’idealizzazione della figura genitoriale, dall’altra la necessità di una sua edipica uccisione, una obbligata presa di distanza, con una promessa di redenzione. Per la maggior parte si tratta di inetti, disadattati privi di una propria identità: Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno di Svevo riceve da suo padre come ultimo gesto prima di morire, uno schiaffo; Kafka avverte solo freddezza e estraneità; Giuseppe Berto ne vede causa e origine del suo Male oscuro.

Quasi preda di allucinazioni, Mauro cerca suo padre nei luoghi da lui frequentati di Buenos Aires, ripercorrendo la sua geografia dell’anima: lo stadio; il bar Varela Varelita; il fruttivendolo all’incrocio tra calle Paraguay e la Malabia; il chiosco dove comprava le sigarette; la rosticceria di Claudio; la copisteria; la pizzeria Ferreiro.

«Quasi tutto, in questo reticolo di tre o quattro isolati, museo in miniatura del crepuscolo di mio padre, mi ricorda lui».

Il romanzo, dalla struttura semplice e trasparente quale solo il dolore può dettare, è costellato da ricordi di gioie spicciole e offuscato dalla coscienza di un decadimento fisico che negli ultimi anni si fa sempre più evidente, aggravato da alcolismo e malattia, raccontato con l’affetto e la spietatezza che solo un figlio può avere.

Uccidere il padre, elaborarne il lutto, per Mauro significherà lasciarsi alle spalle quel «sole stentato, invernale» che «proiettava i suoi ultimi raggi contro il muro e la libreria» della casa di Héctor.

(Mauro Libertella, Scritto sulla tua terra, trad. di Vincenzo Barca, Caravan Edizioni, 2015, pp. 96, euro 9,50)

La nonna beve

Mia madre è rotolata giù per le scale. Perché beve. Di nascosto. Mia madre beve e, fidatevi, non lo dico perché è mia madre e io sono una figlia femmina e si sa che le figlie femmine parlano sempre male delle loro madri, tipo che le hanno maltrattate da piccole ed è per questo che ora loro c’hanno la vita incasinata. Quando io ero piccola mia madre non mi maltrattava né beveva. Forse non mi badava più di tanto, perché era impegnata, non che lavorasse – era casalinga, mio padre le passava regolarmente gli alimenti, questo devo ammetterlo – ma doveva trascorrere molte ore al telefono del corridoio con la sua amica Marianna La Fata – e ha fatto bene, dico io, perché quando ho compiuto sedici anni Marianna, che era, senza esagerare, la donna più bella e dolce che dio avesse inventato, è morta di tumore all’utero, quindi ha fatto bene e benone a passarci del tempo insieme per telefono, e a volte anche di persona, finché ha potuto. Altro tempo lo passava a guardare fuori dalla finestra con l’aria assente, come se fosse una principessa medievale in attesa che tornasse il suo cavaliere dalla guerra; e interi pomeriggi li trascorreva a pulire i fagiolini dalle loro codine, aprire i baccelli dei piselli e far rotolare giù nella ciotola pallini verdi, oppure quelli dei fagioli screziati – la fagiolapasta come la chiama lei che è siciliana – da cui uscivano piccoli fegati irrorati di sangue e di grasso che poi con la cottura diventavano una specie di purè denso e marrone.
Quei pomeriggi io ero sempre lì con lei, quando avevo terminato i compiti ovviamente, seduta al tavolo della cucina che l’aiutavo. Passavamo ore senza scambiarci una parola, ma alla fine avevamo bacinelle piene di verdure pulite pronte per essere cucinate. Le mie manine lavoravano senza sosta, per tenere il ritmo delle mani grandi della mamma. Quando lei non c’aveva voglia di pulire la verdura e si metteva a dormire di pomeriggio, allora me ne stavo da sola a guardare dalla finestra della cucina uno spettacolo che era meglio della tv dei ragazzi. Abitiamo alla Storta – brutto nome per un quartiere, forse è da quando ci siamo trasferiti lì che sono peggiorati tutti i guai di mia madre; la casa popolare l’abbiamo ottenuta perché mio padre è stato giudicato colpevole di “abbandono del tetto coniugale”, che poi con Elisa sembrava il grande amore ma io so che dopo sei mesi si sono lasciati. Giardinetti dove andare a giocare non ce n’erano molti, quelli che c’erano mia mamma diceva non metterci piede che erano pieni di siringhe col sangue per terra; però, sul tetto in cemento del condominio attaccato al nostro, che è più basso, c’è la città dei gatti. Giuro, gatti di ogni forma, colore e dimensione, intere famiglie, comitive di giovani gatti, gattini che bevono ancora il latte dalle mamme, gatti anziani mezzi morti, di tutto insomma. Quando torno a prendere Alessio lo vedo che anche lui è incantato dalla città dei gatti. Meglio!, mi dico. così non sta tutto il tempo a guardare la tv, e chissà quante storie di gatti s’immagina vedendo quel tetto, come facevo io da bambina.
Cosa c’entra questo con i fatti in giudizio? C’entra perché dà il quadro preciso di chi era mia madre prima che si mettesse a bere, di come potrebbe tornare a essere.
Non beveva in quel periodo, lo dico a ragion veduta ora che sono adulta e madre anch’io e ho avuto le mie esperienze, forse era infelice, sicuramente prendeva il Tavor (lo so perché a quindici anni ho trovato un blister nel suo cassetto), ma bere alcol no.
Ora che è anziana le verdure non le pulisce più e beve e già da un bel po’. Me ne sono accorta prima di Natale, che ero a casa con la febbre a 39 e mi sono messa a cercare il Sidol per pulire l’argenteria che mi hanno regalato al matrimonio e poi venderla e così arrotondare un po’. Ho cercato dappertutto fra i detersivi sotto il lavello e non lo trovavo, alla fine ho aperto l’armadio che fa da dispensa nello sgabuzzino, quello dove mia madre tiene pacchi di spaghetti e conserve di pomodoro in quantità industriale come se dovesse arrivare una guerra da un momento all’altro – lei e Alessio erano andati a comprare le arance per farmi la spremuta. Il Sidol là non c’era, ma ho trovato alcune bottiglie di vino rosso di quelle da 5 litri che si comprano al super e mi è sembrato strano, perché mia madre non mette mai vino in tavola ai pasti. Ho fatto tanto di spostarne una e dietro ho trovato un piccolo esercito di bottiglie vuote, alcune da 75 centilitri, altre di quelle grandi e perfino cartoni di Tavernello, rosso e bianco, anche quelli vuoti. All’improvviso mi sono spiegata perché mia madre non vuole che io metta piede in dispensa, lei dice che gliela incasino ma è lampante che non è il vero motivo – e, quando devo cucinare, mi chiede: «Che ti serve che vado a prendertelo nello sgabuzzino?».
Probabilmente, di tanto in tanto, si libera di vetri e cartoni quando io non la vedo che sono al lavoro, poi ricomincia a collezionarli. Difatti c’ha la rosacea. Sapete cos’è? Ha un bel nome, profumato persino, ma non è niente di bello. Ve lo spiego subito. Sono delle persone che c’hanno quelle venuzze rosaviola che si spaccano sul viso, perché hanno una pessima circolazione sanguigna, e s’intrecciano formando reticoli di vario grado di bruttezza, come se il volto fosse una carta di fiumi e affluenti; lo so perché di mestiere faccio l’Oss all’Inrca sulla Cassia – ma questo sicuramente già lo sapete – e per diventarci ho dovuto studiare un anno e fare sei mesi di tirocinio, e io sono una che quando si mette una cosa in testa la fa per bene. Mi sento di aggiungere che lavoro in un’ottima struttura e che sto imparando tante cose e che vorrei laurearmi infermiera, ma non è affatto facile con il lavoro e i figli, ma anche che ringrazio ogni giorno perché ce l’ho questo lavoro e di perderlo non ne ho nessuna intenzione.
Be’, mia madre ce le ha sul naso, le venuzze a reticolo, e anche, se la osservi bene con la luce che filtra di lato dalla finestra, quel tipo di luce incidente che mette in risalto i difetti, la sua pelle è tipo una spugna, come se i pori si fossero allargati a dismisura, come fossero crateri.
Quella sera tornavo dal lavoro, sapendo che avevo fatto tardi ed ero preoccupata per Alessio che stava con la nonna da quando era uscito dall’asilo, cioè intorno alle 16, 16.30, e non mi vedeva dalla mattina prestissimo quando l’avevo preparato e anche rimproverato perché aveva il moccolo che colava sul grembiulino azzurro e non avevo tempo, proprio no, di pulirlo per bene – il moccio verde si smarmellava sul grembiule e la pezzetta sporca di polvere di caffè ha solo peggiorato la situazione – così alla fine è andato a scuola tutto macchiato di verde e nero, roba da vergognarsi di fronte alle altre mamme coi loro bambini tirati a lucido, i capelli tagliati corti e in ordine come le unghie, i grembiulini stirati, le orecchie e i dentini lavati e – immagino – la biancheria fresca di bucato cambiata ogni giorno
Era stata una brutta giornata, una giornata pesante di pappagalli ed esplorazioni rettali; la signora Gina – Parkinson ultimo stadio, immobilizzata a letto da nove mesi, peristalsi intestinale azzerata – non ne voleva sapere di farsi toccare, appena mi avvicinavo strillava «Te ne voi anna’? Nun me devi mette’ le mani addosso che sinnò chiamo la polizia», la badante alzava gli occhi al cielo e non si muoveva dalla sedia accanto al letto.
A un certo punto chiamo Franco, l’altro Oss che era di turno con me, che ha 55 anni ed è bello grosso. Franco è la mia salvezza, non mi rifiuta mai un favore se può, sospetto che abbia un debole per me. Insomma, lui arriva nella camera 88, placca a faccia in giù la Gina che strilla ancora più forte e io posso fare quello che devo. Solo che poi la puzza delle feci della signora Gina – con rispetto parlando, ma quello è – non mi si toglieva di dosso, né l’amarezza per aver mollato Alessio al nido dopo avergli strillato (che in fondo non è colpa di un bambino di tre anni se smoccola, è colpa della sua mamma che non ha fazzoletti di carta o salviette imbevute). Ho suonato al citofono, mia madre non ha gracchiato «chi è?», strano perché di solito lo fa sempre prima di aprire. E infatti non mi ha nemmeno aperto. Ho pensato che fosse innervosita perché le avevo promesso che sarei tornata a fine turno, alle 18, e invece ho fatto tardi, ormai erano quasi le 20 e non sapevo nemmeno se avesse preparato la cena per Alessio (a volte, quando si arrabbia, non gli dà da mangiare perché è una cosa – dice – che devono pensarci le mamme; mi ha sempre fatto strano, perché da piccola a rimpinzarmi per bene ci pensava sempre mia nonna e se gradivo e chiedevo il bis era tutta soddisfatta.). Per fortuna che ho la mia copia delle chiavi, per fortuna. Non la uso per buona educazione – è vero che da quando mi sono separata sono tornata a vivere da mia madre, ma sappiamo entrambe che è una cosa transitoria e io mi comporto come un ospite, perché appena mi organizzo voglio trovare un appartamento in affitto per me e per i bambini. Dopo aver suonato al citofono una decina di volte, ho deciso che a volte la buona educazione bisogna infilarsela in quel posto – chiedo perdono per la frase poco fine – e agire. E così ho fatto.
Se avevo fatto tardi la colpa era un po’ di Renato, ma soprattutto di Raul. Renato mi aveva dato appuntamento per l’aperitivo al pub Flamengo, sempre sulla Cassia, subito dopo il turno. Io sono arrivata puntuale – come sempre – lui invece si è presentato mezz’ora dopo col suo brutto muso rincagnato e i capelli lunghi e unti, non ho mai capito cosa ci trovi di bello la mia amica Rita che se l’è portato a letto, dice sempre che somiglia a Ligabue. «A’ bella, c’hai ’na faccia, me pari ’na pizza».
Renato è fatto così, arriva in ritardo, è maleducato, però su certe cose è molto serio. Io non voglio dire che sia una brava persona, perché se è iniziato un procedimento penale a suo carico c’ha sicuramente le sue responsabilità, come me d’altronde – solo che nel mio caso non sono responsabilità penali, ma morali e personali, credo. Però una cosa devo dirla e cioè che Renato Santonastaso è uno corretto che se promette qualcosa la mantiene e se non può fare niente per te allora non si vanta, non finge di poter avere quello che ti serve per ottenere qualcosa e poi ciao, no, lui te lo dice chiaro e tondo: «Oggi non ce n’è, bella, e domani nemmeno», che è più di quanto abbiano fatto per me tutti gli uomini con cui sono stata. So che sembrerà sciocco dirlo qui adesso, ma Renato è uno onesto, profondamente anche. E se lui mi ha detto che quella sera gli sembravo una pizza, era perché dovevo avere la faccia bianco-latticino per la stanchezza, gli occhi infossati e una bella collezione di brufoli dovuta a tutta la nutella che ci facciamo fuori nella cucina dell’ospedale quando in corsia c’è un attimo di quiete. Se la nutella bastasse – visto che attiva i recettori della serotonina – non mi preoccuperei dei chili di troppo, dei brufoli, delle carie, me ne farei un barattolo al giorno poi mi laverei bene i denti e userei il Topexan tutte le mattine, e starei nella pace del Signore.
Ma la Nutella non basta, aiuta ma non mi basta.
Così quella sera Renato mi dice che ce n’ha un po’, per due-tre giorni, dipende da me. Io tiro un sospirone, che fino a quel momento ero rimasta un po’ col fiato sospeso, e gli dico che posso scucirgli un acconto subito e il resto a fine mese. Mentre stiamo lì che organizziamo tutto per bene, seduti a un tavolino in fondo al locale, a un certo punto stavo contando gli euri e sento una ventata di freddo. «Qualcuno deve aver aperto di colpo la porta e deve averla lasciata spalancata» dico io, e infatti così era: Raul era entrato come un matto, coi capelli tutti spettinati e due occhi da sciamannato; mi vede dalla porta del locale e corre verso di me e mi acchiappa per i capelli e urla: «Allora è vero che sei una drogata, brutta zoccola!».
Così mi ha detto e io a strillare: «Cretino, lasciami, mi fai male».
Alla fine ha mollato la presa ma una ciocca dei miei capelli gli è rimasta in mano. Che potevo fare? Non volevo né potevo dirgli bugie così gli ho detto la verità, che drogata non sono, e tantomeno zoccola, ma fra il lavoro coi turni di notte e mia madre e i figli, ogni tanto, sì è vero, prendo qualcosa per tirarmi un po’ su. Ma non coca né ero, potessi morire adesso se l’ho mai toccata quella roba, solo lo speed quando lo trovo. E certo sono consapevole degli effetti collaterali, lo so che sulle prime ti fa star bene perché stimola la dopamina e ti permette di sentirti lucido e in forma anche per diverse ore, ma che presto ti ritrovi dipendente, costretto a dover alzare sempre le dosi e demolito di fisico e di cervello coi neuroni bruciati come uno di quei cassonetti della spazzatura a cui qualcuno, ogni tanto, dà fuoco.
Solo che io non sono dipendente, non ancora quanto meno, e d’ora in poi giuro su quanto ho di più caro (che poi sono i miei figli) che non vedrò più lo speed nemmeno con la lente d’ingrandimento, anche perché oltre al problema della salute c’è anche quello della spesa, che sono soldi che io tolgo alla famiglia, ad Alessio principalmente e se solo ci penso mi metterei a piangere ora e non smetterei per due ore, anche se onestamente io pensavo di farlo per la famiglia, per tenermi questo lavoro e avere ancora la voglia e la forza di stare con i piccoli, portarli al parco giochi o da un amichetto e preparare da mangiare e tenere la casa pulita e in ordine.
Io so cosa ci sta dentro lo speed. Ho perfino fatto degli studi che forse voi non pensate che una come me abbia mai affrontato. Non vorrei fare una lezione di chimica, però scusatemi, ne parlo con cognizione di causa, che io non posso saperlo non è giusto pensarlo! La materia prima è l’anfetamina: sapete per esempio che negli anni ’70 certi dottori la prescrivevano agli studenti, poverini, per fargli passare nottate intere sui libri senza che avvertissero la fatica psichica, ecco, io non mi sto giustificando, ma vorrei solo dimostrare che un uso saltuario di questi prodotti non è da criminali, né che ti rovini la vita, né che ti rende inadeguata per il lavoro, o come madre. Dipende sempre dalle quantità, voi capite. E io, vi giuro, non ho fatto più di un uso occasionale.
Sì, adesso torno a bomba alla sera del 27 gennaio 2015. Abbiamo litigato pesante al Flamengo, Raul e io, Renato si è squagliato immediatamente perché ha visto le brutte. Raul mi ha minacciato di portarmi in tribunale, e come vedete ha mantenuto la promessa; io l’ho insultato, lo ammetto, gli ho dato dello stronzo e del disadattato. Lo so che stronzo non dovevo dirglielo, ma disadattato lui lo è, e anche di brutto: vive a casa dei suoi genitori e si passa tutto il tempo davanti al computer a fare giochetti scemi scemi o su YouPorn – questo lo so di sicuro perché una sera l’ho beccato di brutto quando ancora vivevamo assieme. E adesso si presenta qui a recitare la parte del buon padre di famiglia che non è stato mai! Che vuol salvare i figli da una madre tossica e snaturata.
Be’, signori, lui è il degenere, ve lo dico, perché se qui c’è un incapace è lui che non ha mai portato un soldo al tetto coniugale e se non c’ero io che facevo le pulizie negli uffici – questo prima di diventare Oss, è chiaro – lui non muoveva il culo dalla poltrona per aiutarmi ad arrivare a fine mese, al massimo chiamava la mamma e si faceva dare i soldi per l’affitto. E se i suoi genitori garantiscono per lui che troverà presto un lavoro, o mentono dicendo che magari l’ha già trovato, peggio mi sento: perché Alessio di quei nonni là ha avuto sempre paura, i miei suoceri sono cattivi, non lo hanno mai coccolato e a stento gli fanno il regalo a Natale e al suo compleanno, col risultato che lo fanno sentire diverso dagli altri bambini che hanno tutti nonni buoni e generosi. Non so perché si comportano così, credo che come nuora non mi abbiano mai accettato, e ora che sanno anche questa cosa dello speed posso immaginare cosa pensano di me e cosa va a dire in giro mia suocera che ha una ciabatta al posto della bocca.
Sì, chiedo di nuovo scusa, queste cose non c’entrano coi fatti, sono mie… elucubrazioni.
Ma torniamo a quella sera. Ho usato le mie chiavi per entrare a casa, ho fatto quattro piani tutti di corsa – l’ascensore era rotto come succede una settimana sì e l’altra pure – sono arrivata su senza fiato con la tachicardia, ho aperto la porta e Alessio per fortuna era in salotto seduto per terra, vivo e vegeto, solo con gli occhioni sbarrati per la paura, anche se quando mi ha visto non si è mosso, non ha pianto, non ha detto nulla. Ė rimasto seduto accanto a mia madre lunga per terra che si lagnava con una voce flebile.
«Mamma che hai fatto?» le ho chiesto mentre prendevo in braccio Alessio, ma lei non riusciva a non biascicare e io non capivo niente. Non l’ho toccata, perché so che in questi casi può essere più pericoloso che altro, ho subito chiamato l’ambulanza. Per fortuna è arrivata abbastanza in fretta essendo che l’ora di punta era già passata. Anche questo non lo dico per giustificarmi, lo so bene che se fossi tornata all’ora giusta il casino non sarebbe successo.
Insomma, al pronto soccorso del Gemelli le hanno fatto una risonanza o una tac, non mi ricordo bene, e hanno scoperto che aveva il femore rotto e due vertebre spezzate nella zona lombare. Ho cominciato a piangere e a piangere, intanto che Alessio mi accarezzava la faccia con le sue manine d’oro, avevo paura che rimanesse paralitica. Poi per fortuna il neurologo mi ha detto che la situazione era grave ma non disperata, che bisognava tenerla a letto immobile per un paio di mesi e poi farle fare più riabilitazione possibile.
Adesso è all’Inrca, nel reparto dove lavoro io, così posso accudirla. Quando si è ripresa ho voluto sapere tutto e lei mi ha raccontato che si era preoccupata perché non tornavo e pensava di non sentire il citofono – tra l’altro da qualche anno l’udito le si è abbassato notevolmente – allora ha lasciato Alessio in casa e ha sceso le scale, visto che l’ascensore era rotto, per andare a vedere in strada se passava l’autobus dell’Atac (tra l’altro le avevo promesso che avrei fatto un salto al super per comprare le Spinacine per cena). Mentre scendeva le girava la testa e le veniva da vomitare, per l’ansia dice lei – per il vino sostengo io – allora è scivolata di culo – pardon, di sedere – fra il secondo e il primo piano, ha sbattuto la schiena e ha sentito un dolore che non si poteva dire quant’era forte, ma tant’è doveva tornare su da Alessio, quindi si è rimessa in piedi e ha rifatto le scale per rientrare in casa, ma poi il dolore l’ha sopraffatta e si è dovuta stendere sul pavimento ad aspettarmi.
Quando mi ha detto così mi sono sentita bruciare viva dal senso di colpa e anche dalla paura. Mia madre beve, non c’è dubbio su quello, ma almeno mi tiene Alessio quando vado a lavorare e so che gli vuole bene. E ora non può più farlo per chissà quanto tempo, per via del mio ritardo e di quello speed di merda e del bastardo che è Raul. Sì, scusatemi, modero i termini.
Alessio per tutto febbraio e marzo me l’ha tenuto la signora Anna che abita nel palazzo di fronte, quello della città dei gatti. Da poco però mi ha detto che non ha più il tempo di farlo e che, se proprio ho bisogno di una baby sitter, c’è sua figlia Sabrina che ha diciotto anni però devo pagarla. Che poi Alessio è un bambino speciale, non è pesante da tenere, non corre in giro, non fa danni, parla pochissimo e non è mai capriccioso. Ricordo che quando ho fatto l’ecografia morfologica il dottor Santi mi ha avvertito subito: «Signora, era una gravidanza gemellare, ma uno dei due feti è stato inglobato dall’altro ed è morto. Ora si trova nel cervello del neonato sopravvissuto. Appena nascerà dovremo operarlo per toglierli dalla testa questa massa inutile e pericolosa, qua la vede?».
Il dottore indicava un punto nella testa di Alessio e io vedevo un fagiolino che sarebbe potuto diventare un bambino, così dentro di me gli ho dato un nome, l’ho chiamato Davide. Il dottore mi ha anche detto che avrebbero fatto di tutto per non causargli danni neurologici durante l’operazione, ma che la posizione del feto morto era molto delicata e Alessio avrebbe potuto riportare qualche rallentamento motorio o dei ritardi cognitivi. Per fortuna questo non è successo, Alessio ha imparato a camminare a due anni, a tre ha iniziato a usare il vasino, è vero dice pochissime parole, ma le maestre all’asilo dicono che è normale e anch’io ho letto in un manuale di psicologia infantile che i maschietti c’hanno l’area di Broca meno sviluppata. Quindi non mi preoccupo più di tanto.
Sì, avete ragione, adesso finisco il discorso: quando Alessio è nato abbiamo aspettato tre mesi che s’irrobustisse un po’, poi l’abbiamo operato e ora Davide non è più con lui. Ma io lo so che dentro Alessio è rimasta l’anima dell’altro figlio mio, perché alle volte lui mi guarda con gli occhi di uno che sa tante cose ma non sa come dirmele, e io sento che vorrebbe rassicurarmi su Davide e dirmi: «Ah ma’, guarda che lui è sempre con me, con noi».
Perciò io adesso vi chiedo, se prometto di non incontrare più Renato né nessun altro che possa vendermi robaccia, di aiutare mia madre a riabilitarsi fisicamente – già lo sto facendo – ma soprattutto a smetterla di alzare il gomito, e di sistemare per bene Alessio durante i miei turni di lavoro, posso tenere con me i gemelli?

 

 

Simona Castiglione nata a Catania, vive a Padova. Insegna Lettere e Scrittura creativa. Nel 2010 ha esordito con la raccolta di racconti La mente e le rose (Transeuropa); da allora ha pubblicato diversi racconti per antologie (Madre-Morte, Transeuropa; L’occasione, Galaad Edizioni; Serenate al chiaro di luna, edizioni Mazza; Storie di martiri, ruffiani e giocatori, CaratteriMobili). Per la rivista Nuova Prosa ha curato la raccolta Racconti erotici al femminile con ospite maschile. Ha pubblicato il romanzo cooperativo Lavoricidi Italiani (Miraggi edizioni) e ha curato l’antologia La morte nuda, per i tipi di Galaad, dove è presente con il racconto “Come fu che divenni una strega”. Ha pubblicato il racconto “Nicchia” nell’antologia Père Lachaise: racconti dalle tombe di Parigi (Ratio et Revelatio Publishing House, 2014) e il racconto “Il principe” nell’antologia Siria – scatti con parole (Miraggi edizioni). A maggio del 2014 ha pubblicato il romanzo Sottobosco per Ratio et Revelatio. Il romanzo è uscito, a giugno del 2015, in traduzione romena, con il titolo Arrivederci Guguţa

Sfruttati e felici… non per molto

Dove sei? Ontologia del telefonino (Bompiani); Ricostruire la decostruzione (Bompiani); Anima e iPad (Guanda); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza); Manifesto del nuovo realismo (Laterza): questi sono solo alcuni dei libri pubblicati del filosofo Maurizio Ferraris e, a ben guardare, sembrano più che sufficienti a tracciare un profilo dell’autore meglio di una qualsiasi nota biografica o di qualche riferimento a cattedre universitarie. Lo abbiamo raggiunto per parlare del suo recente Mobilitazione totale (Laterza, 2015), che si presenta senza sottotitolo, come se quest’ultimo non avesse potuto aggiungere niente. È dunque da qui che partiamo.


Mobilitazione totale
riprende il titolo di uno scritto di Ernst Jünger; in quel caso la mobilitazione era riferita alla grande guerra, nel caso del suo volume? Che genere di guerra sarebbe, se ce n’è una, quella che ci sottopone a tale tipo di chiamata alle armi?

Jünger pensava di estendere alla società civile l’organizzazione militare che aveva sperimentato nella Grande Guerra. Più tardi, nella seconda guerra mondiale, Goebbels parlerà di guerra totale, che è un’idea simile. Ma né l’una né l’altra si sono realizzate davvero (ed è stata una fortuna), perché anche la struttura di governo e controllo più implacabile, e il popolo più disciplinato, non bastano per attuare una mobilitazione davvero capillare. Rimarrà sempre il dissidente, il drop out, il bastian contrario, e sopratutto rimarrà sempre uno spazio privato inattingibile alla mobilitazione. Invece con il web è proprio dallo spazio privato che ha inizio la mobilitazione, la necessità di rispondere e di reagire a dei messaggi che ci raggiungono e che non possiamo ignorare perché tutto è registrato, tutto è scritto, non si può fingere di non aver sentito: è come se il messaggio dell’imperatore ci raggiungesse immediatamente e non ci lasciasse scampo.


È forse proprio per questo che il libro si apre con il racconto di un episodio che credo sia capitato alla stragrande maggioranza di noi, quello di una mail ricevuta nel pieno della notte e che ci spinge quasi impulsivamente a rispondere. Perché lo facciamo e – per citare il titolo di un suo capitolo – chi ce lo fa fare? 

Rousseau diceva che l’uomo è nato libero, e si stupiva che sia dovunque in catene. Esperienze come quelle della mail nella notte depongono a favore di una visione meno ottimista: l’uomo è naturalmente disposto alle catene, prova ne sia che anche senza costrizioni come quella di un ufficio, di un orario, di una catena di montaggio, e senza giustificazioni finanziarie, può essere disposto a lavorare nel cuore della notte. È bene saperlo, non per calunniare l’umanità definendola come un’accolita di schiavi ma, proprio al contrario, per tener conto di questa inclinazione e, su questa base, cercare delle strategie di liberazione, che saranno tanto più efficaci in quanto non partiranno da un presupposto illusorio.


Lei indica i principali strumenti che ci consentono di rimanere connessi al web (tablet, smartphone, pc) con l’acronimo ARMI (Apparecchi di Registrazione e di Mobilitazione della Intenzionalità). Ancora un uso di un termine guerresco: queste ARMI sono comparse con Internet o esistevano, e in che forma, in una società per così dire analogica?

Sono sempre esistite: bollette da pagare, cartoline precetto, cartelle delle tasse, inviti a corte, catene di sant’Antonio, e magari anche lettere d’amore moleste e ricattatorie. Tutte hanno in comune di chiedere un’azione, fosse pure semplicemente una risposta. Sono armi? Certo che sì, visto che ne uccide più la penna che la spada. A voler essere meno militari, diciamo comunque che sono degli ordini, o, come nel Padrino, offerte a cui non si può dire di no.

 

Il rapporto fra il cittadino e il web è necessariamente differente da quello che solitamente si ha con la televisione o gli altri media, questo perché radio, Tv e giornali sono, nella loro forma tradizionale, unidirezionali, mentre con il web abbiamo un rapporto di scambio continuo, ovverosia comunichiamo continuamente informazioni su di noi per poterlo utilizzare. Quali sono le possibili conseguenze?

Quelle che vediamo: un grande lavoro sepolto e nascosto, la creazione di ricchezza (l’informazione lo è) a titolo gratuito da parte degli utenti, che in questa impresa mettono i mezzi di produzione (i computer e i telefonini sono degli utenti, non delle compagnie), il loro tempo, la loro cultura, la loro forza-lavoro, e la loro identità.

 

E la mole di informazioni trasmesse da queste attività da chi è controllata? Non dagli stati e dai governi (che sarebbero i soggetti predisposti a cui cedere, in una modalità in qualche modo democratica, parte della nostra privacy) ma da organizzazioni private delle quali non conosciamo praticamente nulla. E dunque, il vero potere è detenuto da chi non viene eletto con un consenso popolare?

Sì. Tutto questo è al di fuori di ogni controllo. Siamo entrati, e da tempo, in una situazione diversa rispetto a quella prospettata dal pensiero critico tradizionale. Chi è sfruttato, per esempio, è felice di esserlo. Significa che è stupido? Spero proprio di no, visto che in questo momento io sono sfruttato (rispondo gratuitamente alle sue domande) e sono felice di farlo (lusinga la mia vanità, placa il mio conformismo che mi porta a rispondere nel cuore della notte, sebbene, e deve scusarmene, la abbia fatta attendere a lungo). Invece di straparlare del Capitale e di invocare gli spettri di Marx, come spesso si fa, sarebbe più utile analizzare in modo imparziale questa nuova situazione.

 Maurizio_Ferraris

(Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, 2015, pp. 120, euro 14)

“Per amor vostro”
di Giuseppe M. Gaudino

Giuseppe Maria Gaudino è tutt’altro che uno appena arrivato al cinema. Classe 1957, il regista nato a Pozzuoli ha alle spalle una carriera enorme come scenografo, direttore della fotografia, animatore e soprattutto documentarista. Nel 1998 aveva provato il primo approccio con la finzione con il lungometraggio Giro di lune tra terra e mare, ma era rimasto un tentativo isolato, un’anomalia quasi nel percorso artistico di Gaudino fino a Per amor vostro, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e premiato con la Coppa Volpi per l’interpretazione viscerale di Valeria Golino.

Non è un esordiente Gaudino, si è detto, eppure Per amor vostro conserva in sé degli elementi di stile che potrebbero portare a confondere il film con l’opera prima di un giovane appena uscito dal centro sperimentale, con tutta la voglia di dimostrare di avere qualcosa da dire e di avere uno stile unico per farlo. Nel bene e nel male.

Per raccontare la storia di Anna, donna forte in una famiglia non facile, tra figlio sordomuto e un marito che ha un legame strano con la malavita, Gaudino ha scelto di giocare con i colori, levandoli in un bianco e nero digitale carico di grigio per poi farli esplodere in aggiunte al computer sin dai primi minuti, per far vedere subito che c’è un filtro nella visione, una lente che porta tutto a un livello simbolico oltre alla narrazione avvicinandosi alla favola e al mito religioso, con la canzone che dopo i titoli di testa torna più volte a raccontare la vita e la storia dei protagonisti.

Andando con ordine: Anna, appunto, ha un figlio sordomuto (e altre due figlie) e un marito mezzo-criminale che rovina continuamente l’equilibrio familiare. Ha anche un lavoro, Anna, come addetta al gobbo in una produzione televisiva, e un attore bello e galante che le fa una corte insistente. Ha anche degli amici, un fratello e dei genitori che vogliono dipendere da lei e dai pochi soldi che guadagna, e ha tutta la pazienza di portare avanti una vita difficile in cui è difficile stare bene, ma è possibile farlo comunque.

Sulla base di questo spaccato sociale, Gaudino cerca di coniugare il realismo della vicenda raccontata con la visionarietà del suo stile. L’obiettivo è quello di suscitare l’emozione non solo attraverso la storia di Anna ma anche con le immagini pure, con la scena e il colore, per spostare il quotidiano della vita su un livello allegorico. Le scelte cromatiche conferiscono un valore simbolico e astratto a tutto, così come il ricorso alla computer grafica che arriva ad alterare i fotogrammi rendendoli icone votive nel percorso della santità quotidiana di Anna, e nella sequenza di lavoro-famiglia della protagonista si intromettono notti cariche di sogni.

Questo ricorso sistematico a un onirismo esasperato, e in generale all’apparato simbolico, finisce per confondere lo sguardo dello spettatore. Sembra, appunto, di essere di fronte alla smania di un esordiente di dimostrare il proprio talento visivo, di far vedere che ci sono altri modi di raccontare la vita vera oltre all’esposizione classica del cinema italiano.

C’è da dire che Per amor vostro regge sul piano del racconto puro e semplice, della scrittura e della ricostruzione. La vera forza, però la attinge dagli attori, perché Massimiliano Gallo e Adriano Giannini, rispettivamente il marito e l’attore, sono consapevolmente inquietanti e viscidi, ambigui e isterici, e fanno quello che devono come elementi di contorno alla grandissima interpretazione di Valeria Golino, sublime Anna, immobile e frenetica tra ingenuità e consapevolezza, tra timore e ribellione, tra speranza e paura.

(Per amor vostro, di Giuseppe M. Gaudino, 2015, drammatico, 109‘)

“La distanza”
di Colapesce e Alessandro Baronciani

Nicola sguazzava nel mare come si fa dentro un letto. Sicuro, sereno nel suo utero d’acqua. Nicola nuotava meglio di quanto riuscisse a parlare. Per questo il suo nome iniziò a squamarsi. Cambiò suono, cambiò forma e diventò Colapesce. E soprattutto assurse a leggenda.

Nota in tutto il Meridione e riplasmata secondo i confini. In Sicilia i prodigi anfibi di quel ragazzino solleticarono le orecchie di Federico II di Svevia, che gli chiese di tuffarsi fino alla pancia più scura del fondo. Colapesce recuperò dal largo una coppa, poi una corona. E poi non riemerse mai più. C’è chi lo vuole inabissato ancora più giù, a sorreggere l’isola intera. Ma Colapesce è soprattutto un palombaro di storie. Un sommozzatore di meraviglie, che pesca avventure e risale in superficie per raccontarle.

Così ha fatto anche Lorenzo Urciullo, in arte appunto Colapesce, cantautore alla prima esperienza nel mondo del fumetto, con un lavoro elaborato a quattro mani con l’illustratore Alessandro Baronciani, intitolato La distanza (BAO Publishing, 2015). Protagonista, guarda caso, è Nicola, trentenne barcollante come tanti, impigliato in un rapporto che incespica, con la ragazza a Londra e lui in Sicilia. Nicola decide di raggiungerla, ma prima si concede un viaggio attraverso la sua terra e le sue amicizie. Che ovviamente lo condurrà molto più lontano del previsto, sfilacciando per strada la sua confusione, permettendogli di perdersi e poi di rifocalizzarsi, anche grazie agli incontri fortuiti. S’imbatte in Francesca e Charlotte, turiste e compagne di ventura con cui confrontarsi, sciorinando la sua vis polemica e ficcante d’isolano autentico.

Nicola è arguto, sottile, ironico, gonfio d’interessi e d’insoddisfazioni. Impegnato a esecrare l’ignoranza, a contestare le mode, per poi comunque non esserne immune. Pessimista e malinconico, grigio ma mai spento, come lo sfondo di molte scene, alternato a un azzurro avvolgente. Il loro tour è una continua riscoperta di bellezza, così forte che ottunde, che quasi ci si abitua.

Charlotte si sconvolge nel sapere che c’è gente capace di smaniare per infilarsi a Sharm El Sheikh quando abita già in Paradiso. Eppure è così e La distanza trafigge con la sua franchezza, col ritratto di una Sicilia impigrita, lamentosa. E avvezza a un letargico splendore, al punto di dimenticarsene. Colori intensi, contorni di un nero robusto, figure essenziali e ammiccanti, d’immediatezza pop. Corpi in primo piano e anche enormi silenzi. Tavole mute dov’è il paesaggio a dire la sua.

Questa graphic novel on the road calamita gli occhi per la sua semplicità, che non scarnifica il dettaglio ma con pochi segni sa tracciare un’atmosfera, il senso assolato e assoluto d’estate. Il caldo che assedia e pacifica, il mare che ridona la quiete mentre Nicola non fa che cianciare. Perché vomitarsi addosso parole è ciò che gli riesce di più. Sicuramente più di decidere, se restare o partire, se arrestarsi al presente o saltare all’ignoto. Se annusare braccia nuove o già conosciute. Come il plotone di ragazzi della sua generazione, svezzati d’illusioni e poi strattonati a dovere. Professionisti del bilico a mani legate. Che rinunciano a ruggire, che accarezzano solo il male minore. Che cercano «la verità negli amori di serie B, nei negozi che un tempo volevano incendiare», come recita una canzone inchiodante di Colapesce, prima leader del gruppo Albanopower.

E La distanza condensa questa nota autocritica e una tenue amarezza, insaporite di granite, fichi d’india e pezzi degli Smiths, con odori che
oltrepassano la carta. Un’incertezza cronica, quasi materna, in cui ci troviamo spesso a nuotare e da cui quindi non siamo affatto lontani.

Per chi non l’abbia già fatto, leggere La distanza è un modo per esplorarsi ancora. E tenersi addosso, almeno per mezz’ora, un brandello d’estate.

(Colapesce, Alessandro Baronciani, La distanza, Bao Publishing, 2015, pp. 200, euro 16)

“Una ragazza con la valigia”
di Sanda Pandza

Jacek Piotrowski non è esattamente Salgado. Per appendere gli occhi alle sue foto non è bastato spedirsi all’Ara Pacis. Sono dovuta atterrare a Danzica, dove ovviamente non sapevo che l’avrei trovato.

Nel Museo Narodowe, un’allettante mostra estiva (ancora più magnetica se si pensa che l’ingresso è gratuito) scolpisce su carta ritratti di città della sua Polonia. Un bianco e nero intimo, quasi confessato; una quinta teatrale ossuta, scarnificata, dove spesso compaiono solo pochi soggetti. Fabbriche livide, un muro sbrecciato, un decollo d’uccelli, bambini sfuggenti, case con poche pretese. L’unica costante, la presenza di un’auto, arcigna, squadrata o a volte più morbida, un “motore immobile” che scandisce ogni scena, tanto da intitolarne l’immagine. In ciascuno di questi scatti, seminati tra il 1984 e il 1993, il protagonista è uno solo e senza telaio: il Mondo del Prima. Lo stesso identico dominatore del libro che stavo leggendo.

Una ragazza con la valigia (L’Asino d’oro, 2015), esordio di Sanda Pandža, è una raccolta di polaroid.

La carrellata spoglia della vita di Petra, della sua giovinezza, strizzata in mezzo ad anni ispidi per la sua Jugoslavia, dalla morte di Tito fino alla guerra dei Balcani. Non alludiamo a frammenti da Istituto Luce o a reperti da tesina del liceo. C’è ancora poca polvere attorno a quegli eventi, eppure quel ciuffo di Paesi oltre l’Adriatico solo venti anni fa parlava un’altra lingua. Quella del massacro. E prima ancora, quella dell’obbedienza. Petra è cresciuta così a Split, catechizzata dal regime, religione di terra dove raramente si alza lo sguardo, figurarsi la voce. Ogni mossa è incasellata, ispirata al contegno e al sacrificio.

E suo padre è la riproduzione in scala del sistema imperante. Muto, immolato, anaffettivo.

Petra mangia lo stesso piatto, gioisce con misura, non può uscire con le amiche perché di sera per strada ci sono solo certe donne e le sue giornate sono ore intorbidite, subissate di studio e insofferenza. Tito è il compagno esemplare e il suo culto prosegue anche quando interrompe i suoi battiti.  Che c’entra, che importa? Il suo compleanno è sempre in vita.

Eppure, da lì, la parete comincia a incresparsi. Fino al tracollo, fino a Berlino.

Petra intanto rosicchia l’aria, arrugginisce di viaggi mancati, è costretta a mentire, ad amare in segreto, a scoprirsi adulta con una mano di vergogna. Il sentiero guida, fornisce risposta e fuoriuscire vuol dire rischiare, scalfirsi col sole, capire che c’è altro oltre ai margini, oltre alla favola ideologica che ha sottratto più di quanto abbia concesso. Finché la Serbia impazzisce sognandosi immensa. Milošević arringa la folla, diluviano applausi, serpeggia il disastro. La menzogna si strucca mentre Petra si fa bella.

E poi basta un niente. La guerra divampa prima ancora di riuscire a pronunciarla. Le strade si frantumano, Petra si sbraccia per raggiungere il suo Mario, mentre il cielo non concorda, mentre soffiano gli spari.

Tutto quello che insanamente la dittatura era riuscita ad incollare, le identità difformi, le preghiere stridenti, i vari modi di chiamare Dio o d’ignorarlo del tutto, si sgretola di colpo.

E quel colpo ovviamente annichilisce anche suo padre, sbriciola le certezze minute rimaste nei pugni.

Ma forse non è stato un male: «Scoppiai in lacrime, singhiozzi scuotevano tutto il mio corpo. Mi buttai sul petto di mio padre, quel petto che da piccola mi aveva cullato col proprio respiro mille volte. Mi sembrò come se una delle schegge di quelle bombe impazzite avesse spaccato il ghiaccio intorno a lui facendolo sciogliere. Fuori, il mondo crollava in pezzi, dentro quel rifugio antiatomico, mio padre mi abbracciò».

L’alternativa è solo la fuga, un’altra costa in pace dove riformularsi, districando quegli sguardi accartocciati e quei pensieri perdenti. La stessa via percorsa dall’autrice, che nel’91 abbandona Spalato per trasferirsi a Roma e sentirsi sua, non più indottrinata. Per riconquistarsi. Ed è per questo che Una ragazza con la valigia conosce la luce della pubblicazione. Per cesellare la distanza del racconto e permetterle di focalizzarsi. Sanda Pandža è una donna nuova, anche grazie ai seminari di Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, che per la stessa ammissione di Sanda l’ha «resa libera», come individuo prima che come scrittrice.

Prova apprezzabile la sua, per la sincerità dei suoi fatti molto più che per l’intensità dello stile, stringato nella sua accuratezza di lingua acquisita, ma mai originale, spesso quasi “di servizio”.

La sua forza vibra tutta in quel Mondo del Prima, quegli scatti da museo dei tempi prossimi, che risuona nei romanzi di Vasile Ernu, Elvira Dones o Matthias Frings. Quel poco fa così irraggiungibile che occhieggia dentro una mostra lontana, a disilluderci di quel passato che adesso chiamiamo “futuro”.

(Sanda Pandza, Una ragazza con la valigia, L’asino d’oro, 2015, pp. 151, euro 12)

Le case che ho abitato

Le case in cui ho abitato avevano la porta marrone. Le case in cui ho abitato, ora non le abito più.
Di queste case non ricordo una planimetria precisa, non posso dire se il bagno fosse in fondo a destra o dopo il corridoio a sinistra.
Per ognuna di esse mi è rimasto impresso un unico spazio, come quando vai a teatro e sul palcoscenico c’è solo l’arredo della camera da letto che però rappresenta una parte per il tutto e allo spettatore non sembra riduttivo ma riesce bene a immaginare che di là (dove? Forse dietro le quinte?) c’è anche il salotto, la cucina, il bagno, delle finestre che danno su un cortile.
Nella mia testa le case che ho abitato hanno subito una riduzione simile, sono rimaste catalogate per spazi circoscritti, come se fosse successo tutto lì, come se anni interi potessero essere raccolti in angoli e punti precisi di un intero appartamento.
Della mia prima casa ricordo la porta a vetri che separava la zona notte dalla zona giorno, la frontiera che dopo le nove di sera non si poteva varcare, quando il coprifuoco aveva decretato che quella era l’ora di andare a letto. Da sotto le coperte contavo fino a cinque, poi mi armavo di ciabatte e strisciavo fino a quella porta. Un soldato in pigiama di circa un metro e mezzo di altezza. Di mio padre e mia madre percepivo solo le mezze lune della loro testa spuntare dal divano. Mi appiccicavo al vetro e guardavo – senza sentire granché – la Tv dei grandi. Era come stare in ultima fila alle recite scolastiche: vedevi qualcosa, percepivi qualcos’altro ma non capivi bene cosa. Un po’ tutto sfuocato, approssimativo. Però mi sentivo in compagnia, mi sentivo a posto col mondo; il brusio della Tv era una ninna nanna e mi addormentavo con immagini di donne in gonnella e lustrini o uomini noiosi in cravatta seduti su poltrone blu con i jingle pubblicitari come sottofondo, per svegliarmi il giorno dopo con il suono delle campane della chiesa, sempre in lontananza. La mia, all’epoca, era una vita di echi.
La porta a vetri era, dunque, un giusto grado di separazione che mi permetteva, al minimo accenno di movimento dei miei genitori, di defilarmi rapidamente verso il letto per non farmi scoprire. La porta a vetri è stata la mia fedele compagna per tutta l’infanzia.
Anni dopo ci trasferimmo in un’altra città di un altro Paese, e quindi in un altro appartamento. Di questo sono sicura di aver abitato solo l’ingresso esagonale sul quale si aprivano la  sala, la cucina e il corridoio che portava alle camere. Ero sempre all’ingresso, una specie di limbo, intenta a entrare o uscire. Sparata come la biglia di un flipper verso gli ascensori di lamiera del condominio, mi agitavo nel mentre che questo scendeva gli otto piani, incapace di stare ferma, ero una pallina che seguiva un percorso preciso: ascensore, scale, rampa fino al mio bersaglio finale: l’esterno. Una biglia alla conquista di un posto nel mondo. Per anni ho solo vissuto all’ingresso aspettando di essere lanciata fuori. Non sono mai entrata in salotto, né in camera per dormire, non avevo bisogno di pranzi né cene e quindi non ho mai acceso i fornelli della cucina, non puzzavo e quindi non entravo in bagno per lavarmi. In quegli anni ero solo io. Il resto non contava e non mi importava. Non avevo tempo per il resto. Io volevo solo andare fuori, stare fuori, vivere fuori, essere fuori. Dopo aver vissuto l’ingresso, nella casa successiva ho abitato, per un anno, chiusa in camera da letto, anzi nel letto da camera perché era una camera quadrata piccola con un letto matrimoniale incastonato al centro. Quando la coinquilina mi aveva mostrato la camera che avrei dovuto prendere in affitto, c’era un letto singolo, un armadio a muro, una scrivania e una bella finestra. Era una piccola camera ma tutto sommato a me andava bene perché, lavorando tutto il giorno, dovevo starci poco. E invece dopo poche ore mi innamorai e sostituii subito il singolo con il matrimoniale perché speravo di trattenere l’amore e non farlo fuggire dalla finestra. Era impossibile entrare in camera da letto; c’era giusto lo spazio per aprire la porta e poi dovevi tuffarti a pesce nel letto. Sviluppai tantissimo il senso del tatto visto che per scegliere cosa indossare non potevo aprire per intero l’anta dell’armadio e infilavo il braccio nella fessura minima apribile pescando vestiti guidata dal mio quinto senso. Il letto era un’isola e me ne stavo sdraiata lì mentre fuori pioveva e lui entrava e usciva come gli pareva ma quando ho visto che lui preferiva il (suo) letto singolo, ho fatto le valigie e me ne sono andata dalla finestra, decisa a navigare verso un’altra città e un’altra casa con la speranza di non vederlo più.
Sono arrivata molto lontano, il più lontano possibile con la convinzione che la distanza avrebbe rafforzato l’oblio. Ho affittato per un breve periodo una nuova casa ed era una casa straniera ed estranea: non era mia e non la sentivo mia, nell’armadio non c’erano i miei vestiti e in salotto non c’erano i miei libri. Il proprietario, sapendo che sarebbe stato via per poco, aveva lasciato tutto invariato. E io avevo la sensazione di abitare qualcun altro, e non mi andava di appoggiarmi alle pareti perché era come toccargli la pelle o i capelli, come quando sei in metro e ti stringi in te stesso per non correre il rischio di sfiorare gli altri. Così ho deciso di vivere nel punto più centrale e anonimo della casa, quello più distante dagli oggetti e dai muri: stesa a pancia in su sulla moquette del salotto. Il mio corpo si stagliava sopra il folto tappeto rosso carminio, morbido e caldo, che faceva da materasso ai miei sogni proiettati sul soffitto di cartongesso bianco. Quando calava la notte, il mio amore compariva, come le ombre cinesi, sulle campate della casa che si infestava di ricordi mai vissuti, fino al giorno dopo, quando finalmente la luce del sole spazzava via le ombre e tutto sembrava calmarsi. Ho perso tanto tempo a guardare questo soffitto bianco di giorno e di notte con gli occhi sbarrati, finché una mattina è entrato un caldo vento di primavera che ha fatto traballare i mobili e la luce del sole era così forte che è riuscita a tinteggiare il cartongesso di un bianco perla e quando è arrivata la sera sul soffitto non vedevo più le ombre ma le stelle del cielo, così mi sono addormentata tranquilla e beata e ho dormito tante ore, forse giorni e qualche mese, e al risveglio ero in un’altra casa, molto grande, troppo grande, con tante persone, troppe persone. In questa casa enorme – che un tempo era stata una fabbrica di vernici – ho abitato in cucina, grande come la palestra della mia scuola elementare. Non c’erano tanti soldi e per scaldare gli ambienti avevamo solo una stufa a pellet che stava, appunto, in cucina. Quindi io non mi sono schiodata da lì per tutto l’inverno. In questa cucina transitavano più persone che giù per il corso il sabato pomeriggio e i pasti prevedevano solo due alternative: o pennette al pesto o toast al formaggio. L’odore di sottiletta bruciacchiata era il nostro Arbre Magique. Anche se in questa casa c’erano tante persone, io ne guardavo solo una. Una sera, durante una festa, ci ho parlato e mi sono accorta di stare di nuovo bene, avevo proprio la sensazione di farmi un bagno caldo dopo un lungo viaggio in treno. E giorno per giorno eravamo sempre più vicini fino a che ci siamo stretti così tanto da fonderci insieme e abbiamo deciso che quella casa era troppo grande per noi che occupavamo un solo spazio.
Me ne sono andata con lui in un monolocale e qui ho vissuto in bagno perché era l’unico spazio in cui potevi chiudere la porta. Mi ricordo durante un litigio sentirmi dire: «Dove vai?». Dove potevo andare? In bagno, perché era l’unica stanza che mi permetteva di sbattere la porta con un colpo secco e forte per far capire che ero arrabbiata. Non c’erano vie d’uscita, non potevo andare in camera perché la camera era il salotto e la cucina e l’entrata tutto insieme. Il letto stava dove il divano. La scrivania era il tavolo da pranzo, l’ingresso era l’uscita. Ogni oggetto aveva la sua dualità. L’unico spazio chiudibile era il bagno che diventò anche lo studio. Ricordo di aver fatto numerose interviste via skype a tarda notte a un famoso personaggio tv sempremoltoimpegnato per scrivere il suo libro seduta sulla tazza del water per non svegliare il mio compagno. E iniziare la skypecall dicendo: «Figurati, non preoccuparti per l’ora, sono nel mio studio seduta su una comoda poltrona per cui possiamo parlare quanto vuoi», e tornare a letto dopo due ore con le natiche appiattite come un cracker.
Il bagno era, tra l’altro, uno spazio sproporzionalmente grande in base al resto del locale: c’era pure la vasca. La vasca è un oggetto strano. Chi non ce l’ha sogna sempre di averla come se fosse l’elemento indispensabile per vivere bene, mentre chi ce l’ha sogna sempre di toglierla come se fosse un elemento di disturbo. E nel monolocale era decisamente un oggetto futile.
Io pensavo sempre che al posto della vasca poteva starci un letto singolo per ospitare qualche amica il sabato sera dopo una sbronza in pizzeria o una scrivania su cui appoggiare il computer durante le interviste (stando sempre seduta sulla poltrona).
Poi c’è stata un’esplosione, non fuori ma dentro di me che ha fatto cadere tutti i muri come una scenografia di cartapesta e ho guardato il mondo fuori ed era così grande, troppo grande per vivere uno spazio soltanto.
Ho smesso di abitare le case. Ho chiuso tutte le porte marroni, una dietro l’altra. Ho abbandonato uno a uno i singoli spazi, e mi sono trasferita al piano terra di un edificio vuoto dove ho iniziato a vivere.
Ho preso la porta a vetri della mia infanzia, l’ingresso, la camera da letto, il tappeto, la cucina, il bagno. Ho raggruppato e predisposto tutti gli spazi precedenti sotto un unico tetto, ho costruito un enorme palcoscenico dove montare questi arredi e ho iniziato a deambulare maestosa da una parte all’altra, come un’attrice navigata che calpesta la scena del suo piccolo paese dopo decenni di esperienza in importanti teatri stranieri.
Ora vivo questa grande casa nella sua totalità da destra a sinistra, su e giù, in lungo e in largo.
Varco la porta a vetri, spengo le luci della cucina, mi lavo i denti, mi addentro in camera, mi infilo nel letto, chiudo gli occhi e penso che tutto è fatto di altro, che siamo già “passato” prima che finisca il giorno. Che domani mi alzerò dal letto, mi laverò i denti, accenderò le luci della cucina e varcherò la porta a vetri pronta per essere sparata fuori. Come la biglia di un flipper conquisterò nuove mete, tornerò la sera con in mano qualcosa – anche solo un sassolino nella scarpa o uno scontrino nel portafoglio, oggetti che andranno ad accumularsi agli altri già esistenti sulle mensole della libreria, a comporre una storia dal finale aperto.
La mia grande casa è una matrioska fatte di altre case.
Le case che ho abitato, le abito ancora.

 

Elisa Sabatinelli (1985) è nata a Fano e cresciuta a Barcellona. Si è laureata in Sceneggiatura e cura il festival Cortili Letterari dedicato agli autori italiani under 35, che si svolge a Fano durante il periodo estivo. Attualmente abita a Milano e lavora nell’editoria occupandosi di coordinamento editoriale, redazione e traduzione.

 

Foto: http://www.domestika.org/es/projects/41708-casas-arbol

Il sogno del cinema in terrazza

Un incontro parigino, due vecchi amici e una nuova amica, una passione comune per il cinema e un’idea, coltivata, discussa e fatta crescere su una terrazza romana. È nato così InTe Cinema Festival, piccolo ma determinato festival del cortometraggio internazionale e indipendente arrivato quest’anno alla seconda edizione. Molta voglia di fare, molte idee e una certezza: i film vanno visti all’aperto. L’idea originale è quella di sfruttare la terrazza del quartier generale romano di InTe. Una splendida terrazza, dietro piazza Cavour, con San Pietro che si può quasi raggiungere con la punta delle dita. Una terrazza molto cinematografica, quasi come quella di Scola, quasi come il  regno di Jep Gambardella nel premio Oscar La grande bellezza

Sono andato a conoscere i tre ideatori del festival – Leonardo Ceccarelli, Alessandro Felici, Benedetta Valabrega – nel loro centro operativo. Abbiamo parlato di cinema, di come farlo e di come vederlo.

Che cos’è e come nasce InTe?

Inte nasce da una chiaccherata romana nell’agosto 2013. Un’idea semplicissima: fare un festival del cinema in terrazza, da qui viene infatti il nome InTe, che però assume anche altri significati. È da allora che noi tre abbiamo cominciato a pensare quale tipo di festival volevamo diventare e come organizzarlo. Il primo obbiettivo che ci eravamo posti era di rimanere assolutamente indipendenti, e creare un luogo informale dove gli autori e il pubblico potessero incontrarsi e confrontarsi vis à vis. Abbiamo improvvisato un bando online e avvertito tutti i nostri amici e conoscenti del settore, cercando di sfruttare al meglio la visibilità tramite i social, affiggendo con locandine i luoghi di Roma più vicini al cinema, al fine di raccogliere più iscritti possibile. La sorpresa è arrivata quando abbiamo cominciato a ricevere molti cortometraggi da tutto il mondo.

Cosa c’è di nuovo in questa seconda edizione?

Per una serie di motivi abbiamo preferito spostarci dalla nostra terrazza che era stata la sede della prima edizione. Quest’anno abbiamo deciso di appoggiarci alla TAG – Tevere Art Gallery, che è un incrocio tra una galleria d’arte e un locale vero e proprio. In questo modo siamo attrezzati per ospitare un numero più grande di partecipanti. Abbiamo anche deciso di inserire una giuria tecnica, perché é giusto che i film siano giudicati da persone competenti. I giurati sceglieranno il miglior film di ognuna delle tre categorie ( corti di finzione, corti di animazione e documentari) che vincerà un premio economico e una statuetta. La giuria è composta da: la regista Paola Randi, la segretaria d’edizione Paola Bonelli, il regista Giovanni Piperno, il regista Mario Balsamo, il direttore della fotografia Tarek Ben Abdallah, la direttrice della fotografia Daria d’Antonio, lo scenografo Massimo Vichi e il montatore Gianni Vezzosi.

Come è organizzato il festival?

All’inizio di ogni serata accoglieremo il pubblico con un concerto live di musica jazz e un aperitivo. Al tramonto avranno inizio le proiezioni. Non é previsto un dibattito formale con i registi presenti, ma tutti sono invitati a rimanere al termine delle visioni per chiacchierare liberamente. Parlare con i registi invitati è stato molto importante per capire che cosa pensassero del nostro festival. Ci hanno dato suggerimenti e spunti per crescere, ma soprattutto ci hanno fatto i complimenti per il nostro lavoro e questa, per noi, è stata la ricompensa più preziosa di tutte. Una cosa ci ha colpiti molto l’anno scorso, il silenzio che si creava quando si vedeva un cortometraggio: un silenzio simbolo di rispetto e speriamo anche di apprezzamento.

Come siete riusciti ad arrivare a film da tutto il mondo?

Su internet si trovano molti siti che elencano tutti i festival del cinema, divisi per nazioni. Una produzione cinematografica, così come i registi che si autoproducono, utilizzano queste piattaforme per inviare le proprie opere ai festival che più trovano interessanti e corrispondenti alla loro idea di cinema. Questo è stato per noi un grande aiuto per arrivare a registi che, attraverso il nostro sito e le pagine social, non avremmo potuto raggiungere. Oltre a questo, abbiamo anche cercato e invitato film visti in altri festival o trovati online. Hanno risposto in molti, contenti di poter mostrare il proprio lavoro. Quindi, tramite email informali e conversazioni a chilometri di distanza, siamo riusciti ad avere nella nostra programmazione dei cortometraggi di cui andiamo molto fieri. Come direttori artistici ovviamente abbiamo delle preferenze, ma abbiamo cercato il più possibile di pensare anche al pubblico, offrendogli il meglio che potevamo. Quindi anche se vengono rispecchiati, almeno in parte, i nostri gusti personali, siamo contenti di tutti i film che presenteremo.

C’è qualche corto di cui siete particolarmente fieri tra quelli selezionati?

Siamo veramente onorati di proiettare fuori concorso un’opera di un giovane regista polacco che quest’anno ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior documentario; si tratta di Our Curse di Tomasz Śliwiński. che ha accolto con piacere il nostro invito. Siamo molto contenti, inoltre, di avere tra i registi partecipanti Davide Vigore e Mimmo Rizzo, autori di Fuorigioco, un documentario di creazione che racconta in modo molto cinematografico la vita di Maurizio Schillaci, cugino meno celebre di Totò Schillaci, anche lui calciatore e ora senzatetto a Palermo.

Progetti e obbiettivi per l’immediato futuro di InTe?

L’obbiettivo principale per il futuro rimane l’organizzazione del festival del cinema, cercando di raggiungere un’audience sempre più ampia sia di spettatori che di registi volenterosi di far conoscere il proprio lavoro. In realtà però, vorremmo andare oltre a questo evento annuale. Il sogno nel cassetto rimane quello di trovare uno spazio che sia creatore, contenitore e diffusore di cultura a tutto tondo. Un luogo dove chi vuole può esprimere il suo talento o semplicemente passare per vedere quale evento artistico è in programma quel giorno. Uno spazio non solo per gli artisti ma anche per i semplici appassionati.

Una cosa importante che vorremmo fare è ringraziare tutti i nostri amici che ci hanno sostenuto e aiutato dall’inizio del progetto, e soprattutto le persone piene di buona volontà che ci hanno aiutato durante le tre serate della scorsa edizione. Senza di loro, il nostro festival non sarebbe mai stato così bello e caloroso. Spostando sedie, tavoli, bottiglie di birra su e giù tra la casa e la terrazza si è creata un’atmosfera di collaborazione, e questo aspetto della nostra piccola iniziativa deve rimanere così: il calore umano prima di tutto.

 

L’appuntamento con InTe Cinema Festival è a Roma, alla TAG – Tevere Art Gallery l’11, 12 e 13 settembre. Qui trovate tutte le informazioni sul Festival.

inte-flaneri

“Senti le rane”
di Paolo Colagrande

Leggere Senti le rane di Paolo Colagrande (nottetempo, 2015) ti fa gridare di giubilo e cantare alleluia. Questo romanzo è uno di quegli oggetti narrativi che sembrano essere passati indenni attraverso la fiacchezza di certa letteratura italiana contemporanea per uscirne in forma smagliante. Il ritmo della voce narrante è azzeccatissimo, e Colagrande, dosando una buona dose di genialità con cadenza pressoché costante, trascina il lettore verso un finale disastroso.
L’aspetto davvero anomalo di un libro del genere è lo stile umoristico: il sarcasmo yiddish viene infatti adattato alle vicende di un paesino romagnolo cattolicissimo, e la vicenda è scandita secondo i tempi e i personaggi della ballata popolare, tra bigottismo, superstizioni e identità ebraica.

La trama è ancora più inconsueta: un giovane ebreo, Zuckermann, d’improvviso scopre la vocazione cristiana e decide di farsi prete, proprio mentre percorre al volante la Provinciale 633 di Lumbriasco di ritorno dalla sinagoga di Bolzate, un po’ come era accaduto a San Paolo, insomma, anche se, chiarisce la voce narrante, «considerato tutto l’insieme della storia e i suoi dettagli e corollari, compreso il fatto che Paolo di Tarso dopo l’apparizione di Cristo era rimasto tre giorni a Damasco senza vedere niente ma soprattutto senza mangiare e bere, discutendone con Sogliani vien da pensare che le somiglianze tra la storia di Zuckermann e quella di Paolo di Tarso l’apostolo gentile sono pochissime».

Tuttavia il neoprete Zuckermann cade presto in tentazione, innamorandosi della Romana, la figlia vergine e bella di due devoti parrocchiani. La sicumera iniziale che aveva accompagnato la chiamata comincia a vacillare, e tra deliri dovuti all’eccessivo studio di testi teosofici e infiltrazioni fin troppo terrene di tentazioni carnali il sacerdote tenta di freddare i tremori passionali suscitati dall’adolescente che si inginocchia al confessionale.

Senti le rane fa pensare spesso a un romanzo straniero, perché servirsi della cultura ashkenazita per raccontare una storia così sfacciatamente divertente sembra una prerogativa di altre letterature, eppure l’autore supera quest’idea stessa per inventiva, riuscendo a coniugarla al bacchettonismo italiano di provincia e confezionando un testo decisamente impeccabile.

(Paolo Colagrande, Senti le rane, nottetempo, 2015, pp. 344, euro 16,50)

“Non essere cattivo”
di Claudio Caligari

Diciamo la verità, senza troppi romanticismi. Di Claudio Caligari, fino alla lettera aperta che Valerio Mastandrea aveva inviato a “Martino” Scorsese nel novembre 2014, si erano scordati in tanti, e non poteva essere altrimenti. In più di trent’anni di carriera, Caligari aveva realizzato solo due film. Il primo, Amore tossico, passato a Venezia nel 1983 lasciando più di un sopracciglio alzato e di una bocca spalancata, raccontava dall’interno, e con gente presa dalla strada, la vita di Ostia come borgata, con la sua eroina, la sua microcriminalità, il suo squallore post-pasoliniano. Il secondo, L’odore della notte, arrivato dopo quindici anni nel 1998, prendeva attori professionisti (Valerio Mastandrea, Marco Giallini, ma anche un cameo di Little Tony) per parlare di un gruppo di borgatari che si specializza nelle rapine ai quartieri alti in una sorta di rivincita contro le sperequazioni della società.

Tra i due film, dopo il secondo film, il niente fino alla lettera di Mastandrea e alle sue conseguenze. Si dice che Caligari, che nel frattempo è deceduto, avesse un carattere orribile che, sommato alle tematiche scomode dei suoi lavori, gli ha reso praticamente impossibile farsi spazio nel cinema italiano. In un’intervista a Christian Raimo (sempre dell’ultimo anno, dopo la lettera, quando tutti si sono ricordati chi fosse) ha raccontato di come sia stato nove volte sul punto di iniziare le riprese di altrettanti film e di come altrettante volte qualcosa abbia fermato tutto proprio quando stava per cominciare.

Arriviamo al novembre del 2014, alla lettera di Mastandrea e a quella richiesta, strampalata, rivolta a Scorsese di finanziare il nuovo progetto di Caligari che lo stesso Mastandrea aveva iniziato a seguire in veste di produttore. La richiesta, ovviamente, non era rivolta sul serio a Scorsese, maestro cinematografico ideale di Caligari, quanto a sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo nuovo lavoro, e ha funzionato se è vero che il 7 settembre 2015 Non essere cattivo, il terzo film di Claudio Caligari, terminato in post-produzione dopo la sua scomparsa, è stato presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, chiudendo il cerchio iniziato trentadue anni fa da Amore tossico.

Non essere cattivo unisce in sé i due caratteri dei due film precedenti di Caligari: il degrado tossico della periferia e la violenza degli emarginati come unica forma di ribellione e di rivalsa. Siamo a Ostia, nel 1995. L’eroina non c’è più, o c’è molto di meno. Gli eroinomani sono visti con disprezzo da tutti, anche da chi, come Cesare e Vittorio, passa le giornate e le notti tra cocaina e nuove droghe sintetiche. È un’amicizia vera, quella tra Cesare e Vittorio, cresciuti insieme, costretti insieme ad adattarsi ogni giorno e insieme incapaci di riscattarsi dalla gabbia comoda della criminalità e della droga. Cesare, soprattutto, cerca a suo modo di crescere la nipotina rimasta orfana e malata di AIDS, e non può permettersi (e non vuole) immaginare quella vita diversa che invece Vittorio prova a fare dopo aver conosciuto Linda, madre sola che cresce un figlio con tutta la fatica dell’onestà. I sogni ci sono, per Cesare e Vittorio, ma sono sogni paralizzati dalla droga e dalla vita.

Vedere in sala un film di Caligari, un film nuovo di Caligari, fa capire tante cose. La prima, e la più importante, è che senza dubbio nessuno in Italia fa il cinema che fa Caligari e proprio per questo ci si può unire al coro di quanti ritengano che tre film in quasi quarant’anni di carriera siano un peccato e uno spreco per il cinema stesso. Oltre al modo di fare cinema, probabilmente nessuno, dopo Pasolini e con l’eccezione di Nico D’Alessandria, ha saputo raccontare senza idealizzazioni, senza romanticismo, senza poesia e senza condanna la vita delle borgate romane come ha fatto Caligari, con tutta la crudezza della verità.

Non essere cattivo non è un film perfetto, è inutile stare a esagerare negli elogi postumi. È sbilanciato, segue senza equilibrio i due personaggi, fornendo giustificazioni continue a Cesare e dicendo pochissimo di Vittorio, lascia precipitare le situazioni, soprattutto nella parte finale, per arrivare a quella catarsi violenta che apre le porte a un’inattesa speranza, ma va bene così, con le sue imperfezioni. Caligari, aiutato in sceneggiatura da due scrittori, Giordano Meacci (Tutto quello che posso, minimum fax) e Francesca Serafini (Di calcio non si parla, Bompiani), rende il linguaggio della strada con la consueta capacità di mimesi e concedendosi una quantità di battute lapidarie cariche di gravità romana che possono tranquillamente diventare di culto. Come regista conferma i suoi due debiti più evidenti e mai nascosti verso Pasolini e Scorsese, e gioca a citare se stesso fin dall’apertura. Ci pensano i due protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi, e con loro le due donne Silvia D’Amico e Roberta Mattei, a prendere tutto e a portarlo più in alto. E ora si può dire che è un peccato che non ci saranno più quindici anni da aspettare per un nuovo film di Claudio Caligari.

(Non essere cattivo, di Claudio Caligari, 2015, drammatico, 100’)

“Vacche amiche”
di Aldo Busi

Aldo Busi è un personaggio scomodo, eccessivo, provocatorio. Il suo Ego ipertrofico non ha limiti, è strabordante.

In Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata) (Marsilio, 2015) erompe ogni argine di censura, sempre però sotto forma di alta letteratura.

Questo «illuminista professo che ha in odio tutte le religioni e tutti i loro profeti», è aggressivo, vero, parossisticamente sincero, scandalosamente onesto: «L’invidia è un sentimento segreto che trapela senza che tu lo possa manifestare apertamente, e non fa per me, mi sono voluto troppo estrovertito e diretto per covare sentimenti vergognosi: l’odio lo puoi manifestare, l’amore non del tutto, l’invidia te la devi tenere per intero».

Anticlericale, anticomunista, la sua religione è la letteratura, «sforzo sovrumano di ridare dignità al verbo, al verbo essere, in tutta la sua pagana, poetica, universale, non mediabile minuscola».

Odia la morale comune, disprezza il ricco fattosi da sé come quello per nascita, ma anche il nato povero, la classe politica, gli evasori fiscali, gli opportunismi sfacciati, l’ipocrisia, i critici letterati che non sanno distinguere uno scrittore da uno scribacchino, il pericoloso progresso. Se la prende con Oriana Fallaci «con i suoi estremismi antislamici comodamente residenti e ben riparati negli Stati Uniti, mi suscitava ribrezzo e sdegno non meno del Ku Klux Klan».

Con spietata lucidità dà nel suo monologo sproloquiante giudizi tranchant persino su Proust (non ci viene detta la provenienza dei soldi dei suoi aristocratici nullafacenti; lui le madeleine invece di mangiarsele «le sarchiavo le aravo le seminavo le falciavo le trebbiavo le macinavo le setacciavo»), Oscar Wilde, Sartre, Zola. Apprezza invece Albert Camus, «gloriosamente tutt’uno per coraggio civile e bellezza letteraria», e tutti quelli «che non neghino nei fatti della vita quanto hanno scritto nelle parole dell’opera».

Non meno importanti per definire l’uomo Busi, inscindibile dal Busi scrittore, perché, come scriveva Pasolini a Moravia, occorre abolire la separazione tra io letterario e io biografico, laddove annotazioni autobiografiche, letterarie, politiche, socilogiche si mescolano e si saldano chimicamente in un deriva inconscia, sono i ricordi, gli aneddoti, gli eventi narrati, gesti di generosità che non si spiega neanche lui, come donare un ovetto a un bambino povero o ballare con la figlia storpia della fruttivendola. Ma soprattutto centrale è il racconto delle tre «vecchie amiche traditrici»: «E mai ho sofferto per un’amicizia che ho dovuto troncare come quella per le donne»›.

Lui che non ricorda nulla degli uomini che ha amato, ricorda tutto invece delle donne che ha adorato e da cui si è sentito pugnalato alle spalle.

La prima, frequentata tra i tredici e i venticinque anni, lo ricontatta dopo trent’anni per confessargli di aver fatto un falò delle sue lettere.

Poi c’è la seconda, «la bellissima creola dai fianchi sottili», traditrice del marito, un Oblomov alcolizzato, obeso e gottoso, erede di diamanti sudafricani insanguinati, rappresentante dei poteri forti, non meno disgraziato dei veri disgraziati. Con lei l’amicizia è profonda, spirituale, intellettuale.

La terza infine lo costringe ad accompagnarla in Belgio per sottoporsi all’inseminazione artificiale.

In questa sua autobiografia non autorizzata, come la definisce lui stesso, Busi sdrammatizza molto: drammatico quando ci sarebbe di che ridere anche se amaramente, divertente nel narrare fatti tragici, mali della società come la corruzione, la connivenza, la meschinità; senza falsi pudori né peli sulla lingua, quando dichiara la sua omosessualità, criticando anzi la cattiva educazione sessuale dei genitori; tenero quando ricorda gli zii contadini.

Moralista non ipocrita, il suo è il ritmo dello stile sublime anche nell’eccesso, perché l’importante non è tanto avere un amico sincero ma una comunità non ostile. A volte basta un sorriso, un saluto o lo sguardo con «quegli occhioni da sciantose perse» delle «vacche amiche» della gioventù quando muggivano «vezzose e affrante alzando il muso verso il vischio delle conifere».

(Aldo Busi, Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata), Marsilio, 2015, pp. 177, euro 15)

Elba Book Festival: tra intuizioni estive e nuovi propositi

Con l’estate arriva il tempo dei bilanci perché se è vero che l’anno solare termina il 31 dicembre, è vero pure che per l’editoria il mese di agosto rappresenta, almeno ufficialmente, il periodo del tanto agognato “chiuso per ferie”.

Con la scusa che agosto non era ancora arrivato, dal 29 al 31 luglio sono stato a Rio nell’Elba in occasione dell’Elba Book Festival, la prima manifestazione dedicata all’editoria indipendente organizzata sull’isola. La mia presenza – e il consueto mancato rispetto dei miei piani estivi: «Quest’anno disconoscerò editori, autori e librai, mi confonderò con la folla, e in bermuda e infradito eviterò accuratamente di entrare in libreria o di sfogliare le pagine culturali dei quotidiani» – è stata duplice: ho partecipato in rappresentanza di Flanerí, media partner dell’evento, e in qualità di responsabile dello studio editoriale 42Linee.

Fortunatamente per me, e per la mia bistrattata coscienza, il festival si è rivelato molto più stimolante di quanto avessi immaginato: ventiquattro case editrici con i loro libri si sono fatte largo per le strade del piccolo paese elbano, e una grande terrazza sul mare, quella del Barcocaio, è stata trasformata in un salotto informale in cui le voci dei giornalisti si mescolavano a quelle degli editori, degli autori, dei librai e del pubblico presente.

L’ultimo giorno della rassegna sono stato chiamato a partecipare a una tavola rotonda dedicata allo spinoso tema della distribuzione dal titolo: Grandi gruppi editoriali e grande distribuzione – Misura a tutela dei piccoli editori.

Con me erano presenti Giulio Milani, editore di Transeuropa; Cristiano Armati, editore di Red Star Press; Luca Malini, librario e editore di La Memoria del Mondo. La mediatrice dell’incontro era Isabella Cazzoli, dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, associazione che ha avviato il progetto editoriale Nessun Dogma.

All’interno della discussione sono emersi chiaramente i percorsi di ognuno e la propria conseguente opinione circa la distribuzione e la promozione editoriale. Da Giulio Milani che ha sostenuto la necessità di un supporto economico all’editoria da parte dello Stato; a Cristiano Armati che si è dimostrato poco convinto circa la possibilità di trovare strade alternative al modello promozionale/distributivo attuale; a Luca Malini, che in virtù del suo doppio ruolo, ha dato il suo parere concreto ponendo l’attenzione su cosa significhi oggi gestire una piccola libreria indipendente.

Quanto a me, la mia esperienza come editore è vincolata al progetto del periodico effe, per il quale ho scelto un tipo di distribuzione diretta – in pratica significa che di volta in volta propongo i volumi in conto vendita a librerie indipendenti rigorosamente selezionate, parlo direttamente con il libraio per cercare di capire quanto effe sia compatibile con la sua offerta, gli spiego il progetto affinché sia in grado si proporlo a sua volta ai suoi clienti, ascolto i suoi suggerimenti per migliorare il prodotto.

Ed è in riferimento a questa esperienza – ridotta certamente, ma concreta –, che ho volutamente lanciato una domanda provocatoria ai miei interlocutori, che era più o meno questa: Come si è arrivati a questa situazione di monopolio, in cui il distributore arriva a pretendere addirittura, in certi casi, il 60% del prezzo di copertina, tenendo così in scacco la piccola e media editoria, ma anche i librai indipendenti che a loro volta si avvalgono del diritto di resa – il librario, a differenza di quello che accade agli altri commercianti, può restituire l’invenduto al distributore che gli ridarà i soldi indietro –?

Sarà stato il poco tempo a disposizione per parlare di uno degli argomenti più spinosi del mondo editoriale o magari la paura di affrontarlo senza false scuse e giustificazioni, ma la domanda è caduta nel vuoto.

Neppure il riferimento a nuovi modelli come quello della distribuzione mista attuato dall’editore Sur o a proposte come quelle di Satellite Libri o directBook (a riguardo è interessante la serie di articoli di Tropico del Libro), sono servite per far decollare il dibattito, che si è concluso con un nulla di fatto, come troppo spesso accade in questi casi.

È da tempo che con 42Linee, ci stiamo interessando al problema della distribuzione, interrogandoci sulla possibilità della piccola e media editoria di organizzare un sistema alternativo che possa fare fronte alla situazione attuale.

Pensare di sintetizzare correttamente in un solo articolo le nostre analisi e tutti i pro e i contro di quella che per noi rimane la soluzione al momento più efficace – la disintermediazione, ovvero riproporre all’infinito l’unico triangolo amoroso sensato: editore, libro, libraio – sarebbe da illusi.

Quello che posso dire è che per noi la risposta al problema sta nel ridurre le distanze tra le figure imprescindibili dell’editore e del libraio, arginando o eliminando il superfluo e restituendo valore alla dimensione artigianale dell’oggetto-libro che è propria dell’editoria indipendente, sempre più spesso indipendente solo in termini di precarietà economica.
Ma in che modo lasciare spazio a questi tre attori – editore, libro, libraio – senza che la distribuzione di ogni singolo titolo si trasformi in una lunghissima odissea?
È nostra intenzione, come 42Linee, proporre una soluzione già a partire dall’autunno prossimo, approfondendo magari la questione proprio sulle pagine di Flanerí.

In quanto all’Elba Book Festival e contro ogni aspettativa mia personale – conosco il carattere degli isolani, le rivalità tra i comuni, e soprattutto ho esperienza di prime edizioni di altri festival indipendenti – mi sento di dire con entusiasmo: «Buona la prima».
Ho potuto ascoltare infatti nuove storie poco conosciute ma dal potenziale enorme, come per esempio comunEbook, o dialogare con nuovi addetti ai lavori – ringrazio per questo Marco Belli, Andrea Lunghi e Matteo Bianchi, punta dell’iceberg della catena di montaggio del festival –, cosa che mi accade sempre più di rado nell’ambiente un po’ saturo della piccola e media editoria.

Così in questo agosto inoltrato, ormai vicino alla fine dell’estate, contrariamente a ogni aspettativa o programma e – allo stesso tempo – in modo così prevedibile, mi ritrovo seduto nel mio appartamento romano, ventilatore puntato e persiane abbassate, a scrivere questo articolo e a pensare a nuovi propositi e buoni progetti, sempre più convinto che è dalle piccole disobbedienze che nascono le intuizioni migliori.