Un’estate lunga un libro

Agosto è arrivato, in molti andremo finalmente in ferie e avremo l’occasione per leggere un po’ di più per provare a svuotare, una volta per tutte, quel comodino o quello scaffale su cui durante l’anno si sono accumulati i libri in attesa di essere letti. Noi di Flanerí vogliamo segnalarvi le nostre intenzioni di lettura per il mare (o la montagna, o la città). Sentitevi liberi di prendere spunto.

 

Dario De Cristofaro – Direttore editoriale

Lo ammetto candidamente, a costo di sembrare antipatico, cosa fare d’estate non è mai stato un problema per me: ogni anno, da quando sono tornato a vivere a Roma, mi rifugio dai miei, all’Isola d’Elba, luogo che mi ha visto crescere dai due ai diciannove anni. Non mi importa di fare programmi, solo pasti sostanziosi, riposo e un buon numero di libri da alternare alla lettura di manoscritti inediti da valutare, che ormai da qualche tempo mi seguono ovunque vada. Ed ecco dunque la lista per questo “crudele” agosto: Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš (Adelphi), L’invasione di Ricardo Piglia (Sur), La sesta estinzione di Elizabeth Kolbert (Neri Pozza), New Italian Epic di Wu Ming (Einaudi) e La notte della cometa di Sebastiano Vassalli (Einaudi). Confesso di essermi trattenuto, ma con la speranza di pescare qualche altro buon titolo nelle bancarelle estive di remainder che si incontrano in riva al mare.

Giulia Zavagna – Responsabile redazione InLibreria

Dopo un periodo passato a leggere libri quasi esclusivamente per lavoro, voglio approfittare delle vacanze per quelle letture che da troppo tempo mi attendono sul comodino. Tra i romanzi, voglio assolutamente recuperare Il posto di Annie Ernaux, uscito l’anno scorso per L’Orma, e Scarti di Jonathan Miles (minimum fax). Purtroppo leggo sempre meno libri italiani di quanto vorrei, quindi ho deciso ritagliarmi il tempo anche per Panorama di Tommaso Pincio (NN editore). Se poi in ferie trovassi anche un po’ di fresco, mi piacerebbe alternare la narrativa alla lettura di un saggio, e ho scelto Mai più come ti ho visto di Massimo Bocchiola (Einaudi), sulla traduzione letteraria. Per finire, infilerò in valigia La distanza, il graphic novel di Baronciani e Colapesce (BAO Publishing), che voglio leggere sulla via del ritorno, nel disperato tentativo di prolungare almeno un po’ quest’estate cortissima.

Luigi Ippoliti – Responsabile redazione Musica

Passerò i primi venti giorni di agosto dall’altra parte del mondo, non so quanto spazio avrò in valigia, non so quanto tempo avrò e vorrò concedere alla lettura, ma qualcosa porterò sicuramente con me. Ultimamente ho letto una bellissima raccolta di racconti del 2006 passata forse un po’ troppo i sordina, L’amore e altre forme d’odio di Luca Ricci (Einaudi), e mi sto mangiando le mani perché pensandoci, a posteriori, sarebbe potuta essere un’ottima compagna di viaggio. Quindi è probabile che punterò tutto su un paio di libri che ancora non ho – colpevolmente – letto: quello che sarà il mio primo libro cileno, I miei documenti di Alejandro Zambra (Sellerio), e un romanzo americano da cui mi aspetto moltissimo per quanto ne ho sentito parlare bene, Nel mondo a venire di Ben Lerner (Sellerio). Magari così le tredici ore di viaggio in aereo risulteranno meno interminabili.

Chiara Gulino – Redattrice

Io ho un maledetto difetto, quello, appena avvisto una libreria, di entrarci in qualsiasi circostanza mi trovi e non uscirne mai a mani vuote anche se non so quando poi leggerò quei libri freschi d’acquisto perché per lavoro devo stabilire delle priorità. Per questo benedico e approfitto delle pause, come quella estiva, per dare una smazzata alla pila che nel frattempo si è accumulata sul mio comodino. Innanzitutto vorrei finire di leggere la quadrilogia de L’amica geniale (E/O) per cercare di capire chi si nasconda dietro il nome di Elena Ferrante e darmi una motivazione del successo internazionale di una storia di amicizia al femminile ben raccontata ma che non riesce ancora a farmi scattare quella scintilla che grida al capolavoro (e sto al terzo volume…). Poi proseguirei con il Premio Strega Giovani di cui tutti parlano un gran bene, Fabio Genovesi, con il suo Chi manda le onde (Mondadori). Visto il periodo che sto attraversando mi butterei sul mistico. In radio ho sentito parlare di un saggio di Hugo Ball, definito «dadaista convertito», una conversione etica ed estetica prima che religiosa e filosofica, che mi ha molto incuriosita, Cristianesimo bizantino (Adelphi), sulla vita di tre santi esemplari: Giovanni Climaco, Dionigi l’Areopagita e Simeone Stilita. Infine visto che quest’anno per vari motivi non andrò da nessuna parte in vacanza, vorrei perdermi per i boulevard di Parigi alla ricerca di Dora Bruder, la ragazzina di 15 anni scomparsa al centro del romanzo Dora Bruder (Guanda) del Premio Nobel Patrick Modiano, immaginando anch’io di vedere ad ogni angolo la sua figura e rivivere quel tempo lontano e drammatico.

Francesco Vannutelli – Responsabile redazione Cinema

Ultimamente sto leggendo molta letteratura italiana contemporanea, tra recuperi e nuove uscite. Ho finito da poco Il caso Vittorio di Francesco Pacifico (minimum fax), e L’età dell’oro di Edoardo Nesi (Bompiani). Adesso sto leggendo Era di maggio di Antonio Manzini, quarto capitolo delle storie del vicequestore Rocco Schiavone, appena pubblicato da Sellerio, dopo vorrei passare a Cartongesso di Francesco Maino (Einaudi). Avrei ancora da recuperare il premio Strega La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi), e spero di farcela, ma ce l’ho in digitale e non mi piace leggere in digitale. In temi di recuperi, non più italiani, da tempo mi aspetta Che Dio ci perdoni di A.M. Homes (Feltrinelli) e conto di leggerlo mentre sono in giro. Sicuramente mi porterò appresso anche La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock, un saggio di Antonio Costa (Einaudi) sull’uso dei simboli nel cinema, ma è molto probabile che mi limiterò a fagli prendere un po’ d’aria di mare.

Carlotta Colarieti – Editor junior di effe

Quella di noi lettori è una razza strana: siamo persone sempre troppo cariche di aspettative. Assomigliamo a quegli ingenui divoratori compulsivi di programmazione televisiva che troppo spesso finiscono col pensare che il personaggio comico della loro sit-com preferita sia, in effetti, una persona realmente simpatica. Con i libri ci accade lo stesso: c’è sempre una recensione, una casa editrice, un consiglio o una biografia dell’autore a dirci che quel libro è il nostro libro. Insomma, che lo si voglia oppure no, alla lettura non si arriva mai vergini. Lo capisco solo ora che per lavoro mi capita di leggere manoscritti inediti di autrici e autori esordienti, come dire appuntamenti nel buio più pesto. Anche quest’estate la trascorrerò in compagnia di questi testi stampati e rilegati in spirali di plastica, senza copertina, senza riferimenti bibliografici, senza presentazioni altrui. Sarà un’estate all’insegna della scoperta: come un conquistador appena sbarcato pianta la sua bandiera su una terra sconosciuta, io, comodamente seduta e armata dell’immancabile penna rossa, sarò la prima a valutare, a trovare connessioni e a ipotizzare riferimenti. Al di là del lavoro però, rimango pur sempre una lettrice in vacanza, non immune al fascino di ciò che è stato detto intorno a un libro o a un autore, e per questo ho preparato la mia pila di libri che già so non riuscirò a leggere in tempo per l’estate, come ogni estate: Il condominio di James Ballard (Feltrinelli), Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale (Adelphi), Cecità di Josè Saramago, Metroland di Julian Barnes (Einaudi), Uomini senza donne di Murakami Haruki (Einaudi), Ricordami di di Yves Pagès, (L’Orma)

“La ladra di piante“
di Daniela Amenta

Avvertenza ai gentili lettori: se siete affamati d’oceano, se dal prossimo libro vi aspettate un’accorata evasione dallo zoo di cemento della vostra città, e se soprattutto la città in oggetto si chiama Roma, con le sue metro imprecanti e rigurgiti di plastica tra le scapole del marciapiede, mantenetevi a distanza di sicurezza da questo romanzo.

Non c’è frescura, non c’è riparo.  Queste pagine sono afosissime. Senza alcuna intenzione di climatizzarsi.

Il caldo ulula, il caldo inzuppa, il caldo trafigge in dialetto.

La ladra di piante (Baldini & Castoldi), esordio letterario della giornalista Daniela Amenta, stampa Roma in primo piano, con la sua arroganza schietta, il suo carisma colloso.

Su di lei fluttua un alveare di personaggi in bilico, sghembi, trascurati, senza pettine e senza accortezze.

Il titolo si deve ad Anna, ultra-trentenne ricercatrice di laboratorio ammorbata di topi e vetrini.

Rossa, magrissima, disattenta verso il suo corpo, invischiata in un lavoro cupo, in un rapporto strascicato più simile a un patto di mutua assistenza che a una relazione. Una «solidarietà tenue tra due solitudini» in cui Anna galleggia da anni, perché non è lì che cerca bellezza. La sua guarigione passa attraverso altre forme di vita. Interrate in un vaso, sdraiate come gemme in un pugno di semi, ritemprate dal miracolo dell’acqua o della potatura. Anna è in simbiosi con le piante e la sola terapia per l’ombra sbilenca del suo destino è totalmente clorofilliana. Tant’è che non può accontentarsi di comprarle, in un vicolo congiunturale come quello delle sue tasche. Anna prima le raccatta, da sommozzatrice dei cassonetti, perché sa che gli abbandoni dimorano comodi in mezzo ai rifiuti. Poi le intercetta da proprietari distratti e infine arriva a rubarle. S’infila nei cortili annoiati di piena estate, adocchia le possibili prede e si mette a trafugarle come reliquie da basilica, per condurle nel suo regno: gardenie, calle, basilico, le affilate aspidistre, ossute come spade dall’anima punk. Tutto tranne le rose. «C’è un corridoio di ficus con le foglie ovali, verdissime, come facce buone e tonte, che si piegano servili a ogni refolo di vento. Ci sono i gelsomini capricciosi che stendono rami come riccioli imprevedibili, si attaccano ai fili dei panni. (…) C’è la pianta della passione a ricordarmi che il sesso si succhia, si beve, si mangia, ha pistilli gonfi che mettono voglia. Una questione di sguardi, di pupille prima che di sentimenti». Sono loro l’unica fonte di successo, l’ecosistema di pace nel suo asfalto frustrato. Farle crescere, farle resistere, raccontandosi di farlo anche lei, più o meno a modo suo.

Ma ovviamente Anna non è l’unica a oscillare sulla scena. Sullo stesso terrazzo, anche lui impreciso e sgangherato, anche lui impiccato in un affitto famelico, si affaccia Riccardo, cinquantenne cronista sbattuto come una matricola a rastrellare dettagli di nera, spifferi di rivelazioni, il peggio del marcio del crimine romano. Sono creature precarie, con un comune bilancio d’angoscia e l’amore per i Clash. Poche amicizie per loro, nel cuore asfittico di periferia: Anna ha solo Sabino, governatore di un vivaio che alimenta con la sua astuzia contadina; e Riccardo ha un amico defunto e un vecchio capo in pensione con la sua mastodontica assistente ucraina. Il romanzo è lo snodo dei loro imbarazzi, delle loro incompiutezze, del loro inquieto trascinarsi da un giorno all’altro. Così consapevoli e inadatti, arrangiati e sconfitti.

Ma ancor di più, il romanzo è il respiro di una città. Il ritratto di un microcosmo costipato, arrancante, che porta addosso la fatica impigrita dei suoi abitanti. L’autoscatto di noi stessi sbuffanti alla fermata.

Quella Roma che già Pasolini non riconosceva, che Moretti trovava deserta e stiracchiata ad agosto.

La stessa Roma mille volte contraddetta, scivolata nei tremori radical chic di Addio, Monti di Michele Masneri, ne Il giardino elettrico di Simone Caltabellotta o nei romanzi di Walter Siti.

La stessa diversissima Roma detestabile e ineludibile, gonfia, caotica, sporca e splendente.

Tutta un corpo da annusare. Ed è difficile non ripescarsi in queste righe.

«Qui è il Sud di Roma. Il Sud fungaio, acquatico. Un fiume sopra, un fiume sotto. Un disgregarsi di muschio, di ribollire quieto, una rovina perenne, una crepa, un cadere e ricadere. Un umido. Qui, tra le Mura Aureliane, è un odore di calcestruzzo antico e di mentuccia romana, e di campagna che s’apre verso i Castelli che intravedo, vedo, oltre gli odori di treno, di rotaia, d’olio, di scambi, d’albanesi appesi, di travertino con gli odori bianchi e un grande orologio d’antrace a sud della stazione Ostiense.»

Una scrittura puntuale, intelligente, scattante, di chi tanto ha vissuto e raccolto della sua città, un po’ per mestiere, come caporedattore dell’Unità, e soprattutto per la propria inclinazione.

E poi, tra camelie, rododendri e cavalcavia, chi l’ha detto che restare in città non ci conduca comunque nella giungla?

(Daniela Amenta, La ladra di piante, Baldini & Castoldi, 2015, pp. 238, euro 16)

“La natura imperiale della Germania”
di Marc Bloch

«Molto più importante sarebbe cercare di analizzare l’influenza dell’idea imperiale sul movimento generale degli spiriti, in Germania, dopo il 1250, perché quell’idea in definitiva mai è stata dimenticata»; così scriveva lo storico francese Marc Bloch nel suo ciclo di lezioni L’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen, riproposto oggi da Castelvecchi sotto il più seducente titolo La natura imperiale della Germania. Era la fine degli anni Venti; Adolf Hitler avrebbe preso il potere nel 1933, ma l’ideatore degli Annales già prefigurava quei caratteri «fondamentalmente dominatori del patriottismo tedesco», che avrebbero sostanziato la formazione del Terzo Reich.

Per comprendere lo spirito di questo scritto occorre necessariamente partire dal contesto per il quale esso è stato preparato: completare la preparazione dei futuri docenti di lingua e cultura tedesca in Francia.

È pertanto un compendio, che avvia le mosse dalla suddivisione dell’Impero carolingio arrivando sino al 1250, e che presenta con un linguaggio cristallino – in cui l’uso dell’aneddotica è dato con equilibrata parsimonia – l’istituzione imperiale e tutti i suoi meccanismi di potere (avvento e ruolo dei principi elettori, titoli e prerogative regie) e analizza come l’impero venisse percepito dai contemporanei; ossia se esso si fosse dovuto preoccupare dell’unificazione del popolo tedesco o se invece avrebbe dovuto alimentare proprie ambizioni universali, e pertanto egemoniche. In tal senso Bloch tramuta lo scontro con l’altra istituzione universale – il papato, il cui potere è al contempo superiore e inferiore a quello imperiale – da sottofondo necessario di tutta la prima parte del testo, a oggetto di indagine specifica nelle ultime pagine.

E il rapporto fra Roma e la Germania è fatto di necessità reciproca e contrasti accesissimi. L’imperatore non può infatti dirsi tale se non riceve la consacrazione dalla più alta autorità spirituale e, per riceverla, non può che recarsi nella capitale dell’Impero romano, altrimenti come avrebbe potuto anche solo pensarsi erede dei cesari?

Del resto all’imperatore non molto altro pare interessasse, Roma è sì nominalmente una città imperiale – addirittura si potrebbe intendere che ne sia la principale – ma periferica rispetto agli interessi tedeschi del sovrano, e quando nel 1143 la popolazione si rivoltò contro il Papa tentando di ricostruire il Senato e ripristinando l’acronimo SPQR, Federico Barbarossa venne in aiuto del pontefice: era il simbolo dell’impero ad interessare, era la consacrazione papale, non le istituzioni dei cittadini. La ricerca di una superiorità riconosciuta globalmente restò per gli Hohenstaufen sempre un’illusione; e le nazioni d’Europa non riconobbero nella Germania la prima fra di loro: «gli altri popoli avevano – infatti – piena coscienza che l’Impero, a dispetto delle sue aspirazioni all’universalità, fosse una cosa tedesca».

 

(Marc Bloch, La natura imperiale della Germania, a cura di Grado Giovanni Merlo – Francesco Mores, Roma, Castelvecchi, 2015, pp. 112, euro 14,00)

Nomi degli oligarchi sulla cartina della patria

Comitato interbancario delle tecnologie informative
                                     Strettamente confidenziale
Progetto di correzione dell’immagine corporativa
degli oligarchi russi.

 

Ogni regno, suddiviso dall’interno, morirà. Numerose volte abbiamo potuto verificare la veridicità di queste parole bibliche. Ma la linea di questa disastrosa frammentazione non passa necessariamente per una cartina, può anche passare attraverso le menti e le anime. Ciò accade quando una parte del popolo si stacca da un’altra e nella società nasce un conflitto tra i diversi strati sociali.
E per questo il compito principale dei mezzi d’informazione di massa nazionali, nell’epoca della crisi, è contrastare la comparsa di discordie e dissapori. A questo proposito, suscita particolare ansia una questione continuamente gonfiata dalla stampa, oligarchia e oligarchi. Ci sembra che il tono e la generale strumentalizzazione dei materiali relativi a questo argomento difficilmente possano giovare a istituire una concordia sociale.
L’idea principale della maggior parte degli articoli è questa: l’oligarchia è profondamente in discordia con gli interessi nazionali e i valori della Russia ed è una sovrastruttura parassita, chiamata in causa da un regime corrotto, che a sua volta è formato dalla stessa sovrastruttura parassita che egli stesso ha creato. E oltre al fatto che il modo di porre questa domanda è assurdo secondo una logica elementare, essa appare eccezionalmente pericolosa e provocatoria. Noi cercheremo di spiegare perché.
La parola “oligarchia” ha origini greche e significa “governo dei pochi”. L’oligarchia, ossia il consiglio dei ricchi, durante il quale non viene convocato il consiglio popolare, è stata introdotta nei governi greci molteplici volte (ad Atene, per esempio, il governo dell’Areopago, il governo dei “trenta tiranni”, ecc.), e molteplici volte veniva sostituita dalla democrazia, ossia il governo dei cosiddetti “demagoghi”. Le fonti storiche mostrano chiaramente che la società si volgeva verso il modello oligarchico proprio nei difficili tempi di caos e di discordia, mentre era in grado di sostenere la democrazia soltanto in brevi periodi di relativo benessere. Ma la sconfitta dei demagoghi rimaneva sempre il loro dramma personale, mentre la sconfitta degli oligarchi era gravida di forti sconvolgimenti. Gli oligarchi cacciati da Corinto e da Atene erano legati da un giuramento che suonava così: «Prometto di essere nemico del popolo e di nuocergli finché ne avrò le forze» [traduzione di R.U. Vipper]. Poi gli esuli si dirigevano nelle comunità nemiche e le istigavano ad attaccare la propria città natale.
Ci rendiamo conto che ogni analogia storica è una cosa azzardata. Ma immaginiamo: cosa succederebbe se tutti gli oligarchi russi, portati all’esasperazione dalla persecuzione dei mass media, si raggruppassero in una villa presso il viale Rublevskoe e pronunciassero un simile giuramento? Considerando tutte le risorse da loro accumulate nelle banche occidentali, comprendiamo facilmente quanto possa essere efficace la loro propaganda dopo la loro partenza.
Per questo oggi l’unico slogan possibile per mezzi d’informazione di massa responsabili è: «Il popolo e l’oligarchia sono uniti». Inoltre non deve essere sbattuto demagogicamente e stupidamente in prima pagina, come è tipico della propaganda comunista, ma deve di soppiatto penetrare nella politica di diffusione delle informazioni a livello nazionale.
La campagna dell’immagine, volta alla correzione dell’aspetto corporativo degli oligarchi, si divide in alcune fasi. L’obiettivo primario sta nel dimostrare a livello emotivo e del subconscio che l’oligarchia non è affatto un qualcosa di estraneo per la Russia, e le ricchezze create da numerose generazioni di russi non sono finite tra le fredde mani di speculatori indifferenti.
Per questo esiste il progetto “Nomi degli oligarchi sulla cartina della Patria”. In esso sono stati utilizzati i nomi dei centri abitati che per omonimia coincidono con i cognomi degli oligarchi (Potanino, Jumashevo, Berezki, ecc.). Questo permetterebbe di creare nei riceventi (soprattutto nella nuova generazione) un’idea stabile del fatto che le radici dell’oligarchia hanno sempre sonnecchiato nel suolo russo, ma sono riuscite a dare un germoglio sicuro e grintoso soltanto nel momento in cui il paese è stato riscaldato dal sole della libertà.
E in questo caso non si solleva la questione di una concreta relazione tra un certo oligarca e un certo centro abitato. La spinta si dà sul significato e sul ruolo del centro abitato nella storia della Russia: se ci sono state delle battaglie, se vi si sono svolti importanti fatti storici, se viene ricordato nelle byline o negli annali.
La realizzazione pratica di questa parte del progetto è una serie di programmi televisivi che presenta agli spettatori gli obiettivi scelti nell’estrema periferia russa, con un ampio reclutamento di etnografi e complessi locali di musica popolare. Contemporaneamente, con una grande tiratura viene pubblicata una bella cartina plastificata della Russia Omonimica, abbellita dai ritratti degli oligarchi (“omonimico” nell’etimologia popolare deriva da “Omon”, e da qui l’aggettivo prende il significato di “sicuro, uno dei nostri”).
Questa viene appesa negli stessi posti molto frequentati dove una volta erano appese la mappe politiche dell’Urss (bisogna prestare un’attenzione particolare perché sia presente in tutte le aule della scuola media).
Nel passaggio successivo i mezzi d’informazione di massa pubblicizzano ampiamente le visite degli oligarchi nei centri abitati omonimici. A questo evento si dà un carattere di festa popolare tradizionale. L’arrivo dell’oligarca viene accompagnato da festeggiamenti, passeggiate sulle trojka, gare di pugni, spettacoli con gli orsi, bagni nei fiumi ghiacciati.
Contemporaneamente, i mezzi d’informazione di massa mettono l’accento sugli aiuti economici che gli oligarchi danno ai villaggi gemelli. Vogliamo far notare che oltre ai costi della messa in onda questo non richiede altri finanziamenti. Sarà sufficiente dotare i centri abitati omonimici di un certo status economico.
Città e villaggi omonimici si abbelliscono con i busti degli oligarchi. E non deve esserci sfarzo, questi busti devono essere estremamente discreti ed economici. Nel frattempo, attraverso i mass media, viene delicatamente proposta l’idea che per semplici questioni economiche, il potere degli oligarchi viene a costare meno al paese rispetto a una qualsiasi altra forma di apparato governativo.
Per illustrare quest’idea si utilizza la seguente tesi: sia i comunisti sia i democratici hanno dimostrato che l’unica cosa che sono realmente in grado di fare sono rumorose campagne di cambiamento di nomi delle città, delle strade e delle stazioni della metropolitana (cosa che l’oligarchia non richiede, nascendo organicamente dalla toponimia russa), e un montaggio/smontaggio ciclico di giganteschi e costosi monumenti, cosa che l’oligarchia evita.
Considerato il crescente interesse verso il paganesimo, è possibile la celebrazione di riti pagani segreti: i busti di bronzo degli oligarchi di notte vengono spalmati di sangue di bue e miele, di fronte a essi viene portato in sacrificio un gallo bianco e vengono bruciate le statuette di legno dei nemici. I mezzi d’informazione di massa parlano di questi avvenimenti come di casi curiosi, al limite della legalità. Queste notizie hanno lo scopo di offuscare l’idea sempre avallata che il governo degli oligarchi restituisca lo spirito popolare alla culla tradizionale dei valori eurasiatici (indoeuropei).
L’installazione dei busti viene accompagnata dall’apertura dei musei degli oligarchi-gemelli di un paese o di una cittadina; anche questi modesti, con un’esposizione basata su una collezione di foto standard e una serie di regali con l’autografo. È gradita la presenza di una foto del giovane oligarca in uniforme con un campo di grano sullo sfondo (le moderne tecnologie rendono semplice questo compito). Nei mezzi d’informazione locali viene ampiamente spiegato che la costruzione dei musei crea nuovi posti di lavoro in un paese colpito dalla crisi.
I migliori pittori devono partecipare a un concorso per la creazione di un monumentale dipinto-avvertimento: Il giuramento degli oligarchi, una copia del quale deve essere presente nei musei e nei circoli di paese.
Al compimento della prima fase della campagna, quando la concezione di una “patria minore” nella coscienza di massa dei russi viene strettamente legata alla figura dell’oligarca, comincia la seconda fase, con il nome provvisorio di “ricerca della classe media”.
Viene comunicato che tutti i grandi sociologi, che sono in grado di guardare avanti almeno un po’, attualmente sono impegnati nella questione della possibilità di creare una classe media in Russia, senza l’espropriazione della proprietà privata, che non avviene mai senza spargimento di sangue. Viene attivamente sviluppata l’idea che questo compito non è risolvibile combattendo l’oligarchia. Nelle animate discussioni in televisione, emerge gradualmente la deduzione che non c’è bisogno di combattere l’oligarchia, ma al contrario, proprio la completa e definitiva oligarchizzazione di tutte le sfere della vita della società aiuterà a risolvere questo problema.
Le vie per una soluzione sono queste. È noto dalla storia che gli oligarchi annoiati dall’ozio grasso, sono propensi a creare degli harem e la loro prole è particolarmente numerosa, e spesso conta diverse centinaia d’individui. Quindi a causa dell’eredità avviene una naturale frammentazione della proprietà.
Se nell’arco di due o tre generazioni questo comportamento sessuale degli oligarchi sarà reso obbligatorio da un imperativo giuridico (considerando l’impossibilità dell’inbreeding), nel paese comparirà in modo più naturale la classe media, che deve diventare la base di un’autentica stabilità sociale. I mezzi d’informazione di massa devono sottolineare costantemente gli sforzi che gli oligarchi fanno per la creazione di una classe media; indubbiamente i racconti schietti di questa loro attività alzeranno lo share dei canali principali.
Non c’è bisogno di inventare la ruota: le forme che deve prendere questo processo sono già state create dall’uomo (il diritto alla prima notte, la consegna di un determinato numero di odalische da ogni unità territoriale, ecc.). Nel caso in cui la prole degli oligarchi dovesse tentare di ricostruire la proprietà secondo il modello feudale, bisognerà troncarli legalmente; qui finalmente la Duma di Stato potrebbe esercitare un ruolo serio e costruttivo.
Ovviamente questo processo sarà aiutato da un nuovo modello ideologico, che prenderà la fiaccola dal monetarismo, che ha già fatto la propria parte storica. L’ideologia del periodo di transizione deve diventare la teoria del consumismo oligarchico, che bisogna ancora elaborare. È necessario che tutti abbiano compreso che la dialettica dello sviluppo della Russia e il compito strategico della creazione della classe media, richiedono ai cittadini di tirare ancor più la cinghia, senza fare caso alle volgari manifestazioni di eccesso altrui. In base alla prontezza con cui aderiscono a tutto ciò, si misura la maturità dei cittadini e il loro grado di comprensione dei processi che avvengono nella società.
Non sarà così semplice portare ai russi questa idea in forma completa, ma non c’è il minimo dubbio che i rappresentanti dell’intellighenzia scientifica e artistica: economisti, pubblicisti e sociologi, osservatori televisivi e registi, artisti di varietà e letterati, risolveranno di nuovo brillantemente il compito che l’epoca gli assegna.

 

Traduzione di Ivan Yevtushenko.

 

 

Viktor Olegovič Pelevin è nato in Unione Sovietica nel 1962. Ingegnere di formazione, negli anni ’90 diventa scrittore di culto nello spazio ex-sovietico e uno dei maggiori esponenti del postmodernismo russo nel resto del mondo. In Italia è noto sopratutto per i romanzi Generation P (2000) e Il mignolo di Buddha (2001), entrambi editi da Mondadori. 

“Non sapevamo giocare a niente”
di Emma Reyes

L’intensa ondata di calore di quest’estate ha fatto seccare tutte le piantine amorevolmente curate da mia madre nei vasconi del mio balcone. Inizialmente sconsolata, ho pensato a tutta quella buona frutta rinfrescante e dalla polpa zuccherosa, che tanto mi piace, che sarà rovinata dalla siccità.

Poi però mi sono ricordata di quella volta quando mio nonno intrattenne una conversazione  con un vecchio contadino, vicino della casetta che conservava ancora nel suo paesino natale, quando non arrivavo neppure ad aprire le maniglie delle porte.

Mio nonno quell’estate si rallegrava con l’uomo pensando al buon raccolto prodotto dalla primavera piovosa appena da poco trascorsa e dunque propizia alla crescita di piante forti e resistenti. Con nostra grande sorpresa, il saggio contadino affermò invece che con tutta quella pioggia le piante avevano messo solo radici superficiali per cui sarebbe bastato un breve temporale per distruggere tutto il raccolto. Se invece all’inizio le condizioni fossero state sfavorevoli, le piante per arrivare all’acqua e al nutrimento del sottosuolo avrebbero potuto mettere radici più profonde.

Mi è ritornato in mente questo episodio leggendo Non sapevamo giocare a niente, il memoir epistolare  della pittrice colombiana Emma Reyes (Edizioni SUR, 2015), in cui l’artista, fino ad ora per me sconosciuta, volge il suo sguardo a ritroso ricostruendo, in ventitre lettere (titolo originale Memoria por corrispondencia) all’amico Germán Arciniegas, giornalista, saggista, storico, politico e diplomatico colombiano, gli eventi che hanno scandito la sua triste e sfortunata infanzia.

La semplicità quasi infantile della sua scrittura, che richiama l’ingenuità del tratto dei suoi quadri di nature morte e gente comune, l’ho trovata intensamente e profondamente letteraria.

La corrispondenza inizia nell’aprile del 1969 per terminare quasi trent’anni dopo nel 1997. Senza risentimenti né rancori verso qualcuno, preoccupandosi solo di essere chiara nel suo stile giustificato da una alfabetizzazione tardiva, Emma racconta la sua infanzia a partire dal suo ricordo più remoto, quando viveva in una stanza senza né finestre né bagno nel quartiere San Cristóbal di Bogotà, nei primi anni Venti, insieme alla sorella più grande di un anno e mezzo Helena e a un altro ragazzino soprannominato Pidocchio, sotto la protezione della algida e imperturbabile signora María, che nessuno di loro osava chiamare mamma: «In quegli ambienti si nasce sapendo cosa sono fame, freddo e morte».

Emma non sa chi siano i suoi genitori né da dove provenga il suo cognome (una leggenda ipotizza sia nipote del presidente Rafael Reyes).

Un giorno nella loro casa di Bogotà arrivò «un signore molto alto e magro, che non era vestito come gli altri uomini del quartiere […] un politico famoso, forse sarà Presidente della Repubblica», che si portò via Eduardo, ossia Pidocchio: «Credo che fu in quel momento che tra me e Helena nacque una specie di patto segreto e profondo; il sentimento inconscio di essere sole e di appartenere l’una all’altra».

Successivamente, esasperata dalla misera esistenza a Bogotà, la signora María, grazie a una lettera di raccomandazione di Roberto B., uno degli uomini più ricchi di Boyacá, riesce ad ottenere un lavoro presso la bottega del cioccolato di Guateque: «se è vero che esistono dei fatti nella nostra infanzia che ci segnano per sempre, dovrò dire che quel famoso calesse, che pose fine alla nostra vita nella stanza del quartiere di San Cristóbal (protettore dei viaggiatori) rappresentò l’inizio di un’esistenza che avrebbe avuto come caratteristica e come scuola l’inclemenza dei duri sentieri d’America e più tardi i favolosi sentieri d’Europa».

A Guateque vi rimarrà, tra i maltrattamenti della signora María e l’affetto della domestica Betzabé, fino al grande incendio che devasterà la parte bassa del paesino in occasione della corrida e della visita del Governatore.

Emma tornerà per poco a Bogotà. Dopo un breve periodo a Fusagasugá, verrà definitivamente abbandonata insieme alla sorella e finirà nel convento di Santa Maria Ausiliatrice dove rimarrà quindici anni sino alla fuga.

La difficile integrazione con le altre compagne, tutte povere e abbandonate, i rapporti tesi con alcune monache arcigne e frustrate, il duro lavoro quotidiano (lavare ma soprattutto cucire), la costante paura del peccato e del diavolo inculcatele dall’ambiente claustrofobico del convento («Non ci era permesso chiedere spiegazioni su niente, qualunque cosa riguardasse il mondo era peccato, punto e basta.»), sono narrati con tale felicità e spontaneità di scrittura che persino Emma si stupisce delle sue capacità mnemoniche: «Ti sembrerà strano che io riesca a raccontarti nei dettagli e con tale precisione i fatti di un’epoca così lontana. Lo penso anche io, un bambino di cinque anni che abbia una vita normale non potrebbe ricostruire con tanta fedeltà la propria infanzia. Noi due, Helena e io, la ricordiamo come fosse ieri e il perché non te lo so spiegare. Non ci sfuggiva niente, i gesti, le parole, i rumori, i colori, per noi era già tutto chiaro».

Finito di leggere in un giorno, Non sapevamo giocare a niente mi ha rinfrescato e fatto estraniare per poco dalla calura estiva, ma non mi ha tanto rinfrescato la memoria su quale sia il ricordo più remoto della mia infanzia. Allora ho riflettuto sulla mia fragilità e ho pensato vuoi vedere che quel vecchio contadino alle pendici dell’Etna aveva ragione?

(Emma Reyes, Non sapevamo giocare a niente, trad. di Violetta Colonnelli, edizioni SUR, 2015, pp. 208, euro 15)

“Pixels” di Chris Columbus

L’idea di Pixels, il blockbuster estivo di casa Sony costato circa cento milioni di dollari, nasce da un cortometraggio (questo qui) del 2010 scritto  e diretto dal cineasta francese Patrick Jean. Il corto mostrava una Manhattan invasa dai personaggi dei videogame anni Ottanta che riducevano tutto a blocchetti di pixel 8 bit fino ad annullare il mondo. Era divertente, visivamente spettacolare e si reggeva su un’idea di sicura efficacia sul breve periodo (dura poco più di due minuti e mezzo). Per farlo diventare un film da cinema ci voleva qualcosa di più per sviluppare la trama. Alla Sony hanno pensato di chiamare Chris Columbus alla regia, che già con Mamma ho perso l’aereo e i primi Harry Potter aveva dimostrato di saper fare soldi oltreché cinema, e soprattutto di affidarsi ad Adam Sandler, discontinua macchina da incassi che alterna risultati incredibili (soprattutto negli Stati Uniti) a delusioni di una certa portata (economica).

Per allungare lo spunto del cortometraggio si è immaginato che nel 1982, dopo un campionato mondiale di videogiochi da sala, venisse mandata una sonda nello spazio contenente un video del torneo – tra le altre cose – per mostrare a eventuali forme di vita extraterrestri il grado di evoluzione del pianeta Terra, un po’ come è stato fatto nella realtà nel 1977 con il Voyager Golden Record, solo con Donkey Kong e Pac Man al posto di Bach e Chuck Berry. Trenta e più anni dopo, una base militare statunitense viene attaccata da qualcosa di molto simile a un videogioco anni Ottanta. Viene fuori che quel messaggio dell’82 ha raggiunto davvero degli alieni da qualche parte. Alieni che hanno interpretato i videogiochi come una minaccia, un’ostentazione di forza da parte dei terrestri e che hanno deciso di rispondere attaccando la Terra con le stesse armi: i protagonisti di quei videogame. Per combattere l’invasione aliena, il presidente degli Stati Uniti, che da ragazzino era presente a quel campionato mondiale come accompagnatore, decide di affidare la difesa del pianeta al suo migliore amico che nell’82 era lì a contendersi il titolo di campione e che oggi è finito a lavorare come installatore di elettrodomestici.

Il retrogaming va di moda come tutto quello che ha a che fare con operazioni nostalgia e cose simili. Ieri è sempre meglio di oggi che sarà comunque meglio di domani e via dicendo. Al cinema i videogiochi, oltre agli innumerevoli tentativi più o meno riusciti di trasportare singoli titoli sul grande schermo, hanno avuto un rilancio recente con il cartoon Ralph Spaccatutto della Disney, pieno di personaggi reali e inventati dei vecchi arcade. In attesa di Ready Player One diretto da Steven Spielberg (tratto dal romanzo Player One di Ernest Cline, pubblicato in Italia da Isbn), Pixels si prende l’incarico di cavalcare l’effetto nostalgia invadendo il mondo reale con i vari Donkey Kong, Super Mario, Centipede, Pac Man e via di seguito.

Nell’esagerazione della nostalgia immagina un improbabile riscossa per un gruppo di nerd che non sanno fare nient’altro che restare attaccati al mondo della loro infanzia e adolescenza, e per questo rimanere per sempre degli sfigati, anche se uno di loro è diventato presidente degli Stati Uniti.  Sembra quasi un mondo in cui i videogame sono scomparsi dalla cultura generale, anziché continuare a esistere nelle forme evolute, e in cui Adam Sandler e la sua squadra finiscono per essere improbabili sacerdoti di un culto ormai dimenticato ma necessario più che mai, più utili degli addestratissimi Navy Seals per combattere l’invasore. La premessa di partenza, che ci poteva stare come idea divertente e originale, si disperde quindi nella pretesa di un mondo che non esiste. Per quanto sia difficile crederlo, oggi esiste la figura del videogiocatore professionista che guadagna anche bene partecipando a competizioni reali.

Non è solo lo spirito di Pixels a essere sbagliato, questo voler far finta che solo pochi al mondo conoscano i segreti di Pac Man eccetera e che siano relegati al rango di relitti umani perché i videogiochi sono da sfigati. È anche e soprattutto l’impostazione generale, virata verso una demenzialità che vorrebbe strizzare l’occhio, mancando però di intelligenza e cinismo, ai Ghostbuster (c’è anche un cameo di Dan Ackroyd) e che proietta già una luce inquietante sul prossimo reboot tutto al femminile (perché?) che la Sony ha messo in cantiere per l’estate 2016.

Se la partenza di Pixels si fa apprezzare, con gli scambi tra i protagonisti (oltre a Adam Sandler c’è Kevin James a fare il presidente, Michelle Monaghan nel ruolo della mamma abbandonata e sexy che ovviamente ha un ruolo chiave anche nella battaglia contro gli alieni e finisce con il protagonista, e Peter Dinklage di Il trono di spade, che continua a cercare di ritagliarsi il suo spazio di cinema ora che è diventato un nome) che preparano ai primi attacchi degli alieni, col passare dei minuti (troppi) i dialoghi si fanno sempre più banali, così come lo sviluppo della trama e tutto quanto quello dovrebbe far ridere o entusiasmare il pubblico, e alla fine non rimane nient’altro che un prodotto vuoto.

Negli Stati Uniti si dice già che questo film è il chiodo definitivo sulla bara cinematografica di Adam Sandler. Di brutti film ne ha interpretati tanti, ma comunque è un peccato, perché in alcuni momenti, soprattutto con Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson, aveva fatto vedere di essere capace di qualcosa di buono. Forse dovrebbe lasciar perdere il miraggio degli incassi (qui è anche produttore) e concentrarsi sul suo lavoro di attore.

(Pixels, di Chris Columbus, 2015, commedia, 110’)

“Ant-Man” di Peyton Reed

Era lecito aspettarsi una catastrofe da Ant-Man, nuovo film di casa Marvel che lancia l’ennesimo supereroe nel cosiddetto Marvel Cinematic Universe e arriva a concludere l’altrettanto cosiddetta Fase 2 dei cinecomic in attesa di Captain America: Civil War che introdurrà la Fase 3, quella della discordia.

Una catastrofe, si diceva, perché Ant-Man non rientrava nei progetti di Kevin Feige, il presidente della Marvel che tutto decide e tutto coordina. Non c’era spazio, per l’uomo formica, nel suo mondo cinematografico. A convincerlo, si dice ormai quasi dieci anni fa, sono stati i registi e sceneggiatori di culto Edgar Wright e Joe Cornish (il primo ha scritto e diretto film come L’alba dei morti dementi Scott Pilgrim vs. The World, il secondo Attack the Block) che avevano un’idea precisa e forte per il loro debutto nel mondo dei cinefumetti. Sulla carta, le premesse erano le stesse, o comunque molto simili, di Guardiani della galassia, affidato a un regista, James Gunn, con una personalità cinematografica piuttosto marcata che ha contribuito a fare di Starlord e soci i protagonisti di uno dei migliori film Marvel di sempre. Solo che tra la coppia Wright-Cornish e Feige non tutto è andato per il meglio, e a soli quaranta giorni dall’inizio delle riprese Wright si è chiamato fuori abbandonando la regia del progetto che proprio lui aveva insistito per far nascere.

Impensabile lasciar naufragare Ant-Man, dopo gli annunci e l’attesa e la costruzione di uno spazio in cui infilarlo nell’universo Marvel. Si è pensato, quindi, di rilavorare rapidamente il copione, affidandolo a Adam McKay, che ha scritto, diretto o prodotto gran parte delle commedie demenziali degli ultimi anni (i due Anchor Man ma anche il recentissimo Duri si diventa), e al protagonista Paul Rudd. Alla direzione è stato chiamato un regista più docile come Peyton Reed, che non dirigeva qualcosa per il cinema dal 2008 (Yes Man, con Jim Carrey) e nel frattempo ha fatto tanta televisione. Le premesse, adesso, sembravano portare piuttosto verso un progetto stiracchiato a forza, voluto far arrivare in sala solo per tenere il punto, invece Ant-Man è una sorpresa per come riesce a coniugare il mondo Marvel con il carattere della commedia – un po’ come era già successo con Guardiani della galassia – dimostrandosi in grado, per di più, di proporre dei discorsi ulteriori sulle dinamiche padri-figli.

La trama unisce in un unico filone narrativo due Ant-Man della tradizione fumettistica (sono tre in tutto). Da una parte c’è Henry Pim (niente meno che Michael Douglas, che si diverte sempre di più dopo la malattia), inventore per la Stark Industries uscito dalla società negli anni Ottanta per il disaccordo sull’utilizzo della tecnologia riduttiva da lui inventata che permette a un uomo di ridursi alle dimensioni di una formica. Proprio la sua scoperta gli aveva permesso di diventare uno dei più preziosi agenti segreti negli anni Sessanta, capace di infiltrarsi ovunque. Quando aveva abbandonato la Stark si era portato via il segreto delle sue scoperte. Adesso, Darren Cross, quello che un tempo era stato il suo allievo, sembra essere arrivato a poter sviluppare la stessa tecnologia e non si fa problemi a venderla al miglior offerente. Per evitare che il potere di Ant-Man finisca nella mani sbagliate, Pim contatta Scott Lang (Paul Rudd, visto in tantissime commedie e lontano dall’immagine abituale del supereroe, e questa è un’altra forza del film), un ladro con un master in ingegneria informatica appena uscito dal carcere che sta facendo di tutto per riconquistare la fiducia di sua figlia.

Questa insistenza sul legame tra Lang e la figlia, una bambina di quattro anni cresciuta dalla madre con un altro uomo, che per di più è un poliziotto, quindi antitesi di Lang, che si lega poi al rapporto complesso che Pim ha con la figlia adulta che mai gli ha perdonato la scomparsa della madre (se sia colpa di Pim o meno lo scopriremo solo vedendo), riconduce Ant-Man a una dimensione nettamente più umana rispetto alla tradizione recente Marvel. A parte i momenti in cui Lang è Ant-Man, con il costume e le dimensioni ridotte, il film di Reed è molto più vicino a una normalità possibile fatta di brutti appartamenti e lavori in fast food che al titanismo degli altri eroi Marvel. Del resto, per lui gli Avengers sono dei miti distanti, da chiamare per risolvere il problema di Cross. Sono loro, i supereroi, lui è solo un ladro che si arrangia. Sicuramente, il doppio trattamento Wright-Cornish e McKay-Rudd ha contribuito a fare di Ant-Man un tipo molto più normale rispetto a quanto visto finora nei film Marvel. Proprio per questo, tutto il film risulta più normale e accessibile, lontano dalla ormai dominante tendenza alla magniloquenza ed esagerazione dei vari film dei singoli Avengers. Anche il minutaggio è normale, il che è solo un bene per la trama che non si sfilaccia né disperde.

Certo, c’è da superare un pre-finale che ricorda quasi Interstellar, con Lang che orbita nel mondo sub-atomico e trova la via di fuga grazie alla forza dell’amore (con annesso precedente spiegone sulla fisica dei quanti), e tutto sommato i conflitti tra i padri e le figlie sono poco più che pretesti per fare presa emotiva sul pubblico, ma Ant-Man va più che bene così com’è, con questa sua anima di commedia che non si prende sul serio e infila anche momenti di vera e propria comicità.

Per assurdo, tutto il film avrebbe potuto funzionare meglio se isolato dal resto del Marvel Cinematic Universe, perché sono proprio i riferimenti al resto del mondo dei supereroi a filare meno del resto, a risultare infilati a forza per trovare uno spazio ad Ant-Man all’interno del gruppo. Questo, in generale, è il limite maggiore che la Marvel sta correndo negli ultimi anni. Perché la costruzione a tutti i costi di questo universo coerente e unico si riflette ogni volta sui singoli copioni che vengono indeboliti della loro specificità per essere collocati nel progetto più grande. È la schiavitù del sequel portata alle estreme conseguenze del franchising applicato al cinema.

(Ant-Man, di Peyton Reed, 2015, commedia/azione, 128’)

“Minions”
di Pierre Coffin e Kyle Balda

È un’operazione molto simile ai Pinguini di Madagascar quella con cui la Illumination Entertainment ha portato sul grande schermo i Minions, comprimari nei due film della serie Cattivissimo me (il terzo è in arrivo nel 2017) come assistenti del cattivissimo, appunto, Gru. Come era successo per i pinguini nei film Dreamworks di Madagascar, i pupazzetti gialli con uno o due occhi si prendevano la maggior parte delle risate nel ruolo di spalla e quindi è arrivata l’idea di fare un film che li vedesse protagonisti assoluti. Il risultato, probabilmente, è andato oltre ogni più ottimistica aspettativa degli studi Universal, perché Minions, in sole due settimane nelle sale di mezzo mondo (nell’altra metà deve ancora uscire, in Italia arriverà il 27 agosto), ha già incassato più di seicento milioni di dollari, infilando un sorprendente week-end d’esordio  sopra i cento milioni al botteghino Usa che supera di netto i due film di Cattivissimo me.

Non era un risultato semplice, come del resto non era semplice riuscire a immaginare un intero film dedicato ai pupazzetti gialli. Non era detto che fossero in grado di reggere una trama tutta per loro. C’è un primo problema, di natura tecnica diciamo così: i Minion non parlano una lingua comprensibile. Si esprimono in un grammelot che fonde lingue di tutto il mondo e di cui solo a tratti si distinguono i contorni. Farci un film intero poteva essere un azzardo.

Minions inizia ricostruendo l’evoluzione genetica dei pupazzetti, votati per indole a servire il più cattivo tra i cattivi, il predatore più grosso, l’animale più feroce. Questo finché sulla Terra non è comparso l’uomo, con cui è nato un rapporto immediato di fedeltà, votata al male, ovviamente. I Minion hanno servito i faraoni, Dracula, Napoleone. Solo che la loro goffaggine è sempre costata cara ai loro capi, fino al giorno in cui i Minion decidono di isolarsi in una grotta sperduta tra i ghiacci e sviluppare la loro società senza più essere servitori di nessuno. Reggono qualche secolo, il tempo di capire che senza un cattivissimo si annoiano. Un giorno l’eroico Kevin decide di uscire dalla grotta e partire alla ricerca di un nuovo boss per la sua gente. Lo seguono nel suo viaggio il suonatore di ukulele Stuart e il piccolo Bob. Arriveranno nella New York del 1968 e in Inghilterra per trovare un nuovo capo per tutti i loro amici.

La prima mossa per riuscire a fare un film di Minions è stata quella di prendere tre di loro e isolarli dal contesto della massa gialla. Kevin, Stuart e Bob hanno caratteri e caratteristiche differenti. Sono gli unici di cui si conosce il nome e quel minimo di storia personale per farli diventare personaggi (a parte Norbert, ma, citiamo, «Norbert è uno sciocco»). Dopo di che ci è voluta la dimensione avventurosa per staccarli definitivamente dal gruppo e proiettarli in un mondo più accessibile fatto di umani e dialoghi comprensibili. La maggior parte della comicità di Minions arriva proprio dal contrasto tra la lingua impossibile dei pupazzetti e la lingua degli uomini (una scena su tutte, quella dell’incoronazione). Il resto lo fa la tenera goffaggine di Kevin, Stuart e, soprattutto, Bob, fermo a una dimensione infantile che lo tiene legato sempre al suo orsacchiotto e che lo porta a fare amicizia con ogni animale possibile.

La ricerca del cattivissimo, alla fine, serve poco più che come pretesto per confezionare una serie di situazioni e di gag in cui far scatenare i tre amici. È un tipo di animazione molto diversa dalla complessità della Disney e della Pixar, di Big Hero 6 Inside Out per dire gli ultimi lavori. Non mira a comunicare valori, a fare riflettere. Non è cinema per adulti mascherato da film per bambini. È pura e semplice animazione di intrattenimento, pensata per far ridere i più piccoli ma capace di strappare qualche risata anche ai genitori. Certo, manca un po’ di raffinatezza, ci sono parecchi stereotipi un po’ triti, soprattutto nella descrizione degli inglesi, ancora con il tè sempre in mano e affettati all’inverosimile, ma basta per quello che i Minions devono fare: divertire.

Nella versione originale sono stati chiamati come doppiatori attori del calibro di Sandra Bullock, Geoffrey Rush e Jon Hamme. In Italia, per qualche motivo insensato, si continua a puntare su personaggi televisivi senza alcun esperienza e quindi ci dobbiamo accontentare di Fabio Fazio, Luciana Litizzetto, Alberto Angela e persino Selvaggia Lucarelli.

(Minions, di Pierre Coffin e Kyle Balda, 2015, animazione, 90’)

“Il genio dell’abbandono”
di Wanda Marasco

L’arte autentica nasce da una necessità e lascia sempre una traccia. Cresce nel disordine e nell’imperfezione della vita e allude a un’altra vita, più perfetta e più armoniosa.

Vincenzo Gemito, disegnatore e soprattutto scultore eccelso, «meschino per nascita, magnifico per natura», ebbe un’esistenza da cui non poteva che scaturire una biografia romanzata (più romanzo che biografia) altrettanto magnifica, Il genio dell’abbandono di Wanda Marasco (Neri Pozza, 2015).

L’autrice restituisce al lettore il segreto della grande narrativa: l’ambivalenza, un chiaroscuro umano che non diventa mai giudizio, zigzagando nel tempo, ampliando il quadro, colorandolo fino a un’altissima definizione.

Il romanzo inizia con la fuga di Vincenzo dal manicomio Villa Fleurent a Capodimonte per tornare a casa e autorinchiudersi per venti anni. Nel mezzo ne viene narrata la storia da una voce straniante che usa un italiano musicato dal dialetto napoletano, di grande vivezza e drammaticità anche se di livello leggermente inferiore a quello, da flusso di coscienza sgrammaticato, che troviamo negli inserti diaristici di Gemito.

Vincenzo nasce reietto. Abbandonato alla ruota dell’Annunziata detta degli Esposti, viene adottato da una coppia di umili origini che ha da poco perso il primogenito.

Questa fatalità la Marasco la trasforma in una sorta di privilegio, da rigettato a gemius loci: «Vincie’, e chi se ne fotte del sangue delle origini? Cazzate. E vedi il caso tuo. Non hai avuto padre e madre naturali, ma una forza del fato. Per te c’è stato un genio, il genio dell’abbandono, Vincie’. Perché se non ti abbandonavano tu non saresti mai diventato Gemito, il grande scultore Vincenzo Gemito!».

Il destino individuale è unico è può coincidere anche con un errore: un «”Gemito”», che «vuol dire dolore», al posto di «”Genito”, che significa nato, procreato». Tanto basta per modificare il futuro e realizzare la propria eccezionalità. È un impegnativo percorso conoscitivo che implica il capire l’intima necessità di tutto ciò che accade, delle connessioni e relazioni fra cose e persone. Non significa arrendersi passivamente alla sorte, ma cercare di governarla affinché sprigioni le sue potenzialità positive.

Infatti a volte non basta il talento. La vita finisce sempre per avere il sopravvento e gli artisti geniali, in particolare, finiscono per trovarsi più degli altri davanti al sentimento della vanità, della solitudine e del fallimento.

Ma se c’è una cosa che può dare significato alla vita umana, quella è la passione. Di qualsiasi natura essa sia.

E Vincenzo la sua passione la rincorre sin da scugnizzo per i vicoli e le strade di Napoli insieme all’amico, anche lui «pittore nato», Totonno (Antonio) Mancini, affascinato dalle botteghe della scuola caravaggesca.

Napoli, dunque, con i suoi scorci e vedute di strade, vicoli, case, cortili, persone e luce, diventa lo sfondo di questo delirio, di questa passione.

È alle botteghe, prima di Francesco Caggiano, poi di Stanislao Lista, che Gemito sviluppa la sua effervescente vena creativa e capisce che la sua personalità è duplice.

Ma è «sotto le volte di Sant’Andrea» che Vincenzo, libero da Maestri e accademie, «diventò Gemito» e Totonno «diventò l’artista “Mancini”». È qui in «un cavernone spoglio, nel quale la luce arrivava attraverso una piccola ogiva incastrata al centro del soffitto», che nascono i primi capolavori frutto di personale fantasia.

Arrivano così i primi riconoscimenti, le prime sculture famose (l’Acquaiolo, il busto di Giuseppe Verdi); la relazione con la modella francese Mathilde Duffaud; il soggiorno a Parigi dove, oltre a confrontarsi con il miglior melieu artistico del periodo (De Nittis, Boldini, Degas, Rodin, etc.), contrae la sifilide, la «franzesa».

Con il ritorno a Napoli e il matrimonio con Nannina (Anna) iniziano a manifestarsi i primi sintomi della sua schizofrenia. Genio e follia. Ancora un binomio indissolubile.

Vincenzo comincia a diventare insofferente a se stesso e al mondo che non gli tributa il giusto riconoscimento, non solo in termini di gloria, ma anche più prosaicamente di denaro.

Compie per questo gesti assurdi e moralmente sbagliati, come sbattere al muro la figlioletta Peppinella solo perché, appena nata, piangeva, o tentare di accoltellare quello che credeva essere l’amante della moglie.

Gli amici di Gemito, tra cui riconosciamo Eduardo Scarfoglio, Matilde Serao, Alessandro Di Giacomo, decidono così di internarlo in manicomio. Lì vi rimarrà fino alla fuga. Seguiranno venti anni di reclusione per autopunizione nel suo studio di casa, di solitudine e duro lavoro, tranne le occasionali visite del «divino» D’Annunzio e della duchessa Elena e del duca Emanuele Filiberto.

A questo punto passato e presente hanno la stessa consistenza e appartengono a uno stesso universo interiore.

Vincenzo Gemito seppe ricavare dal magma della propria nevrosi un intero mondo di scintillanti creazioni artistiche, plasmando la vile materia quotidiana nell’oro della sua scultura e seguendo, secondo il detto di Rembrandt, come solo maestro, la Natura.

(Wanda Marasco, Il genio dell’abbandono, Neri Pozza, 2015, pp. 352, euro 17)

“La scrittura e la malattia”
di Carlo Di Lieto

Carlo Di Lieto attraversa le opere – ma si potrebbe dire la stessa esperienza umana – di alcuni nomi fondamentali della letteratura italiana del secolo scorso segnati dalla malattia. Saba, Svevo, Campana, Berto; Moravia, Buzzati, Pirandello (al quale aveva dedicato già un libro, Pirandello pittore, che metteva in luce l’importanza non meramente hobbistica del dipingere nel grande drammaturgo). I nomi di cui sopra, assieme ad altri ad avviso di chi scrive decisamente sopravvalutati (uno per tutti: Alda Merini), hanno in comune un rapporto più o meno straziante, ma di sicuro fecondo sul piano letterario, con la malattia: questa grande rimossa del discorso odierno, che si tratti di studi letterari o della pubblicistica generalista. Vero che spesso – e basterebbe pensare a certi monumenti inaggirabili quali Proust, Mann, Kafka – il tema si è inevitabilmente intrecciato-confuso-immedesimato col grande topos della décadence, esaurito il quale è venuto meno anche l’interesse per la faccenda dura e cruda della malattia.

Vero che li discorso sulla psicoanalisi (che bordeggia quello in esame molto da presso, com’è ovvio) oggi gode di una fortuna molto minore rispetto ai decenni scorsi; e ancor più vero che l’utilizzo ormai pressoché da banco di quei medicinali per la stabilizzazione dell’umore che sembravano ancora fantascienza nei romanzi di Philip Dick, rischiano di trasformare con disinvoltura la vita umana sulla terra e di conseguenza la letteratura che la racconta. Ma «il male oscuro» della letteratura resta non solo una via tematica forte per definire un capitolo ricchissimo per un eventuale canone italiano del Novecento, ma anche volendo esser pessimisti (ossia buttando la vecchia e fuorviante etichetta di pessimisti a diversi dei nostri grandi) e prefigurando un benessere a bassa intensità fatto di xanax e prozac, resterebbe quanto meno una traccia mnestica per ricordare chi siamo davvero, da dove veniamo ed eventualmente cosa abbiamo deciso di lasciarci alle spalle. Scrittori diversi il cui disagio di stare al mondo ha conosciuto differenti matrici: straniamento e proliferazione di personalità in Pirandello, la cui esperienza biografica benché drammatica ne avrebbe stimolato anche la fortuna artistica: una moglie impazzita da osservare quotidianamente, fino a umana tollerabile sopportazione. La psicoanalisi irrisa ma tutt’altro che trascurata dallo Zeno sveviano, personaggio fra i più moderni ed esemplari di una storia letteraria grandiosa che lo avvicina ai maestri nevrotici della letteratura mondiale coeva e non. Un uomo – una scrittura – in cui il confine fra menzogna, invenzione e maniacale registrazione del dettaglio interiore vanno di pari passo. Lì è evidente il dilemma, che sarà anche di figure apparentemente più sobrie, da Montale al sedicente illuminista Thomas Mann, della difficoltà di rinunciare alla malattia, revocabile nella più creativa formula del «guarire dalla salute»: perché nella malattia si nasconde anche la sorgente di possibilità conoscitive inaudite. Ci sono casi più duri, la pazzia di Dino Campana per esempio. Il rischio di gigioneggiare borghesemente con il male di vivere (come rischia di fare – e lo sa benissimo – l’antieroe sveviano) qui lascia spazio al manicomio, quello vero. Quello che lo psichiatra Mario Tobino osserva da medico sì ma molto empatico, al punto di rileggere la grande irrisolta questione della salute-malattia da prospettive nuove. L’io diviso, che recide con un taglio acuminato e terribile la psiche di Giuseppe Berto – un uomo che era stato fra le altre cose convinto soldato fascista – è del resto locuzione (ci si perdoni) felice della cosiddetta controcultura dei Sessanta e Settanta (si pensi a Laing). La scrittura come un male inevitabile che allontana dal mondo figure che lo abitano già con difficolta, ma scrittura come terapia anche. Gli intrecci del male sono ricchi, come l’interminabile analisi di un poeta tanto complesso interiormente quanto apparentemente agevole sulla pagina: il grande Saba. Né scherza la malinconia di Gozzano, o l’irriducibile – e pagata a caro prezzo – alterità di Sandro Penna. Troppo da dire sul tema, difatti non pochi scrittori restano fuori dall’analisi di Di Lieto (nome paradossale quello dell’autore, ce lo consentirà…) ma il suo resta un volume ricco, che accanto ai nomi citati rivede i casi di Bonaviri, Buzzati, Morante e Moravia.

(Carlo Di Lieto, La scrittura e la malattia. Il “male oscuro” della letteratura, Marsilio, 2015, pp. 480, euro 35)

Se l’ultimo uomo sulla terra è uno scrittore

La fine del mondo di Guido Morselli è solo una trovata narrativa, volutamente trita, e per questo attraversata con noncuranza (provocatoria) verso la possibilità della descrizione limpida, lineare e allucinata di una situazione irreale ma presente, viva; un paradosso senza psicologismi che solo l’universo delle possibilità può offrire. Una realtà pura e semplice, affermata e dunque tale.

Dissipatio H.G. è l’ultimo romanzo scritto da Morselli e pubblicato, come tutta la sua opera, postumo. Ne trovo uno in una libreria di Piazza Mazzini (Roma), una vecchia terza edizione del 1979 e mi metto a leggerla incuriosito; passano alcuni giorni e davanti i miei occhi di lettore si consuma la trama più banale del mondo, un uomo, uno scrittore, una sera decide di farla finita, si reca in una cava lontano da tutto e da tutti e prova ad affogarsi ma all’ultimo momento un pensiero banale, una speculazione sulla qualità del brandy francese, gli rovina i piani, torna mezzo stordito e barcollante a casa, fa l’amore con l’idea di spararsi un colpo e alla fine si addormenta. L’indomani, è l’ultimo uomo rimasto sulla terra, semplicemente. Alcuni segnali stabiliscono la scomparsa (dissipatio) del genere umano (humani generis), in giro sono rimasti solo gli animali, il loro mondo parallelo non sembra essere sconvolto più di tanto, mentre degli uomini non rimangono nemmeno i corpi, si sono volatilizzati, appunto, dissipati nel nulla.

Il protagonista comincia così una ponderosa e solipsistica ricerca, in realtà poco convinta, dei suoi simili, imbattendosi solo in voci registrate e presenze mute. Lungo tutto il corso del libro non si capaciterà mai pienamente della sua nuova condizione, quella del superstite in bilico fra essere ora l’Umanità con la maiuscola, ma anche l’ex-uomo, esemplare di una razza senza più alcun significato.

Ma il Morselli-voce-narrante del suo ultimo scherzo con la morte non è solo un uomo, è anche, e disperatamente, uno scrittore, che ogni tanto prova goffamente a mettersi sulla macchina da scrivere, ma che in realtà non sa risolvere gli estremi di un mestiere che, come tutta la sua vita, si è fatto paradossale, senza possibilità concreta di giungere a un destinatario. Verso la fine della sua ultima avventura il protagonista formulerà una domanda senza punto interrogativo: «Io, naufrago dei naufraghi. In quale bottiglia-a-mare infilerò i miei dattiloscritti, a quali onde li affiderò. Non mi sono posto la domanda».

La domanda non posta che il protagonista-autore fa letteralmente cadere nel suo dialogo interiore apre uno scenario che somiglia molto allo strappo nel cielo di carta, allo smascheramento della finzione come nuova finzione, a quella vena di psicologismo labirintico che caratterizza le narrazioni più interessanti del benedettissimo tempo fra modernismo e post-moderno, forse solo l’ultimo movimento di un romanticismo duro a morire. L’autore-personaggio non viene a capo di un possibile pubblico, scomparso (seppure esistente), anzi dissipato, insieme al resto del genere umano e dunque indefettibilmente perduto.

Ci sono alcune parole con cui il protagonista prova sfacciatamente a definire la sua ultima avventura. Questa volta siamo all’inizio del libro, il ragionamento è contemporaneamente sulla realtà della trama (sul vero che ogni autore ci chiede tacitamente di accettare definendo il suo libro romanzo) e sulla storia in quanto fatto tecnico, l’ultima trovata di una fantasia creatrice in dialogo, come in un’intervista: «Quanto alla precisione contabile, devo dire che la mia vita psichica è povera. Anche nel senso della semplicità, della elementarità. Si presta alla ragioneria: le frustrazioni inconsce e i pathos viscerali, i mali oscuri che connoterebbero l’uomo moderno, io, devo confessarlo, non me li trovo. Un mio collega mi accusò di “critica riduttiva”. Andavo ripetendo (“toutes choses sont déjà dites, mais comme personne n’écoute il faut toujours recommencer”) che il monologo interiore, tipo esemplare della letteratura d’oggi, nel quale si esaltano i patemi viscerali, fra ispezioni capillari dell’io e pseudoscontri col non-io, conferma che siamo fermi allo psicologismo del subsentire e del subpensare, che era già artificioso (e noioso) un secolo fa».

Di qui in avanti i luoghi come questo saranno molti, l’autore-protagonista non smetterà più di interrogarsi su l’Evento, cioè la scomparsa del genere umano, avvenuta tra l’altro la notte del 2 giugno, il giorno del suo compleanno, la celebrazione della sua nascita; ebbene non smetterà di pensare all’evento come ciò che contemporaneamente si propone alla fantasia dell’autore e alla desolata realtà del protagonista, finché le due cose non si sovrappongono drammaticamente: «Ricordo numerose persone della mia stessa categoria (genìa) professionale, che in questa mia presente situazione, se fossero stati in grado d’inventarla, avrebbero detto: non si può supporre se non in chiave di paradosso farsesco. In vista di conclusioni socio-satireggianti. Ma è un tale tipo di supposto che sarebbe, non paradossale: idiota».

Morselli si costringe a essere un autore postumo, per consumare il suo stesso tempo presente. Se infatti dietro il personaggio e dietro l’autore non ci fosse null’altro che un inventore arguto ed elegantemente atteggiato, la cosa potrebbe archiviarsi sotto la categoria a volte sospetta dell’intelligenza creativa (un esempio più che recente? Il mondo a venire di Ben Lerner), ma il fatto davvero shockante è che dietro all’autore-personaggio non c’è altro che Guido Morselli, e il suo assurdo spasimo di verità, confermato come tutti sanno il 31 luglio 1973.

Alcune conclusioni provvisorie per non concludere sul più ingiusto e distraente elemento biografico. Quello che rimane provando a ignorare ogni elemento della vita e della morte di Morselli è un libro governato e quasi ossessionato dalle forti geometrie interne, dalle corrispondenze metaforiche (gli animali per esempio, invadenti continuatori della vita) e dallo schietto solipsismo di un testimone fededegno della solitudine, una solitudine che è anche negazione dell’altrui compagnia, esclusione infinita, temperata dal gusto un poco esaltato dell’auto-esclusione; rimane l’esperienza paradossale di un anti-Adamo intellettuale in dialogo con alcuni alter-ego edificanti e inquietanti, come lo psicanalista Karpinsky con cui il protagonista, turbato da allucinazioni sempre più frequenti, rimanda un incontro impossibile nella sognante città di Crisopoli, la città dell’oro, ma forse sarebbe meglio tradurre la città del denaro, dato che l’ultima casa elettiva del narratore è proprio la Borsa Valori: lo scenario, si dice da qualche parte, in cui verranno combattute le guerre future.

“Il richiamo del corno”
di Sarban

John William Wall merita di entrare in un ideale regesto della letteratura distopica. Il richiamo del corno (scritto nel 1952) è un romanzo di grande presa, una storia che riesce benissimo nell’impresa di sospendere l’incredulità e catturare il lettore in una discesa agli inferi dell’umana possibile ferocia – quella tipica della specie che sfonda il necessario biologico per finire nel gratuito dell’immaginazione. Nera, va da sé, criminale, ma estetizzante. Perché gli aguzzini che dominano il mondo inventato dallo scrittore (sognato dal narratore) tanto più godono del male che fanno quanto più esso è paradossalmente inscritto in una speciale declinazione della grazia: quel miracolo costruito dalla bellezza in movimento, privato però dell’etica schilleriana della libertà. Il narratore, l’ex tenente Alan Querdilion, prigioniero inglese dei nazisti, tentando la fuga finisce fulminato dai raggi Bohlen. Non muore ma si ritrova proiettato cento anni più avanti. Il nazismo trionfa, e il conte che comanda il territorio in cui si  ritrova il nostro, trascorre il suo tempo riesumando riti antichi come quello della caccia in una versione che – il lettore può immaginare – annovera fra le sue vittime magnifiche femmine: di umani. Schiave, ovvio, e non ariane. Bellissime, conciate però come felini, o uccelli, lasciando la più parte dei corpi nuda, esaltano la loro bellezza addestrata nella corsa, nei tentativi di fuga – programmati dall’alto per raggiungere vertici abissali di eccitazione. Crudeltà e sadismo estetizzati secondo quella logica nazista che lo scrittore, il diplomatico John William Wall che preferirà il nom de plume Sarban, aveva ben intuito. E di cui, si insinua da più parti, subiva il fascino.

Burocrate al servizio della corona inglese, in giro per il mondo per decenni, soprattutto fra Mediterraneo e Medio Oriente, in realtà Sarban ha una vocazione nascosta, un’attrazione micidiale per le favole e l’Oriente, ma sospettiamo anche per Allan Poe e il mistero in generale – fors’anche per quel romanzo gotico che non casualmente era nato dalle sue parti. E fu Kingsley Amis, il padre di uno dei più grandi scrittori viventi (Martin, certo), a riconoscere la bontà di quel libro. Che l’editore Adelphi ha inviato in libreria poche settimane dopo un altro romanzo distopico, Epepe, dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy, grande viaggiatore, traduttore di Moliere e Machiavelli, figlio del più noto Frigyes tessitore, Ferenc, di un altro inferno, a metà fra una rilettura di Kafka e una prefigurazione di certo Saramago, ma riuscito solo in parte. Epepe, dopo un ottimo avvio rischia la ripetitività di un girare a vuoto insensato costruito con eccessiva fiducia sull’analogia con la storia del suo protagonista, laddove Sarban da subito cattura l’attenzione del lettore con una verticalità del personaggio centrale, incredulo, angosciato dal disorientamento come si vuole in un racconto distopico che si rispetti, ma artefice di un’avventura potente in cui non si rigioca soltanto l’eterno conflitto fra il bene e il male, fra il cacciatore e la preda, ma i due termini adombrano più inquietanti implicazioni morali.

(Sarban, Il richiamo del corno, a cura di Roberto Colajanni, con una nota di Matteo Codignola, Adelphi, 2015, pp. 191, euro 18)