“Babadook” di Jennifer Kent

È una bella sorpresa Babadook, esordio al cinema della australiana Jennifer Kent, attrice e regista per la televisione. Sorpresa fino a un cero punto, poi, perché Babadook è già passato lo scorso anno al Sundance Film Festival colpendo molto i critici statunitensi e in patria  si è aggiudicato tre AACTA (equivalenti più o meno agli Oscar) di una certa importanza: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. In Italia era già passato per il sempre attento Torino Film Festival. La distribuzione italiana ha deciso di relegarlo all’estate, confondendolo con i tanti horror che infestano le sale negli scampoli della stagione cinematografica, ma Babadook ha molto di più da dire rispetto a un normale film dell’orrore.

Amelia vive con il figlio di sette anni Samuel. Il marito, amatissimo, è morto in un incidente stradale mentre la portava in ospedale per partorire il loro unico figlio. Amelia è rimasta sola con un bambino  che ha più di un problema: non si integra con i coetanei, è convinto di dover difendere la madre da qualsiasi pericolo e ogni notte si sveglia travolto da incubi di mostri che costringono la madre alla pattuglia quotidiana di sottoletti, armadi, stanzini per dimostrare che non c’è nessuna minaccia, da nessuna parte. Solo che una sera, nella libreria della sua cameretta, Samuel trova il libro di Mister Babadook che Amelia non ha mai visto prima. Racconta la storia di un mostro orribile che entra nelle case e non ne esce finché non uccide tutti. Ora la paura di Samuel ha un nome nuovo, anche perché dopo la scoperta del libro iniziano a succedere cose strane.

Messo così, Babadook può sembrare un normale horror da favola della buonanotte. Ha parecchi elementi del genere: una madre sola, un figlio “strano”, una casa in cui succede tutto quello che deve succedere. C’è anche la cantina piena di memorie e di segreti. La differenza, però, che mostra tutto il potenziale di Jennifer Kent, è nell’approccio psicologico alla questione della paura.

Tutto in Babadook sa di metafora, di simbolo, volendo pure di archetipo. Amelia è una donna troppo sola che non si è mai ricostruita dopo la morte del marito. Scriveva, e ha smesso di farlo per lavorare in un ospizio, ha uno spasimante, ma lo ignora. Vive solo per Samuel, per quanto sia complicato e per quanto alle volte non ce la faccia proprio a sopportarlo – in fondo, si mostra più affettuosa con il cane che con il figlio –, ed è perseguitata da un mal di denti che la tiene sveglia la notte insieme agli incubi del bambino.

La scoperta di Mister Babadook trasferisce le paure di Samuel alla madre. La paura del buio, dei mostri, diventa paura della solitudine e resa dei conti con il passato e con un lutto mai pienamente elaborato e lasciato lì a paralizzare la vita. Samuel non ha mai festeggiato il compleanno il giorno della sua nascita perché coincide con quello della morte del padre. Non ha mai potuto scendere liberamente in cantina perché lì ci sono le foto e le lettere del marito morto che Amelia conserva senza il coraggio di guardarle. La vita di madre e figlio non offre molto altro rispetto a scuola e lavoro, una sorella con figlia che sopportano Samuel a fatica, una vicina gentile sempre disponibile. Samuel e Amelia hanno solo la casa, in cui vivono chiusi in una quasi perenne oscurità, isolati dall’esterno e incapaci di vivere a pieno nel mondo di fuori, distanti da tutto quello che per gli altri è normale. L’arrivo del mostro rimette tutto in discussione.

Lontano dal sensazionalismo del cinema horror di oggi, dalla ricerca costante del balzo sulla sedia e dalla costruzione stereotipata della tensione, Babadook finisce per essere più un thriller psicologico, se non addirittura un dramma familiare virato al nero. Jessica Kent ha scritto e diretto partendo da un suo cortometraggio del 2005 (Monster, lo potete vedere sul suo canale vimeo) in cui è ancora più evidente il debito di suggestione che Babadook paga nei confronti dei grandi classici dell’espressionismo tedesco, nell’uso delle ombre e nella costruzione della realtà domestica (il corto è in bianco e nero, e quello aumenta notevolmente la suggestione).

Kent è riuscita a infilarsi all’interno di un genere, rispettandone i canoni e la struttura narrativa, finendo però per farne un film molto di più al di fuori del genere stesso. E non è una cosa da poco.

(Babadook, di Jennifer Kent, 2014, horror, 95’)

Il dilemma della vocazione

Proprio in occasione di una recensione che scrissi per un altro libro di Enrico Macioci, lo scrittore che ne curò la pubblicazione mi consigliò di omettere questo particolare, che Enrico e io siamo amici da anni. Ebbene, ora che di anni ne sono trascorsi altri, non mi sento più di avallare tale scelta, anzi, come pensavo allora, penso oggi sia bene chiarire certe dinamiche per garantire al lettore la massima trasparenza. E mi sembra pure il caso di precisare il perché dell’intervista che segue: ecco, questa intervista serve a capire chi c’è dietro il libro di cui si parlerà, Breve storia del talento (Mondadori, 2015), e non perché si debba leggerlo, a questo scopo, infatti, può pensarci il testo stesso, dove, sono certo, ognuno di voi potrà ritrovare qualcosa della sua infanzia, adolescenza, vita.


Cos’è il talento, Enrico? E, visto che ci siamo, cos’è per te il talento in letteratura? – Domande con cui in questi mesi ti avranno assillato.

Il talento è la combinazione di tre fattori: un dono innato, ciò che Hillmann chiama «ghianda»; l’ambiente esterno (famiglia, circostanze, vicissitudini ecc.); il carattere. Se questi tre fattori si combinano in maniera favorevole il talento sboccia, se ciò non accade il talento può non sbocciare mai, e il mondo è pieno di talenti mai sbocciati.
Pensiamo a Mozart, forse la più compiuta apparizione di talento artistico di cui abbiamo notizia: nasce con doni irripetibili, ma pure con un padre musicista che lo sprona sin dalla più tenera età e per giunta in un’epoca d’oro per la musica classica e in un Paese all’avanguardia musicale come l’Austria; a tutto ciò aggiunge una dedizione e un impegno straordinari, per cui dai cinque ai trentacinque anni d’età (quando muore) non fa altro che comporre e suonare, suonare e comporre, regalandoci capolavori su capolavori. Però domando: se fosse nato in una famiglia musicalmente ignorante, avremmo avuto il Mozart che conosciamo? Ne dubito (Hillmann obietterebbe che la ghianda sceglie prima di nascere dove nascere, io non so cosa pensare). Se invece fosse nato in una tribù primitiva avremmo avuto il Mozart che conosciamo? Sicuramente no. Aggiungo che a volte il talento si manifesta in condizioni avverse, ma se uno va a ben guardare esse risultano spesso necessarie al manifestarsi di quel particolare talento, che magari è un talento “per opposizione”: pensiamo a tanti artisti ribelli venuti fuori da famiglie perbeniste e borghesi. In un certo senso, potrei riassumere, io ho “fede” nel talento, e cioè credo che nella maggior parte dei casi esso, se è sufficientemente forte, sappia trovare la propria strada. Magari però sbaglio, perché il talento resta comunque in larga parte un mistero.
Per ciò che riguarda il talento letterario il discorso è il medesimo. Aggiungo una considerazione che ho avuto modo di verificare sulla mia pelle. Il talento è il risultato ma anche la causa dell’impegno che un individuo profonde nel coltivarlo. Voglio dire che se hai molto talento per qualcosa è probabile che ti spacchi la schiena in quel qualcosa, se invece ne hai poco risparmierai la tua schiena per altre e più proficue attività. Il talento per lo scrivere è al tempo stesso un vampiro e una fonte: succhia energie che però restituisce in termini di ciò che amo chiamare centratura. Se scrivi un brano davvero bello, e cioè davvero rispondente al tuo suono, alla tua tonalità interiore, stai meglio, occupi uno spazio più sensato nel mondo, esisti di più, sei più reale. Avere talento per lo scrivere significa trovare le parole più prossime alla propria verità, che rimane sempre irraggiungibile.


Bene, abbiamo rotto il ghiaccio, veniamo al tuo Breve storia del talento. In esso, a mio avviso, possiamo trovare non tanto la genesi, quanto i primi passi, il processo di maturazione del talento, e poi, in un secondo momento, i frutti che maturano o meno nella vita adulta: era così che immaginavi il libro quando l’hai iniziato? Cosa ti ha portato, dopo La dissoluzione familiare, verso un’opera che potrebbe essere definita “romanzo di formazione”?

Quando ho iniziato il libro non avevo la più pallida idea di dove andare a parare, come sempre mi accade. Sentivo solo nei polpastrelli e nella testa vibrare un’armonia, l’armonia del magnifico Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann che avevo appena letto; una malinconia soffice ma feroce per tutto ciò che nella vita va perduto. Un simile stato d’animo deve avermi condotto verso il mondo dell’adolescenza, credo. E di lì in poi ha avuto il suo peso Stand by Me di Stephen King, che è una gemma e di cui una frase non a caso compare in esergo. Ma non pensavo a un romanzo di formazione, e non credo che Breve storia del talento lo sia. È piuttosto un romanzo di “sformazione”: cosa accade quando non sappiamo, o possiamo, o vogliamo dare retta alla nostra vocazione, al nostro daimon? Ecco di che parla Breve storia del talento, suppongo. E si badi: la figura di Michele vale per quasi tutti noi, perché quasi nessuno di noi sa davvero cosa desidera, dal momento che quasi nessuno di noi sa davvero chi egli o ella sia. Tutti crediamo di credere o non credere un sacco di belle faccende, ma pochissimi riescono a discernere la proiezione dal proiettore, il pensato dal pensante. Credo che questo problema rappresenti uno degli snodi di Gli increati di Moresco, fra l’altro.
Sullo scarto rispetto a La dissoluzione familiare. Quel romanzo era troppo folle ed estremo per avere un futuro, e per giunta lo scrissi in condizioni psichiche irripetibili (post/terremoto, post/primo figlio, post/lettura elettrizzante di Infinite Jest). Si tratta di un romanzo kamikaze: si dà fuoco mentre grida ciò che ha da gridare. Ma io non sono un kamikaze e volevo continuare a scrivere. Ho dunque intrapreso una nuova fase di cui Breve storia del talento è solo il primo passo e che, dopo circa tre anni e parecchi altri scritti (per ora – e forse per sempre! – inediti) ritengo a propria volta conclusa. Cosa verrà dopo? Chi lo sa. Potrebbe venire di tutto, compreso il silenzio.


Dato che ben conosco la tua passione per Rimbaud e la tua straordinaria prolificità nella scrittura, qual è il tuo rapporto con il silenzio? Perché l’hai tirato in ballo? E che relazione c’è, a tuo avviso, tra lo scrittore e il silenzio?

Beh, per quanto possa far sorridere, io ho già taciuto come scrittore fra i 14 e i 27 anni: un’eternità! Si può dire che la mia vicenda letteraria si divida finora pressoché a metà fra il parlare e il tacere, e ne accenno più volte in Breve storia del talento. Ma anche da bambino, prima di tacere, ero molto prolifico. Ho sempre oscillato e oscillo fra l’abbondanza e il digiuno, forse spinto dal tormento (di certo non solo mio) di non essere abbastanza bravo da “meritare” di scrivere, da un senso d’inadeguatezza e mediocrità.
Il caso-Rimbaud è naturalmente assai più complesso e paradigmatico. Paradigmatico perché col suo brusco silenzio marchia la storia della poesia, infliggendole una ferita ancora immedicata (ci hanno provato tutti a suturarla, poeti, filosofi, psicologi, critici: la ferita sanguina sempre). Credo che uno dei motivi per cui Rimbaud non venga riconosciuto apertamente e da tutti per ciò che è, ovvero il più importante soggetto lirico della modernità nonché l’autentico fondatore della stessa, consiste nel fatto che inquieta troppo. Baudelaire è molto più rassicurante, è un Leopardi più nuovo e più canaglia, ma Rimbaud… Anni fa un giovane ricercatore di letteratura francese dell’università di Pescara mi confidò di ritenere Rimbaud ben più grande di Baudelaire, ma di studiare Baudelaire perché Rimbaud lo spaventava. Mallarmé parla con timore di Rimbaud. Valéry ne è stupito, offeso e atterrito. Tutti i poeti ne sono atterriti, e a buona ragione, perché avvicinarlo e affrontarlo con radicalità e coerenza, seguirlo lungo la sua strada impervia e incendiata, significa affrontare l’abisso del silenzio. Che fare dopo? Proseguire? Saltare? E se sì, come? Dove? Ma rileggiamo quel miracolo che sono le Illuminazioni, scritte fra il 1872 e il 1874, quando da noi furoreggiava Carducci; e poi sento ancora parlare d’avanguardie…
La relazione fra lo scrittore e il silenzio dunque potrebbe essere questa: il silenzio racchiude ciò che separa lo scrittore dalla propria perfezione. Il silenzio però sta dopo la perfezione, e quindi la faccenda diventa paradossale e inattuabile. Nel momento in cui uno scrittore raggiunge la propria perfezione, tace. Ma poiché di rado la raggiunge, non tace quasi mai. «Sono pronto per la perfezione» scrive Rimbaud nella Saison, subito prima di tacere; ma lui era diverso. La perfezione, in linea di massima, non appartiene al nostro mondo, e come tutte le cose estranee ci terrorizza. Il nostro mondo è vecchio, storto, sbagliato, squallido e anche crudele, ma noi crediamo di conoscerlo, e in qualche maniera ci tranquillizza. Nulla ci spaventa più del cambiamento, e il silenzio di Rimbaud è davvero un atto diverso, uno di quei rari scarti assoluti dalla norma, un deragliamento reale e concreto (di qui si spiega il mito cui anche Étiemble dové inchinarsi) innestato nel corpo vivo della pratica poetica, un novum che dobbiamo ancora comprendere e sviluppare.


Chiami in causa il concetto di perfezione e mi viene spontanea una domanda provocatoria, pericolosa, e difficile anche, dalla quale però sono certo saprai cavartela: tu, Enrico, a che punto senti di essere nel fulmineo o lento cammino verso la perfezione? E dove collocheresti Breve storia del talento? Poi, ti interessa la perfezione come traguardo?

Tolstoj in uno dei suoi diari scrisse: «Non disperare di diventare perfetto». Ma io non sono Tolstoj. In realtà credo che la perfezione oggettiva in arte non esista; nemmeno la Divina Commedia o Re Lear sono opere perfette, perché rimane sempre la possibilità di fare meglio, un margine ulteriore, anche se è difficilissimo che accada. Esiste invece una perfezione soggettiva e cioè – per rimanere in ambito letterario – a un certo punto uno scrittore o una scrittrice producono un’opera che costituisce il massimo possibile delle loro qualità espressive e intellettive. Amo parlare in tal caso di “stato di grazia”. Mi viene in mente Il grande Gatsby di Fitzgerald, Revolutionary Road di Yates o Amabili resti di Alice Sebold, solo per rimanere ai nostri tempi. Opere che si stagliano sul resto della produzione dell’autore come vette innevate e lucenti. Tutto ciò è magnifico ma anche insidioso perché in qualche modo, credo, va a creare una barriera, un ostacolo: il futuro è già qua e tu non puoi far altro che peggiorare. Puoi provare a reinventarti ma non è detto che ci riuscirai. Fitzgerald per esempio non ci riuscì; pubblicò Il grande Gatsby a 29 anni e morì a 44 senza più riavvicinare quel livello sublime. Produrre un’opera perfetta è un po’ come suicidarsi, artisticamente parlando. So di manifestare una concezione apocalittica, ma tant’è.
Breve storia del talento, come già spiegavo prima, fa parte d’un percorso di svolta impostomi da La dissoluzione familiare, che ho pubblicato nel 2012 ma che avevo già sostanzialmente terminato a giugno del 2010. Non che quell’opera fosse perfetta, ma esigeva un cambio di rotta di cui Breve storia rappresenta l’inizio. E poi anche questa fase finirà – forse è già finita; e ne seguirà un’altra che comincio a intravedere.
Infine si sarà capito che io non aspiro razionalmente alla perfezione, dato che ne ho un concetto così castrante; però quando sei al lavoro è un altro paio di maniche; lì ti trovi davanti all’opera da creare e ce la metti tutta, t’impegni come se non ci fosse un domani. Anche perché nessuno ti assicura che un domani in effetti ci sia. Per cui riassumendo: no, non aspiro alla perfezione; sì, la cerco.


Rileggo l’intervista e credo sia proprio il caso di chiuderla qui, che ne dici, Enrico? Vorrei ancora sapere solo altre due cose: 1) Come sta andando Breve storia del talento? sei soddisfatto?; 2) Cosa ti aspetti dal futuro e cosa stai facendo per andare incontro al futuro che desideri per te?

Breve storia del talento sta andando abbastanza bene. Mi stupisce l’interesse che sta suscitando tramite i social network o il semplice passaparola, e mi stupisce che tante donne lo leggano e lo amino a dispetto dell’apparente tema calcistico. Del resto si sa che il novanta per cento dei lettori è costituito da donne. Io questo romanzo l’ho ripudiato nell’attimo stesso in cui l’ho finito, ma non posso che accudirlo e augurargli ogni bene. In fondo sono suo padre, e come molti padri sono indulgente, a tratti vile e fazioso.
Dal futuro mi aspetto cose nuove, anzi, inaspettate. A parte la salute mia e dei miei cari, forse ciò che desidero è una rivoluzione, un nuovo modo di stare al mondo prima che il mondo crepi, che scoppi come una pallina da tennis in un forno. Una rivoluzione non sanguinaria, perché tutte le rivoluzioni sanguinarie (ovvero la pressoché totalità) instaurano ciò che avevano preteso di distruggere. Sì, mi aspetto un rivolgimento epocale, di portata grandiosa, che cambi il mondo e l’uomo. Ci vuole, è tempo. Mi scuserai per la modestia delle mie aspirazioni.

 

macioci_flaneri.com

(Enrico Macioci, Breve storia del talento, Mondadori, 2015, pp. 156, euro 17)

 

“’71” di Yann Demange

Inghilterra, 1971. Gary Hook è una giovane recluta che sta completando l’addestramento in caserma. Le direttive del suo reggimento sono quelle di partire per la Germania alla fine della formazione, ma un cambio di ordini li porta nell’Irlanda del Nord, a garantire l’ordine lungo Falls Road, la strada dove protestanti e cattolici vivono più vicini.Nel corso della prima missione – relativamente semplice: si trattava di assistere la polizia durante una perquisizione – Hook finisce lontano dal suo plotone durante la rivolta dei cattolici che costa la vita a un suo commilitone, ucciso da un terrorista dell’Ira. Rimasto solo in territorio nemico, inseguito da uomini armati che vogliono eliminarlo, Hook scappa, si rinchiude in una latrina e alla fine trova aiuto dai protestanti. È con loro, in un pub, che scopre il doppio gioco che gli uomini del suo capitano stanno portando avanti, armando i protestanti per tenere vive le ostilità.

Uno dei punti di forza di ’71, esordio dietro la macchina da presa del regista televisivo Yann Demange, è la scelta del punto di vista. Film sul conflitto nord-irlandese ce ne sono stati tanti (come è giusto che sia), ma è difficile trovare un titolo che decida di raccontare la violenza dal punto di vista di un soldato britannico, senza parteggiare per i britannici, ma mettendosi nei panni di un ragazzo qualunque. Gary Hook non è un soldato per vocazione, quanto per necessità. Si è arruolato non seguendo un ideale ma alla ricerca di un lavoro. Ha un figlio affidato a un istituto con cui passa ogni momento libero ed è l’unica cosa che importa per lui. Sul resto, Hook non prende posizioni. Non gli importa della politica, non gli importa della religione. Non capisce i motivi di queste rivalità totali che vede a Belfast. Non capisce neanche il motivo per cui quelli di Derby, la sua città, ce l’abbiano con quelli di Nottingham. Passa attraverso tutto, conserva la sua umanità in ogni momento. È la storia, però, a scuoterlo, sono i fatti a trascinarlo all’interno delle posizioni. 

Demange non si schiera con i cattolici o i protestanti, con gli inglesi o gli irlandesi. Fa capire che il bene è negli uomini, così come il male che viene fuori dallo sfinimento di padri uccisi e di pub fatti saltare in aria per sbaglio. Gli unici ad avere colpa sono quelli che si muovono dietro tutti, quelli che mandano poveri stronzi a uccidere altri poveri stronzi, come dice un medico cattolico che aiuta Hook perché è il suo dovere, anche se lui è un soldato inglese.

La recluta Gary Hook rappresenta tutti i ragazzi spediti in guerra, in qualsiasi guerra, senza che sia chiesto loro di capire quello che sta succedendo, e tantomeno di crederci. Intorno a lui, sono sempre altri giovani ad attirare l’attenzione della telecamera: il nipote del capo protestante, il giovane terrorista, la figlia del medico. Coinvolti nella guerra loro malgrado, convinti in gradi diversi di quello che sta succedendo. Comunque vittime di qualcosa che capita da fuori.

Demange orienta ’71 verso l’azione molto più che sulla riflessione. È un film veloce, di movimento, girato con telecamere leggere, con poco montaggio e riprese lunghe e dinamiche. Hook si muove in continuazione per salvarsi la vita, non è mai al sicuro, vede e vive più di qualsiasi soldato al suo primo giorno in missione.Dopo essere stato Louis Zamperini per Angelina Jolie in Unbroken, Jack O’Connelli ancora una volta si immerge in un ruolo a cui è richiesto soprattutto al corpo di parlare, di comunicare le emozioni, stavolta senza dimagrimenti estremi ma attraverso l’affanno perenne della fatica e della paura.

(’71, di Yann Demange, 2014, azione/guerra, 99’)

“L’ultimo arrivato”
di Marco Balzano

Chissà se anche mio nonno, prima di emigrare a Roma da un paesino sperduto in provincia di Palermo, mangiava per colazione un’acciuga spalmata su una fetta di pane in cassetta e questo parco pasto doveva bastargli fino a sera, venendo così tormentato per tutto il giorno dai morsi della fame come Ninetto Giacalone, voce narrante de L’ultimo arrivato di Marco Balzano (Sellerio, 2014), finalista al Premio Campiello 2015.

Non l’ho mai chiesto a mio nonno. Di certo, la denutrizione è stata un’innaturale, spietata erosione dell’innocenza primordiale di quei tanti «picciriddi» degli anni Cinquanta-Sessanta, nati in un Meridione arretrato e reso ancora più povero dalla guerra.

Molti prendevano brutte strade: «Così se qualcuno con le mie stesse calorie in corpo mi proponeva di andare a rubare, io subito ci stavo». Pochi erano quelli che potevano permettersi di andare a scuola.

A Ninetto la scuola piaceva. Era curioso e sveglio e aveva sviluppato un particolare affetto per il maestro Vincenzo che gli aveva trasmesso l’amore per le poesie che mandava a memoria come sorsi di acqua fresca. Al maestro voleva bene più che al padre da cui riceveva solo mazzate: «Quanto alle mazzate che certe sere mi tirava, invece, non c’è da filosofare troppo o fare i sofisticati. I genitori a San Cono tiravano tutti mazzate, punto e basta. Come per il cielo è normale piovere, per una vacca muggire, per un albero far cadere le foglie, per un genitore di San Cono era naturale sganciare mazzate».

La vita di Ninetto ha una svolta la notte del 10 ottobre 1959 quando la madre è colpita da un ictus. Il ragazzino, che ha appena nove anni, è così costretto ad abbandonare gli studi per andare con il padre «a fare lo jurnataru» presso il podere di don Alfio.

Ben presto però Ninetto viene indotto ad andare a cercare fortuna al Nord. La madre infatti viene ricoverata in uno squallido ospizio e il padre si dà alle carte sperperando quel poco denaro guadagnato: «Comunque non è che sono emigrato da un giorno all’altro. Non è che un piccriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via».

Balzano ci parla con un’intensa forza narrativa ed emotiva di un tema storico del nostro Paese, tragicamente attuale, soffermandosi su un aspetto poco noto del fenomeno: quello che a partire per il Nord Italia fossero spesso bambini fra i nove e i tredici anni, accompagnati da un compare (ovvero un quasi parente) o un semplice paesano.

Emigrare allargava il campo, facendo apparire il proprio paesino con annessa piazza per quello che era: un paesino di poche anime e la piazza poco più grande di un cortile. La città invece profumava di mondo pur in un’Italia ancora molto provinciale.

Ogni persona è diversa, ma sempre diversamente umana, fragile e forte, vittima e artefice del proprio destino.

Ninetto ha una visione del mondo drammaticamente realistica. Quando il maestro Vincenzo gli prospetta che a Milano avrebbe potuto anche trovare la felicità, essere finalmente felice, avverte tutta l’insensatezza di quella parola: «Disse proprio felice e ricordo che la parola mi sembrò come i pantaloni per la campagna. Grande e male adatta».

È con questa scrittura limpida, di un’immediatezza mimetica dell’italiano dialettale, che l’autore sollecita senza posa l’emozione del lettore quando racconta attraverso le avventure del protagonista la storia del nostro Paese dal dopoguerra a oggi: l’emigrazione interna; il razzismo verso i meridionali immigrati sprezzantemente soprannominati «terroni, rubapane, napulì, morti di fame»; lo sfruttamento minorile sottopagato e in nero; l’alienante lavoro in fabbrica; la catena di montaggio e le lotte sindacali; il carcere; il difficile ritorno ad una vita normale in una società cambiata ma ugualmente colpita da una diversa crisi e disoccupazione.

Ninetto pagherà caro, con dieci anni di detenzione, un errore commesso per la sua ignoranza nell’esprimere nel giusto modo il suo amore per la figlia. All’uscita dalla prigione troverà tutto cambiato: laddove prima c’erano «fabbriche e fabbrichette, file di tetti puntuti e capannoni di lamiera», ora non è rimasto più niente tranne quello che chiamava «alveare», quel palazzone dai muri scrostati e dall’odore di varia umanità inasprita dal puzzo dei bagni, dove si era rifugiato a dormire al suo arrivo a Milano, ora occupato dai nuovi immigrati, africani, rumeni e altri «poveri cristi». E arriverà a un’amara conclusione: «Non ci sono storie, è fuori dal carcere la vera pena da scontare».

L’ultimo arrivato, frutto di interviste sapientemente amalgamate in una storia commovente e fortemente italiana, mi ha fatto riflettere su un particolare rimosso delle mie origini familiari. E leggere il suo romanzo è stato come essere abbracciati da qualcuno con il calore e la varietà dei sentimenti umani. Del resto, gli scrittori hanno di speciale quello di fare caso ai dettagli che le persone normalmente non notano. Si soffermano, li analizzano, ricavandone intuizioni illuminanti.

E chissà se anche mio nonno aveva la stessa faccia sporca di strada di Ninetto a nove anni. Avrei dovuto chiederglielo.

(Marco Balzano, L’ultimo arrivato, Sellerio, 2014, pp. 212, euro 15)

“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero tre

«Se raccogliessimo le storie e le intuizioni delle donne che scrivono oggi e in Italia, che cosa leggeremmo?»

È questa la domanda che ci siamo posti, insieme allo studio editoriale 42Linee, quando abbiamo lanciato il contest AAA Autrici Cercansi, un appello nazionale rivolto ad autrici esordienti e non.

In effe #3 abbiamo raccolto le risposte, a nostro parere migliori, tra le centinaia che ci sono pervenute in redazione: “Il punto di vista del sole” di Marzia Grillo, “Cosa c’è di nuovo, Gina?” di Alessandra Minervini, “Panic!” di Francesca Romana D’Antuono, “Assunta del Mercato” di Maddalena Francavilla, “Kabul” di Beatrice Serini, “L’eclissi” di Carolina Crespi e “Ops” di Giulia Orlando.

A questi sette racconti se ne aggiungono altri quattro, provenienti dallo scouting congiunto della nostra rivista e di 42Linee: “Rassicurante come un cane brutto” di Mari Accardi, “Gli orsetti lavatori sanno che la sinfonia è già dentro di te” di Margherita Ferrari, “Susanna” di Costanza Masi e “Due uova” di Carla Vasio. Un nome non casuale quest’ultimo: la scrittrice, ex esponente del Gruppo 63, sostiene infatti, nel suo editoriale, la volontà del volume di riportare in auge la sperimentazione in campo narrativo, esulando dai soliti circuiti editoriali, proponendo la varietà di stile e di pensiero come le principali premesse di indagine culturale.

A questi undici racconti sono affiancate undici illustrazioni di artiste note a livello internazionale: Eleonora Antonioni, Margherita Barrera, Darkam, Alessandra De Cristofaro, Mariachiara Di Giorgio, il Pistrice, littlepoints…, Misstendo, Amalia Mora, Sara Stefanini e Alina Vergnano. Una dodicesima illustrazione, che apre il racconto della Vasio, a firma di Giulio Turcato, è inclusa nel volume I Have a Dream Today, autoproduzione del 1979.

Un numero tutto al femminile dunque, che sfuggendo volutamente alle implicazioni della narrativa di genere, si fa indagine pura e semplice su ciò che merita di essere letto oggi in Italia per quanto riguarda la narrativa breve.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero tre:

  • Contro l’inerzia nel pensare e la pigrizia nel proporre di Carla Vasio
  • Rassicurante come un cane brutto di Mari Accardi
  • Il punto di vista del sole di Marzia Grillo
  • Cosa c’è di nuovo, Gina? di Alessandra Minervini
  • Panic! di Francesca Romana D’Antuono
  • Assunta del Mercato di Maddalena Francavilla
  • Gli orsetti lavatori sanno che la sinfonia è già dentro di te di Margherita Ferrari
  • Kabul di Beatrice Serini
  • L’eclissi di Carolina Crespi
  • Ops di Giulia Orlando
  • Susanna di Costanza Masi
  • Due uova di Carla Vasio

 

Qui è possibile acquistare online effe #3 e consultare l’elenco delle librerie in cui il volume sarà disponibile già dai prossimi giorni .

Per maggiori informazioni: periodico.effe@42linee.it

“Il regno degli amici”
di Raul Montanari

William Golding è stato maestro di scuola elementare. E durante la sua coabitazione con l’infanzia, di piccole lancinanti perfidie tra scolari deve averne viste in abbondanza. Tanto da far confluire la sua disillusione sull’innocenza da latte in un’opera di smascheramento magistrale intitolata prima Strangers from within e poi Il signore delle mosche. Un gruppo di bambini si catapulta da superstite in un’isola priva di altre impronte, pronta e nuda per la loro libertà, ma l’assenza di ogni cappio autoritario innesca tra loro solo una catena di soprusi verso il più indifeso, un piano inclinato di barbarie in cui zampilla la vera natura umana, che di gradevole non ha neanche l’odore.

Di Rousseau e della sua sperticata bontà originaria, ovviamente, non pervengono tracce. Ma il risultato della solitudine può anche essere diverso. Forse.

Il regno degli amici (Einaudi, 2015) di Raul Montanari prospetta uno scenario ideale per molti adolescenti. Almeno per quelli di ieri, senza dito incollato a uno schermo da eccitare.

Estate dei mondiali, quelli del 1982. Il sedicenne Nicodemo sguazza nel ventre di una Milano accaldata, quando apprende la notizia che i suoi genitori partiranno verso un fresco montano e distante. Lasciandolo sciolto e ovviamente euforico. La città è sua, o meglio, una minuscola costola selvaggia e disabitata può diventare il suo feudo oltre che la sua vacanza. C’è una casa spopolata sulla Martesana, un terreno sgombro e sguarnito che aspetta di essere vissuto. Ma per farlo Demo ha bisogno degli amici, altrimenti non sarebbe un Regno autentico. E gli amici non mancano. Fabiano è il suo alter ego, la greca bellezza di riccioli neri e sorriso spietato che Demo sente di non poter sfiorare, coi suoi cespugli di acne sul viso. Fabiano è sicuro e gonfio di successi con l’altro sesso, fonte d’invidia e d’ispirazione. Sono loro il nocciolo duro, la relazione primigenia attorno a cui orbita il gruppo. «Era divertente vedere come ci interessavamo ognuno alle predilezioni dell’altro, con squisita cortesia, e anche se stavamo proprio agli antipodi, capitava ogni tanto che facessimo visita nei rispettivi mondi».

E poi c’è Elia, ribattezzato il Profeta, impastato di muscoli e di sentenze epocali, di cui spesso non si agguanta bene il senso. In questo triangolo perfettamente rodato, com’è giusto che accada in ogni narrazione, subentra il disordine. Sotto forma dei “cattivi” e dei “nuovi”. I balordi sono due criminali di periferia, mentre i nuovi sono le due V: Valli e Velardi.

Valli è una ragazzina che pesca nel fiume, una ninfa in salopette che dorme su un albero e affabula gli occhi di tutti, esplicitando un contrasto imboscato tra Demo e Fabiano, mentre Velardi è l’amico appena arrivato, un tipo arguto e misurato che sembra non sbagliare un colpo. È lungo il mese di agosto e si tramuta per tutti in un rito di passaggio, un momento d’iniziazione in cui ognuno troverà il suo approdo, con l’amore, col pericolo, con le regole, ma soprattutto con se stesso.

«Certo, la sequenza dei fatti di quell’agosto dell’82 fu così insolita fin dall’inizio,con la conquista del Regno degli amici, e proseguì fino a culminare in eventi così drammatici che credo davvero di avere ogni cosa incisa nella mente nell’ordine esatto in cui accadde».

È Demo a sciorinare il racconto, in un diario aperto al lettore, al riparo degli anni trascorsi che gli hanno offerto un angolo lucido di osservazione e una verità inattesa. Brusca, sgradita. Il brullo risveglio dell’età adulta. Un finale in realtà afferrabile già molto prima della sua rivelazione, ma l’elemento dominante e più apprezzabile del romanzo è certamente il clima di cui è intriso, quella gioia inviolata e onnipotente dell’amicizia adolescente, un Regno con le proprie leggi, con l’incanto di musica rock e di cibi salati, dove il senso del proibito sfila attraverso uno stereo rombante e una colonna di riviste porno.

C’è la paura e c’è la smania di crescere, il desiderio insofferente e rigoglioso di essere all’altezza di un futuro sconfinato, l’aspra consapevolezza che maturare significa impadronirsi di una terra assolata e poi abbandonarla, come la casa sulla Martesana. Non occorre il fuoco, come nel caso del furore apocalittico del racconto di Graham Greene I distruttori. Basta la vita con le sue scelte a incenerire i passi, a bruciare la propria culla e i primi amori.  Verso altri letti, verso altri regni.

(Raul Montanari, Il regno degli amici, Einaudi, 2015, pp. 316, euro 18)

“Terminator Genisys” di Alan Taylor

C’era bisogno di un nuovo Terminator, a trent’anni dall’uscita del primo film della serie – capolavoro – e a ormai venticinque dal secondo capitolo – capolavoro a sua volta, seppur diverso, più pompato e spettacolare –? Devono aver pensato di sì, che basta il marchio a garantire un ritorno di pubblico e il resto, lo sforzo di essere un minimo originali anche, può passare in secondo piano. La lezione di Terminator 3: Le macchine ribelli non è bastata. Perché ci avevano già provato nel 2003 a rilanciare il marchio, e non era andata esattamente bene: buoni incassi, ma film altamente dimenticabile. Nel 2009 c’era stato un nuovo tentativo, più rivoluzionario. Con Schwarzenegger impossibilitato a indossare di nuovo gli iconici occhiali da sole e giubbotto di pelle dalla sua carriera politica, si era decisa una strada completamente nuova. Niente più viaggi nel tempo e macchine mandate a uccidere qualcuno della famiglia Connor su e giù per lo spazio tempo. Tutto, o quasi, si svolge nel futuro, nel momento della guerra contro le macchine di Skynet, John Connor ha il carisma di Christian Bale e lo scenario post-apocalittico aiuta a dare struttura e forza a tutto. Era un capitolo interessante, Terminator Salvation, che non ha avuto il seguito progettato a causa di problemi legali di diritti e fallimenti.

Per Terminator Genisys la Paramount ha deciso di partire da capo per una nuova (altamente probabile) trilogia. Chiamato Alan Taylor alla regia, che dopo l’avvio di carriera da autore con Palookaville e le regie tv di cose come I Soprano, si sta specializzando in serie action (era dietro la macchina da presa di Thor: The Dark World), si parte dal 2029, il momento decisivo della battaglia contro Skynet. John Connor e i suoi stanno scagliando l’offensiva decisiva, ma le macchine fanno partire il loro piano segreto e mandano indietro nel tempo, nel 1984, un Terminator per eliminare Sarah Connor, la madre di John, e annullare con lei la resistenza. Per fermare la macchina, il luogotenente di Connor, Kyle Reese, fa lo stesso viaggio nel tempo. Praticamente fino a qui è la stessa trama del primo Terminator. Cambia il punto di partenza, perché seguendo la traccia di Salvation viene mostrato il futuro dell’umanità in guerra contro i robot. Quello che cambia è ciò che Kyle Reese trova ad attenderlo a Chicago nel 1984. Perché Sarah Connor non è un’indifesa cameriera: è una guerriera già pronta a combattere. Qualcosa è cambiato, rispetto al passato che conosceva John Connor. Perché già nel 1973 una macchina aveva provato a eliminare Sarah e un Terminator era stato mandato indietro nel tempo (dalla resistenza? non è chiaro) per difenderla e prepararla. Reese si trova quindi in una linea temporale nuova, in cui Skynet non esiste più, ma c’è una nuova minaccia per l’umanità da temere: il sistema operativo Genisys, che entrerà in funzione nel 2019 e metterà tutti gli uomini sotto il controllo delle macchine. Il passato, il presente e il futuro sono cambiati e probabilmente tutto è collegato a quello che Reese ha visto prima di partire nel tempo, con quel Terminator che circondava John Connor e gli faceva perdere i sensi.

La cosa migliore di Terminator Genisys  è il ritorno in grande stile di Arnold Schwarzenegger. Non ci può essere Terminator senza Schwarzy (almeno, non il modello classico), e per chiarire il concetto ne appaiono anche più di uno insieme, versione contemporanea e versione giovanile digitalizzata (e fanno pure a botte tra di loro). È The Governator a dare una carica di ironia a tutto il film, a consolidare l’effetto nostalgia, a dare legittimità agli avanti e dietro temporali. Del resto, Schwarzenegger è come il suo Terminator: vecchio, non obsoleto, e dopo la carriera politica sta dimostrando di poter fare ancora del cinema come si deve (lo dimostra il recentissimo Contagious che tocca corde completamente nuove della recitazione di Arnold).

Il problema è che Terminator Genisys non si preoccupa di offrire qualcosa di nuovo rispetto a tutto quello già offerto dalla serie. Siamo ancora dalle parti di Terminator 2, più che del primo, con il legame affettivo impossibile che si crea questa volta tra la macchina e Sarah Connor (che è interpretata da Emilia Clarke, la Daeneris Targaryen del Trono di Spade), che addirittura la chiama «Papà» e fa disegni della passeggiate insieme. Entra l’elemento nuovo della gelosia, perché la macchina sa che Kyle Reese sarà il padre di John Connor e lo valuta come se fosse un vero padre. Questo funziona, è divertente, a suo modo addirittura tenero, ma il merito è sempre di Schwarzy. Per il resto a prevalere è la confusione, a vari livelli. Perché le altalene temporali, i piani che si incrociano e sovrappongono, stanno lì senza un minimo di coerenza interna (figuriamoci, è fantascienza, uno non si aspetta che sia realistica, ma che sia quanto meno credibile sì). Anche i momenti di azione sono confusi e privi di struttura (lasciamo una domanda di passaggio: perché il Terminator di Schwarzenegger si lancia dall’elicottero? Cosa vuole fare?).

Insomma, tutto quello che aveva fatto funzionare i primi due film (soprattutto il secondo, che rimane il modello principale) manca. Manca, fortunatamente, anche la noiosa ripetitività del terzo capitolo, ma siamo comunque distanti dall’idea del grande ritorno.

(Teminator Genisys, di Alan Taylor, 2015, azione/fantascienza, 119’)

“Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando”
di Gaja Cenciarelli

Sotto gli occhi di D. (indovinate chi è), occhi di quelli che scatenerebbero l’invidia di qualunque cineasta (occhi che tutto vedono, tutto sanno, e persino hanno la pretesa di fare il tutto, altrimenti che D. è?), i primi due scombiccherati umani della storia ciondolano mano nella mano beccandosi un po’ e discorrendo del più e del meno. Con una musica di sottofondo ma non troppo perché anche nell’Eden oggi la musica «è nell’aria» e te la becchi ti piaccia o no, i due traccheggiano con grande scorno di Adamo che è piuttosto eccitato. Eva lo calma mettendolo a letto (si fa per dire: vorrebbe dormire e si allungano sotto un melo). Di colpo partono le note a tutto volume dei Cure (Lullaby), mentre una perfida anaconda scivola sulle gambe di Eva, che sveglia Adamo, infoiato e nerissimo.

Così principia Pensiero Stupendo. Nasce un poco strisciando (Lite editions), esilarante performance nel genere parodico di Gaja Cenciarelli dopo il belliano Roma, libretti entrambi che non chiamerei divertissment solo perché spesso quella è l’etichetta che danno i tromboni a certi loro patetici esercizi quando si convincono di essere colti e spiritosi insieme ma non ti fanno ridere nemmeno con un assegno che ti risolva la vita. La Cenciarelli invece sì. Nell’universo pop di secondo grado che inventa per noi lettori cui non basta il primo e presunto della cosiddetta realtà, fa talmente ridere che riesce persino a fornirti una risposta a quei terribili quesiti su cui si stanno attrezzando i futuri manuali di filosofia (e che hanno da fare proprio con questi pensieri oziosi su cosa sia o non sia la realtà): perché cavolo la gente continua a stare su facebook?, per esempio. Sarà capitato anche a voi di domandarvelo una volta nella vita. A me sì, e in certe occasioni mi è parso di capirlo, perché. Perché so che prima o poi, mentre mi impegno stupidamente in inutili e goffi proclami e appelli per ‘denunciare’ un qualche orrore a casaccio, un giorno sì e l’altro pure appare scoppiettante, vitale come nient’altro nei paraggi, un piccolo fuoco di artificio di gag, di trovate, di cortocircuiti entusiasmanti fra il basso più carnale de ’na Roma de ’na vorta e acutezze sopraffine di una donna, lei sì, colta e spiritosa come pochi. È  Gaja Cenciarelli, certo la più brava scrittrice di fb in circolazione in Italia (lo ripeto sempre e intendo: che sa scrivere su fb, che è come dire saper scrivere un romanzo o saper scrivere versi: saper utilizzare il mezzo in una maniera che non so definire se non poetica). Il che – sia chiaro – non significa dimenticare che Cenciarelli è una bravissima scrittrice tout court. Se non la conoscete ancora leggetevi questo Pensiero stupendo. La sua eroina Eva snobba il serpente tristemente famoso e costringe il crucciatissimo D. a rifare tutto da capo, a riscrivere il libro per eccellenza: che è come dire riscrivere il mondo. Eva, vista l’aria sconsolata dell’artefice fallito, si sobbarca l’impresa. E chiama a raccolta la grande letteratura (e cosa sennò) per aiutarla. Segnatamente, alcune esemplari eroine della sofferenza che carnevalescamente ribaltano le loro storie per ribaltare la Storia (questo fa la vera parodia, riscrive un testo per cambiarne i segni fondativi). Nel felice mundus inversus di Cenciarelli, Penelope prima di andare in soccorso della prima donna della storia biblica si dà buon tempo con Antinoo dei Proci, e invita Ulisse, decisosi finalmente a tornare a casa, a riprendere la sua barca per togliersi di torno una volta per tutte. E mentre Ofelia, smaniosa di feste e sollazzi si rende conto che un altro scassaballe pesante come Amleto non lo trova (per fortuna), l’ineffabile Beatrice non vede l’ora di mollare il barbosissimo paradiso in cui quell’invasato di Dante l’ha confinata.

Ecco, se sette secoli dopo le performance erotiche della splendida Alatiel di Boccaccio il mondo alla rovescia aveva bisogno di una scrittrice che persuadesse i maschi a trovarlo convincente perché strepitosamente divertente l’ha trovata: si chiama Gaja Cenciarelli. Patrimonio nazionale.

(Gaja Cenciarelli  Pensiero Stupendo. Nasce un poco strisciando, Lite Editions, pp. 128, euro 12,90)

“Going Clear: Scientology e la prigione della fede”
di Alex Gibney

Per chi non la conoscesse, Scientology è una setta religiosa molto attiva e influente negli Stati Uniti fondata nel 1954 da L. Ron Hubbard, scrittore di gialli e di fantascienza particolarmente produttivo prima della seconda guerra mondiale (detiene quattro record nel Guiness dei primati, come autore più prolifico di romanzi e audiolibri e come autore più tradotto al mondo, per l’opera generale e per la singola opera La via della felicità). Nel dopoguerra, Hubbard sviluppò un sistema di autoaiuto basato sul suo testo Dianetics e iniziò a fare conferenze in giro per gli Stati Uniti ottenendo una sempre maggiore popolarità. La Dianetics costituisce il nucleo di quella che diventerà poi la Chiesa di Scientology.

Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla fondazione, non si capisce esattamente cosa sia Scientology e cosa faccia. Si conoscono alcuni dettagli del metodo: in pratica, la Chiesa sostiene che ognuno di noi ha un demone – chiamato thetan – all’interno che va espulso attraverso intense sedute di autoanalisi di fronte a un auditore che scandaglia il livello di profondità delle rivelazione con un e-meter, una macchina inventata da Hubbard, senza alcun fondamento scientifico, che permetterebbe di misurare l’intensità del pensiero. A questo percorso si accompagna una teoria cosmogonica che prevede alieni, umani ibernati lasciati a dormire all’interno di vulcani e altre cose del genere. Nonostante si sia diffusa in tutto il mondo, solo alcuni stati l’hanno riconosciuta ufficialmente come religione. Non esistono cifre esatte sul numero di fedeli iscritti (secondo l’organizzazione sono più di otto milioni, altre fonti esterne riducono a non più di cinquecentomila adepti). Nella fase di ascesa e consolidamento della Chiesa negli Stati Uniti se ne parlò molto per i problemi legati al fisco. La cosa certa è che negli ultimi trent’anni ha ottenuto una visibilità enorme grazie a due sue esponenti di primo piano: le star John Travolta e Tom Cruise che hanno collegato i momenti più brillanti della loro carriera con un’attività di propaganda del culto (Travolta ha recitato anche nell’imbarazzante Battaglia per la Terra, tratto dal romanzo più noto di Hubbard).

Per fare chiarezza su tutto ciò che è Scientology e su quello che non è, il documentarista Alex Gibney (nel 2008 ha vinto l’Oscar per il documentario Taxi To the Dark Side che parlava delle torture nel carcere di Abu Grahib) ha realizzato Going Clear: Scientology e la prigione della fede partendo dal libro di Lawrence Wright Going Clear: Scientology, Hollywood and the Prison of Belief. Il libro di Wright raccoglieva testimonianze e interviste di adepti della Chiesa e di fuoriusciti per ricostruirne la storia e le dinamiche interne. Gibney ha fatto lo stesso tipo di lavoro, affidandosi soprattutto alle testimonianze di ex fedeli che hanno abbandonato il culto con vari livelli di delusione.

Per quello che riguarda la storia di Scientology è importante sottolineare come la prospettiva offerta da Gibney riveli tutta la fragilità di Hubbard, uscito piuttosto provato dall’esperienza bellica, al punto da richiedere il proprio internamento all’autorità sanitaria, che avrebbe sviluppato il sistema di Dianetics per aiutare se stesso e avrebbe trovato poi nelle teorie di Scientology un percorso di autoliberazione dai suoi tormenti. A parte la battaglia con il fisco, Hubbard risulta innocuo nel suo fanatismo. Una parte della storia di Hubbard e delle origini di Scientology l’abbiamo già vista al cinema con uno dei capolavori di Paul Thomas Anderson, The Master, che ricostruiva liberamente l’origine della setta e rivelava già parte delle debolezze di Hubbard. La vera mente malvagia sarebbe David Miscavige, subentrato alla guida di Scientology dopo la morte di Hubbard nel 1986. Con Miscavige avrebbe avuto inizio una precisa razionalizzazione della violenza nei confronti degli adepti, con umiliazioni fisiche, campi di prigionia e correzione e un controllo continuo sulle loro vite. Non si tratta solo di questo: secondo l’esposizione di Gibney, Scientology nasce soprattutto come macchina per fare i soldi. Agli adepti veniva chiesto da subito di rinunciare ai loro beni e di fare donazioni alla Chiesa. La battaglia con il fisco era rivolta proprio a non dover pagare le tasse sulle donazioni. Con Miscavige è arrivato il riconoscimento come organizzazione religiosa e di conseguenza l’esenzione dal pagamento dei tributi. Attualmente, Scientology potrebbe vantare un patrimonio immobiliare di tre miliardi di dollari, reggendosi su un sistema che prevede il lavoro sottopagato dei fedeli (roba da pochi centesimi l’ora) e le donazioni sistematiche degli adepti più ricchi.

Questa ossessione del profitto spiega anche l’attenzione rivolta dall’organizzazione ai suoi credenti più famosi, quelle star di Hollywood che possono garantire una pubblicità continua. È inquietante la ricostruzione che fa Gibney del rapporto tra Tom Cruise e Miscavige e sul livello di intrusione nella vita della star che l’organizzazione avrebbe raggiunto all’epoca del divorzio da Nicole Kidman.

Gibney nella sua ricostruzione ha incontrato ex esponenti di spicco come il regista premio Oscar Paul Haggis, entrato nella Chiesa per ottenere la realizzazione dei suoi sogni ma mai particolarmente convinto delle finalità e del metodo, o l’attore Jason Beghe, che una volta uscito dalla setta nel 2009 ha rilasciato un’intervista video di più di due ore sui segreti di Scientology, ma anche autorità “pentite” come Marty Rathbun, che ha ricoperto l’incarico di dirigente, e Mike Rinder, portavoce dell’organizzazione. Nessuno dall’interno di Scientology ha voluto parlare, né Miscavige, né tantomeno Travolta o Tom Cruise. Travolta e Cruise sarebbero prigionieri dell’organizzazione: se la lasciano, i contenuti delle loro confessioni verrebbero resi pubblici. Perché ovviamente tutto del percorso di analisi è registrato e archiviato, e quindi pronto per essere usato come arma di ricatto.

Going Clear lascia volutamente in secondo piano gli aspetti religiosi, o filosofici, o spirituali, o psicologici, chiamateli come vi pare, che formano la dottrina fondamentale di questa pseudo-religione o pseudo-scienza. Tutto sommato, non fornisce risposte definitive su cosa sia e sul perché abbia questo potere vincolante sui suoi adepti, sul perché sia una prigione di fede, sul come tenga prigionieri i suoi fedeli e soprattutto sul perché riesca ad avere comunque il successo e il potenziale coercitivo che ha. Probabilmente, queste risposte non arriveranno mai.

(Going Clear: Scientology e la prigione della fede, di Alex Gibney, 2015, documentario, 120’)

“Ho visto il film”
di Dario Pontuale

Uscire dal mondo che sentiamo, ora come culla, ora come prigione, è quello a cui si aspira, non senza timore, quando ci si immerge nella lettura di un classico.

Secondo due delle quattordici definizioni date da Italo Calvino nel saggio Perché leggere i classici, «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire» e «ogni prima lettura è in realtà una rilettura».

Inchiodati da una vita dolorosa e amara, nell’isolamento benefico che produce dal frastuono assordante e ottundente dell’ossessivo accalcarsi della realtà esterna, proprio la lettura può soccorrere, può essere una forma altrettanto essenziale di sopravvivenza, un’esperienza di scavo nel profondo emotivamente potente.

I libri spingono il lettore a sognare e immaginare di poter realizzare i propri desideri. In una lettera di risposta a un’ammiratrice, Flaubert la esortava a «leggere per vivere».

Tanti spunti di evasione dalla nostra claustrofobica prigione ci offre Dario Pontuale con il suo esperimento grafico e scrittorio Ho visto il film. Capolavori senza tempo raccontati a chi ha poco tempo (Valigie Rosse, 2014).

Non un testo critico, Ho visto il film è un «invito alla lettura», come detto da Darwin Pastorin nella prefazione, per chi di uno scrittore ha sentito solo il nome o appunto visto solo il film (cosa assai frequente nell’era dell’homo videns). Ogni prosa è infatti accompagnata da una scheda con le informazioni essenziali sul film tratto dal libro di cui parla Pontuale e dalle caricature degli autori trattati realizzate da famosi artisti, illustratori e fumettisti, ritratti che ricordano i lavori di Tullio Pericoli.

Pontuale ci regala diciannove classici impressionandone la trama in un solo fotogramma arricchito da una sapiente analisi del testo e dello stile dell’autore e brevi accenni biografici.

Si tratta di mini-recensioni che sono come le peonie. Di bellezza superba e dai colori magnifici regalano un piacere intenso quanto breve perché fioriscono solo quindici giorni l’anno.

Pontuale lascia nel lettore interi mondi ancora da esplorare e una fame di racconti per cui ci troviamo alla fine sedotti ma non sazi.

A volte coglie i suoi autori nelle loro fragilità più grandi (Emilio Salgari, Cesare Pavese), o nei loro sogni più avventati e coraggiosi (Melville, Stevenson), o li traghetta in ricordi laceranti (il Vasco Pratolini di Cronaca familiare, «un libro che torna alle radici di un dolore profondo, un dolore che trasfigura il volto e la penna»), o nel bellissimo paesaggio sulle rive del Don, offeso però da una guerra «descritta in ogni suo aspetto di dolorosa inutilità» (Mario Rigoni Stern).

Concludono il libro due interventi extra: uno su Franco Basaglia, cui si deve la legge 180, nota appunto come Legge Basaglia, sulla chiusura dei manicomi, la quale «non è soltanto una conquista, ma una riforma capace di cambiare il modo di pensare di un intero Paese, un segno tangibile che eleva il livello di civiltà di uno stato»; l’altro sul poeta e cantautore livornese dall’«anima fragile, sensibile, tormentata, nascosta dietro una maschera ruvida e sprezzante», Piero Campi, cui la casa editrice labronica deve il suo nome e che per lungo tempo è stato emarginato da pubblico e critica.

Ho visto il film lo si chiude con la sensazione di avere stretto nuove e inattese sinapsi tra i frammenti delle reminiscenze scolastiche e le letture estive.

 

(Dario Pontuale, Ho visto il film. Capolavori senza tempo raccontati a chi ha poco tempo, Valigie Rosse, 2014, pp.107, euro 16)

“Una perfetta felicità”
di James Salter

È rimasto tra pochi. Consuma un terreno di vento sottile, divide il pasto con commensali scelti.

Sostiene lo sguardo dei narratori puri, di quelli per cui le parole modellano il flusso dell’aria e non solo dell’azione. Perché il racconto è un’atmosfera prima ancora di essere un fatto.

A novant’anni, assieme a Richard Ford, James Ellroy, Philip Roth e Don DeLillo, abita la rarefatta penisola dei grandi romanzieri. Americani, robusti custodi di storie.

Questo è quello che avrei scritto. Fino al 19 giugno. Quando un giorno qualsiasi, liquefatto per bene in una seduta di ginnastica, l’ha soffiato lontano. E infilato in mezzo ai molti. A quelli che non sono più. O che, come in questo caso, resistono per sempre in ciò che hanno scritto.

James Salter si è congedato con calma, concedendosi una vita d’aviazione e di lettere, di guerre volanti e conflitti subacquei. E di sei romanzi, tra cui lo splendido Tutto quel che è la vita. L’ultimo pubblicato quest’anno in Italia con il titolo Una perfetta felicità (Guanda, 2015), è apparso in America nel 1975 con un’introduzione proprio di Richard Ford.

Un’opera densa, massiccia, pervasa da una forza linguistica al tempo stesso intima e possente.

La vicenda è quella di Viri, architetto ebreo di origine russa, e Nedra, vivace e fascinosa padrona di casa e del suo cerimoniale. Una solida coppia di coniugi borghesi, riparata nel suo bozzolo di vita odorosa, nell’ovatta di pranzi fragranti, nel rituale impermeabile di una serenità scandita.

Due figlie intente a sbocciare, un corollario di buone amicizie per inondare i bicchieri, tutto il manipolo di norme e di arredi necessari a sentirsi al sicuro.

Eppure, come è facile sospettare ben presto, la facciata non basta.

Le pareti di luce al mattino, la casa sull’Hudson,le conversazioni più o meno brillanti, cani, cavalli, abeti imbanditi, sono la scenografia ideale per il dramma quotidiano della disillusione. Entrambi assolvono il loro obbligo familiare, cesellano cornici di festa per le loro bambine, progettano quei giochi e quegli umori di sogno che loro hanno perso per strada. Entrambi si afflosciano, entrambi tradiscono. Sono ordinari come il loro copione.

Viri s’invaghisce di Kaya, ma la vernice d’amore si asciuga molto in fretta; Nedra coltiva la sue carezze parallele per molto più tempo e poi decide di partire, di cercare quella porzione di se stessa che in tutte quelle stanze non aveva rintracciato.

Non c’è nulla di rocambolesco nella loro esistenza, in quelle fette di abitudine spartita con tanta noia addosso. Come se fosse normale, il destino irreversibile di tutti i matrimoni. Perché forse lo è.

Perché forse quasi sempre, anche in assenza di bollette minacciose, di tasche smagrite, anche quando la tavola è gonfia, la sconfitta aleggia comunque in chi si respira accanto ogni giorno di ogni anno. Imboscata tra i cuscini, camuffata nei risvegli, la stanchezza diventa un’altra pelle. E attraversa ogni pagina.

Ed è (probabilmente) impossibile entusiasmarsi per le stesse mani, per gli stessi occhi parcheggiati su di sé, per quelle doti che diventano prassi e poi fastidi.

Capirsi è una finzione, mascherata nella vacuità stracca di dialoghi spenti, spesso conditi da un vuoto spietato. E la scrittura di Salter realizza ed amplifica un’analisi limpida, lenticolare, l’osservazione attraverso un vetro di nuotatori svogliati, trascinati sbuffando nelle loro vasche tiepide.

«Fra poco Nedra avrebbe preparato la cena. Avrebbero mangiato qualcosa di leggero: una patata bollita, carne fredda, accompagnate da quel che restava di una bottiglia di vino. […] Nedra avrebbe fatto il bagno. Come chi ha dato tutto di sé – gli artisti, gli atleti – sarebbero sprofondati in quell’apatia che soltanto il compimento dell’opera concede».

Relazioni coniugali eviscerate con acume e disincanto, con le storture e i doppi fondi che quasi tutti i rapporti contengono nel proprio sangue.

Esemplari in quest’ambito di “indagine” sono i romanzi di Andrew Sean Greer (La storia di un matrimonio), di Robin Black (Ritratto di un matrimonio), di Maggie O’Farrell (Istruzioni per un’ondata di caldo), di Elizabeth Jane Howard (Il lungo sguardo), come anche il recente e italiano Lacci di Domenico Starnone.

In Una perfetta felicità trasuda invincibile la distaccata e quieta esperienza di Salter, lo sguardo infilzante del pilota di caccia che è stato, convinto che volare fosse molto più facile che scrivere un libro.

E anche se ha abbandonato il cenacolo degli ultimi eletti, è riuscito di certo in entrambi i decolli.

(James Salter, Una perfetta felicità, trad. di Katia Bagnoli, Guanda, 2015, pp. 376, euro 18,50)

“Giovani si diventa”
di Noah Baumbach

Josh è un regista di documentari che aveva avuto un certo successo di critica con i suoi primi lavori. Arrivato alla maturità si è arenato in un progetto a cui lavora da sei anni e a cui lui per primo non sa che direzione dare. C’è lo spettro del suocero che gli pesa sulle spalle, grande documentarista e un tempo suo mentore, da cui vuole trovare il coraggio definitivo di emanciparsi. Sua moglie Cornelia è con lui. Non è solo il film incompiuto a perseguitarli. Arrivati oltre i quaranta c’è un senso di inattuato che appesantisce gli anni che hanno passato insieme. Quando conoscono i giovani Jamie e Darby, hipster metropolitani dalla vita frenetica, mettono in discussione tutto quello che sono alla ricerca di un ultimo momento di giovinezza.

C’è molto del Woody Allen più ispirato in Giovani si diventa, ultimo lavoro di Noah Baumbach, regista indipendente tra i più apprezzati del cinema statunitense contemporaneo. C’è New York, ci sono giovani intellettuali, artisti e creativi, ci sono molti dialoghi. Cambia la portata dei discorsi. Baumbach si concentra molto di più su aspetti globali, di intere generazioni davanti ai cambiamenti. Quello tra Josh-Cornelia e Jamie-Darby altro non è che un confronto di figli di epoche diverse, tra quarantenni che non sono ancora adulti, senza figli da crescere e senza le preoccupazioni proprie dei loro coetanei, e venti-trentenni che affrontano l’oggi con un approccio molto più sereno e liquido, capaci di adattarsi a quello che hanno davanti e di prendere tutto quello che possa finire per rivelarsi utile per loro.

L’illusione di Josh e Cornelia è quella di non essere arrivati alla maturità triste che attribuiscono ai loro amici, fatta solo di chiacchiere sui neonati e feste noiose di vino e parole, e di poter avere qualcosa ancora da provare e da dire. L’amicizia con i giovani li carica di nuove energie anche per il quotidiano, per loro stessi. Attraverso Jamie e Darby iniziano a vedere con occhi nuovi tutto quello che avevano sempre avuto davanti, ad apprezzare i dettagli di quella cultura popolare che ai loro tempi doveva essere ritenuta inferiore e che adesso per gli hipster è diventata centrale. La semplicità con cui la giovane coppia va incontro alla vita dà agli altri due la sensazione che tutto si possa ancora cambiare. Soprattutto Josh – bloccato nel suo documentario che è un ibrido confuso di denuncia politica, economica e storica, con un professore niente affatto telegenico che pontifica per più di sei ore di montato spaziando su tutto, dalle guerre del Golfo alla Turchia – trova in Jamie, anche lui documentarista, o almeno aspirante tale, quel confronto che aveva sempre cercato per il suo lavoro, anche se poi non è il tipo di confronto che pensava di voler avere davanti

Giovani si diventa è probabilmente il film in cui Baumbach esplicita più che mai il suo debito nei confronti di Allen, in particolare di Crimini e misfatti di cui riprende più di un elemento, dal documentario incompiuto a quella tensione verso il giallo che in Baumbach assume però un connotato puramente ideologico, di principi e di morale molto più che criminale. Dopo aver già lavorato insieme nel 2010 in Lo stravagante mondo di Greenberg, Baumbach ha richiamato Ben Stiller per costruire insieme il nevrotico e fragile Josh. È una delle interpretazioni migliori di Stiller, che in carriera ha dimostrato spesso di non essere solo un interprete di commedie (anche il suo ultimo lavoro da regista, I sogni segreti di Walter Mitty, aveva confermato una certa sensibilità). Accanto a lui, è soprattutto Adam Driver a contendergli il centro della scena, mentre dopo il potente ritratto al femminile di Frances Ha, Baumbach ha lasciato  Naomi Watts e Amanda Seyfrid a fare da semplice contorno ai due maschi.

(Giovani si diventa, di Noah Baumbach, 2014, commedia, 97’)