“Io, Hitckcock. Il maestro del brivido si racconta”

Vi è fra i recensori del recente volume Io, Hitchcock. Il maestro del brivido si racconta (Donzelli, 2015), chi nega a Gli uccelli o a Psycho il potere di rinnovare il silenzioso tumulto di piccole ansie e schock deliziosi che gli amanti del genio inglese ben conoscono. Sostiene lo stesso giornalista di cui sopra che i film di Hitchcock sarebbero invecchiati perché «non hanno nessun rapporto con la realtà». A parte il curioso modo di intendere il cinema – o l’arte tout court? dovremmo chiederci cosa farcene de Las Meninas? – caso mai avrebbe da guadagnarne quello di Hitchcock se lo intendessimo intanto come un esercizio sullo/dello sguardo (ricordiamo una splendida lettura de La finestra sul cortile di Roberto Calasso che lo metteva in relazione con la filosofia indiana). Non ci sarebbe bisogno di ripetere come molti monumenti dell’arte del passato stiano egregiamente in piedi perché a) oggetti linguistici conclusi in sé stessi senza bisogno di avere referenti nella realtà empirica, men che meno “attuale”, b) la loro forza sta nel modo in cui ci parlano delle cose, non nelle cose di cui parlano.

Ma possiamo abbassare il tiro. Se Hitchcock non muore mai, il motivo è, contro ogni ragionevolezza della natura, fisiologico. Perché lo spettatore che gli è fedele sa quanto gli facciano bene i suoi film. S’intende proprio alla salute. «I brividi – sosteneva il genio inglese – sono “scosse mentali positive e salutari». Sì che il suo cinema può vivere – come dovrebbe essere – di vita propria senza grandi costruzioni teoriche d’appoggio. È caso mai esso a generare riflessioni inattese finanche nella filosofia più speculativa. A leggere i suoi testi infatti, quelli scritti di pugno del regista, si passa con molta facilità da argomentazioni di peso a considerazioni motivate da ragioni meramente commerciali. Con un tono che spesso non sai se scherza o dica sul serio. La sensibilità che mostra il nostro – che era come tutti sanno un maestro insuperato della tecnica (ma anche qui: la tecnica, la scrittura cinematografica, la “frase” della mdp non possono che mobilitarsi per un’efficacia della storia, del film come racconto – nessun autocompiacimento insomma) – si diceva  la sensibilità di Hitchcock per la macchina pubblicitaria era quella di un uomo scaltro, avveduto. Curava la propria immagine come quella del lavoro fatto e finito («Il mio personaggio preferito… sono io!»).

Il volume raccoglie interviste (compresi stralci di quella, imperdibile, con Truffaut) articoli, conferenze, aneddotica brillante (una specie di MacGuffin applicato al proprio personaggio – un regista che riusciva mirabilmente a mantenere la tensione inserendo tratti umoristici non poteva non esibirlo nelle scrittura d’appoggio al suo cinema). Come avverte il curatore Sidney Gotlieb. alcuni, non pochi, di questi testi – quelli promozionali – sono stati rivisti o addirittura concepiti da altri e sottoposti poi alla sua approvazione e firma finale (la cura è eccellente, l’edizione chiarisce ogni dettaglio sulle fonti, l’occasione, i punti controversi).

Difficile riassumere in poco spazio i temi del libro. Si parla del sistema produttivo, di questioni tecnico-stilistiche, del thriller. La sceneggiatura emerge come il cuore del film. Il che potrebbe sorprendere chi considera la scrittura cinematografica in carico solo allo sguardo della mdp e chi ritiene giustamente Hitchcock un virtuosista in materia. Ma la sceneggiatura di cui parla è un testo fatto e finito, in cui nulla deve mancare riguardo al lavoro di macchina, punto di vista, movimenti degli attori. Sui quali Hitchcock si intrattiene da par suo. Se vuole imprimere un segno – pochi più di lui – alla vita di un film e tenderebbe perciò a considerare gli attori mera funzione, quello che egli stesso chiama realismo gli impone di accettare lo star system com’è, consapevole di certi vantaggi commerciali («la star soddisfa un bisogno interiore del pubblico»). Ma le eroine vedano per favore di non crescere troppo – in altezza s’intende. Un metro e mezzo è sufficiente – le ragioni non sono solo tecniche, ma le lasciamo scoprire alle femministe curiose.

(Alfred Hitchcock, Io, Hitchcock. Il maestro del brivido si racconta, trad. di Riccardo Caccia, Donzelli, 2015, pp. 418, euro 32)

“Prendi la DeLorean e scappa”, a cura di Andrea Malabaila

Il viaggio nel tempo. Un tema che da sempre stuzzica l’immaginazione di chiunque, che genera ogni tipo di narrazione possibile. C’è un capostipite certificato: H.G. Wells che nel 1895 con La macchina del tempo lo introdusse come uno dei temi ricorrenti del romanzo fantascientifico. Da lì in poi è stato un susseguirsi di viaggi narrativi. Con la nascita del cinema, poi, la fantasia si è scatenata del tutto.

Saltando parecchi anni, nel 1985 uscì al cinema Ritorno al futuro, ibrido di fantascienza e commedia destinato a lasciare due seguiti e un’impronta indelebile nella cultura pop del mondo occidentale. La macchina fissa di Wells viene sostituita da una DeLorean DMC-12 (nella prima stesura della sceneggiatura era un frigorifero) e inizia il viaggio nel tempo di un ragazzo qualunque in fuga da un gruppo di terroristi libici. L’abbreviazione “Doc” divenne per chiunque sinonimo dello scienziato Emmett Brown. Andare in giro con lo skate voleva dire essere Marty McFly.

Il viaggio nel tempo in quel film non era in avanti nel futuro, era indietro, nel 1955. È nel 1989, con Ritorno al futuro – Parte II che Marty McFly si ritrova nel futuro, precisamente nel 2015.

Eravamo in molti, alla mezzanotte dell’ultimo capodanno, a fare il bilancio mentale di quello che l’anno che stava iniziando avrebbe dovuto riservarci secondo la fantasia di Zemeckis: le scarpe auto-allaccianti, le macchine volanti, i forni idratanti capaci di trasformare in pochi minuti una minipizza in una gigante, l’hoverboard (lo skate fluttuante). Non è arrivate niente, o quasi, ma c’è ancora tempo, perché la data esatta dell’arrivo di Marty e Doc nel futuro è il 21 ottobre del 1985, e si vedrà.

Nel frattempo, in questo doppio anniversario, Las Vegas edizioni ha deciso di chiamare a raccolta diciotto scrittori (tra i quali spicca per recente prestigio Paolo Zardi, semifinalista al Premio Strega con XXI secolo) per rendere omaggio al mito di Ritorno al futuro. È venuto fuori Prendi la DeLorean e scappa, raccolta di racconti a cura di Andrea Malabaila che in modi diversi celebra i trent’anni del primo viaggio di Marty McFly.

«Mai lasciare la macchina del tempo nella mani di uno scrittore», si legge in copertina. Di fronte alla possibilità del viaggio del tempo la fantasia è partita un’altra volta. C’è chi è rimasto più vicino alla saga di Zemeckis, incontrando i personaggi del film, immaginando le conseguenze che i viaggi hanno avuto nelle loro vite o più semplicemente di aver venduto quella DeLorean a Emmett “Doc” Brown, c’è chi si è lasciato andare alla pura fantascienza, incrociando piani temporali e giocando con il continuum spazio tempo, o alla nostalgia delle possibilità perdute.

Tra suggerimenti al se stesso del passato, inganni di mutande, ricerche di amore perduti, lotte contro la morte o la vita che non si avrebbe voluto avere, Prendi la DeLorean e scappa fonde cinefilia e fantasia, omaggio e nostalgia.

Non tutto è pienamente riuscito; in troppi racconti la suggestione di Ritorno al futuro si disperde; altre volte sembra infilata a forza. Prendi la DoLorean e scappa ha comunque il pregio, niente affatto trascurabile di dare spazio a un genere letterario troppo spesso ignorato dalla realtà editoriale italiana: la fantascienza.

I racconti sono di Davide Bacchilega, Marco Candida, Eva Clesis, Vito Ferro, Roberto Gagnor e Michela Cantarella, Enzo Gaiotto, Manuela Giacchetta, Elia Gonella, Andrea Malabaila, Christian Mascheroni, Gianluca Mercadante, Claudio Morandini, Gianluca Morozzi, Daniele Pasquini, Giorgio Pirazzini, Giuseppe Sofo, Daniele Vecchiotti, Paolo Zardi.

 

(Aa. Vv., Prendi la DeLorean e scappa, Las Vegas, 2015, pp. 158, euro 12)

“Questi sono i nomi”
di Tommy Wieringa

Questi sono i nomi di Tommy Wieringa (Iperborea, 2014). Due storie, solo apparentemente distanti. Da una parte un gruppo di profughi, smarriti, alla ricerca di un confine incerto da varcare. Ognuno con una diversa provenienza, ma uniti dal tentativo di dare una svolta al proprio destino. Dall’altra parte un poliziotto non più giovane. Una mattina si sveglia e si accorge che il suo piede è diventato freddo. Si aggira nel labirinto della sua memoria una canzone in lingua yiddish, che la madre gli cantava quando era bambino. Decide così di ripercorrerne le tracce e di decifrarne il senso oscuro.

Il luoghi sono quelli dell’Asia centrale, del Turkmenistan, con il deserto e la steppa. Il tempo è immobile, sospeso tra un’era moderna e un passato ancestrale e mitologico.

Wieringa ci racconta di un viaggio attraverso un territorio che ha orizzonti sconfinati, le privazioni e gli sforzi fisici dei protagonisti, dei loro corpi che si trasformano insieme alla loro indole. Le convenzioni sociali si perdono, lasciate dietro alle spalle, così come le proprie origini.

In questa quasi ossessiva descrizione sembra di percepire la sofferenza dei personaggi e allo stesso tempo di comprendere quella delle centinaia e centinaia di persone che affrontano simili viaggi realmente.

Lentamente siamo proiettati in una doppia dimensione, quella del presente in cui si muove il gruppo alla ricerca del confine e quello in cui ci conduce Pontus Beg, il poliziotto, indagando sulla propria spiritualità, un tempo biblico, il tempo degli ebrei in fuga dalla schiavitù e alla volta della terra promessa.

Wieringa, storico di formazione, traccia un interessante excursus sulle vicende del popolo ebraico, un percorso segnato dall’esodo, dal diffondersi in Europa durante il Medioevo dell’immagine dell’ebreo errante, per arrivare infine alla Shoah e ai giorni nostri. Un parallelismo questo che ci dà modo di ricordare e riflettere sulla natura delle grandi religioni nelle società occidentali.

Ma Pontus Beg si pone anche un’altra questione fondamentale, che non ha solo a che fare con la fede. Il poliziotto si domanda cosa voglia dire realmente appartenere a una comunità, in particolare quella ebraica, ma in fin dei conti non solo. Si tratta di sangue, di eredità biologica o invece è sufficiente essere in grado di condividere codici etici, di comportamento e rituali?

Quel che è certo è che deve esistere un capro espiatorio. Qualcuno deve assumersi il peso della responsabilità e del destino avverso che si staglia davanti alla collettività. Solo così questa avrà la possibilità di rimanere unita. Unita intorno alla sua testa.

 

(Tommy Wieringa, Questi sono i nomi, trad. di C. Cozzi e C. Di Palermo, Iperborea, 2014, pp. 336, euro 17)

“Cade la terra”
di Carmen Pellegrino

Alento è un anonimo fazzoletto di terra tra le montagne, un intreccio di sentieri polverosi adornati solo da casupole malferme e da misere stamberghe pericolanti. Molle è il ventre su cui riposa, scosso com’è dalle frane che agitano le pareti delle colline e che rischiano di coprire il paese con un sudario fatto di pietrisco. Le ferite inferte dalla natura alla fine di ogni scaramuccia sono visibili nei muri scrostati, nelle maioliche che cozzano l’una contro l’altra o nelle infiltrazioni che rendono marce le fondamenta delle case e le ossa degli abitanti. Eppure Alento non indietreggia, non abbandona queste radici instabili che lo fanno sprofondare ma, al contrario, si avvinghia a esse incurante della lotta impari che sta ingaggiando.

In Cade la terra (Giunti, 2015), finalista del Premio Campiello 2015, Carmen Pellegrino, alle prese con il suo primo romanzo, ci coglie alla sprovvista trasportandoci in uno spazio-tempo dalle fattezze neorealiste, la cui consistenza però è pari a quella di un sogno che inizia a disfarsi. Basta, infatti, avvicinarsi un po’ di più per scoprire che Alento, con tutti i suoi abitanti, non esiste. È un luogo immaginario, una bizzarra distopia ambientata nel passato o più semplicemente, la proiezione fisica di tutti i sentimenti che l’animo umano serra caparbiamente dentro di sé.

Con una prosa fluida, intessuta di citazioni poetiche, la scrittrice ci offre una visione onirica, talvolta persino cupa ma mai terrifica dell’Italia di provincia del secondo dopo guerra, in cui i personaggi si distaccano dalla dimensione corporea per assumere quella più leggera di ombre. A guidarci nel borgo in rovina, tra le storie che si susseguono, è Estella, probabile alter ego della Pellegrino nonché, nel romanzo, l’ultima alentese che si ostina a vivere nella parte vecchia del paese, quella martoriata dai cedimenti improvvisi della terra e pertanto, soggetta a sgombero coatto da parte delle autorità. Questa donna pervicace dal passato non proprio limpido – a diciotto anni scappa dal convento in cui viveva come monaca – non è altro che un tramite, un medium che ci aiuta a entrare in contatto con quei ricordi che altrimenti rischierebbero di rimanere soffocati da una patina di polvere.

L’esordio della Pellegrino nel mondo dei romanzi può dirsi a buon ragione pienamente riuscito, complice una prosa poetica piacevole che accarezza ogni pagina del libro e la sua capacità di rendere reale ciò che non lo è più perché dimenticato o abbandonato all’incuria del tempo.

 

(Carmen Pellegrino, Cade la terra, Giunti, 2015, pp. 224, euro 14)

“Contagious – Epidemia mortale”
di Henry Hobson

Nel 2013, l’annuncio di un film di zombie con protagonista Arnold Schwarzenegger aveva sollevato molta curiosità, anche perché era evidente sin dalle premesse che non si sarebbe trattato di un classico film dell’ex governatore della California del periodo pre-politico. Un film di azione ed esplosioni, per intenderci, o una di quelle commedie di cui a un certo punto Schwarzy è diventato fortunato protagonista. No, perché Maggie (questo il titolo originale, inspiegabilmente, senza nessuno motivo reale, cambiato per l’edizione italiana in Contagious – Epidemia mortale), il film d’esordio di Henry Robson, regista britannico di spot televisivi, si basa su un copione scritto da John Scott 3 che per anni è circolato negli studios in attesa di essere realizzato, attirando sempre una maggiore attenzione su di se.

In effetti, Maggie ha le premesse tipiche dello zombie movie: c’è un’epidemia del cosiddetto necrovirus che trasforma lentamente le persone in non morti affamati di carne umana. Schwarzenegger interpreta Wade Vogel, un agricoltore che all’inizio del film va a recuperare la figlia Maggie (Abigail Breslin, la bambina di Little Miss Sunshine) in un ospedale. È stata morsa da un contagiato ed è entrata nella fase di incubazione del virus, il padre può riportarla a casa ma sarà tenuta sotto stretta osservazione dalle autorità sanitarie e di polizia, perché non appena il morbo prenderà il sopravvento dovrà essere allontanata dalla famiglia e dai centri abitati e condotta in quarantena. Wade fa di tutto per difenderla, anche quando è ormai evidente che non c’è più niente da fare.

Quello che rende Maggie o Contagious un film di indiscutibile interesse è l’approccio tutto particolare che Robson e Scott 3 hanno scelto nell’avvicinarsi al filone del cinema dei morti viventi. Non siamo di fronte a un horror di stampo classico come i film di Romero, né tanto meno ai survival-action moderni come Resident Evil (le versioni cinematografiche più che i videogiochi) o The Walking Dead. Non si tratta neanche di una metafora per nascondere una critica alla società, come 28 giorni dopo di Danny Boyle, o World War ZContagious è un film drammatico che racconta il rapporto tra un padre e una figlia di fronte all’inevitabile destino della malattia. È la dimensione intima e privata del contagio a distinguerlo da tutto quello che si è visto finora al cinema sugli zombie. Ma non è solo questo.

A differenza della stragrande maggioranza di quel siamo abituati a vedere quando si parla di non morti, Contagious contestualizza l’esplosione del necrovirus in degli Stati Uniti che si mantengono ancora civili, in cui le regole e le istituzioni sono ancora al loro posto e anzi amministrano quotidianamente l’emergenza. Gli infetti sono dei malati da assistere. Senza situazioni da legge marziale, con i militari in strada a sostituirsi all’autorità, il dramma della famiglia Vogel passa per una serie di visite mediche per la bambina infetta, con normali sale d’attesa e stetoscopi. È la polizia a preoccuparsi che tutto vada bene, è la polizia che Wade chiama quando si trova davanti due vicini di casa ormai trasformati dal virus ed è costretto a ucciderli. La normalità non è ancora sconvolta: tra opuscoli informativi e ricerca medica si cerca di contrastare il virus e anche l’eliminazione degli infetti passa attraverso una procedura appositamente stabilita. Non ci sono orde di non morti, quando la malattia è allo stadio più avanzato, quando l’odore degli umani inizia a essere odore di cibo, scatta il ricovero in quarantena e la soppressione attraverso un cocktail di farmaci. Al di sotto del livello amministrativo, il quotidiano di Maggie non è cambiato da quando è contagiata. La sua vita continua come prima, esce con gli amici, gioca, ride con il padre. Questa quotidianità a termine, con la certezza inevitabile del virus, porta attraverso Contagious una tesa malinconia, una rassegnata tristezza di quello che sarà.

Il cinema indipendente statunitense ha già fornito versioni alternative di zombie movie, da Benvenuti a Zombieland al recentissimo Life After Beth, concentrandosi però soprattutto sulla commedia. La natura drammatica di Contagious ne fa un caso unico. Sicuramente, la curiosità di vedere una star come Arnold Schwarzenegger in un ruolo del genere rappresenta una delle principali ragioni di attrazione del film. L’ex Mister Olympia fa tutto quello che deve e probabilmente Wade Vogel rappresenta la migliore interpretazione della sua carriera. È sorprendente, davvero, come riesca a rendere il dolore compassato di un padre, a far dimenticare la consueta immagine di duro che lo accompagna ancora adesso alla soglia dei settant’anni (tornerà tra poco nel nuovo Terminator Genisys) mettendo i panni di un normalissimo uomo di campagna, a duettare con naturalezza con Abigail Breslin, che conferma sempre più il suo valore di attrice. Andando oltre però la curiosità per Schwarzenegger, Contagious è un esordio che riesce a mantenere le premesse interessanti offerte dallo spunto di partenza. Tutto sommato funzionerebbe anche senza essere uno zombie movie, perché la vera trama è il rapporto padre-figlia. Sarebbe bastata una malattia qualsiasi. Così, con il necrovirus, Contagious diventa qualcosa di totalmente nuovo.

(Contagious – Epidemia mortale, di Henry Hobson, 2015, drammatico, 97’)

“La strage dei congiuntivi”
di Massimo Roscia

Propst. Ora so a chi indirizzare i miei strali quando al lavoro sento un uso errato dei tempi verbali, uno stillicidio di “attimini”, un vilipendio della grammatica più elementare. L’italiano, questo sconosciuto!

Voi vi chiederete chi è Propst e cosa centra con La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia (Exorma, 2014), prodotto emozionale avanzatissimo che colpisce al cuore gli amanti dell’italico idioma e delle sue regole.

Propst è un designer statunitense di interni d’ufficio, ideatore di quel democratico, libero e dinamico ambiente lavorativo che è l’open space: «Ma il sogno non si è mai avverato e la sua rivoluzione architettonica ha prodotto soltanto questi enormi stanzoni sovraffollati, rumorosi, maleodoranti e sgrammaticati».

Ora però bisogna che vi spieghi il modernissimo e originalissimo colpo di genio di Massimo Roscia.

Lo scrittore romano, in modo provocatorio e sferzante, si immagina una setta di cinque singolari personaggi, paladini dell’Ars grammatica, amanti del mondo classico e dei miti, stufi dei «reiterati oltraggi linguistici» perpetrati non soltanto da persone di bassa alfabetizzazione ma anche da chi dovrebbe magari amministrare la cultura come il politico di turno o chi svolge compiti divulgativi come conduttori televisivi o radiofonici, persino da preti, avvocati o insegnanti.

Si tratta di cinque personaggi improbabili, bizzarri, dal sapere sterminato che infarciscono il loro racconto di citazioni, rimandi e suggestioni di borgesiana memoria.

C’è l’indiscusso maestro Dionisio il Trace, al secolo Renato di Scitio, che utilizza una lingua arcaica e misterica, quasi iconostasi dal fascino ignoto. È lui a dare il via a una serie di omicidi dimostrativi per denunciare il generale imbarbarimento della cultura italiana perché «solo attraverso la morte possiamo raggiungere il potere, il controllo, il dominio, l’affermazione della superiorità e, quindi, la possibilità e il titolo per ricominciare da zero, con la creazione di una società nuova, più onesta, più giusta, più pura, una società finalmente capace di rappresentare la sintassi».

Il primo a lasciarci le penne è un assessore alla cultura di basso rango e di infima ignoranza dalla «sconsiderata favella», Gross Donkey, che in una conferenza convocata «a doc», in cui darà tra l’altro l’annuncio della chiusura della biblioteca comunale, commette i più efferati crimini linguistici: «Raccapriccianti orrori fonetici, irripetibili aberrazioni lessicali, presunte qualità indiscriminatamente espresse al massimo grado da quegli assurdi superlativi assoluti, così soverchi e cacofonici, che si riproducono per partenogenesi e sovraffollano fastidiosamente il periodo. Sadiche sevizie inflitte alla grammatica, dolorosi e reiterati oltraggi all’intelletto».

Ci sono poi il bibliotecario che assiste a questo scempio, Liang Zidian soprannominato Partenio di Nicea e un analista sensoriale dall’olfatto ipersensibile e sviluppato che ricorda il Jean-Baptiste Grenoulle de Il profumo di Süskind. Quest’ultimo si unisce alla banda per ultimo dopo aver dato mostra della sua ira contro un uso sconsiderato del modo indicativo e per questo onorato del nome di Asclepiade di Nicea.

Eutichio Proclo è invece William Popgun, un dattiloscopista della polizia affetto da una grave forma di iperidrosi, nociva soprattutto per le persone a lui vicine.

Infine non poteva mancare un insegnante di letteratura, Eric Vermillon, detto Cratete di Mallo, sospeso però a tempo indeterminato per ‹‹fabbricazione di materie esplodenti››. A partire dall’omicidio dei suoi genitori soffre di schizofrenia bipolare che cerca di tenere a freno con la clorpromazina.

Con il pretesto della storia surreale in cui la nostra simpatia non può che andare a favore degli stragisti, Roscia denuncia il dilagare del «vomitevole verbalismo barocco, illogico e sgrammaticato» dei politicanti, la nascita fra i giovani di un «surrogato di lingua corrotta e imbarbarita, tristemente piatta e cacofonica, infarcita di volgarità, termini alloglotti e improbabili neologismi, una lingua incapace di rispettare le più elementari regole sintattiche» e soprattutto denuncia l’abuso del «soverchiante indicativo che soppianta il congiuntivo […] che […] non è un’inutile o aristocratica complicazione da eliminare».

E lo fa opponendo a questa ‹‹neolingua selvaggia che si sottrae alle leggi e ai controlli grammaticali››, una prosa di soppesata e voluta maniera dalla vivacità plurilinguistica e dal ritmo incalzante.

L’incanto è assicurato dalle altalene lessicali e dall’aura surreale di un noir scritto con intento provocatorio, divertente, funambolico e virtuosistico.

(Massimo Roscia,  La strage dei congiuntivi, Exorma, 2014, pp. 321, euro 15,50)

“The Lobster” di Yorgos Lanthimos

In un futuro ipotetico, o in un presente alternativo, essere single è considerato illegale. La legge impone la vita di coppia: chi rimane solo viene trasformato in un animale a sua scelta attraverso una complessa operazione. David è un architetto quarantenne appena lasciato dalla moglie che si è innamorata di un altro con cui aveva maggiore affinità. Il protocollo sociale prevede che David debba soggiornare per quarantacinque giorni in un albergo fuori città progettato apposta per permettere alle persone sole di conoscersi. Scaduto il mese e mezzo, se non avrà trovato l’anima gemella, verrà trasformato nell’animale che ha scelto. David ha scelto l’aragosta. Suo fratello, anni prima, aveva scelto di essere trasformato nel cane che ora David porta sempre con sé. La direzione si riserva il diritto di valutare le nuove coppie che dovessero formarsi all’interno dell’hotel promuovendole nelle camere doppie. Gli ospiti single hanno la possibilità di prolungare la loro permanenza catturando i Solitari, uomini e donne che si sono sottratti all’obbligo sociale della vita di coppia e vivono come fuorilegge nei boschi intorno all’albergo. Dopo aver tentato di fare coppia con un’ospite dell’albergo silenziosa e spietata nella caccia, David si unisce ai Solitari e scopre che anche lì esistono delle regole, molto severe.

Per chi non lo conosce, Yorgos Lanthimos è un regista e sceneggiatore greco arrivato, con The Lobster, al suo quinto film, il primo in lingua inglese. Nel 2009 fece cadere più di una mascella tra i critici e i cinefili presentando nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes Kynodonthas (il titolo internazionale è Dogtooth e allude ai denti canini), surreale ritratto di famiglia con figli adulti mai usciti di casa e cresciuti in un mondo ridotto ai confini della villa del padre. Kynodonthas vinse nella sua categoria e venne anche candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2011 (vinse Susanne Bier con In un mondo migliore). Nello stesso anno, Lanthimos presentò a Venezia Alps, storia di un gruppo di più o meno attori che si propongono alle persone che hanno appena subito un lutto per interpretare lo scomparso in cambio di denaro. In pratica, fanno da sostituti per accelerare e facilitare l’elaborazione del dolore.

Questi due film, più completi e maturi dei primissimi lavori, hanno imposto Lanthimos come uno degli autori più interessanti del panorama europeo e mondiale. Con The Lobster è arrivata l’occasione definitiva di assurgere al rango di giovane maestro (è del 1973). L’ha colta in pieno, portandosi a casa il Premio della Giuria alla prima partecipazione al concorso ufficiale di Cannes.

Come è chiaro dalle trame, Lanthimos unisce una vena surreale alla costruzione di realtà parallele nella sua filmografia. Immaginando scenari distanti dal quotidiano, come la famiglia rinchiusa di Dogtooth o la vita simulata di Alps, o ancora la condanna alla coppia di The Lobster, il regista greco esaspera aspetti del mondo reale e della società contemporanea, le ossessioni ricorrenti del mondo occidentale. Il surreale si unisce con una costante vena ironica che, soprattutto in The Lobster, fa da contrappunto impossibile a quello che succede. Nell’esposizione di queste realtà improbabili e terribili prevale una freddezza espositiva che rasenta il gelo, un distacco completo tra la sostanza anche spietata del racconto e la forma imperturbata dell’espressione. Si è parlato, non a torto, di una certa vicinanza con il cinema di Michael Haneke,. Al centro ci sono sempre i sentimenti umani. Forme molto particolari di sentimenti, portati all’estremo e all’assurdo, e soprattutto il modo in cui la dimensione privata della vita umana, che sia la crescita dei figli, o il lutto, o l’amore, interagisca con la dimensione pubblica e sociale.

Nel preparare The Lobster, Lanthimos ha voluto la certezza che gli attori avessero visto almeno uno dei suoi lavori precedenti. Fino ad Alps aveva lavorato con un numero ristretto di interpreti che conosceva bene. Nel cast internazionale di The Lobster sono rimaste solo Angeliki Papoulia e Ariane Labed da Alps (Papoulia era anche in Dogtooth, ed è un po’ l’attrice feticcio). Per tutti gli altri era la prima volta, e parliamo di attori come Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Ben Whishaw e Léa Seydoux. Era un po’ rischioso, perché lo stile di Lanthimos è rigoroso e molto distante dai canoni hollywoodiani, eppure c’è stata una perfetta sintonia. In particolare, Colin Farrell, ingrassato e normalizzato dagli occhiali e dalla pancia, dal taglio di capelli e dal mal di schiena, sorprende per quanto sia a suo agio lontano dai consueti ruoli di maledetto o duro.

I personaggi sono caratterizzati da cifre esteriori evidenti: David è miope, c’è l’uomo che zoppica, quello con la lisca, la donna con i biscotti al burro, la ragazza a cui sanguina il naso, quella con i bei capelli, per facilitare il processo di unione in coppia, perché basta che ci sia un’affinità evidente per poter passare nelle stanze doppie.

Nel mondo di The Lobster, del resto, non esistono le vie di mezzo. Non ci si può registrare nell’albergo come bisessuali, non si possono avere scarpe di mezza misura (David deve scegliere: o 44, o 45, niente 44 e mezzo) e, soprattutto, o si vive in coppia come pretende la società oppure si è soli, senza contatti fisici e condivisioni, come vivono i Solitari. È un mondo che annullando le sfumature vuole annullare le differenze, che pretende di costruire unioni tra esseri umani sulla base delle affinità apparenti, come un naso che sanguina, o la miopia, o che al contrario punisce con il sangue ogni tentativo di interazione. Stretti nella gabbia dei due estremi, gli uomini devono adattarsi alla finzione costante, a simulare la vita che vuole essere vista dall’esterno. La scelta non è possibile, la libertà non esiste più e l’amore, tutto sommato, non è necessario.

(The Lobster, di Yorgos Lanthimos, 2015, drammatico, 118’)

Perfettamente transitivo ma perfettamente spiazzante

Solo poche righe per raccontare quanto l’incontro con la poesia di Marco Giovenale, e poi con lui in persona, durante una lettura al teatro Palladium che mi ha convinto a vincere la timidezza e avvicinarmi, sia stato un piccolo shock. Come gli chiederò ingenuamente in un’aula deserta dell’Università Roma Tre dove mi ha raggiunto giorni dopo per una “chiacchierata per conoscersi”, l’impressione che viene dalla lettura di qualunque sua cosa (e la bibliografia è lunga e articolata) è quella di una lontananza profondissima, un affondo in avanti che lascia la stragrande maggioranza dei lettori ancora impegolati in un Novecento vischioso, irrisolto, immaturo, arteriosclerotico, mentre qualcuno ha attraversato i confini del “dopo la lirica” e ragiona sulla strada da fare. Corrado Costa, Giuliano Mesa, Carlo Bordini, questi alcuni dei nomi da fare in maniera più urgente per ripercorrere tutto d’un fiato la seconda parte del secolo ed arrivare a noi, o meglio a lui, Marco Giovenale; alla rottura della voce come senso a una sola dimensione, al superamento delle colonne d’Ercole che sono nella nostra testa, senza abbattere le quali, forse, non è più possibile seguire da vicino la poesia e capire la realtà.


La prima cosa che ti vorrei chiedere è come sei diventato poeta, quando ti è venuta in mente questa cosa, quali sono le tue “origini”.

Come mi è capitato altre volte di scrivere, per un periodo abbastanza lungo quando ero ragazzino, parliamo dei 13 o 14 anni, in verità la propensione era precisamente verso la prosa, in particolare verso il racconto breve. Ho sempre letto moltissimo perché in famiglia si leggeva molto, papà in particolare era appassionato di fantascienza e di libri gialli, però sono entrato in rapporti più o meno adiacenti a quelli per poi trovarmi in testi di Borges, Cortázar, e quindi in verità, in un contesto che è novecentesco in una maniera che già scardina tutta una serie di topoi di narratività classica.


Ti sei formato già sul “post”.

Sul post, sul dopo, su quello che in qualche maniera fa saltare i cardini, e questo doppio scardinamento, da una parte del genere, perché poi alla fine certe letterature sono laterali (la fantascienza…), e una narratività come quella inventata da Cortázar, mi hanno portato già sulla cattiva strada, in particolare Borges e poi Montale sul fronte della poesia, perché avevo da ragazzino una forte ostilità (considerandola una cosa un po’ effeminata, démodé) verso la poesia. Il mondo in cui io crescevo nei primi anni ’80 con una serie di altri interessi, era un mondo non impoetico ma di più, estraneo. Ricostruendo a posteriori, molto probabilmente si vivevano in quegli anni ’70 – inizio ’80, tutta una serie di mutamenti linguistici fondamentali, di cui poi ho scritto variamente in rete negli ultimi anni, a proposito dell’idea di “cambio di paradigma”, “spostamento dell’asse di ricezione” del fatto letterario da parte dell’intera società, non soltanto del suo segmento accademico, quindi diciamo che, a 15 o 16 anni, la grande letteratura, e i nomi di Borges, di Montale soprattutto, ed Eliot ancora di più, mi hanno riconciliato con la poesia perché me ne mostravano un volto tutt’altro che idillico, se pensiamo solo a La terra desolata. L’idea di fondo era che si potesse fare scrittura anche attraverso esperienze non proprie, quindi non tramite trascrizione, o in un rapporto (presunto) uno a uno col mondo, ma proprio attraverso un rapporto deviato, laterale, critico, conflittuale, e poi con parole di altri, come accade in tutta la costruzione di The Waste land. E di lì tutta una serie di tentativi di avvicinamento alla diagonalità della scrittura, al dire non diretto, non banale, non sfrontatamente narrativo e lirico, e tutta una serie di conseguenze che arrivano agli anni recenti. Due tentativi di scrittura un po’ più cristallizzata sono usciti, in maniera del tutto per me perdibile, negli anni ’90, però la prima opera che considero sensatamente proponibile a un pubblico è Curvature che esce nel 2002 per La camera verde, alla non più giovanissima età di 33 anni.


Leggendo alcune tue cose, come ad esempio Numeri morali, ho avuto l’impressione che tu e la tua esperienza siate estremamente avanti, al di là, oltre, e ovviamente tutto questo è basato sulla percezione della tradizione, tu stesso parli di Montale. Questa che forse è solo una mia impressione viene soprattutto da alcuni espedienti retorici che tu usi e sui quali ti chiederei qualcosa, soprattutto l’interruzione logico-sintattica della frase, la frase non è più al centro di quello che tu scrivi a vantaggio di parti più piccole, sintagmi che a volte sono giustapposti, invertiti, insomma, come componi? Come scrivi?

Il discorso forse si può biforcare, vero è che tante scritture ho affrontato nel tempo, e alcune in parallelo ancora ne porto avanti, alcune si interrompono altre proseguono come un filo d’acqua molto tenue, e altre invece diventano fluviali, ed è il caso della prosa, della “prosa in prosa”, di Numeri morali, e di altre che usciranno. Mentre invece il versante poetico, intendendo con poetico ciò che fa ancora riferimento a tutta una serie di clic, meccanismi e modalità compositive retoriche novecentesche va nettamente restringendosi nel tempo, e adesso diciamo che forse si chiude anche. Quindi è difficile dire come compongo, nel momento in cui c’è una raggiera di possibilità.


Quali sono i fronti?

I fronti possono essere quello più propriamente definibile poetico, quello che cioè fa capo a testi come La casa esposta, Criterio dei vetri, Delvaux, Soluzione della materia, che è una sorta di scrittura come direbbe Kasey Silem Mohammad in senso critico, handwritten, scritta a mano: ci può essere un foglio di carta e la penna, oppure il testo digitato al computer, ma sempre e comunque sulla base di una serie di flashes, momenti che sono sì di esperienze individuali, ma che vengono totalmente riscritti, ricodificati, sovrascritti, da una serie di impossibilità retoriche, di autointerdizioni rigidissime che non possono non esserci, per esempio l’insofferenza violenta nei confronti dell’iperbato, dell’inversione, dell’enfasi. E quindi una scrittura che, come giustamente hai notato tu, a volte si permette addirittura di spezzare la frase in uno o più punti (dove diversamente produrrebbe un certo tipo di senso per tradizione già testato), a rischio di compromettere la tessitura sintattica stessa, a rischio di compromettere non il senso ma il significato della frase. In verità poi interviene quell’altro controbilanciamento, il contrappeso che è l’apertura di credito e fiducia nei confronti del lettore, che non considero un lettore che deve semplicemente eseguire una partitura sintattica che io gli devo in maniera più o meno gigiona servire su un piatto d’argento, ma è in grado di fare quei salti logici che il testo in qualche maniera implica. E quindi mi trovo a segmentare il testo, a spezzarlo in punti significativi, in punti che poi creano dei picchi fono-semantici ricchi, carichi di aperture. Cecilia Bello Minciacchi più volte ha parlato di anfibologie come aperture di testo a 360 gradi che implicano addirittura due, tre, quattro significati contemporanei tutti quanti spendibili dal lettore nella produzione di senso. Questo per la poesia. Per la prosa il discorso cambia completamente, nel senso che a volte ci sono materiali riportati, e l’organizzazione dei materiali avviene secondo un’altra griglia di sofferenze e autointerdizioni. Poi ci sono testi ancora differenti, come le Ossidiane per esempio. Addirittura nelle Ossidiane arrivo a una non sopportazione di microstrutture della frase, avverbiali, quindi non più al livello alto della retorica, ma a quello anche minimo del conversare comune.


Quindi una tua marca individuale è l’idiosincrasia, l’ipersensibilità. Ti potrebbe calzare?

Idiosincrasia, insofferenze frontali nette.


Sospendiamo un attimo e leggiamo una poesia da Shelter (Donzelli, 2012):

Dietro la parola della porta
finisce la proprietà.

Non è esatto, allora la porta
è socchiusa, un poco oscena.

È l’ovale spesso:
spia dal vetrino fissato
alla carta come un dubbio, alla strada,
a ogni variazione della strada
e ne torna, fatta dubbio, lei
stessa – nel
suo abito larva avorio, largo,
rivolge, riavvolge fra le mani
oggetti che la balaustra copre
e da qui non si vedono
ma sicuramente ci saranno.

 

Questa è una poesia sulle poesie? C’è la parola, la proprietà…

Io in realtà la vedevo più come una sorta di separazione materiale. Questo è il tentativo di annotazione corsiva, violentemente veloce, di una separazione tra interno e esterno ma reale, concreto, non a caso fa parte della raccolta Shelter che significa riparo, rifugio, ma anche prigione, perché da una parte ci si rifugia, ma dall’altra si sta dietro la porta dove finisce la proprietà e dall’altro lato c’è la strada, e ci sono le variazioni della strada. Questa donna che torna nel suo abito-larva-avorio, riavvolge fra le mani degli oggetti che per noi che guardiamo da fuori la balaustra copre. Daccapo qui siamo di fronte a un quadretto non oleografico, che è quello di un rientro in un luogo chiuso di una persona che sta muovendo delle cose fra le mani, e mi tornano in mente tante figure di folli dostoevskijani che devono trafficare con le mai fra le cose. In realtà è giustissima questa osservazione sul fatto che la proprietà è anche la proprietà di linguaggio, un’altra delle cose che la follia fa perdere, e la porta si riduce a una sorta di parola.


Leggendo Shelter ho pensato che una cosa che manca, e forse arriviamo alla prosa, è l’io. E ci sono invece molti “loro” anche sottintesi. Questo mi ha dato l’idea che tu cerchi una specie di freddezza forse dovuta anche alle tue idiosincrasie.

Una notilla ex post. In Shelter non ci sono riferimenti diretti a lui, però dopo il 2001 sicuramente è stato molto forte il dialogo con Giuliano Mesa, ed il suo libro che io preferisco si intitola I loro scritti, uscì per Quasar e adesso è raccolto con le altre poesie da La camera verde. I loro scritti, una deviazione verso una voce collettiva che cerca però di non essere enfaticamente collettiva, politicamente sparsa su una moltitudine a cui comunque l’autore dà voce. Forse ciò che banalmente non esiste e continua a essere una costruzione reimpalcata davanti i vari teatri del mondo, è appunto la costruzione del “moi” dell’io lacaniano, come oggetto coeso, come figura che nello specchio si vede intera e che quindi ci fa gioire, e dovrebbe secondo noi far gioire tutti perché vedono la nostra integrità, cosa che comunque non è. E questo, a volte, sparso e sperso, per rubare un’espressione della Rosselli, nei testi, anche in chi non usa grammaticalmente l’io, è perfettamente tangibile, plasticamente formato, perché il lettore, ma questo è un problema anche mio, si vede fatto oggetto di un interesse di specchio da parte dell’autore, l’autore nel lettore cerca una sottolineatura dei propri a capo, delle proprie rime, della giustezza dei propri rimandi semantici, e questo chiaramente ci riporta alla prosa. La prosa è veramente, al contrario del “moi”, il soggetto di un inconscio, questo flusso che esplode, un cursore spostato da un autore che è – lui per primo – travolto, fermo in blocchi trasmissibili agli altri, ma sempre empirico, sull’orlo del fallimento.


Bisogna ammettere che uno scritto di prosa in prosa chiede molto al lettore, rispetto al mercato che c’è intorno. Come porsi nei confronti di chi vuole, cerca o subisce, convinto di averlo scelta, una lettura in cui c’è un autore che fa tutto perché il lettore pensi il meno possibile? Come ci si pone davanti a chi dice: «Io queste cose non le capisco, per me non hanno senso»?

L’iniziativa che si inventò Giuliano Mesa alla fine degli anni ’90, Àkusma, per raccogliere voci di autori diversissimi fra loro intorno a un’idea di ascolto reciproco (perché alcune poetiche rigidamente normative avevano scavato dei solchi tra autori che invece singolarmente erano più che disposti ad interscambi e dialoghi), portò a un convegno a Bologna e poi a un’antologia con lo stesso nome pubblicata da Metauro nel 2000. Giuliano volle riavviare una serie di incontri sotto la stessa sigla qui a Roma, e ne facemmo una decina circa, e ascoltammo le voci più diverse tra loro. Una delle cose che faceva Giuliano, e che più spesso ha fatto in passato anche indipendentemente da Àkusma, era organizzare letture in luoghi non deputati alla lettura, spesso a lui è capitato di fare delle letture in un bar, di confrontarsi con le persone le più semplici. Giuliano era di estrazione popolare e ha sempre parlato a tutti con la sua scrittura assolutamente complessa. Quello che a me sembra è che con l’esecuzione vocale del testo anche chi è più distante dalle modalità della complessità avverte la presenza di alcune linee che lo catturano, e di altre che lo respingono. Sono stato giorni fa a Bologna con Michele Zaffarano che ha letto una sequenza in modo quasi meccanico, e una ragazza è intervenuta dal pubblico dicendo: «Leggere così mi dà qualche difficoltà perché io starei per trovare una linea di senso, però la sua lettura mi fa sentire di fronte a un ostacolo». Ebbene, in verità è questo essere posti di fronte a un ostacolo a produrre quello scalino ulteriore che alcuni lettori possono trovare sulla strada, in senso positivo: da quell’inciampo possono rintracciare il senso del testo e della ricerca, nel testo che stanno affrontando e in altri ancora. Da una parte sono d’accordo con modalità di lettura in cui si mantiene questa comunicazione di una non transitività immediata, con momenti di interruzione, in un altro senso penso che l’articolazione sonora crea come delle legature, delle ricostruzioni di senso che aiutano invece il lettore a gettare un ponte laddove ci può essere un a capo, o a far avvertire un ritorno di suono laddove questo ritorno ha un significato che diventa immediatamente evidente. Questo per tutta una serie di testi. Ci siamo trovati al Palladium per la lettura dei testi di Oggettistica, testi molto recenti miei. Penso che in quei testi lì veramente ci sia una transitività totale, a me è sembrato che i testi passassero, anche non essendo compiacenti verso il gusto del pubblico, spero. Erano testi in parte paradossali. Se vogliamo pensare a un’eco per quelle pagine posso pensare a Christophe Tarkos, autore di ricerca, i cui testi sfido chiunque a trovare incomprensibili: perfettamente transitivi ma perfettamente spiazzanti. Mi auguro di trovarmi indegnamente in quell’onda lì.


Il nocciolo della risposta è la presenza, la lettura: bisogna esserci di persona, non è un ufficio a perdere.

Quando sono testi scritti sì. Se un certo tipo di contesto culturale effettivamente cambia, potrà anche cambiare la percezione del lettore. Se il mondo editoriale, ma tutto il mondo, continuerà a inclinare verso forme specifiche di romanzo, là è evidente che le generazioni che si susseguiranno saranno sempre estranee a… ma non dimentichiamoci che è successo tante volte.
Facciamo pubblicità a tre autori che scegli tu.

Sicuramente quest’ultimo libro di Nathalie Quintane, Osservazioni, tradotto da Michele Zaffarano per Benway Series. Stringhe di frasi facilissime a dimostrazione che si può costruire un testo con elementi quasi infantili, facendoci riflettere sulla leggerezza delle esperienze più banali. Un altro libro è aria (comunione) di Mario Corticelli (IkonaLíber), un libro spiazzante perché parla dell’aria ed è in realtà una riflessione sul potere e sulla violenza introiettata da noi tutti nel respirare quest’aria di questo scorcio di inizio secolo. E poi Carlo Bordini: tutto quello che si trova in giro va acquistato e letto. Se dovessi aggiungere un quarto nome direi tutto quello che si può trovare di Corrado Costa, perché a mio parere è il nome da fare per pensare a che cosa sarebbe veramente potuta essere la scrittura in Italia se non ci fosse stato quell’imbuto che ha ingoiato anche fisicamente molti autori interessanti all’abbrivio fra anni Ottanta e anni Novanta.

*
senza titolo

un elicottero abbastanza sicuro.
anche la rete della pellicola, meglio se dentro, è sicura.
il museo è sicuro, e la settimana.
sono sicuri i ricavati, è sicuro il tiraggio.
l’autunno, di solito, anche se ci sono delle variazioni, è sicuro.
i locali notturni sono sicuri.
il respingimento, il battito dei gatti, anche:
sicuri.
l’immaginazione è sicura.
l’ascolto è sicuro.
la linea è sicura.
c’è un posto sicuro.
il monitoraggio dell’area è sicuro.
i materiali sono sicuri, se ne siamo sicuri.
l’iban è sicuro perché serve solo per ricevere soldi.
è sicuro il lunedì, anche il martedì, si direbbe.
è sicuro l’inizio, in sostanza è sicura la fine.
la religione sotterranea è piuttosto sicura, e quella aerea.
la pratica è sicura.
il mouse è sicuro.
gli impiegati sono sicuri.
sono sicure le proporzioni.
la sicura è sicura, lo dice il nome.
lo stroboscopio pure, lui è sicuro.
come l’oscilloscopio.
il fumo è sicuro.
è sicuro il calcestruzzo.
come sono sicuri i punti cardinali, il sud.
la baia è sicura.
la polizia è sicura sempre.
la lucentezza è sicura.
il compressore è sicuro.
il ladro è sicuro, siamo sicuri.
per le stesse ragioni è sicuro il gioco.
il cavo è sicuro.
la musica è sicura.

[da Exit, 2013]


Marco Giovenale
lavora a Roma come editor, traduttore indipendente, lettore per case editrici; e, talvolta, libraio freelance. I suoi libri di poesie più recenti sono Shelter (Donzelli, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), In rebus (Zona,collana Level 48, 2012; con i testi vincitori del Premio Antonio Delfini 2009 e altri inediti) e Delvaux (Oèdipus, 2013). Una bibliografia – con otto ossidiane inedite – è Tagli / tmesi (La camera verde, 2013). Le sue pagine web principali sono Slowforward e Differx.

 

Foto di copertina di Dino Ignani.

“L’arte di riassumere”
di Ugo Cardinale

Se su Google cercassimo “come fare un riassunto”, ci troveremmo di fronte a numerosi risultati, provenienti da siti di studenti, di riviste divulgative, di giornali d’istituto, che tenterebbero di svelarci le migliori tecniche per poter dire in forma breve quello che l’autore di un testo ha invece reso in maniera più ampia. L’esercizio del riassunto, sebbene paia essere sempre meno frequente fra i banchi delle nostre scuole con il procedere del corso degli studi, non smette di essere una pratica necessaria, e l’esigenza di sapere come fare – di apprendere le regole fondamentali per una buna riuscita nella riduzione dei testi – permane. E a ragione, perché è forse proprio con l’avanzare degli studi e con l’ingresso del mondo del lavoro che si è chiamati al suo frequente utilizzo. Si pensi alla presentazione di un progetto in ambito lavorativo; oppure, si pensi al mondo editoriale e alla necessità in cui molti autori – veterani e non – si imbattono di dover stendere una sinossi del proprio lavoro; si ricordi – infine – che tutto questo accade in un mondo informatizzato in cui il tempo di attenzione dedicato alla lettura di una mail, di un post, di un articolo, è andato sempre più assottigliandosi.

Intercettando tali esigenze, il linguista Ugo Cardinale affronta il tema del riassunto da una duplice prospettiva: la prima, dedicata all’indagine del rapporto che intercorre fra l’atto della lettura e quello della scrittura; la seconda, inserita in un itinerario che conduce attraverso l’analisi di testi variegati e ne presenta una rassegna esemplificativa, nella quale sono sviluppati in forma compiuta alcuni possibili riassunti.

Cardinale non tarda a chiarire al lettore i nodi fondamentali, ossia i due momenti della contrazione: quello della comprensione del testo, in cui un peso rilevante è dato dalla individuazione della sua macrostruttura; e quello della riformulazione vera e propria, di cui sono proposti diversi approcci. Il riassunto non può dunque ridursi ad una parafrasi del testo originario né può prendere forma a partire dalla mera eliminazione di parti ritenute superflue: mediante la comprensione della macrostruttura si può «leggere un testo e riassumerlo attraverso un’operazione cognitiva di cancellazione dei dettagli, di generalizzazione-astrazione e di inquadramento all’interno di copioni, schemi cornici», che consente di elaborare un brano di sintesi il quale «dovrà poi tradursi in una sequenza di proposizioni che sviluppano più brevemente il tema, ma sono tenute insieme da un orizzonte semantico comune».

Ma anche per quanti non siano di fronte alla necessità di riassumere per esigenze scolastiche, la lettura di questo piccolo manuale può fungere da utile strumento se si avesse il bisogno di raccontare brevemente proposte o idee: i nessi logici da utilizzare nella riduzione di un testo paiono essere gli stessi che dovremmo impiegare nella esposizione breve di una qualsiasi questione più ampia, della quale ci sia però ben chiara la struttura fondamentale. Ecco dunque che anche la stringata stesura di uno stato o di un tweet non può essere subordinata alla mera rapidità, ma deve rappresentare un punto di arrivo, di riflessione, e – naturalmente – un impegno di tempo, evitando così di doversi scusare della lunghezza citando, con abuso, Blaise Pascal.

 

(Ugo Cardinale, L’arte di riassumere. Introduzione alla scrittura breve, il Mulino, pp. 208, euro 14,00.

 

“Storia di uno scrittore di storie”
di Sherwood Anderson

In un regime di storytelling come l’attuale ci sarebbe quasi da sottrarsi preventivamente all’elogio di «uno scrittore di storie» quale si definiva Sherwood Anderson (1876-1941), se non fosse che per fortuna abbiamo a che fare con un grande narratore il quale – fortuna ancora maggiore – aveva qualcosa da dire. E da fondare: nientedimeno che una genia di superbi scrittori americani quali quelli che occupano la scena della prima metà del secolo scorso. Sì che se la sua autobiografia si dichiara da subito un testo ambiguo, in cui invenzione e registrazione di dati di “realtà” s’intrecciano in maniera indecidibile, ciò rassicura il lettore di non trovarsi davanti a una truffa ma a un esempio di illuminato candore: quello di uno scrittore che invece di spacciare la menzogna per vero, ammette che non può fare a meno di inventare. La differenza sembra poco ma è tutto. Vero che Anderson non avrebbe potuto nemmeno volendo sfuggire alla malia del racconto: il padre, un uomo sui generis incapace di abbracciare il sogno americano nella sua versione hard, quella di far soldi e crearsi un nome in una comunità di uomini fattivi, concreti, pragmatici, sbarca il lunario in modi improbabili e sostituisce una realtà di fallimenti con un’affabulazione continua. Fuori dal mondo, racconta balle ogni giorno assecondando il proprio temperamento di artistoide «in una terra e in un tempo» in cui questa roba «non poteva in alcun modo essere compresa dai suoi coetanei». E lui, Sherwood, nel volume appena tradotto da Nicola Manuppelli per Mattioli 1885, Storia di uno scrittore di storie, annota con lo humour che gli è tipico di essere un figlio degno del padre.

Una volta morta la madre, nessuno più nella numerosa famiglia è in grado di tenerla in piedi. Anderson è costretto a lavorare. In un’epoca di invasamento industriale, mentre negli Stati Uniti di fine Ottocento arrivano biciclette e automobili, si guadagna da vivere in fabbrica; e immagina di cimentarsi col mestiere di attore prima di tentare l’arte del racconto. La cosa ha da fare con una specie di vanità, di competizione con quel fanfaluche del padre. Entrambi hanno bisogno di un pubblico. Si direbbe una motivazione poco nobile per diventare uno scrittore; ma Anderson tale lo era «di costituzione» vivendo come dice a più riprese sia l’infanzia che l’adolescenza all’interno di un’immaginazione fuori controllo.

Trasferitosi a Chicago, la faccenda si fa seria (Chicago, che lasciò un segno importante anche sul magnifico Saul Bellow, ritorna occupando tutta la scena in un’altra uscita Mattioli di queste settimane, Meravigliosa Chicago, di Thedore Dreiser, altro maestro americano, della stessa generazione di Anderson: ma qui sono solo piccoli estratti dall’autobiografia dell’autore di Una tragedia americana). Anderson prova varie occupazioni ma finalmente la letteratura smette di essere un sogno a occhi aperti per diventare il banco di prova di un esercizio duro quanto entusiasmante – a meno di non chiamare scrittura la pubblicità, in cui pure si cimentò ma ben conoscendo la differenza (chissà se Baricco lo sa). Accade tardi ma quando accade, dopo essersi sposato, Anderson dà alla luce racconti di una bellezza rara (specie quelli di Winesburg, Ohio). Di lì in poi l’imperativo della sua vita è trovare il «cuore del racconto», senza «farsi rincitrullire dalla questione dello stile» (difatti non arriva a Faulkner che pure gli è profondamente debitore). Dentro, storie di gente semplice, contadini (l’influenza giovanile dei russi), e personaggi più vicini al suo mondo (anche famigliare: «se le persone non vogliono che le loro storie siano raccontate allora fanno bene a tenersi lontane da me»). In verso contrario all’America per la quale l’unica direzione lecita sembrava «il progresso materiale e industriale», un narratore di razza ne individua l’animo inquieto, umoristico e drammatico.

(Sherwood Anderson, Storia di uno scrittore di storie, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 303, euro 15,90)

“Inside Out”
di Pete Docter

Riley ha undici anni e una vita perfetta. Ha una migliore amica, due genitori esemplari, una squadra di hockey di cui è la punta di diamante, e tutto quello che potrebbe desiderare. Qualcosa cambia quando è costretta a trasferirsi, con tutta la famiglia, dal Minnesota a San Francisco per il nuovo lavoro del padre. Nella nuova città è difficile far ripartire la vita come prima, anche perché il papà è sempre più impegnato con il lavoro, i mobili e tutte le loro cose sono andate perdute nel trasloco e il nuovo appartamento appare sempre più triste e vuoto, a scuola è difficile riuscire a inserirsi e intanto in quella che un tempo era casa sua sembrano averla già dimenticata, con una nuova giocatrice pronta a prendere il suo posto nella squadra e al fianco della sua migliore amica. L’unico modo che esiste per essere di nuovo felici secondo Riley è tornare in Minnesota, con o senza i suoi genitori.

Cosa c’è di straordinario in Inside Out, ultimo film targato Pixar passato fuori concorso a Cannes e presentato in questi giorni a Taormina (nelle sale arriverà il 16 settembre)? Cosa rende una normale storia di passaggio dall’infanzia all’adolescenza un saggio visivo sull’importanza dei ricordi e delle emozioni nella costruzione della vita? Un’intuizione brillante. Quella che hanno avuto Pete Docter e il suo co-autore Ronaldo Del Carmen: rendere le vere protagoniste del film le emozioni stesse.

Al momento della nascita di Riley nascono con lei Gioia e Tristezza, che vivono nella sua testa e determinano le sue risposte agli stimoli del mondo attraverso un grande pulsante: lo preme Gioia, scatta il riso, lo preme Tristezza, parte il pianto. Mano a mano che la bambina cresce arrivano le altre emozioni a regolare l’intera gamma delle reazioni. Ci sono Rabbia, Paura e Disgusto, e c’è un pannello di comando sempre più grande per guidare Riley. Mentre la bambina cresce, ogni momento diventa una sfera colorata di memoria, un ricordo da archiviare nella libreria della memoria a lungo termine. I ricordi più importanti vanno a formare le isole della personalità, le fondamenta del carattere di Riley: la famiglia, l’amicizia, l’hockey, la follia, l’onestà. Gioia controlla che tra le emozioni si mantenga sempre l’equilibrio per far crescere serenamente la bambina. Soprattutto deve controllare Tristezza, che sempre più spesso finisce per macchiare con il suo blu i ricordi più felici provando ad aiutare. Tutto l’ordine interiore di Riley si sconvolge quando Gioia e Tristezza vengono risucchiate lontano dal pannello di controllo e rimangono a governarla solo Rabbia, Disgusto e Paura.

È questa, la forza assoluta di Inside Out. Pete Docter e il team Pixar sono riusciti a sintetizzare tutte le difficoltà della vita umana, della crescita e delle reazioni emotive, della psicologia e dei comportamenti, in un capolavoro di leggerezza e profondità, di tenerezza e sofferenza.

L’animazione non è mai stata solo per bambini, ha sempre veicolato dei messaggi ulteriori nei sottotesti e nei simboli. La Pixar ha portato il cinema d’animazione a un livello ulteriore sin dal 1995 di Toy Story, fondendo la perfezione tecnica della computer grafica alla complessità drammatica delle trame. Inside Out lo conferma: è un film che dovrebbero vedere tutti i figli del mondo e ancora di più tutti i genitori, che semplifica tutto ciò che di complicato esiste nella comprensione dell’altro negli schemi elementari delle emozioni, che concretizza l’astratto in immagini. Tutto quello che si vede è splendido, poetico e simbolico. Il mondo interiore, organizzato in compartimenti e settori, spiega più del funzionamento della psiche umana di qualsiasi trattazione scientifica. Docter riesce a veicolare un messaggio complicato e fastidioso, come l’importanza della tristezza nella costruzione della felicità, riuscendo ad alternare il riso e il pianto, coprendo l’intera gamma delle emozioni in un racconto che conserva sempre l’apparenza della semplicità, anche quando inizia a scavare nel subconscio e nel mondo del pensiero astratto, quando i ricordi iniziano a svanire e la potenza dell’immaginazione sembra non bastare più a tenere in piedi un mondo pronto a crollare, isola dopo isola.

C’è una corrispondenza tra il viaggio di Gioia e Tristezza e la crescita di Riley, tra il lavoro sbagliato di Disgusto, Rabbia e Paura, che provano solo a limitare i danni dell’assenza di Gioia, e lo smarrimento della bambina. Senza la guida della felicità e anche della disperazione, Riley si perde nella nuova vita e perde i suoi consueti appoggi, finendo per inaridirsi sempre di più, distruggendo le basi del suo stesso essere. Nel frattempo Gioia trascina Tristezza per tornare al quartier generale attraverso quella città e immensa e caotica che è la psiche della bambina, con l’unica guida di Bing Bong, l’amico immaginario della prima infanzia di Riley, un po’ elefante, un po’ gatto, un po’ delfino su una base di zucchero filato rosa, rimasto a vagare nella mente della sua amica e sempre pronto a farle raggiungere la luna, come quando era bambina e sognava di volare su un carretto/razzo alimentato a canzoni, anche a costo di sacrificarsi.

Con Inside Out la Pixar ha raggiungo quello che forse è il punto più alto della sua poetica cinematografica nella capacità di trasformare le continue disavventure quotidiane della vita – gli impedimenti che possono essere una perdita, o una separazione da un amico, o un trasloco – in delle avventure enormi di crescita. Dietro forse ci sono discorsi complicatissimi come la teoria delle anime di Platone e migliaia di pagine di psicanalisi, pedagogia e psicologia comportale, ma non si vedono mai, camuffati alla perfezione nei colori e nelle immagini, per lasciare spazio all’unica cosa che conta realmente: le emozioni.

(Inside Out, di Pete Docter, 2015, animazione, 94’)

 

Sun Kil Moon
@ Auditorium Parco Della Musica

Solo apparentemente suddivisa in periodi, formazioni musicali e dischi, l’opera di Mark Kozelek è sempre stata in realtà un unico percorso che si compone di vari episodi, declinazioni particolari di un unico modo di intendere la musica e l’espressione artistica. Dai Red House Painters fino ai contemporanei Sun Kil Moon, infatti, il cantautore dell’Ohio si è reso protagonista di uno dei percorsi più originali e coerenti, che si sviluppa in una continua reiterazione con variazioni sul tema di alcune importanti intuizioni artistiche.

Assistere ad un concerto di Kozalek equivale ad intraprendere un viaggio nella vita dell’artista. Un viaggio diaristico che si costruisce sulla narrazione di piccoli eventi, di microstorie personali che si fanno temi universali dipingendo un mondo personale vasto, molteplice e sfaccettato, dove la storia individuale si espande fino a diventare, potenzialmente, storia di tutti. I suoi testi sono infatti simili ad una confessione esistenziale che prende spunto da episodi quotidiani insignificanti che però assumono, grazie anche al pathos distorto di un folk schizofrenico e a tratti delirante, che spazia dall’hip hop cantautorale al grounge, una dimensione più ampia, sino al punto che l’artista sembra tentare una sorta di psicanalisi di se stesso in forma
di musica.

Proprio la forma musicale proposta nell’ultimo lavoro, intitolato significativamente Universal Themes, sembra subire lo scarto maggiore rispetto al passato. Se, infatti, il lavoro sulle liriche prosegue lungo la metodologia diaristica appena ricordata, viene abbandonata quasi del tutto la forma canzone, traslandola in brani che superano largamente i sei o sette minuti. Essi diventano più che altro dei contenitori multiformi, al cui interno ogni cosa sembra permessa. La fantasia di una band che vede tra le sue fila anche l’ex Sonic Youth Steve Shelley si scatena in esperimenti fatti di continui cambi di ritmo e atmosfera: si passa con una semplicità disarmante dalla dolce e pacata ballad all’urlo rabbioso, dall’hip hop a-là Beck al riff martellante che fa da base ai monologhi di Kozalek.

È un’esperienza musicale che produce emozioni contrastanti, in un chiaroscuro semplice e caravaggesco riprodotto anche dall’impatto visivo di un gruppo incorniciato da luci soffuse, in un palco sul quale Kozalek passeggia incessantemente mentre racconta i suoi affanni quotidiani. Emozioni contrastanti, si diceva. Si ha la sensazione, a volte, di muoversi in una caverna nera, che va restringendosi fino al punto che nessun essere umano riesca neppure a strisciare, mentre la luce svanisce e l’aria è sempre più rarefatta. Proprio in quel punto, nel momento di massima rabbia, angoscia o solitudine, puntuale quanto inatteso arriva il raggio di sole, basso sull’orizzonte, velato da nubi soffuse, ma dolce e delicato come l’arpeggio di chitarra che lo accompagna. Sono proprio questi cambi improvvisi a fornire gli spunti più preziosi di un’esibizione a metà tra narrativa contemporanea e concerto folk-blues.