“Il libro delle parabole”
di Per Olov Enquist

«“Dovresti scrivere un vero romanzo d’amore, prima o poi, quello sì che mi piacerebbe leggerlo. Ma la zia mi ha detto che non ne hai mai scritti”.
“Non so scrivere romanzi d’amore”, rispose quasi con foga. “Non sono capace”».

Se lo scrittore svedese Per Olov Enquist sia riuscito a scrivere un vero romanzo d’amore o piuttosto un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, un’esperienza estatica in forma di riflessione o una pratica di ricomposizione di un trauma, è difficile stabilirlo con certezza dopo aver letto Il libro delle parabole (Iperborea, 2014).

Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un modo per ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde.

Quello che l’autore de Il medico di corte è ora, è frutto di una lenta costruzione, in cui tutto il suo passato, mai dimenticato e rimosso, è sempre dolorosamente presente. La memoria ci dice chi siamo e da dove veniamo. I ricordi ci danno un’identità.

Enquist inizia a scrivere Il libro delle parabole nel 1986 a Parigi, in uno dei momenti più difficili della sua vita, quando le sue giornate erano tiranneggiate dal demone dell’alcolismo e solo il suo gatto rosso di nome Kim (proprio come il protagonista del libro di Kipling tanto amato da bambino quanto proibito dalla severissima e devota Madre), con la sua calma, discrezione e sensibilità, non giudicandolo e accettandolo con i suoi difetti, era l’unico capace di infondergli fiducia in se stesso.

Arrivato alla soglia degli ottant’anni e da venti libero dal giogo di Bacco, dopo essersi già messo a nudo senza pudori nel romanzo confessione Un’altra vita (Iperborea, 2000) e con gli spettri degli amici morti che lo incalzano avvertendolo che anche il suo tempo sta per scadere, lo scrittore svedese sente il bisogno di analizzare con lo sguardo oggettivo di un anatomopatologo (di qui l’uso insolito per una autobiografia della terza persona) un episodio centrale eppure, non si sa quanto volutamente, lasciato fuori dal romanzo precedente.

Si tratta della narrazione della sua iniziazione sessuale, congedo irreversibile dalla purezza virginale all’età di 15 anni con una donna cinquantunenne, Ellen, «dai modi pacati e tristi», villeggiante nella villa di Stieg Larsson (sì proprio l’autore della trilogia Millennium) nell’estate del 1949 e da lui definita «l’esperienza religiosa forse più intensa di tutta la sua vita, se non l’unica, quella che l’aveva fatto restare aggrappato malgrado tutto, alla convinzione che il miracolo religioso fosse davvero possibile, e che un giorno l’avrebbe aiutato a sopravvivere».

La scena erotica, consumata in un afoso pomeriggio di luglio, tra il ronzio delle mosche e il crepitio della carta moschicida, su un parquet di pino, «un pavimento di legno senza nodi», è tra le scene più sconcertanti del libro al limite della blasfemia.

Infatti nel momento in cui riceve da Ellen il dono della «redenzione con libertà», lo svelamento, cioè, che ciò che rende la vita degna di essere vissuta sia questa unione quasi mistica di due corpi che si danno reciprocamente, il compimento di questo istante estatico in cui uno permette all’altro di penetrare nella sua «stanza più intima», l’adolescente Enquist si immagina l’episodio di Maria che unge i piedi di Gesù con oli profumati.

A partire da questo accadimento è possibile rileggere il proprio vissuto da una nuova prospettiva: la prematura scomparsa del padre quando aveva solo 6 anni; il riflesso che sulla sua educazione ha avuto l’angusto microcosmo familiare basato sul sistema pietistico-protestante di valori della religione materna; il dolore della bisnonna scritto con un chiodo sui muri; la dignità e il coraggio della zia malata che ripudia un Dio indifferente; la follia della cugina anche lei vittima del fanatismo religioso; l’alcolismo e i rapporti amorosi fallimentari.

Il libro delle parabole è anche un tentativo di colmare un vuoto: i nove capitoli o parabole che compongono il romanzo vogliono essere i sostituti di quelle nove pagine strappate dal taccuino in cui il padre aveva scritto poesie d’amore per la madre, taccuino gettato nelle fiamme dalla donna stessa obbediente al Dio intransigente del Vecchio Testamento.

È soprattutto la figura della madre una presenza-assenza centrale, con la sua rigidità da maestra elementare e guida spirituale della comunità di Hjoggböle, paese natio dell’autore.

Modulando la propria voce sulla falsariga della predicazione evangelica, Enquist si fa sacerdote, non, come avrebbe voluto la madre, di una religione che non ammette l’amore e il desiderio come istinti umani insopprimibili, ritenendoli invece come corruttori dell’anima, bensì di una religione in cui «L’amore era difficile da afferrare quanto Dio».

(Per Olov Enquist, Il libro delle parabole. Un romanzo d’amore, trad. di Katia De Marco, Iperborea, 2014, pp. 256, euro 15,50)

“Jurassic World”
di Colin Trevorrow

Sono passati ventidue anni dal sogno del miliardario John Hammond di creare un parco di attrazioni con i dinosauri sull’Isla Nublar, al largo della Costa Rica. Quel primo tentativo non era andato bene, ma oggi è realtà. Il “park” è diventato “world” e Jurassic World attira ogni giorno più di ventimila visitatori sull’isola organizzata come un qualsiasi parco giochi del mondo. Solo che le attrazioni sono i dinosauri, liberi nel loro habitat, o rinchiusi in recinti se sono carnivori. I turisti girano tra di loro come in un safari, li guardano nelle grandi piscine, giocano con i cuccioli nella nursery. Claire Dearing è la direttrice del parco. Deve ricevere i suoi nipoti che non vede mai arrivati in visita al Jurassic World, ma deve anche gestire gli ultimi dettagli della nuova, grande attrazione: l’Indominus Rex, un dinosauro mai esistito in natura, creato in laboratorio incrociando i geni di specie già esistenti. Mancano pochi giorni all’inaugurazione e l’Indominus si dimostra molto meno controllabile di quello che credevano tutti. Sarà il ranger Owen a dover prendere in mano la situazione per evitare un nuovo disastro.

Jurassic World, il quarto capitolo della saga dei dinosauri inaugurata da Steven Spielberg nel 1993 e, apparentemente, conclusa nel 2001 con il terzo capitolo, ha bisogno di essere inquadrato per poter essere propriamente analizzato. I due seguiti di Jurassic Park non erano stati al livello del primo capitolo per vari motivi. Il mondo perduto aveva comunque garantito un successo di pubblico quasi senza precedenti (l’unico precedente era lo stesso Jurassic Park) e di conseguenza un enorme ritorno in termini economici diretti e indotti. Il film del 2001 aveva deluso a ogni livello: Spielberg aveva abbandonato la regia, gli incassi non erano arrivati a duecento milioni in tutto il mondo, ben al di sotto dei due episodi precedenti. Questo non ostacolò l’idea di un quarto capitolo che iniziò a essere progettato già nel 2002. Nel 2011 arrivò finalmente l’annuncio ufficiale da parte di Steven Spielberg: il quarto film sarebbe uscito. C’erano parecchie perplessità sul progetto da parte della stampa e in generale del mondo del cinema. Con i film successivi, Jurassic Park aveva perso un bel po’ di credibilità come marchio e ci si domandava che presa avrebbero avuto i dinosauri su un pubblico sempre più abituato all’incredibile da un cinema che rispetto al 1993 aveva fatto enormi passi avanti sul piano dell’intrattenimento visivo con la crescita della tecnologia. Insomma: se il primo Jurassic Park era sorprendente anche sul piano degli effetti speciali, con il primo uso della CGI mescolata agli incredibili robot dinosauri, si pensava che Jurassic World non avrebbe potuto in nessun modo raggiungere lo stesso livello di meraviglia.

L’intelligenza della produzione è stata quella di collegare il quarto capitolo direttamente al primo, ignorando quasi completamente tutto quello che c’era stato in mezzo. In questo modo, e con una campagna marketing quasi spietata, sono riusciti a creare un’aspettativa sempre più alta. C’è da dire subito che l’effetto meraviglia non è assolutamente al livello del 1993. Con un uso sistematico della computer grafica unita al 3D, Jurassic World non ha niente da invidiare a qualsiasi film fantascientifico/catastrofico/di azione/di mostri degli ultimi anni, ma allo stesso tempo sul piano visivo non offre niente in più. Se si va a guardare i dettagli, la trama è abbastanza insulsa nelle sue svolte sempre prevedibili, i personaggi sono piuttosto piatti, nonostante l’astro ormai nato del tutto Chris Pratt si sforzi di fare il piacione quanto può (si dice che sarà il prossimo Indiana Jones, evidentemente dopo I guardiani della galassia sta continuando ad affinare il personaggio) e manca la scena, o le scene, memorabili che avevano fatto di Jurassic Park un classico immediato (una su tutte: i cerchi d’acqua  nei bicchieri). Come si è detto, però, Jurassic World è un film intelligente, volendo anche furbo. Probabilmente il merito è da dare al regista Colin Trevorrow, chiamato abbastanza a sorpresa per questo sequel dopo aver girato un solo film di un certo interesse (Safety Not Guaranteed del 2012, recuperatelo). Trevorrow ha avuto libero accesso alla sceneggiatura già preparata da Rick Jaffa e Amanda Silver (gli autori dei due ultimi, molto interessanti, Pianeta delle scimmie) e l’ha modificata con il contributo del suo uomo di fiducia Derek Connoly. Sono stati loro ad aggiungere quell’ironia che dà qualcosa in più a Jurassic World, quella capacità di non prendersi sul serio fino in fondo, di scherzare con se stesso e con tutto quello che c’è stato prima, all’interno della saga e fuori, scherzando con lo stesso Spielberg – rimasto come produttore esecutivo – e con il suo cinema.

Uno dei limiti dei primi due seguiti di Jurassic Park era la continua corsa all’eccesso per creare sensazione nel pubblico: più dinosauri, più azione, più cose improbabili e soprattutto sempre più computer graphic. Qui quel limite viene denunciato da subito: l’Indominus Rex viene creato perché il pubblico vuole qualcosa di più grosso, di più rumoroso, di più fico e con più denti, parole loro. Quell’eccesso diventa quindi una sorta di manifesto, di cifra stilistica precisa, di scelta consapevole. Se ci si lascia trascinare dalla voglia di divertire, dalla frenesia e dal rumore, Jurassic World è uno spettacolo a suo modo anche esaltante. L’importante è non andare a cercare significati ulteriori, anche perché in fondo a tutto c’è una critica all’intervento eccessivo dell’uomo sulla natura per piegarla ai suoi interessi, fino a creare nuove specie  per fare cassa. Posta in un film che parla di dinosauri ricreati in laboratorio dal dna conservato all’interno di zanzare cristallizate in gocce di resina non può che risultare ridicola.

(Jurassic World, di Colin Trevorrow, 2015, azione, 124’)

“Chi manda le onde”
di Fabio Genovesi

Ho iniziato Chi manda le onde di Fabio Genovesi (Mondadori, 2015) avendo l’impressione di trovarmi di fronte a una storia già letta. Un déjà-vu saltellante tra Acciaio e La solitudine dei numeri primi, o qualcosa di non troppo lontano che parli di infanzie tristi e vita di periferia viste dalla prospettiva di un giovane autore italiano che la stampa annuncia promettente.

Per le prime due parti del libro faticavo ad avanzare nella lettura: la storia mi sembrava troppo dolorosa perché valesse la pena continuare a leggerla. Come se portasse un carico eccessivo e disequilibrato di fatti e sentimenti drammatici, quasi che l’autore si fosse messo in testa di esplorare nella scrittura tutte le sfaccettature della sofferenza umana. Si parla di bullismo, dell’essere orfani, di Chernobyl, della morte in giovane età e di depressione, di insoddisfazione esistenziale e di albinismo, di insuccesso sociale e personale. I protagonisti danno l’idea di essere gli unici “giusti” in un mondo che li isola per le loro debolezze, e a renderli davvero speciali non sono doti eccezionali, solo la propria marginalità. Perciò, nonostante una trama ben calibrata, l’impressione era che al romanzo, nel complesso, mancasse un po’ di leggerezza. Non che fosse assente del tutto, questa levità, ma non la trovavo comunque sufficiente a compensare la pesantezza dei temi affrontati. Troppi, e tutti insieme.

Sul finire, però, ho dovuto ricredermi: l’intreccio ingrana con un exploit che, pur mantenendo una verve drammatica, si libera di alcuni fardelli di dolore e riesce a essere garbatamente ironico, osando addirittura uno humour nero che mi ha stupito per la sua singolarità, e per il suo riuscire a essere così distante da uno stile che sembra accomunare la letteratura italiana contemporanea e denuncia uno stato di depressione nazionale. Che lo si spieghi con il dilagare della crisi economica o con l’insoddisfazione perenne del mondo piccolo-borghese da cui la maggior parte dei suddetti autori provengono, emanciparsi da questa tendenza espressiva con uno strumento così inaspettato mi è parso geniale.

In particolare, della pittoresca brigata di emarginati sulle cui avventure si concentra l’ultima parte del romanzo, il personaggio di Ferro risulta quello costruito meglio, nella sua assurdità. Il nonno adottivo di un nipotino russo debole e radioattivo, volgare, politicamente scorretto, alcolista e fannullone, con una parola spietata per tutti e una passione poco cavalleresca per le belle donne. La sua presenza permette di alleviare i mali dell’animo degli altri protagonisti, che di fronte alla sua concretezza prosaica si vedono costretti a ridimensionare l’autocompatimento per le proprie disgrazie. Dopotutto Ferro, sputando per terra, è sempre pronto a ricordare loro che fino a che sono vivi non hanno molto da lamentarsi.

Chi manda le onde merita di essere letto anche solo per l’impegno messo da Genovesi nello scardinare uno stile di scrittura che negli ultimi anni si è sedimentato nella narrativa italiana, e ogni gesto eversivo di opposizione all’indolenza artistica va incoraggiato, celebrato.

 

(Fabio Genovesi, Chi manda le onde, Mondadori, 2015, pp. 792, euro 15)

“Il negro del Narcissus”
di Joseph Conrad

Gradito ritorno, in una nuova versione e in un’elegante veste editoriale, del libro che nel 1897 impose all’attenzione del pubblico inglese l’ex capitano di marina Józef Teodor Konrad Korzeniowski, destinato a diventare, col più maneggevole nom de plume Joseph Conrad, uno dei maggiori esponenti della narrativa in lingua inglese fra Ottocento e Novecento (Il negro del Narcissus, trad. Franca Brea, Mattioli 1885).

Ma non è solo nella, pur meritevole, ricomparsa di un testo di sicuro valore letterario fra le molte, effimere novità, che risiede l’interesse di questa proposta, quanto piuttosto nella possibilità che ci viene offerta, in aggiunta al piacere di lasciarci coinvolgere nel destino, appassionatamente scandagliato, di un pugnello di esseri umani: la possibilità, cioè, di cogliere accanto agli aspetti magari più datati della scrittura di questo primo capolavoro conradiano anche quelli che mantengono intatta la loro validità, se addirittura non l’accrescono, in un’ottica più moderna.

E certamente inattuale, per lettori ormai avvezzi alla poltiglia insapore della prosa usa-e-getta in cui vengono stesi di questi tempi i libri in Italia, potrà risultare il gusto conradiano per la frase ampia, articolata, per l’aggettivazione ostinatamente ricercata, e mai scontata, non scevra da echi poetici («…la nave avvolta nel silenzio esanime, una nave profondamente addormentata, senza paura, senza sogni, nel cuore di un mare assopito, ma terribile»); anche se, oggettivamente, certo metaforizzare è difficilmente compatibile col gusto attuale: «La terra oscura giaceva solitaria in mezzo alle acque, come una nave possente cosparsa di luci di posizione, una nave carica di milioni di vite, una nave zavorrata di scorie e di gioielli, di oro e di acciaio. Si innalzava immensa e forte, custode di tradizioni inestimabili e di sofferenze innumerevoli, rifugio di gloriosi ricordi e vili dimenticanze, di virtù disonorevoli e di splendide colpe».

Così come abbastanza scopertamente perseguito rischia di apparire l’intento di Conrad nel caricare alcuni dei suoi personaggi di una ingombrante valenza simbolica: tale è il cuoco di bordo, espressione di un’istanza predicatoria e penitenziale di tipo grettamente cristiano-confessionale, su cui si rovesciano già le sguaiate contestazioni dei suoi stessi compagni; o, in maniera molto più ampia e coerentemente costruita, sul piano della narrazione, il personaggio di Donkin che dà voce – cadenzata sempre in battute di dialogo di corposa efficacia comunicativa – ad accessi di protesta, rispetto all’oggettiva realtà dello sfruttamento umano praticato sui marinai di fine Ottocento, di cui non possono sfuggire le assonanze marxistiche, e su cui perciò si appunta, venato di uno stoicismo acre, il sarcasmo del narratore: «uomini [i marinai, ndr.] senza voce, ma abbastanza forti da disprezzare l’autocommiserazione sulla durezza del loro destino. C’era un solo destino ed era il loro, la capacità di sopportarlo costituiva un privilegio elettivo»; «…non viene loro consentito di meditare in pace sull’amaro e complesso senso dell’esistenza […] finché il faticoso susseguirsi di notti e giorni inquinato dall’ostinato clamore dei sapenti che reclamano felicità e un paradiso vuoto, sia riscattato dal silenzio diffuso del dolore e della fatica, dal muto timore e dal muto coraggio di uomini ignoranti, immemori e tolleranti».

Ma vi è almeno un caso in cui questo procedimento conradiano di simbolizzazione tocca esiti non solo assolutamente persuasivi, ma di smagliante livello artistico. È, questo, appunto il personaggio a cui il racconto s’intitola: James Wait (nome che provoca un decadentistico spiazzamento di fronte all’ambiguità della parola, fin dal primo momento in cui viene enunciato, durante l’appello all’arruolamento nella ciurma del Narcissus: giacché, sarà bene notarlo, in inglese suona come “aspetta”) il negro che, oltre al colore infero della sua pelle, è anche, perfino troppo emblematicamente, portatore della malattia, la tisi che gli schianta il petto fin dal suo primo comparire a bordo, e dunque della morte.

È questo suo essere portatore di morte – nonché, nella codificata superstizione marinara, della impossibilità che il vento riprenda a spirare, o che la terra avvistata venga raggiunta, finché non si sia compiuto, il suo destino di morte – a coagulare contro di lui l’ostilità, il pregiudizio, di molti dei suoi compagni: cui a sua volta Wait risponde con altrettanta, scontrosa e ulcerata, intrattabilità. Anche dopo che, nel corso di un uragano di epica violenza distruttiva che investe la nave presso il capo di Buona Speranza (e consente a Conrad di prodursi in uno strepitoso tour de force narrativo), alcuni dei marinai, fra cui lo stesso io-narrante, rischieranno la propria vita pur di strapparlo all’annegamento.

E quando, in vista dell’approdo definitivo cui al morente sarà precluso di giungere, il corpo del negro verrà finalmente lasciato scivolare in mare, cucito dal velaio dentro il suo involucro di tela bianca fra le lacrime di Belfast, l’unico, a bordo, che gli abbia voluto un po’ di bene, forse ci sembra di comprendere il modo segreto, e poeticamente inquietante, in cui questo destino di annientamento e di sconfitta si lega al rifiuto di ogni consolazione fideistica per l’amara assurdità dell’esistenza, che Conrad ha opposto all’ostinato clamore dei sapienti che reclamano felicità e un paradiso vuoto. È quando la nave è in porto, e i marinai sbarcano, a dilapidare in bevute e postriboli e vestiti nuovi sgargianti la paga che si sono guadagnata con così atroci traversie in mare “come naufraghi folli, festosi nella tempesta sopra uno sperone insicuro di roccia traditrice”, che noi sentiamo l’oscura potenza con cui questa “novità” di quasi 120 anni fa ci parla di oggi, di noi: del nostro – immutabile – destino.

(Joseph Conrad, Il negro del Narcissus, trad. di Franca Brea, Mattioli 1885, 2014, pp. 169, euro 16,90)

“Vulcano” di Jayro Bustamante

Maria è una diciassettenne di origine Maya. Vive con i genitori in una capanna ai piedi di un grande vulcano in Guatemala. Ogni giorno pregano gli spiriti perché la montagna continui a dormire. Tutti e tre lavorano in una piantagione di caffè. Maria è innamorata di un giovane contadino, Pepe, soprattutto per la sua decisione di scappare oltre il vulcano, verso gli Stati Uniti e una nuova vita. I genitori, però, l’hanno promessa a Ignacio, un giovane vedovo molto importante nella piantagione. Per convincere Pepe a portarla con sé, Maria gli concede la sua verginità. Il ragazzo scappa e lei resta sola e incinta, con l’ombra del vulcano a pesarle sulle spalle.

Jayro Bustamante conosce bene la regione abitata dai Kaqchikel, i discendenti dei Maya del nord-est del Guatemala. Abitava lì quando era bambino, parlava la loro lingua. Dopo aver girato corti e aver studiato cinema tra Parigi e Roma ha deciso di tornare a casa per il suo film d’esordio e di raccontare una storia della sua gente.

Vulcano unisce lo sguardo antropologico sui riti e le usanze di un popolo poco conosciuto con il racconto di formazione della crescita della giovane Maria. La presenza costante del vulcano pone i Maya di Bustamante in un contatto diretto e continuo con la natura, fonda la loro comunità con l’ombra, i rumori. Allo stesso tempo, li isola creando una barriera oltre la quale è lecito immaginarsi qualsiasi cosa. Per Pepe, poco dopo la montagna ci sono gli Stati Uniti (in mezzo c’è il Messico e il deserto da attraversare, ma è poca cosa) e quindi la possibilità di una vita diversa; per la madre di Maria, superato il vulcano c’è solo acqua fredda, un nulla pericoloso e ostile. Per Pepe, il vulcano è solo un ostacolo, per i genitori di Maria è parte della loro vita, è il dio visibile da pregare, il segno della terra.

Il vulcano è solo uno degli elementi che pone la vita in simbiosi con la natura. Il film inizia con un accoppiamento tra maiali (aiutato dal rum), Maria e la sua famiglia, e tutta la comunità, dipendono dalle piante di caffè per vivere, dalla calma del vulcano per sopravvivere. Regolano la loro vita secondo i cicli della luna, mentre i serpenti infestano i loro campi e impediscono i raccolti, resistendo ai veleni e alla tecnologia.

Maria sogna di lasciare il suo mondo verso uno nuovo di cui non sa nulla, lontano e diverso. Quando ne avrà bisogno, quando proprio la natura la costringerà ad attraversare il vulcano, quel mondo sognato tante volte si rivelerà gretto e nemico, spietato verso ciò che Maria ha di più prezioso nella vita. Non c’è spazio per la condivisione e la dimensione corale del villaggio, oltre il vulcano.

Vulcano si è aggiudicato l’orso d’argento Alfred Bauer riservato ai film che aprono nuove prospettive sul cinema all’ultima edizione del Festival di Berlino. In sé ha gli elementi tipici del film da festival: l’internazionalità esotica, gli elementi artistici della regia. Questo non è detto per sminuire. Il primo piano simmetrico di Maria che apre e chiude il film, ripreso anche nel trailer, è già un indizio della consapevolezza registica di Bustamante, che dimostra di saper muovere la macchina da presa in modi diversi, affidandosi ai campi lunghi e ai piani sequenza, ai primissimi piani e al montaggio interno, lasciando parlare l’ambiente e i volti. Conoscendo da vicino la realtà che racconta, Bustamante riesce a fondere il racconto documentaristico con la narrazione più drammatica. Senza denunce o pretese di indagine socio-antropologica, mostra la vita di una popolazione lontana dalla consapevolezza mondiale, ferma in alcuni casi a una dimensione quasi primitiva, come per la religiosità tra sincretismo e animismo, con segni della croce e preghiere agli spiriti della natura, ma contaminata dagli aspetti più deteriori del mondo occidentale: lo sfruttamento della terra, l’alcolismo, la burocrazia.

La volontà, però, di creare uno scarto netto tra il mondo civilizzato e il mondo naturale della comunità porta Bustamante a precipitare il film nella parte finale, introducendo un tema di non poca importanza senza che venga realmente approfondito. Gli elementi per un film potente c’erano già, alla ricerca della sensazione in più, Vulcano finisce per indebolirsi.

(Vulcano, di Jayro Bustamante, 2015, drammatico, 92’)

“Gli increati” non è solo un libro

Gli Increati di Antonio Moresco (Mondadori, 2015) è l’ultimo e più potente romanzo della trilogia iniziata con Gli esordi e continuata con i Canti del caos. Esso lancia una sfida al narrare e al conoscere: tratta infatti della vita e della morte e della non vita e della non morte, e soprattutto dell’increazione, e lo fa con un linguaggio forte che entra e si imprime. Gli increati ha la grandiosa estensione delle cose intere e della realtà. Una lunga e obliqua storia d’amore che va letta e amata, riletta e amata.

Quella che segue è un’intervista che lascia sbalorditi per la forza e l’energia, per la foga che emerge e che tracima, per la bellezza della lingua e per la radicalità del pensiero di uno dei più importanti scrittori contemporanei.

 

Intanto devo dirti, Antonio, che questo è il tuo romanzo più bello, forse anche perché c’è il meglio – secondo me – di tutti i tuoi romanzi precedenti – da Clandestinità a Gli esordi a La lucina a Gli incendiati a Lettere a nessuno. All’inizio pensavo di farti delle domande seguendo un qualche ordine ma poi mi sono perso perché leggendo e pensando e ripensando al tuo libro, le domande si sono accavallate, scontrate e mescolate, sono “tracimate” e si sono unite da una parte e divise dall’altra. Quindi, vado a ruota libera.

La prima volta che ci siamo incontrati e conosciuti era il dicembre del 2009 e allora mi accennasti al progetto –  in parte realizzato e in parte in via di realizzazione – sull’Increato. Mi vorresti dire da dove ha origine il romanzo? Qual è il suo nascere dentro di te? C’è un momento particolare in cui ne è comparso il seme germinale?

C’è una pagina degli Increati dove cerco di raccontare questo momento. È strano ma, ogni volta che cerco questa pagina, non la trovo. Scorro l’indice, vado a sfogliare le parti del libro dove potrebbe essere annidata, ma non la trovo mai. Anche adesso, prima di rispondere a questa tua domanda, l’ho cercata, ma ancora una volta senza trovarla. Chi lo sa perché si nasconde così, anche a me che l’ho scritta, proprio a me, persino a me, soprattutto a me? In questa pagina racconto di quando, un giorno d’estate di più di trent’anni fa, mentre mi trovavo in Calabria e dovevo ancora cominciare a scrivere Gli esordi, mentre stavo seduto in costume da bagno su un gradino reso rovente da sole, mi è successo qualcosa che non saprei definire e che mi è parsa come la percezione di un punto di luce che si espandeva nel buio, o come di una punta di spillo che lacerava la membrana del mondo, come la precognizione in un solo istante che non aveva neppure la durata sconfinata di un istante di qualcosa che c’era da qualche parte e che mi faceva balenare la sua presenza, di ciò che sarebbe stata e che anzi già era questa cosa che non c’era ancora. Però il tutto in modo atomico, senza che sapessi che cosa stesse succedendo, senza contorni, senza che avesse nulla della visione d’insieme, come di qualcosa che stava da un’altra parte, che veniva prima, che verrà prima, che non aveva neppure bisogno di venire prima per venire dopo, che non aveva neppure bisogno di venire dopo per venire prima, a cui bisognava credere e a cui dovevo abbandonarmi completamente e affidare ciò che percepivo come la mia vita e la mia anima anche se non sapevo cos’era, a cui l’avevo già abbandonata anche se non lo sapevo. E mi dicevo, in quella pagina, che questa inafferrabile cosa di cui in una frazione d’istante avevo fatto esperienza non aveva niente a che vedere con un’intuizione narrativa oppure concettuale e neppure musicale. Accidenti, se trovassi quella pagina sarebbe facile rispondere a questa domanda. Ti direi: «Va’ a pagina tale e là trovi tutto!» Vorrà dire che la cercherai tu. Perché devo sgobbare solo io? Sgobba anche tu! Trova questa pagina e poi, se vorrai, trascrivila qui dopo quello che ti sto cercando di dire adesso. Cercala e poi dimmi a che pagina è, così io ci faccio un’orecchia e quando qualcun altro mi chiederà la stessa cosa gli potrò dire: «Va’ a pagina tale e là troverai tutto quello che mi è stato possibile dire su questo argomento. Perché in quel magnete a forma di libro c’è infinitamente di più di quello che ti potrei dire e che ti sto dicendo adesso con le mie povere parole scontornate».


Sono rimasto turbato – la mia reazione nasce da una “simpatia”, cioè da un comune, credo, sentire – da questa tua affermazione: «E poi anche qualcosa di più indicibile, di cui non ho mai parlato, di cui mai parlerò, di cui non si può parlare, che devo custodire dentro di me […] Io ho dovuto fin dall’inizio distinguere i contorni delle cose del mondo dall’interno di questo terribile intontimento e di questo trauma». Sembrerebbe che non solo Gli increati ma l’intera tua produzione siano solo uno sviluppo di un indicibile e di un non confessabile. Mi chiedo e ti chiedo: perché farne cenno se poi questo nucleo è destinato a rimanere taciuto per sempre? Vi è, nell’intero romanzo, una collisione tra la parola che dice e la parola che non sa né può né vuole dire. Come tenti di risolvere questo rovello?

Non è un rovello. Non è un rovello, se ci stai dentro. È un rovello se ci stai fuori. Ma io ci sto dentro. Ci sono cose che possono essere dette e cose che non possono essere dette. Ci sono le cose che possono essere dette perché ci sono le cose che non possono essere dette. C’è la luce perché c’è il buio. C’è la parola perché c’è il silenzio. Bisogna dire tutto, e allora bisogna anche dire che ci sono cose che non possono essere dette, bisogna anche dire che le parole sono circondate dal silenzio. Bisogna anche nominare la presenza di ciò che non si può dire e arrivare fino al limite del silenzio. Questo libro si spinge fino alle soglie estreme della dicibilità, dove anche e persino e soprattutto l’increatore si deve fermare perché, da un certo punto in poi, capisce di fare diaframma all’increato.


Creazione, distruzione e increazione come si pongono l’una in confronto con l’altra?

Ci ho messo più di trent’anni a scrivere quest’unica opera composta di tre grandi parti intitolate Gli esordi, Canti del caos e Gli increati, e ho impiegato quasi tremila pagine per arrivare a rendere dicibile ciò che era fin dall’inizio nelle sue pieghe ma che si palesa e viene preso finalmente di petto in questo libro, e che non è una semplice agnizione ma è come un vero salto di natura e di dimensione. Non potrei certo dirtelo meglio qui, in poche riflessioni concettuali scontornate da tutto il resto e dal portato e dalla moltiplicazione narrativa, sentimentale, emozionale, viscerale, mentale, speculativa e lirica che rende dicibile tutto questo. Il libro è attraversato da movimenti tellurici e salti di piani e da lunghi dialoghi estremi che ci fanno avvicinare poco per volta a quella dicibilità e a quella soglia e che in certi momenti la sfondano e la varcano. Troverai là una risposta più verticale a questa tua domanda.

 

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Leggendo il romanzo ho spesso avuto davanti agli occhi il Gesù del Vangelo secondo Matteo di Pasolini. È un Gesù che viene sempre colto in movimento. E Gli increati è un incessante muoversi di tutto e tutto.

Sì, soprattutto all’inizio, quando le figure sono addirittura in corsa nelle città dei morti, si presentano come corpi e voci e anime che corrono incernierate. C’è stato un momento, mentre scrivevo queste pagine, in cui ho persino pensato che avrei voluto e potuto far entrate tutto il libro nell’arco di quella corsa iniziale, deve compaiono Lazzaro, l’ebreo assassinato a Treblinka, la Suora nera, Aldo Moro ecc. Poi ho capito che non mi bastava neppure quel movimento orizzontale, che dovevo andare anche verso un movimento verticale e poi addirittura verso una magnetizzazione, e allora c’è la discesa nelle città sotterranee dei morti, il fiume seminale, la guerra, e poi la tracimazione nella vita, e poi quella nell’increato.


Sempre su Pasolini: c’è un bellissimo capitolo in cui descrivi l’incontro col corpo martoriato di Pasolini e dici, nella sostanza, che lui non ha capito niente ma alla fine lo abbracci e, in qualche modo, ti senti incredibilmente vicino a lui. Per Pasolini nutri un sentimento di amore\odio?

No, nessun odio. Sì, è vero, in questo incontro io metto radicalmente in discussione alcune delle posizioni di Pasolini, ma non solo sue, perché sono quelle dell’intera cultura e pensiero del Novecento e in particolare della seconda metà del Novecento. Ma non ho nessun odio verso di lui, che è anzi l’unico scrittore italiano con il quale avviene un incontro in questo libro, un incontro molto drammatico e intenso che però si conclude con un abbraccio. In queste pagine – che qui ti posso citare con esattezza: da 740 a 747 – mostro come le sue previsioni e le utopie negative che circolavano in quegli anni non solo non si sono avverate ma che è successo tutt’altro, infinitamente di più e peggio, che nonostante la grande intelligenza e passione, anche etica, che le animava, non hanno colto quello che stava veramente accadendo sotto la punta dell’iceberg, hanno mostrato di muoversi sulle sole superfici culturali e sociali, in molti casi, di non capire niente di quello che stava accadendo nelle zone più profonde, perché quello che è successo dopo e che sta succedendo adesso ha sbaragliato tutte le loro previsioni, si sta dimostrando molto più simile a quello che ci avevano mostrato i grandi scrittori dell’Ottocento come Balzac, Hugo, Dickens, Dostoevskij, Melville. Questo per quanto riguarda la società e le sue ingegneristiche semplificazioni, ma occorre andare ancora più a fondo, non solo in termini di specie. Se non vai all’osso di vita, morte, increazione, non vedi niente, lavori su delle piccole antinomie di superficie, stai dentro uno spazio residuale, stai dentro una consolazione negativa, stai esattamente là dove è stata collocata la letteratura in questa epoca, anche se, come nel caso di Pasolini, ci stai dentro in modo drammatico e conflittuale, non ti avvicini alla cruna e non sei tu stesso cruna.


Ho assistito alla presentazione degli Increati alla Libreria del Mondo Offeso di Milano. Una signora ti ha chiesto quale sinonimo avresti potuto usare al posto di «increazione». Tu hai risposto che non trovavi alcun sinonimo. A me ne sono venuti in mente due, però non so se per te potrebbero essere corretti. Il primo è l’àperion di Anassimandro – un tutto indifferenziato, infinito nel tempo e nello spazio –, il secondo è l’inconscio freudiano come abisso in cui ogni realtà è in un eterno presente. E poi mi viene da pensare anche all’eterno ritorno nietzschano. Cosa ne pensi?

Non prendere quello che sto per dirti come disistima per la tua sensibilità e per la tua intelligenza, che conosco e per le quali ho considerazione. Ma vorrei prendere le mosse da quanto mi chiedi per fare una considerazione più generale. Io vedo una cosa: che la nostra cultura pare funzionare solo andando a cercare analogie nel già noto, come se si fosse preclusa la stessa possibilità che possa esserci qualcosa al di fuori e al di là di quanto è già stato scritto e pensato, come se avesse introiettato dentro di sé delle colonne d’Ercole insuperabili, a differenza di quanto succede, per esempio, nel mondo scientifico, dove la ricerca e la scoperta di quanto è ancora ignoto è la ragione stessa del suo operare. È sconcertante questa cosa, se ci si pensa bene e non la si dà per scontata. Vuole dire, in ultima analisi, che la letteratura e la cultura si sono poste, come dicevo prima, in uno spazio residuale sostanzialmente esaurito, che non immaginano per sé uno sfondamento di orizzonte e una riapertura di spazi. Pare che, in questa epoca, la mente degli uomini di cultura sia strutturata in modo tale da non riuscire neppure a concepire di potersi trovare di fronte a qualcosa di ignoto, che ancora non era emerso, e questo anche in termini di conoscenza. A me pare che con questo libro stia succedendo questo. Si cercano analogie con qualcosa di precedente, come per un riflesso culturale condizionato, come se si avesse bisogno di sentire il terreno sotto i piedi, di trovare qualcosa di rassicurante, di déjà vu, per non trovarsi di fronte a qualcosa che si spinge verso l’ignoto. Non sto dicendo che in questo libro e in questo affiorare del magnete dell’increazione non ci possa essere anche qualcosa che era già stato intuito da altri, sto dicendo che però c’è anche qualcosa di ignoto e addirittura di inconcepibile per le nostre strutture emozionali e mentali così come sono andate a formarsi per selezione al ribasso attraverso migliaia di anni, qualcosa che richiede invece mancanza di paura, capacità di abbandono e di oltrepassamento. Questo è ciò che succede nel campo della cosiddetta letteratura, il falso movimento analogico e antinomico, la costruzione di una rete e di una prigione concettuale, mentre nel campo scientifico, come dicevo prima, c’è un’attitudine di conoscenza che non si pone limiti a priori, c’è la coscienza che ciò che conosciamo è solo una piccola parte, che conosciamo solo il quattro-cinque per cento persino della materia di cui è composto l’universo e che bisogna muovere verso l’ignoto. E in letteratura? Bisogna invece stare in questo quattro-cinque per cento? Ma, per tornare in modo più specifico a ciò che mi chiedi, non posso che ripetere qui quello che ho detto durante quella presentazione. No, io non trovo un sinonimo alla parola «increazione» così come affiora negli Increati, è addirittura intrinsecamente impossibile trovarne. Le nominazioni che tu proponi contengono sicuramente qualcosa di significativo, ma l’increazione è un’altra cosa, come dice persino la parola stessa, se la prendiamo nella sua inconcepibilità non edulcorata, non si può ridurre a qualcosa di esistente e di concepibile e concettualizzabile, non può collocarsi né tanto meno esaurirsi nel campo del tutto o dell’infinito. Come fa a essere tutto, indifferenziato o infinito, se è increato? E come fa ad avere qualcosa in comune con l’abisso psicofisico dell’inconscio, o con qualsiasi altra cosa che stia dentro il cerchio concettuale del tempo e con l’abbraccio della creazione e della distruzione e dell’istantaneità e dell’eternità e dell’immortalità della creazione e della distruzione? E come può avere qualcosa a che fare con l’eterno ritorno dell’esistente, o con l’amor fati, o con la semplificazione linguistica dell’innominabile di Beckett, come mi ha suggerito qualcuno, o con l’Origine contrapposta alla Genesi che si trova nel Dramma barocco tedesco di Benjamin, come mi ha suggerito un’altra persona, o con la decreazione di Simone Weil, che indica una diminuzione progressiva della creazione, che è cosa del tutto diversa dall’increazione, ecc. Certo, mi rendo conto di chiedere a chi vorrà leggere questo magnete in forma di libro – che non tiene fuori neppure l’inconcepibile e l’increato e che anzi fa di questo la dimensione e la proiezione stessa di ciò che si rende dicibile alla fine o all’inizio di questa impresa – di staccarsi dalla forza di gravità culturale che tiene ogni cosa impastoiata e ancorata, tanto più in questa epoca, di chiedergli di muovere verso una grande inconcepizione e invenzione. Lo so che è difficile eppure, nello stesso tempo, è la cosa più facile, a me pare che noi siamo molto vicini a quanto viene evocato e reso dicibile in questo libro, che siamo una stessa cosa con esso, che ci siamo così vicini e così dentro che non lo vediamo. Così a me pare che questo libro sia il più difficile e il più facile che io abbia scritto e che sia mai stato scritto, proprio perché non sta dentro il piccolo residuo dove siamo o crediamo di essere.

 

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Al di là dei temi religiosi che affiorano nel romanzo, vi è una scrittura che in quanto profetica rimanda alla sacralità. Gli increati è profetico in che senso e in che direzione?

In questa epoca si è limitato il campo di ogni cosa, anche quello della parola e della letteratura. Ma non solo in questa epoca, è una storia lunga migliaia di anni, che parte in modo evidente e clamoroso dall’interdizione o dalla limitazione di spazi imposta alla “poesia” da filosofi come Platone e Aristotele, cioè da chi, a un certo punto, si è autoeletto a sacerdote di questa nuova religione chiamata “verità”, mentre i “poeti” vengono confinati nel regno della menzogna e della finzione contrapposte a questa presunta e scontornata “verità”. Negli scrittori e poeti antichi, sia in Omero che in quelli biblici e di altre parti del mondo, c’era una compresenza di narrazione, romanzo, poesia, pensiero, invenzione ecc. E c’era anche profezia. Non è che dopo non ci sia più stata, c’è stata eccome, c’è stata tutte le volte che gli scrittori e i poeti si sono ribellati a queste paralizzanti antinomie e hanno sfondato le pareti della prigione in cui sono stati chiusi i nostri cuori e le nostre menti e hanno respirato molti respiri in un solo respiro. È successo con Dante, Cervantes, Shakespeare, Melville, Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, solo per citare i più noti e i più grandi. Nelle loro opere c’è questa moltiplicazione e c’è anche profezia, quella dimensione che troviamo separata e nominata negli scritti dei profeti biblici, uomini in preda alla veggenza, anche se erano imprigionati nel fondo di una cisterna. Questo elemento è lacerante ed è perturbante, e così non viene ascoltato, viene stigmatizzato o lo si confina in una piccola prigione puramente estetica, si cerca di disinnescarlo e di depotenziarlo dentro un reticolo normativo e teorico che è divenuto sempre più qualcosa di simile a un’identificazione con l’aggressore. Io credo che quando vai a toccare dei limiti muovi anche un elemento di sfondamento profetico, e che non è vero che questo non sia più attingibile. Anch’io non accetto questi limiti e tutta la mia opera di scrittore e in particolare Gli increati stanno lì a dirlo.


Il santo eviscerato di quando torni al seminario. La tua prosa ha qualcosa delle tavole anatomiche e degli scorticati di Vesalio.

Sì, c’è anche questo, ci sono anche le viscere, ma c’è anche la mente, e c’è anche il cuore, c’è l’orrore ma c’è anche l’abbandono lirico, c’è il terrore ma c’è anche l’amore, c’è il buio ma c’è anche la luce che continua a balenare nell’infinito buio.


Per te scrivere è conoscere o tentare di conoscere. Ne Gli increati, come in tutta la tua produzione è fortissima – e si sente – la tensione della parola verso il sapere. Mi viene da citare, uno per tutti, Leopardi. In questa opera, più che in altre mi sembra, poni la letteratura dentro la religione e soprattutto dentro la scienza. Mi vorresti spiegare meglio questa stretta parentela che unisce fonte di ispirazione e scienza.

È vero, in questo libro fanno irruzione campi di forza e saperi che sono stati chiamati religione, scienza ecc. Per quanto riguarda la scienza, sì, in questi anni ho letto con passione diversi libri scientifici, che in qualche caso mi pare superino anche narrativamente molta prosa contemporanea cosiddetta letteraria, anche se non voglio spacciarmi per un esperto di saperi scientifici e se le mie conoscenze sono certamente rudimentali. Però alcune cose che mi ha detto la scienza di questi anni mi sono rimaste profondamente impresse e io non posso fare finta di niente, non posso stare dentro un residuo e continuare ad avere un’idea di convenzione della vita, del tempo, della materia e del mondo dopo quello che ci hanno detto la fisica, l’astrofisica, l’antropolgia, le genetica. Una volta ho trovato scritto da qualche parte che quando Kleist ha letto la Critica della ragione pura di Kant è andato in crisi perché quest’opera gli ha terremotato tutta la sua precedente struttura conoscitiva. Gli scrittori di questa epoca dovrebbero invece stare in un posticino residuale e rassicurante da sopravvissuti tenendo a distanza di sicurezza ciò che ci stanno dicendo da tempo gli scienziati? Anche se non ho un’idea ancillare della letteratura, nei confronti di nulla, neppure delle scienze, anche se non ho attuato un travaso ma una moltiplicazione, anche se mi pare di avere aperto una cruna e un altrove, e che ciò a cui perviene Gli increati vada da un’altra parte persino rispetto a ciò che ci sta dicendo la scienza, e che ciò da cui prende lo mosse venga fuori anche e soprattutto da qualcosa d’altro, da un magnete che era annidato al suo interno fin dall’inizio e fin dagli Esordi e di cui avevo quasi a mia insaputa disseminato tracce linguistiche e di altro tipo come le briciole di pane di Pollicino.


C’è in te una grande curiosità per la molteplicità delle forme viventi. Ne Gli increati mi hanno stupito – piacevolmente – le tue parole sui batteri e la luce. Sempre riferendomi alla tua presentazione alla Libreria del Mondo Offeso dicevi che il senso dell’immortalità è da scoprirsi in semplici organismi che vivono in fondo agli oceani.

Se io parlo degli occhi mi balza nella mente che il nostro strumento visivo, con cui vediamo e crediamo di vedere il mondo, si è formato via via anche per l’irruzione di miliardi di cellule che avevano invaso il nostro corpo come virus e batteri e che poi sono state soggiogate e ridotte a cellule schiave rese funzionali allo strumento della visione, come dico già ne Lo sbrego. E che quindi non ci sono solo io che vedo o credo di vedere ma vedono in me anche eserciti di microrganismi che sfondano la visione e che si gettano nello spiraglio della visione. Così come quando parlo di immortalità – cioè della frontiera o dell’illusione o del mortuario mito tecnologico di questa epoca – mi viene in mente una piccola medusa che vive nelle acque del Mar dei Caraibi, di cui parlo a pagina 1000, che già da chissà quanto tempo è in grado di invertire il ciclo dell’invecchiamento, ecc.


Del discorso scientifico non prendi la struttura dimostrativa. Piuttosto il romanzo corre su iterazioni – anche queste rituali e sacrali come nella liturgia o nelle strutture formulari della poesia omerica –, iterazioni che hanno il fascino ipnotico dell’incantamento.

Qualcuno ha detto o scritto che in questo libro ci sono ripetizioni. È vero e non è vero. Ci sono sì parole che vengono ripetute, però ogni volta che vengono via via rinominate all’interno di frasi diverse dalle precedenti spostano di un po’ l’asse della conoscenza e della percezione in questo avanzare al buio e in questa apertura continua di orizzonte. Ma hai anche ragione tu a dire che hanno un effetto ipnotico e incantatorio, producono – anche per me mentre scrivevo – una trance che mi teneva aperta la cruna e che mi indicava un passaggio. Perché noi, come singoli o come specie, nel momento in cui abbiamo bisogno di andare verso una grande invenzione e visione abbiamo bisogno di attingere anche a queste forze che sono sepolte dentro di noi e che non sappiamo noi stessi di avere fino a che non abbiamo trovato il modo di connetterci con esse e di liberarle.


Narrativa, la tua, che diventa musica. Abbiamo parlato di religione e poi di scienza. Ora dimmi come Gli increati si pongono nei confronti della musica.

Una delle tante forze a cui bisogna attingere e che bisogna dissotterrare, anche in un’opera che si palesa attraverso la cruna delle parole, è quella della musica, di ciò che all’interno del libro chiamo la tracimazione musicale del mondo. Perché anche la musica è una forza che è stata separata e resa autoreferenziale, mentre la sua irradiazione agisce su più dimensioni e piani, sentimentali, emotivi e mentali ancora non separati, non sta solo dentro se stessa. E invece, a obbedire alle normative, alle separazioni e parcellizzazioni che sono state via via accettate e introiettate, ci dovrebbero essere gli scrittori che possono solo raccontare le loro storielle, i poeti che vanno a capo, i filosofi che si occupano del pensiero concettuale scontornato, i musicisti che ci danno dentro a frugarti nelle viscere, siano esse intestinali o mentali, ecc. Tornando alla mia risposta precedente, e sempre a proposito della ripetizione, una lettrice-scrittrice – in risposta a questa accusa superficiale che mi viene mossa da chi il più delle volte non ha neppure letto il libro ma lo ha solo sfogliato – ha fatto un’obiezione che mi sembra molto acuta: direste la stessa cosa a proposito della musica? Sì, perché la musica ha proprio come elemento portante quello del rilancio, sia nella forma della ripresa di parole e di note che in quella del contrappunto e della fuga, che hanno piuttosto a che vedere con una continua apertura di spazi e con un allargamento musicale del mondo. A qualcuno passerebbe mai per la testa di definire ripetizione e di ridurre alla sola dimensione della ripetizione una fuga di Bach, per esempio?

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(Antonio Moresco, Gli increati, Mondadori, 2015, pp. 1032, euro 30)

“Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet”
di Jean-Pierre Jeunet

T.S. ha dieci anni e un’intelligenza fuori dal normale. Vive in un ranch in Montana con i genitori e la sorella Grace. Aveva un fratello, gemello dizigote, di nome Layton, morto in un incidente. T.S. si sente responsabile della morte di Layton, anche se non ha colpe. Cercavano di stare sempre insieme, anche se non avevano nulla in comune. Perché Layton era come il padre, silenzioso cow-boy nato nel secolo sbagliato, e T.S. è come sua madre, un’entomologa persa dietro alle sue ricerche. Per T.S. tutto quanto può essere analizzato scientificamente. È proprio per questo modo di osservare le cose che finisce per vincere il premio Baird indetto dall’istituto Smithsonian. Perché T.S. è riuscito a inventare una macchina a moto perpetuo. Per ritirare il premio decide di mettersi in viaggio da solo, senza dire niente alla famiglia, attraversando gli Stati Uniti.

Passato nella sezione Alice nella Città dell’ultimo Festival del Film di Roma, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet porta sullo schermo il romanzo Le mappe dei miei sogni di Reif Larsen (pubblicato in Italia da Mondadori nel 2010), classico moderno per l’infanzia particolarmente apprezzato da Stephen King. Quando Larsen seppe che i diritti del suo libro erano stati acquistati per una versione cinematografica stilò una rosa ideali di registi per realizzare il film: David Fincher, Wes Anderson, Tim Burton, Michel Gondry e Jean-Pierre Jeunet. Tutti registi (Fincher un po’ di meno, o comunque in un modo molto differente) dotati di un forte immaginario, di uno stile immediatamente riconoscibile, di una visionarietà esplicita. Alla fine è toccato a Jeunet, 61 anni, sette film in carriera tra cui il pluricelebrato Il favoloso mondo di Amélie del 2001, sorta di punto di non ritorno per la filmografia di Jeunet. Perché prima era un regista che aveva colpito con il film d’esordio, Delicatessen del 1991, al punto da venir chiamato da Hollywood per dirigere il quarto film della saga di Alien. Dopo è diventato, e rimarrà per sempre, «quello di Amélie». Con tutto quello che comporta, perché si è molto più esposti ai passi falsi dopo un tripudio del genere. E Jeunet, nei film successivi, non è mai più stato all’altezza di quel se stesso ingombrante, né come qualità né come quantità, intesa come incassi. C’è da dire che a Jeunet questa etichetta non dà fastidio. Lui ha continuato a fare il suo cinema, con i suoi tempi, con le sue scelte sempre diverse e mai banali.

Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet lo conferma come un regista dallo straordinario talento visivo. I suoi Stati Uniti ideali, fermi a una rappresentazione quasi infantile dei miti abituali della frontiera, del West, della ferrovia, esplodono di colori grazie alla fotografia di Thomas Hardmeier. Il ranch degli Spivet è un micro-mondo di fienili rossi, di animali impagliati, di grandi cappelli e di tecnologie sospese. Anche il dolore è affrontato con una leggerezza da fumetto, anche l’incomunicabilità. Nella famiglia di Spivet nessuno è realmente vicino a nessuno. Si vogliono tutti bene ma non sanno dimostrarselo, sono tutti sconvolti per la morte di Layton, ma dal giorno dell’incidente nessuno ha più detto una parola al riguardo. Sono corpi che si passano accanto, che si sfiorano appena per dirsi tutto (c’è la scena molto bella dei genitori che si incontrano in corridoio e si toccano appena le mani e T.S. che racconta spiega che è stato in quel momento che ha capito che i suoi genitori si amavano, nonostante tutto).

Il viaggio di T.S., oltre al fine pratico del premio, è un viaggio interiore, di allontanamento dal nucleo per riuscire a compattarlo di nuovo nella sua forma ristretta. La famiglia è un moto perpetuo che ogni tanto ha bisogno di essere rigenerato, proprio come la macchina che progetta T.S. È dal suo allontanamento, dal suo viaggio al contrario sulla rotta del mito – da ovest a est, dalla prateria alla città – che torna l’unione e la voglia di andare avanti per gli Spivet, che i sentimenti emergono e si riesce finalmente ad affrontare il passato.

Se il viaggio è funzionale alla famiglia Spivet, è invece proprio nel momento on the road che il film di Jeunet perde tutto quello di straordinario che il titolo prometteva. La fuga del piccolo T.S. ha ben poco di originale e molto di già visto, dalle difficoltà agli incontri. Così, tra barboni filosofi, poliziotti stupidi e burberi, la televisione brutta e cattiva sempre alla ricerca del sensazionalismo emotivo, quell’elemento di ingenua magia che alimentava l’avvio nella fattoria Spivet si disperde rapidamente in una seconda parte trascinata e apparentemente stanca.

Se il piccolo Kyle Catlett ce la mette tutta a creare empatia con il pubblico nei panni di T.S., tra pianti e momenti di innocuo stupore, è soprattutto la madre entomologa di Helena Bonham Carter a dare un motivo in più per vedere Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet.

(Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, di Jean-Pierre Jeunet, 2014, commedia, 105’)

 

“Uno scrittore in guerra”
di Vasilij Grossman

Con Stalin non c’era mai stata alcuna intesa, anzi, ma l’ingenuo, idealista Vasilij Grossman non poteva immaginare che l’ostilità del partito nella parte finale della vita lo avrebbe relegato nell’oblio e costretto all’indigenza. Magari sarebbe andata diversamente se non avesse sottovalutato che il nome del tiranno nei suoi taccuini dal fronte orientale non appariva se non sottotraccia e al più evocato nella pessima luce che meritava, e soprattutto se avesse capito che impegnarsi nella ricerca sui crimini antisemiti dei nazisti in terra sovietica avrebbe infastidito assai un regime che credeva di avere anch’esso buoni motivi per dare il proprio contributo all’odio antiebraico. Si dà il caso anzi che Grossman ebreo lo fosse in proprio; fu già una fortuna che non pagasse con la morte la campagna anticosmopolita che dalle parti di Mosca iniziò nel dopoguerra e negli ebrei trovava il bersaglio per eccellenza. Eppure, l’esaltazione del popolo russo durante il conflitto con i tedeschi fu mitigata solo dalla forza dello stile: questo è il punto ineludibile degli scritti raccolti nel recente volume adelphiano Uno scrittore in guerra, a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova (la traduzione è di Valentina Parisi).

Il goffo e molliccio signore che voleva dare il proprio contributo alla difesa della patria dall’invasione delle truppe naziste fu accontentato ma dirottato saggiamente verso quello che sapeva fare: il narratore. Non era ancora l’autore di Vita e destino, ma bravo abbastanza per meritarsi la fiducia del direttore del giornale Krasnaja zvedza, il generale David Ortenberg, al seguito delle truppe sovietiche avrebbe scritto da embedded insomma. Lucido, risoluto, epperò sedotto dal sincero sentimento patriottico dei soldati russi. Senza edulcorare, cercò di essere sincero egli stesso guadagnandosi la fiducia dei suoi intervistati, dei soldati che seguiva a ogni passo, come lo spietato cecchino che portava un nome non qualunque (Cechov).

Se l’anima russa nella sua versione patriottica è salva, e benché qualche ufficiale non manchi di definire banditi i propri soldati che sgozzano i tedeschi con le proprie mani, non altrettanto può dirsi dei vertici militari. I russi avevano sottovalutato la situazione e  rischiarono seriamente di perdere la guerra. L’Armata Rossa spesso non sembrava all’altezza del compito immane cui si trovava di fronte. Nei taccuini di Grossman questo non è nascosto. Ma all’impasse tecnica risponde con orgoglio il popolo sovietico, molto più generoso e determinato dei suoi capi. Grossman se ne sente parte, fiera e combattiva. È la sua parte: «Tocchi gli oggetti, i giornali […] appartenuti ai tedeschi e provi l’impellente bisogno di lavarti le mani». Nei suoi taccuini lo scrittore annota ogni cosa, mostrando maggiore scioltezza col passare del tempo; all’inizio abbonda la frase nominale, mera registrazione di cose, azioni, movimenti; poi più avanti la precisione descrittiva si apre in un periodare più sicuro. Lo scrittore si sta preparando alla grande opera (Vita e destino, che non vedrà mai pubblicata). Chiede periodi di pausa al suo direttore proprio per scrivere. Ma intanto si fa soldato fra i soldati. Segue passo dopo passo carristi, soldati semplici, artiglieri. Stalingrado è una storia fra le più drammatiche dell’umanità, ed è un’esperienza fondativa per uno scrittore maiuscolo. «La spietata verità della guerra» ne ha segnato la vita, ma se la guerra è tragedia (e lo è), la sua arte ne ha tratto indubbio giovamento.

(Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra, a cura di Anthony Beevor e Luba Vinogradova, trad. di Valentina Parisi, Adelphi, 2015, pp. 471, euro 23)

“L’esatto contrario”
di Giulio Perrone

Il suo nome campeggia da dieci anni; si appoggia bene sulle copertine, le trova soffici anche se rilegate. Stavolta però si è trasferito. Ha scelto di riposizionarsi. Non più dimessamente in fondo, o asciugato da sigillo sulla costa. Stavolta si affaccia dall’alto. Cubitale, innegabile, con l’istantaneo monopolio degli sguardi in transito. Giulio Perrone non edita, in questa occasione. Non garantisce per le altre storie, ma propone la propria. Si prende la briga di raccontare e il risultato è L’esatto contrario (Rizzoli, 2015)

Esperimento tra il thriller e il noir in cui riversa molto di ciò che gli appartiene. La voce è quella di Riccardo Magris, trentenne scamiciato appena reduce da una rottura emotiva. È un ritratto sincero il suo, quello di un ex-giovane ossessionato dalla Roma e intento a vivacchiare, rabberciando quanto basta per procacciarsi la giornata, lavorando come speaker in radio e redattore in un giornale. Ma non c’è nemmeno un granello che brilli. Il programma radiofonico è incentrato sugli orrori calcistici e i talenti sgonfi mentre TuttoGiallo non è altro che un ricettacolo di scandali di cronaca, meschina polveriera di casi succulenti cesellati ad arte. Una vita che zoppica, declinando la sconfitta nella smorfia dei suoi passi.

Riccardo coabita con altri due ragazzi che come lui per sopravvivere strappano lembi di resistenza. Galleggiano a modo loro, chi leggendo Proust, chi frustando dei frustrati, attutendo nel lattice un po’ di squallore. Sbracciarsi parecchio per muoversi il minimo, esecutori eccellenti del mestiere di «annacarsi», come lo chiamerebbe Roberto Alajmo nella sua “sicilitudine”.

Ma mentre è intento a riassestarsi dopo l’addio di Gaia, una notizia al tg squarcia di netto la sua indolenza indomita. Muore, per dichiarato suicidio, il professore accusato di aver ucciso Giulia dieci anni prima. E Giulia non è solo una ragazza sfortunata, catapultata sulla bocca della stampa. Giulia è stata sua, per un tempo breve e ancora non spento. Frequentavano lo stesso ateneo e lui era lì quando lei piombò a terra nel suo stesso sangue. È rimasta così per Riccardo, confinata in quel buio, nello stagno di quella paralisi. Finché un’altra morte non sveglia un sospetto. Non può esimersi, non può fare come al solito. Lasciare che il futuro annacqui quel nome. Lo ha fatto con Gaia, con la sua “carriera” che annaspa senza meta. Ma forse non è poi così immobile. Potrebbe trarne anche un guadagno, se riuscisse davvero a sentirsi sciacallo, se, sfruttando la vicinanza alla tragedia, la vendesse all’opificio d’indecenze che ancora qualcuno definisce giornale. Ci prova, ma la disonestà non gli calza affatto; lascia scoperte le spalle e strizza la coscienza. Non gli rimane che investigare per se stesso, per capire, per sapere, per pacificarsi con l’inspiegabile. E qui comincia a smatassarsi la sua indagine, in una Roma periferica e brulicante di occhi.

San Lorenzo con le botteghe bangla e l’attività insonne, la congestione di via Nomentana, la postura più sobria di Corso Trieste. Stravaccata e febbrile, imbottita nel suo traffico, la città è la cornice perfetta per chi rimbalza da una domanda all’altra, perdendo sempre qualche pezzo: «Non sono lì per rivivere il sapore di una storia che non è stata o per gratificare il mio ego […] Sono lì perché devo saperne di più, se davvero c’è qualcosa che vale la pena di sapere».

Sono tanti gli incontri in cui s’impantana, cercando a volte invano di rimanere in piedi. E soprattutto c’è Miranda, la sorella di Giulia, il fantasma di una memoria che prude fin troppo, che lo costringe a sgrassare la sua inettitudine. Perché è chiaro, Riccardo è lontano miglia umane e letterarie dai detective granitici di Don Winslow, col pugno facile e la battuta fendente o dal machismo ingombrante di Jo Nesbø.

Altri distretti, altre fibre. Riccardo, da perfetto controeroe sfiduciato, s’inscrive di diritto nel plotone più modesto della sua generazione, soprattutto se italiana. Quella di capitani del pareggio, di reduci stellati della disillusione. È un coro affollato, in cui si accalcano da anni i protagonisti dei romanzi di Christian Frascella (Mia sorella è una foca monaca), Fabio Bartolomei (Lezioni in Paradiso), Marco Presta (L’allegria degli angoli), Pulsatilla (La ballata delle prugne secche), Chiara Moscardelli (Volevo essere una gatta morta) e Antonio Incorvaia (Generazione mille euro) o delle graphic novel di Zerocalcare e Nuke.

Flotte di vite strascicate, a cui è stato promesso un pasto infinito e che invece devono bearsi ogni giorno di scampare al digiuno. Brandelli di stipendio, brandelli di contratto, paccottiglie che raccolte e incollate non compongono mai un obiettivo intero. Adolescenti per obbligo e non solo per passione. Che non vanno, non vengono, ma si barcamenano. Che scoprono d’essere invecchiati nei vestiti che forse ancora paga papà. Che constatano di non essere più giovani senza essere mai stati adulti.

Giulio Perrone, anche in quanto editore, questo mondo lo conosce bene. E la struttura del thriller, fluida, lineare, di lettura immediata, è un’occasione ideale per tracciare il loro campo d’azione.

Con un linguaggio asciutto, elementare, autoironico e senza alcuna pretesa di sofisticazione, L’esatto contrario può rappresentare il primo episodio di una serie d’inchieste, in cui più che risolvere il caso, si vuole sapere come riuscirà Riccardo a uscire più vivo della vittima.

 

(Giulio Perrone, L’esatto contrario, Rizzoli, 2015, pp. 234, euro 18,50)

“Curzio” di Osvaldo Guerrieri

Può piacere o dispiacere, ma è ormai oggettivamente difficile da mettere in dubbio il dato che le grandi ideologie del Novecento si siano sensibilmente sbiadite, rispetto ai termini così duramente assertivi a cui il secolo scorso aveva abituato l’umanità attraverso i ferrei imperativi delle sue guerre, mondiali, grandi, o fredde che fossero.

Ma, pur senza necessariamente cadere in forme di leibniziana fiducia nella razionalità del reale, forse in questo stemperarsi, attenuarsi e quasi ridursi in bolo indifferenziato, di contrapposizioni ideologiche un tempo così accanite si potrebbe veder affiorare una più sottile, disincantata saggezza: quella che ora ci permette, per esempio, di guardare con maggiore distacco alla figura – italiana se altre mai, e quasi volutamente costruita in equilibrio fra un Guicciardini e un D’Annunzio – di Kurt Suckert, o, come egli stesso preferì firmarsi con ironica allusione a Napoleone, Curzio Malaparte, cui ha da poco dedicato un libro di elegante, svelto piglio narrativo, pur entro coordinate di più che storiografica attendibilità, Osvaldo Guerrieri, dal titolo Curzio (Neri Pozza, 2015).

Uomo dal fisico fascinoso, e di una seduttività accresciuta con studiato perfezionismo di abbigliamento, e perfino di cosmesi (non mostrò mai il proprio corpo in pubblico senza essersi scrupolosamente depilato), Malaparte avrebbe potuto contentarsi di questo ruolo dongiovannesco, che gli procurò di fatto qualsiasi donna di cui s’incapricciasse: non ultima, la vedova Agnelli, con cui arrivò a un passo dalle nozze, sventate dal suocero di lei, il potentissimo senatore Giovanni e padrone della Fiat, in un duello senza esclusione di colpi.

In realtà, il solo altro essere vivente, oltre ovviamente a se stesso, a cui Malaparte mostrò continuità di affetto – e Guerrieri ha la mano felice, nel delineare quest’unico, vero legame sentimentale, dal primo incontro nell’assolata luce zolfosa di Lipari fino alla morte dell’essere amato, che Curzio trasfigura in pagine di atroce, benché totalmente inventata, persuasività – fu un cane, Febo.

E soprattutto, l’altro vero, grande amore di Malaparte, alterno e tormentato, fatto di episodici successi e di sanguinose ripulse, fu il potere: meglio, gli uomini detentori di potere. Di brillante efficacia, tornite con finezza da Grande Gatsby, sono infatti le pagine in cui Guerrieri introduce Malaparte al ricevimento dato da Galazzo Ciano e dall’inquieta e amatissima primogenita del Duce, Edda. E, ancora più squisitamente rivelatore dei due uomini a confronto, il dialogo con un Mussolini irritato verso il pungente giornalista che gli ha rimproverato il pessimo gusto delle sue cravatte; tanto da togliersi poi lo sfizio di giocare con lui come il gatto col topo, graduandone con perfidia di un Nerone da caricatura l’esilio dalla sede di Lipari a quella, allora non così mondana come parrebbe, di Forte dei Marmi; esilio in cui vennero sempre a raggiungerlo – evitando abilmente di incrociarsi negli stessi giorni – sia la madre che la focosa amante, Flaminia.

Ora, è questa contiguità ricercata e perfino chiassosa col potere, ciò che più dovrebbe sconcertare, di fronte al passare di quest’uomo dall’esaltata adesione all’aspetto di più dirompente aggressività del Fascismo “giovanile”, al disincanto nei confronti del suo sclerotizzarsi in struttura di potere, e perciò stesso di corruzione, fino alla pubblicazione, in un machiavellico disegno di cooptazione togliattiana, sui giornali del Partito Comunista, e infine alla convinta celebrazione delle magnifiche sorti e progressive del comunismo di Mao Zedong; ma è un fatto che, condotti dal passo sicuro e dal fluido ritmo narrativo di Guerrieri, non riusciamo né a scandalizzarci né a condannare: il protagonista si muove innanzi a noi nel suo vitalismo amorale, e tuttavia Guerrieri ne ausculta sensibilmente, ogni volta, anche la sofferenza, il rovello, l’umana vulnerabilità. Fino alle commosse pagine finali, dove il disfacimento fisico e l’avvicinarsi della morte non arrivano però ad annichilire il (toscanissimo) sarcasmo con cui Curzio lancia, al tanto più giovane e non meno sulfureo collega Montanelli, l’augurio di morire «mezz’ora prima» di lui.

Va riconosciuto dunque a Guerrieri il merito di averci aiutato a superare, nei confronti di quest’uomo a un tempo ammaliatore e irritante, narcisista e abilissimo fabbro della pagina, ogni preconcetto: a sentircelo, inaspettatamente, vicino.

 

(Osvaldo Guerrieri, Curzio, Neri Pozza, 2015, pp. 319, euro 17)

“Fury” di David Ayer

Aprile del 1945, Germania. Il sergente Don Collier è arrivato in Europa il giorno dopo lo sbarco in Normandia con il suo carro armato Fury e la sua squadra. Ha già combattuto i nazisti in Africa, in Francia, in Belgio, adesso è arrivato a inseguirli a casa loro. È stanco come sono stanchi tutti i suoi uomini, ma vanno avanti. Ha appena perso uno dei macchinisti in uno scontro con i terribili panzer Tiger tedeschi, che distruggono i carri alleati come fossero sagome di cartone. Al suo posto il comando gli manda Norman, un giovane dattilografo al fronte da otto settimane. Non ha mai combattuto, non ha mai sparato, non ha mai ucciso. Don dovrà farlo diventare parte della squadra, educarlo alla guerra e a tutto quello che vuole dire, anche se lui per primo non ce la fa più.

C’è un prima e un dopo Salvate il soldato Ryan nelle versioni cinematografiche della seconda guerra mondiale made in Usa. Il prima preservava una forma mitologica del conflitto. Gli eroi erano belli, puliti, la guerra era brutta, sì, ma non orribile. Si moriva, ma il sangue si vedeva appena. Con la sequenza celebre e celebrata dello sbarco in Normandia, Spielberg ha creato il dopo buttando via tutta quella tradizione senza macchia e portando l’orrore nei racconti dei nonni e nel momento fondante del mondo occidentale contemporaneo. Anche nella seconda guerra mondiale si moriva come cani trebbiati dalle mitragliatrici, non solo in Vietnam. Il soldato Ryan aveva tirato fuori la violenza, l’odore della morte sui campi di battaglia.

Fury di David Ayer (scritto e diretto) si pone molto vicino a Salvate il soldato Ryan per la descrizione cruda della guerra. Si spinge un po’ più in là, anche, perché mina le basi del titanismo degli eroi alleati e va oltre l’umanità della vita prima e dopo il conflitto. Gli uomini al comando di Don Collier sono sporchi e puzzolenti, brutalizzati dalla guerra nella loro radice umana. La violenza è all’ordine del giorno: li esalta. Le battaglie rendono le loro «le migliori giornate della loro vita» e nel momento della tregua quella violenza che sentono sempre dentro di loro va sfogata in qualche modo, facendo saltare in aria un pianoforte, per esempio, o prendendo ragazze non per forza consenzienti.

Il novellino che si unisce alla squadra del carro Fury fa da contraltare negativo all’orrore in cui ormai sono tutti immersi. Norman conserva ancora quella scorta di umanità che rende impossibile uccidere se non è assolutamente necessario. La guerra gli fa paura, le armi gli fanno paura. Ricorda agli altri, col suo solo essere nel carro, che esisteva un prima in cui loro non uccidevano. Per andare avanti, però, è lui che si deve abituare alla nuova realtà, alla necessità della morte dell’altro come chiave della sopravvivenza di sé. Don ha come nome di battaglia Wardaddy. È proprio come un padre che guida Norman alla guerra, alla sua prima uccisione reggendo la mano che tiene la pistola. Don sa che solo così Norman può sopravvivere e che dalla sua sopravvivenza dipende quella di tutta la squadra. Perché dentro Fury sono tutti parte di un unico organismo che anima il carro, che lo muove e che lo fa combattere, e tutto deve funzionare allo stesso modo.

All’interno del genere bellico (e del sottogenere dedicato alla seconda guerra mondiale) Fury si ritaglia il suo spazio proprio per questa consapevolezza della necessità dell’orrore come primo passo per sopravvivere alla guerra, per la sporcizia senza epica dei suoi protagonisti che non sono Bastardi senza gloria né tantomeno Una sporca dozzina. Sono dei disperati, ridotti come bestie dal conflitto, perseguitati dal pianto dei cavalli che hanno dovuto sopprimere avanzando dalla Normandia molto di più che dalle grida degli umani. Non c’è un senso ulteriore a dare assoluzione, un’ideale di patria o di libertà in nome del quale poter giustifcare tutto. È solo la guerra, quella che vivono, e tutto è guerra e tutto è colpa della guerra.

Supportato dalla fotografia portentosa di Roman Vasyanov, virata al blu e al grigio, Fury riesce ad accostare la frenesia della battaglia a momenti di immobilità dal forte valore espressivo. Ha un limite, però, nella costruzione dei personaggi che risente eccessivamente della retorica del cameratismo e del già visto (e rivisto) nella tipizzazione superficiale: il novellino, il burbero, l’invasato religioso, eccetera. Le apparenti contraddizioni dei vari personaggi – in particolare di Wardaddy, che alterna profetismo e brutalità, e di Norman, che in breve tempo passa dal rifiuto dalla violenza al provare piacere nell’eliminare i nazisti –, possono essere spiegate nel contesto della perdita di sé collegata alla guerra, ma è una spiegazione che regge fino a un certo punto, anche se c’è la scena in cui proprio Wardaddy e Norman ricercano la normalità nella casa di due donne tedesche che spiega parecchie cose su come sia alienante la guerra. Nonostante la debolezza strutturale dei personaggi, Fury si appoggia su interpretazioni di assoluta intensità. Il Wardaddy di Brad Pitt è solido nel suo essere misurato. Il giovane Logan Lerman si impegna con tutto se stesso per far dimenticare Percy Jackson, e dopo Noi siamo infinito Noah ci sta riuscendo Jon Bernthal, che era stato Shane nelle prime due stagioni di Walking Dead, conferma dopo The Wolf of Wall Street di poter avere varie sfumature. Michael Peña è al secondo film con Ayer dopo End of Watch. Shia LaBeouf, che interpreta l’ultracredente “Bible” Swan, ha fatto un po’ di numeri sul set: pare che non si sia lavato per tutta la durata delle riprese per entrare meglio nel personaggio. Come se non bastasse, si è ferito da solo in faccia con un coltello per avere cicatrici più credibili, e si è fatto asportare un dente sano.

(Fury, di David Ayer, 2014, guerra, 134’)

“Chiudi gli occhi e guarda”
di Nicola Pezzoli

Il Mare con la maiuscola, filtrato dagli occhi di un bambino, ha un orizzonte difficile da tracciare. Non si tratta solo di stabilirne i colori, ma di fissarne anche il tempo.

Torna il Corradino di Quattro soli a motore, con i suoi slanci e le sue ferite, nel nuovo libro di Nicola Pezzoli, Chiudi gli occhi e guarda (NEO.Edizioni, 2015).

Il tempo è quello della pubertà, di quella frattura geologica o falda, che provoca sconvolgimenti tellurici determinanti nel percorso verso l’adultità.

È quella fase in cui non si è più sicuri di come siamo davvero, né di sapere cosa vogliamo, in cui si accorciano di colpo le possibilità e gli orizzonti diventano impenetrabili.

Rispetto al precedente romanzo, il narrare di Pezzoli si fa più intimo e arioso allo stesso tempo. I personaggi sono diversi. Non c’è più il violento «Videla domestico» con la sua cinghia, il misterioso Kestenholz, né i bulli di periferia e anche le ferite a forza di carezzarle non fanno più poi tanto male. Persino il luogo è differente: «Andar via da Cuviago è come spezzare un assedio invisibile. Vorrei fosse per sempre. Sarà per tre settimane. Speriamo che non corrano via, che stiano ferme per un po’».

È sempre estate, ma siamo nell’anno successivo, il 1979. Corradino si appresta a vivere la sua prima vacanza al mare, anzi Mare con la maiuscola, solo con la madre nell’immaginaria Marina Ligure, ospiti di anziani zii con cui la donna aveva sporadici ma affettuosi contatti telefonici.

Il romanzo si divide in due parti dai titoli ossimorici e antagonisti fra loro ma al tempo stesso complementari: «L’infinita ombra» e «L’infinita luce». Infatti «L’infinita ombra» si riferisce alla cecità dello zio Dilvo con cui il ragazzino instaura un rapporto breve ma intenso, ricco di insegnamenti di vita, il più importante dei quali racchiuso nell’imperativo «Chiudi gli occhi e guarda», un invito ad andare oltre le apparenze e a vedere con gli occhi del cuore.

La seconda parte, a dispetto del titolo, è meno spensierata della prima anche se racconta della vacanza vera e propria al Mare, dopo la partenza degli zii, tra giochi, bagni, gelati e prime esperienze sessuali.

Ma è proprio là dove c’è tanta luce che ci sono altrettante ombre. Ed è questa la parte in cui l’autore narra la parte più oscura e segreta dell’adolescente Corradino con i suoi turbamenti e le sue idee. Ed è qui che il racconto si fa più autobiografico.

Il racconto infatti fluisce come un fiume in piena recuperando gli odori e i rumori dei giochi sulla spiaggia in un continuo accavallarsi della voce del bambino, un flusso di coscienza al limite dello sgrammaticato e del vernacolo, ma sempre sorvegliato, con quella dello scrittore che, novello verista, si eclissa regredendo nel ricordo alla condizione prepuberale. Questa tecnica di scrittura ha il merito di far percepire il modo, più o meno svelato ma sempre presente, di vedere le cose dell’autore: ad esempio, il rifiuto di una differenziazione netta di genere, ammettendo la componente androgina, come nell’episodio in cui Corradino, infastidito dall’acre e pungente odore del dopobarba dello zio, si chiede come mai i maschi non usino profumi fruttati o floreali.

Pezzoli sa coinvolgere. E inevitabilmente lo stato d’animo di chi scrive diviene lo stato d’animo di chi legge. Chiudi gli occhi e guarda è come un arazzo, una tela che intreccia le vicende e i pensieri di Corradino. Il protagonista e il Mare si impongono prepotenti. Quello che l’autore ci restituisce del paesaggio non è mai uguale a se stesso. Da qualche parte c’è un invito, un codice d’accesso lasciato sulla sabbia, come cantava Fossati «Se c’è una strada sotto il mare prima o poi si troverà».

E il Mare per il dodicenne Corradino, come la vita, è «una presenza oscura all’orizzonte, al tempo stesso materna e terrificante».

Chiudi gli occhi e guarda è riflessivo e a tratti leopardiano (Corradino parla a un certo punto dello «scherzo di nascere»).

Tra i ricordi dello sciabordio e le prospettive sempre infinite qualche gancio deve pur esistere perché se si guarda a lungo il Mare, si scopre che quell’orizzonte è tutt’altro che malinconico. Anzi ha una sua irriverente ironia da dodicenne.

(Nicola Pezzoli, Chiudi gli occhi e guarda, NEO.Edizioni, 2015, pp. 135, euro 12)