“Louisiana – The Other Side”
di Roberto Minervini

C’è un altro lato degli Stati Uniti, lontano dalle grandi città, dalla cultura di New York e dalla frenesia di Miami, dalle spiagge della California e dalla mondanità di Los Angeles. C’è un altro lato degli Stati Uniti che è diverso anche dalle comunità rurali del Mid-West, dalle sette religiose e dalle villette a schiera dei sobborghi. È un lato in cui si raccolgono le persone che non entrano nei centri commerciali, che non mangiano nei fast food o nei diner, che non accendono mutui per comprarsi casa, che non consumano. È un lato che Roberto Minervini ha trovato nella Louisiana del nord, nel paesino di West Monroe, dove il 60 per cento della popolazione non ha un lavoro e vive alla giornata, dove i bianchi sono poveri e formano una schiera immensa di sottoproletariato galleggiante, di vite tentate e speranze anestetizzate. È il mondo del cosiddetto white trash, quell’immondizia bianca marginalizzata dalla società che si reinventa ogni giorno come comunità per poter sopravvivere.

Mark produce metanfetamine che vende in giro per la città. Non è quello che vorrebbe fare, ma non può fare altro. Lavorando a giornata in una discarica si becca venti dollari per spaccarsi la schiena. Lui china il capo, ringrazia, poi torna nella sua casa mobile con la fidanzata Lisa a drogarsi e sintetizzare altri cristalli. È già stato in carcere, per due anni e mezzo, e il suo desiderio nella notte di Natale, mentre cena con la sorella e il nipote che si drogano insieme, è quello di non tornarci, almeno finché sua madre, malata di cancro, non sarà morta. Allora sì, che verrà il momento di scontare quello che deve scontare, di smetterla per sempre con le siringhe e le pipe di vetro e di ripartire lontano da West Monroe e da tutto. Perché lì non c’è niente per lui, per Lisa e per tutti gli altri. Per gli anziani che si sentono abbandonati dopo aver combattuto guerre che neanche capivano. Obama ha fallito, ha ingannato tutti, anche la gente di colore. Ora si spera in Hillary Clinton, perché tanto era lei a comandare anche quando il marito era presidente. Forse con lei arriverà un momento migliore. Se Mark, Lisa e i loro amici si sentono abbandonati e trovano l’unico rifugio nella droga e nell’alcol ci sono quelli che non si arrendono, che si organizzano in gruppi paramilitari e prendono le armi per prepararsi alla rivoluzione, a combattere quando arriverà il momento in cui il governo verrà a togliere la loro libertà.

Dopo la trilogia sul Texas formata da The PassageLow Tide Stop the Pounding Heart, Roberto Minervini si è spostato in Louisiana su suggerimento di uno dei protagonisti del suo film precedente. È stata proprio la miseria, ad attirarlo, il senso di abbandono e di isolamento  di un mondo marginale e distante dall’immaginario statunitense. Dalla Bibbia alle metanfetamine, dai rodeo agli addestramenti paramilitari, Minervini racconta una realtà completamente diversa, un livello di disperazione e anarchia che non è immaginabile nella più grande democrazia del mondo. Quello che colpisce di Louisiana – The Other Side è la capacità che ha avuto Minervini di sparire dal racconto, di mostrare senza un punto di vista, di far dimenticare ai protagonisti (persone vere, non attori, storie vere, non scritte a tavolino) e agli spettatori che ci sia una telecamera a filmare quello che succede. I suoi film riescono a fondere insieme la verità del documentario con la costruzione e il montaggio propri della finzione. Con un lavoro lento e prolungato, sviluppato nell’arco di quattro anni, Minervini è riuscito prima di tutto a inserirsi nella comunità di West Monroe per conquistare la fiducia di Mark, di Lisa e di tutti gli altri, per poi riuscire a mantenere la naturalezza assoluta dei suoi protagonisti anche nel momento in cui ha tirato fuori la macchina da presa. E allora noi lo vediamo, davvero, questo white trash nella sua miseria. Vediamo Mike che inietta metanfetamina a una spogliarellista incinta nel bagno fetido del locale in cui lavora, alcolizzati senza denti che fanno male alla nipotina per giocare, una banda di uomini armati crivellare di proiettili una macchina con a bordo la maschera di Obama. Mai, neanche per un momento, c’è condanna o derisione o denuncia.

L’intenzione di Minervini non era quella di fare un film politico, ma Louisiana lo è diventato. La vita “dall’altra parte” di West Monroe chiama in causa continuamente la politica. I paramilitari vogliono difendere l’ideale americano da un’America che lo ha dimenticato. Sognano e progettano un ritorno a un’organizzazione sociale elementare per non dover rispondere a nessuno, vogliono legalizzare la libertà. I tossici, gli alcolizzati che girano intorno a Mark, vogliono un mondo in cui non essere schiavi di nessuno e in cui la libertà torni davvero a essere libera.

Senza giudicare, ma dividendo Louisiana in due parti (la prima su Mark, la seconda sui paramilitari), Minervini lancia un implicito confronto su quale rifugio sia migliore, se quello della dipendenza o quello dell’esaltazione violenta della vita. Non gli importa di dire cosa sia meglio, gli importa solo di ricordare che quei mondi esistono.

(Louisiana – The Other Side, di Roberto Minervini, 2015, film documentario, 97’)

“Wilder Mind” Dei Mumford & Sons

I Mumford & Sons nel 2015 decidono di mettere da parte Jimie Rodgers, Hank Williams, il bluegrass e il benjo, ma soprattutto decidono di mettere da parte i Mumford & Sons.

Dopo due album (Sigh No More, del 2009, e Babel, 2012), in poco più di cinque anni, che li hanno resi uno dei gruppi più seguiti in quello sconfinato universo pieno di sfumature che è il pop, con il loro terzo lavoro, Wilder Mind, il quartetto capitanato da Marcus Mumford produce un lavoro che rientra in un filone abbastanza identificabile che segue la scia di Ghost Stories dei Coldplay e che, paradossalmente (ma non tanto se si pensa che dietro questo lavoro c’è Aaron Dessner, tastierista dei The National) a certe sensazioni, appunto, dei The National. A surrogati di certe sensazioni.

E se cambiare, osare, sperimentare, cercare di esplorare, cercare di stravolgersi, di ribaltare il proprio io per arrivare a un altro io ancora più solido è, in linea teorica, un atteggiamento e un modo di fare quantomeno apprezzabile e comunque riconoscibile nella ricerca artistica – economica? – il modo in cui i quattro inglesi hanno deciso di intraprendere la svolta nella propria carriera è discutibile.

Basta prendere il brano con cui si apre l’album, “Tompkins Square Park”: dopo un intro di chitarra pescato quasi fedelmente da X&Y dei Coldplay, parte una batteria che riporta istantaneamente a un qualsiasi momento di un qualsiasi (da The Boxer, per la precisione) album dei The National. Da lì Marcus Mumford inizia a cantarci di amori che finiscono anche a Manhattan. Già a questo punto, e sono passati pochi secondi, qualcosa non va. Questa sensazione di già-ascoltato, un fastidio a volte alienante che striscia lungo il corpo per tutta la durata dell’album, silenzioso, porta spesso a confrontarci con la nostra capacità di giudizio e con le esperienze di ascolti passati, come quando in “Believe”, la seconda traccia, nel momento corale in cui i Mumford cantano «Something, say something / Something like you love me / Less you wanna move away / From the noise of this place» non possiamo non pensare che stiamo ascoltando qualcosa di valido. Qualcosa che ha motivo d’essere. Ma lo pensiamo fino a quando non ci rendiamo conto che noi quella stessa cosa, fatta quasi praticamente allo stesso modo, l’abbiamo ascoltata anni prima in Bon Iver, Bon Iver. Anche nella terza traccia, “The Wolfe”, dove la presenza di Daivd Grohl e dei suoi Foo Fighters è più che imbarazzante, incombe questa sensazione. Subito dopo la title track, “Wilder Mind”. Potrebbe essere, di nuovo, qualcosa dei The National (sostituite la voce di Mark Momford con quella di Matt Berninger e il gioco è fatto) che questa volta, in preda a una crisi d’identità, si prodigano in intrecci armonici che ricordano alcuni brani passati su MTV negli anni ’90.

Si scivola verso le dimenticabili “Just Smoke” e “Monster”, fino a “Snake Eyes”, dove i The National tornano prepotentemente. “Broad-Shouldered Beasts” alterna momenti intimi delle strofe a momenti da stadio dei ritornelli. Qui si rivedono, nel bene e nel male, i Mumford & Sons. “Cold Arms” è una ballata voce e chitarra poco interessante – per qualcosa di questo tipo, rimanendo sempre a Londra, basta bussare alla porta di Keaton Henson -, mentre “Ditmas” è senza giri di parole il peggior brano dell’album.

“Only Love” e “Hot Gates” sono la bella chiusura che Wilder Mind non meritava.

Cos’è, quindi, Wilder Mind?

Wilder Mind è un album già ascoltato, è un insieme di citazioni volute o non volute che oltrepassano costantemente il limite oltre al quale si aggira lo spettro del copia-incolla, è un insieme di di canzoni mediocri, è qualcuno che ha capito che i Mumford & Sons sono ovunque e comunque, oggi, una miniera d’oro e li ha inseriti in un altro mondo (che, alla fine, è lo stesso di quello precedente), è la demo dei The National adolescenti sbronzi nel proprio garage, è il primo album da solista di Chris Martin.

“Via Ripetta 155”
di Clara Sereni

Via Ripetta 155 (Giunti, 2015), di Clara Sereni, semifinalista al Premio Strega 2015, inizia così: «La causa prima fu che sono snob». Lo snobismo è la cifra di questo breve romanzo, di una vita che si svolge in via Ripetta tra amici e conoscenti che non sono soltanto Citto, Mario, Peppino ecc., ma Citto Maselli, Mario Socrate, Giuseppe Rotunno ecc.

Ci viene presentata una Roma bohèmienne, ma rassicurante dopo tutto. Sullo sfondo corrono, anch’essi innocui, i grandi fatti della storia che stanno là come cartelli segnaletici di ciò che avviene d’importante nel mondo “di fuori”.

La narrazione è (senza ombra di dubbio?) autobiografica o, comunque, costruita in modo tale da apparire mimetica nei confronti di fatti e situazioni che hanno o potrebbero aver attraversato la vita dell’autrice. Una vera o presunta autobiografia (a me pare vera!) che ci rivela molto poco e rimane su una gradevole e rassicurante superficie. I fatti, nella loro innocenza bonaria e ipnotica, che siano privati o pubblici, non evocano forti emozioni e sorprese.

La lingua usata ha un effetto neutralizzante e omogeneizzante, per cui non c’è molta differenza tra la partecipazione alla mostra cinematografica di Pesaro e di Venezia, l’incontro con un’amica, la relazione con un fidanzato, la morte del padre. E forse proprio in questo il romanzo trova il suo riscatto, in uno stile mediano e sonnolento che accompagna e non fa sussultare, in una scelta di equiparare (nel lessico e nelle strutture sintattiche) vicende che, invece, potrebbero collocarsi a estremi diversi.

Via Ripetta 155 si può leggere comodamente distesi su una chaise longue, in un pomeriggio caldo ma ventoso d’estate, circondati da un giardino fresco, sorseggiando una bibita e talvolta sollevando la testa presi da un ricordo lontano o dalla nostalgia di un passato remoto.

Sì, perché un altro tratto del testo è il vago soffermarsi sul tempo trascorso, sulla giovinezza di un tempo, sulle grandi o piccole esperienze eroiche. Però i personaggi e le vicende narrati dalla Sereni restano a una dimensione, e la loro evanescenza acquerellata serve (forse), a chi già visse l’epoca del ’68 e dei primi anni ’70, per ritrovarsi e riconoscersi, facendo appello ai sottili reticoli che il romanzo costruisce.

 

(Clara Sereni, Via Ripetta 155, Giunti 2015, pp. 208, euro 14)

“XXI secolo”
di Paolo Zardi

«Anche se non ancora a metà, il ventunesimo era già candidato a diventare il secolo più merdoso della storia. Nessuno ricordava com’era cominciato il declino. Qualcosa, all’improvviso, s’era rotto. Ognuno aveva continuato a fare quello che aveva sempre fatto, ma a un certo punto non era più bastato. Avevano lottato con coraggio; poi, avevano ceduto a una disperazione composta; infine, era calata una tristezza immanente, irrimediabile. Per millenni avevano aspettato con terrore la fine del mondo; ora, era come se la fine fosse già avvenuta di nascosto, e non ci fosse più nulla da aspettare. Tiravano avanti per inerzia, per abitudine, stanchezza, con facce spente, postcoitali».

XXI Secolo di Paolo Zardi (NEO. edizioni, 2015), candidato al Premio Strega 2015, è una drammatica prefigurazione di un futuro prossimo, una distopia che scuote le coscienze di un Occidente in decadenza. Ma è anche il dramma morale, parallelo e che simbolicamente rimanda a quello collettivo, di un marito che scopre di essere tradito nel momento in cui la sua adorata moglie diventa un corpo inerme e emaciato, un recipiente svuotato di funzioni, sentimento e cognizione. Quel corpo di donna ridotto a vegetale diventa figura allegorica del disfacimento dell’opulente società occidentale. Un ritorno agli istinti, agli egoismi ai bisogni primordiali in un mondo che risente degli influssi di Cormac McCarthy e del José Saramago di Cecità.

La scoperta di non conoscere fino in fondo la persona che si è scelto di avere accanto, costringe un uomo, un semplice venditore porta a porta di sistemi di depurazione dell’acqua domestica, già spossato e vinto dalla cupezza del tempo di crisi, a intraprendere un’‹‹indagine macchinosa›› mettendo in discussione tutto: «Si chiese cosa avrebbe dovuto scoprire, se l’identità dell’amante, quella di Eleonore o la propria».

Si rende conto che la verità è più complessa della menzogna e che la realtà così come noi la vediamo, deformata dalla nostra esperienza, è diversa da quella che vedono gli altri. Non esiste una realtà fuori da noi. Esiste solo la realtà vista con la nostra lente interpretativa.

A volte fatti tragici ci costringono a rivedere la nostra visione come accade al protagonista di XXI Secolo. E allora si rende necessaria una recisione netta e dolorosa con il proprio passato che ha tutta la pienezza del gesto necessario, anche se si è troppo immersi nel presente per tollerare il peso fisico dei ricordi: «Quindi avevano un cane, e lui non l’aveva mai saputo. Era vissuto nella convinzione che esistesse solo ciò che poteva vedere, toccare. Invece aveva un cane, Miriam aveva il ciclo, e sua moglie aveva un amante».

È un libro impietoso il cui protagonista si trova costretto a spiegarsi la morte, a immaginarsi i molteplici modi in cui si può essere traditi, ad ammettere ferite e malattie di cui non si è affatto immuni come si credeva. Da tutto questo il personaggio di Zardi ne esce spaventato e agguerrito allo stesso tempo: «Per quanto la vita si fosse accanita su di loro, sarebbero sopravvissuti».

Ora comprende che da quel trauma ha potuto ricavare una nuova capacità di visione: «Dopo la scoperta del cellulare, ogni istante della vita precedente andava decodificato secondo un nuovo schema interpretativo».

Il finale è apocalittico. Dalla prospettiva ristretta di una terza persona distaccata si passa a un narratore onnisciente spietato senza soluzione di continuità.

Il protagonista guarda il giardino di casa e vi proietta la furia sorda e gigantesca che sta maturando lì vicino: «C’era un’aria lacustre. La luna, girata su un fianco, galleggiava nel cielo come una medusa gigante che arranca verso il fondo di un mare rancido. Illuminava a stento quella periferia esausta, il centro lontano con i suoi grattacieli decrepiti, i campanili restaurati e le case del quartiere, silenziose, diroccate, accerchiate da un buio ancestrale».

Zardi governa la sua narrazione senza cedimenti, senza commozioni, lasciando piuttosto che sia il lettore a commuoversi.

Il risultato non è un abbozzo ma un disegno preciso, terribile, che parla chiaro all’immaginazione di chi legge.

(Paolo Zardi, XXI Secolo, NEO. edizioni, 2015, pp. 160, euro 11,05)

“L’insostenibile leggerezza dell’essere”
di Milan Kundera

Milan Kundera non ha alcuna esitazione, è la Praga del 1968 che deve accogliere la sua narrazione. Leggera e indolente cornice spaziale non può sottrarsi all’insolubile dualismo degli opposti che permea per intero L’insostenibile leggerezza dell’essere, divenendo così essa stessa un personaggio da tratteggiare nella sua intima complessità.

Il ruolo di complice discreto delle vite di Tomáŝ e Tereza non è che una breve parentesi interrotta bruscamente dal precipitare degli eventi: l’arresto di Dubćek, leader dell’ala innovatrice del partito comunista; l’occupazione sovietica, seguita dalla resistenza passiva della popolazione cecoslovacca e infine gli anni della normalizzazione, scanditi dalle purghe, dalla fuga all’estero di artisti e intellettuali e dall’annichilimento di qualsivoglia fermento culturale.

Poco importa il credo politico a cui si appartiene, per tutti Praga è un simbolo la cui interpretazione spetta esclusivamente all’individuo. Che sia un nome da evocare con dolcezza o, al contrario, uno spauracchio da cui fuggire non fa differenza, ogni richiamo sembra far librare in aria la città che, sospesa tra essere e non essere, si ritrova suo malgrado nuovamente ancorata a terra, piegata sotto l’enorme peso che la storia le ha riservato. Si trasforma dunque, in uno specchio emozionale in cui i protagonisti possono scorgere il riflesso delle proprie inconciliabili contraddizioni.

Tomáŝ è un medico chirurgo stimato a livello internazionale la cui dedizione per la professione è pari solo a quella che riserva agli incontri erotici con le donne. Il suo è un sistema ben collaudato in cui ogni dettaglio costituisce una precauzione necessaria per evitare il più banale dei fraintendimenti umani, far coincidere l’amore con il sesso. Anni di amanti e un matrimonio fallimentare ammutoliscono di fronte a Tereza, giovane cameriera di provincia che giunge a casa di Tomáŝ fragile e disarmata come un bambino abbandonato in una cesta e affidato alla corrente.

Sei semplici coincidenze sono forse il capriccio di un fato annoiato ma sono sufficienti per Tereza, che trova in esse la forza di offrire a Tomáŝ la sua vita e la sua fedeltà. L’amore nato dalla casualità porta con sé tutta la leggerezza di un gesto avventato, eppure pagina dopo pagina si carica di nuovi significati, onerosi, che se da un lato proteggono il mondo di Tomáŝ e Tereza rendendolo impenetrabile a chiunque, dall’altro, il loro peso insostenibile li fa spesso vacillare, allontanare e in alcuni momenti perdere.

Ogni istante di piacere si consuma lungo l’abisso del dolore, l’altezza genera vertigini ed è facile cedere alla tentazione di lasciarsi cadere. La contrapposizione ontologica tra anima e corpo, leggerezza e pesantezza, positivo e negativo, sfuma inevitabilmente in una narrazione onnisciente in cui Kundera gioca a suo piacimento con la linea temporale, anticipando eventi (oggi potremmo dire spoilerando), ripercorrendo più volte la medesima vicenda ma da punti di vista diversi o semplicemente disseminando qui e là digressioni filosofiche.

La sensazione finale è di riconciliazione con se stessi e la natura, in cui però, la presenza di un invisibile fardello, questa volta l’ultimo, persiste fino alla fine.

 

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. di Giuseppe Dierna, Adelphi, 1985)

“The Magic Whip” Dei Blur

Dodici anni sono passati da Think Tank (Food/EMI, 2003), ultima fatica in studio dei Blur. Era l’anno 2003 e da quel momento la diaspora dei camaleonti per eccellenza del britpop ha prodotto i risultati più strani e, per molti aspetti, decisamente inattesi. Dal rock lo-fi di Graham Coxon al funambolico progetto Gorillaz, fino ad arrivare all’intima intensità del recentissimo Everyday Robots (Parlophone, 2014) di Damon Albarn, quella passata non è stata certamente una decade perduta.

La regia di questo nuovo The Magic Whip (Sony, 2015) è affidata, stavolta, a Graham Coxon, affiancato nella produzione finale da Stephen Street, storico produttore dei maggiori successi della band londinese degli anni ’90. Damon Albarn rimane dietro le quinte, quasi con disinteresse, distratto forse dalla finalizzazione del suo lavoro solista uscito lo scorso anno. La distinzione appare infatti netta: The Magic Whip suona pienamente, nei pregi e nei difetti, come un album dei Blur.

Echi delle esperienze precedenti pervadono tuttavia ogni parte del lavoro. Numerose le dichiarazioni, esplicite e palesi, di ritrovata identità. “Lonesome Street, “I Broadcast” e “Go Out” sono brani che rimandano direttamente agli esordi, agli anni d’oro del britpop con accento cockney del triennio 1991-1994. Il limite tra il rimando e l’auto-citazione sterile è, però, qui davvero sottile. Un limite, c’è da dire, più volte valicato, come ad esempio nel caso di “I Broadcast”, che sembra condividere più che una semplice intenzione con “Parklife”. Da qui il passaggio verso territori musicali più coxoniani è naturale, quasi immediato, e pesca a piene mani in un bagaglio fatto di Kinks e Beatles, numi tutelari di quella grande esperienza di nostalgia collettiva che fu il britpop. Al fianco di questi ricordi giovanili, troviamo brani con una forma più matura, vicini alla malinconia solitaria dell’ultimo Albarn. Se “My Terracotta Heart” è una ballata di misteri e solitudini, “Ghost Ship” ruota circolare intorno ad un oscillante andamento chitarristico da aperitivo reggae mentre “Pyongyang” inquadra una lenta fotografia grandangolare della capitale nordcoreana.

Tirando le somme del lavoro quel che si percepisce è un insieme molto variegato di elementi, di stili e di intenzioni. Nulla di nuovo sottende a quella che sembra più una raccolta di ricordi che un disco vero e proprio. Una galleria di fotografie più o meno ingiallite dal tempo all’interno della quale, come spesso avviene, gli echi risultano più affascinanti delle voci che li producono.

“Dante” di Ezra Pound

L’Everyman è un po’ il centro delle riflessioni che negli anni Ezra Pound ha dedicato a Dante. L’uno di tutti piuttosto che il tipo medievale di una contingenza storica (benché, il caso di dire, epocale), l’uomo in quanto tale che attraversa l’oltremondo non come una serie di luoghi ma di stati mentali. Da qui, si irradiano gli sviluppi ulteriori di una passione durevole e per certi versi propedeutica all’ermeneutica dantesca successiva. Il libro su Dante con cui abbiamo a che fare e che reca appunto la firma di Pound, è rimasto per parecchio tempo “potenziale”: ce ne raccontano la lontana scaturigine, da un antico progetto di Scheiwiller, e l’accidentato processo, i curatori Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani. Essi hanno riunito tutti gli scritti di Pound sull’argomento per l’editore Marsilio e ne è venuta fuori un’edizione tanto filologicamente accurata quanto tipograficamente elegante.

Nel primo dei saggi presenti nel volume Pound riassume un po’ il cammino del poeta-personaggio nella Commedia (sebbene egli si rifiuti di definirlo un riassunto).  Attraverso le figure che incontra compara Dante ad alcuni poeti di lingua inglese e solo Shakespeare, va da sé, sembra reggere  il confronto. Nell’insistenza del paragone, l’inglese «sembrerebbe avere maggiore capacità di dipingere l’umanità nei suoi vari aspetti» ma «quando si viene al puro suono Dante è in vantaggio». Peraltro Pound trova Dante impareggiabile proprio nella comparazione, intesa come esercizio variegato di metafore e similitudini – forse per empatia gli stessi curatori non riescono a esimersi dal ritenere i soli Cantos del poeta americano opera leggibile «come una Divina Commedia del nostro tempo».

Ora, considerazioni del genere i più non le riterrebbero esattamente esempi di vera critica; Contini non sembrava impressionato dallo sguardo di un poeta deciso invece a mostrarsi consapevole del materiale d’uso, metrica, tecnica e storia della poesia comprese (a partire dall’influsso dei provenzali sulle vicende letterarie in terra toscana, variazioni che portano la poesia medievale dagli stilnovisti – chiaramente orientati ad allontanarsi «dall’imitazione fin troppo servile» – fino a Dante). Anzi, al riguardo il grande filologo aveva molto da ridire: e non solo perché poteva fargli velo l’orrore per il fascismo dell’ingombrante poeta americano, ma perché l’avvicinarsi avventuroso di Pound a discipline severe come l’ecdotica non poteva non infastidire un professionista del suo calibro. Era già successo quando Pound si era cimentato in un’impresa analoga con Cavalcanti (studiato non meno di Dante): lì a picchiare duro era stato Mario Praz. I due curatori del volume non negano il dilettantismo di Pound ma su una linea passante da Anceschi, Sanguineti e Alfredo Giuliani preferiscono soffermarsi sull’intuizione che trascina Dante fuori dall’accademia o dal mero storicismo consolatorio per farne un poeta vivo «e scandaloso di lingua e di scrittura» (Pound dal canto suo quando si riferisce all’accademia parla di cloache). Una lettura appassionata la sua, durata tutta la vita. 

(Ezra Pound, Dante, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, Marsilio, 2015, pp. 202, euro 20)

“Der Park” di Botho Strauss

Peter Stein torna a Roma con Der Park, la più grande produzione di questa stagione del Teatro di Roma, tragicommedia firmata da Botho Strauss appositamente per il regista nel 1983. Affresco di una società attuale e universale, Der Park affronta, nelle parole del regista, «il degenerare della sessualità a pura merce, o a puro gioco fisico di forza, la ricaduta in comportamenti che direi primitivi, come il razzismo e l’utilizzo della religione come arma politica; la perdita di memoria, il disorientamento delle nuove generazioni, la paura della crisi e della propria fine, la commercializzazione dell’arte e tante altre cose che sono esattamente il mondo di oggi».

Nella notte di San Giovanni, le vicende della commedia shakespeariana si ripetono nel Grosser Tiergarten, nei pressi di un cespuglio mezzo morto e ingombro di immondizia. Il Sogno shakespeariano ritorna a vivere in una realtà dove l’amore è un valore dimenticato, il sesso è vissuto in maniera meccanica e inconsapevole e l’arte è mercificata e derubata della sua funziona mistica di collegamento tra realtà e l’ideale.

Oberon e Titania, con sembianze umane e in povertà, si risvegliano quindi con l’intento di resuscitare negli uomini la passione erotica poiché, sull’onda dell’avanzamento tecnologico e del progredire della società, essi hanno smarrito la loro natura sensuale, istintiva e primordiale.

Grazie all’intervento di Cyprian, scultore eletto da Oberon e da lui elevato a moderno Puck, i sentimenti di Georg, Helen, Helma e Wolf vengono invertiti e Titania, punita dal marito perché incapace di frenare il proprio desiderio, cede, vittima di un incantesimo, alla fascinazione per un toro.

In questo afflato mistico abortito che rievoca le atmosfere e gli sfondi sui quali Neil Gaiman ci ha insegnato a cercare gli American Gods, Sandman e i suoi sei fratelli, gli uomini non riescono a raggiungere l’armonia divina ma trascinano gli dei nella carne mortale. Dopotutto le premesse sono sbagliate: l’arte è caduta dal trapezio e si è storta una caviglia, lo spazio non è altro che un recinto che contiene una natura banale, domata e fortemente umanizzata e gli amuleti di Cyprian sono simboli di una magia incapace di durare più della moda, oggetti di un’arte che, mercificata, si squalifica passando da miniatura a piccolezza.

La conclusione, infatti, è amara: fallito il loro progetto, Oberon e Titania si perdono nella società umana fino a confondersi con le sue miserie, incapaci persino di riconoscersi e ritrovarsi. Cieca lei e spezzato, Mittentzwei, lui, sono condannati a un’esistenza depredata delle possibilità dell’amore, mostruosa come il Minotauro generato in quella folle notte di mezza estate.

Sullo sfondo, le scene di Ferdinand Woegerbauer, imponenti e montate a scena aperta. C’è addirittura un secondo palcoscenico piramidale capace di rappresentare, a seconda del modo in cui i personaggi lo abitano, la scatola all’interno della quale è contenuta la potente magia di Cyprian, l’ara sulla quale Titania sacrifica al toro la sua esuberante sessualità, e la collinetta calva sulla quale si risvegliano, intontiti, i giovani punk berlinesi testimoni inconsapevoli e destinatari refrattari dell’opera degli dei.

Der Park
di Botho Strauss
traduzione Roberto Menin
regia Peter Stein

con Pia Lanciotti, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Gianluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Paolo Graziosi, Fabio Sartor, Andrea Nicolini, Mauro Avogadro, Martin Chishimba, Arianna Di Stefano, Laurence Mazzoni, Michele De Paola, Daniele Santisi, Alessandro Averone, Romeo Diana e Flavio Scannella, Carlo Bellamio

Roma – Teatro Argentina dal 5 al 31 maggio

 

Foto di copertina: Serafino Amato

“Puttane assassine”
di Roberto Bolaño

Forse alla fine della lettura di Roberto Bolaño ci si sente confusi, sconnessi, stazzonati e sballottati come i panni appena centrifugati.

E questo si prova con i romanzi monster, I detective selvaggi e 2666, ma si può sperimentare in modo più concentrato, assaporando a dosi omeopatiche un universo pregno e surreale, con i racconti di Puttane assassine (Adelphi, 2015).

Seconda raccolta dopo Chiamate telefoniche, Puttane assassine è l’ultimo libro pubblicato in vita dall’autore cileno in Spagna nel 2001, prima che due anni dopo un male incurabile e imperdonabile da parte dei lettori bolaniani, portasse via la penna più incisiva della letteratura latinoamericana contemporanea capace di cambiarne il corso.

Bolaño è quel genere di scrittore scomodo perché mette in crisi certezze e preconcetti, erige barriere emotive, obnubila la mente come potrebbe fare una droga, induce al sonno amniotico ogniqualvolta l’argomento si fa insopportabile, a cominciare dalla condanna biologica sotto cui ogni essere vivente viene al mondo, la morte.

Il mondo di Bolaño è un flusso perpetuo: personaggi «patibolari», tristi o allegri, perdenti fatti e finiti escono ed entrano dalla sua matrice. Sono il ritratto di una generazione borderline, delusa, al limite della follia e del suicidio, cresciuta in un periodo di totale vuoto esistenziale, ideologico, politico, etico e surreale. Seguiamo il loro erratico periplo nei luoghi più inverosimili per ingannare la morte.

Nei tredici racconti di Puttane assassine troviamo i più disparati personaggi: un calciatore africano e uno cileno, compagni di squadra nel Barcellona che fanno vincere grazie a un miracoloso rituale; il poeta Enrique Lihn, incontrato in sogno forse in un bar di Santiago; un fotografo omosessuale alle prese con la prostituzione infantile in India; un narcotrafficante colombiano magistralmente descritto; un poeta erbivoro che si suicida dopo la morte della madre; persino un fantasma che assiste, come nel film Ghost, al vilipendio del proprio povero corpo da parte di un famoso stilista necrofilo. Inoltre Bolaño si iscrive nella tradizione di quei poeti, da Catullo a Baudelaire, attratti dalle figure delle prostitute. Riteneva che le prostitute fossero «la cosa più somigliante che ci sia a un orologio. Le puttane sono le donne-orologio per eccellenza». E ancora in un’intervista dichiarava: «ho sempre tenuto in grande considerazione questo mestiere e le puttane, pertanto, godono di tutti i miei rispetti. Tutte le puttane. Le povere e quelle di elevato standing. Donne virtuose e lavoratrici, donne che nello stesso tempo sembrano uscite da un melodramma messicano degli anni cinquanta, come dalle pagine della bizantina Ana Comneno». E definisce il racconto eponimo delle raccolta «femminista e violento».

Sotto questa viva materia pulsano in strutture variate gli scenari e le figure già incontrate nell’opera di Bolaño: ad esempio Arturo Belano, già alter ego dell’autore ne I detective selvaggi, personaggio segnato da una presenza passiva, marginale, estraniante, sia quando si limita ad essere un semplice osservatore o ascoltatore di vicende altrui, sia quando è coinvolto in prima persona.

Protagonisti e voci narranti non sono mai al centro della storia. Più spesso sono punti di vista esterni.

Questa percezione perturbante è terrore sacro ed estasi, nausea e straniamento, che costringe a guardare «un paesaggio irreale, come in bianco e in nero, composto da alberi rachitici, cespugli, un sentiero per carretti, un ibrido fra una discarica e il paesaggio bucolico tipicamente messicano» o «facciate di un altro tempo […], un tempo atroce che durava senza nessuna ragione. Solo per inerzia.»

In Puttane assassine troviamo tutte le ossessioni dell’universo multidimensionale bolaniano: violenza e male connaturati alla natura umana, sesso, letteratura, condizione degli esuli in terra straniera, viaggio come ricerca di se stessi (spesso verso luoghi sperduti o indefiniti), solitudine, magia nera, prostituzione, omosessualità, rapporto padre/figlio, lacerti di autobiografismo (trasforma gran parte delle sue letture, viaggi, aneddoti in esperienze letterarie), suicidio come atto di libertà, spesso dalla follia.

Per narrare ciò, Bolaño si serve di vari registri. Passa dalla prima alla terza persona. Racconta tanto al presente quanto al passato, utilizzando persino una forma più desueta di dialogo nel racconto eponimo. Segue gli eventi a volte cronologicamente oppure il flusso confuso dei ricordi.

Il vigore narrativo trasforma così l’esattezza delle descrizioni, l’umorismo tagliente, la complessità creativa di una scrittura a tratti delirante in un’emozione che deflagra nell’intelligenza e nel cuore del lettore.

(Roberto Bolaño, Puttane assassine, trad.di Ilide Carmignani, Adelphi, 2015, pp. 230, euro 18)

“L’uomo è un grande fagiano nel mondo” di Herta Müller

«Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa, dipinge il paesaggio degli spodestati». Questa, la motivazione che accompagna l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Herta Müller, autrice tedesca di origine rumena, che lo riceve nel 2009.

È invece il 1986 quando, in Germania, viene pubblicato per la prima volta L’uomo è un grande fagiano nel mondo, oggi disponibile anche in italiano, grazie alla casa editrice Feltrinelli.

Il libro narra le vicende di Windish il mugnaio, il quale attende di poter ottenere i visti che gli consentano di fuggire in Germania con la propria famiglia, lontano dal regime di Ceauşescu.

Non un romanzo storico, né un manifesto ideologico, quello della Müller, ma piuttosto una favola pagana che sacrifica consapevolmente il superfluo alla natura, eterna protagonista esterna ai fatti. L’ uomo, solo un grande fagiano. Un indifeso animale da cortile nel mondo fatto di sassi, foglie, arbusti e di animali, ai quali egli affida lo scaramantico compito di scandire il tempo della propria attesa.

Sono questi gli ingredienti della poetica della tristezza che invade il libro della Müller: l’eccidio rumeno e le sue conseguenze passano poi per un altro eccidio operato dall’autrice, quello delle sovrastrutture narrative: via i giudizi, via la logica dell’intreccio, via anche qualsiasi intento di guardare allo sterminio con l’occhio languido e pietoso della storia umana. A reggere l’impalcatura del libro sono i fatti, i luoghi, gli eventi che la Müller ci mostra così come avrebbero luogo in natura, senza didascalie, epurati da giudizi morali come l’ordine di importanza o la gravità: un rumore nello stagno, uno stupro, il frinire dei grilli, sacchi di farina in cambio della salvezza.

È proprio in virtù di una consacrazione all’essenzialità delle cose che nel suo romanzo, Herta Müller – con immagini potenti e sguardo impietoso –, tira via a forza l’uomo da quel piedistallo immaginario che egli stesso ha costruito sotto i suoi piedi per elevarsi su gli altri animali e sentirsi più vicino a un dio da lui inventato. Privato di queste sue certezze artificiali, l’uomo inciampa nella vita proprio come un grande fagiano nel mondo: un animale più goffo di molti altri che all’onestà cielo ha preferito la confortevolezza della mangiatoia.

(Herta Müller, L’uomo è un grande fagiano nel mondo, trad. di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, 2014, pp. 128, euro 12)

“Youth – La giovinezza”
di Paolo Sorrentino

In un elegante albergo ai piedi delle Alpi svizzere, il compositore e direttore d’orchestra Fred Ballinger trascorre una delle sue tante vacanze estive. Fred ha ormai ottant’anni, ha smesso di dirigere da anni, anche se la musica non l’ha mai dimenticata e continua a cercare il ritmo o una sinfonia nel fruscio della carta delle caramelle o nei campanacci delle vacche al pascolo. Trascorre le sue giornate tra passeggiate, trattamenti di benessere e chiacchierate con il suo vecchio amico Mick Boyle, un regista di culto che sta preparando la sceneggiatura del suo film testamento prima di ritirarsi dalle scene. Fred e Mick condividono la vecchiaia e la nostalgia per la giovinezza, osservano la vita brulicante di delusioni e gioie dei loro figli e degli altri ospiti dell’albergo e cercano di convivere ogni giorno con un passato che fanno fatica a dimenticare.

Il passato è probabilmente il tema su cui Paolo Sorrentino ha sempre preferito soffermarsi nella sua filmografia. Tutti quanti i suoi protagonisti, in forme diverse, più o meno accennate, convivono con i fantasmi di ieri al fianco. Se questa costante suggestione del tempo trascorso è rimasta larvata come sottotraccia generale dei suoi primi lavori, è dal primo film in lingua inglese, quel This Must Be the Place del 2011, che invece ha iniziato a mostrarsi come vero motore narrativo e come nucleo centrale della riflessione cinematografica di Sorrentino.

Il passato è il filo che unisce This Must Be the Place Youth – La giovinezza, passando per il tramite di La grande bellezza. In tutti e tre i film, per tutti e tre i protagonisti, il passato è una sentenza da scontare nel presente per poter vivere il futuro. Cheyenne interrompe la sua carriera di rockstar dopo la morte di un fan e riesce a recuperare la sua vita solo dopo un viaggio nella storia della sua famiglia (c’è il simbolo semplice e potente del trolley che si porta appresso). Lo scrittore Jep Gambardella riesce a tornare a scrivere evadendo dalla città a cui si era consegnato in ostaggio rinunciando al talento per la mondanità. Fred rifiuta le sue composizioni più celebri per “motivi personali”, adotta la vecchiaia come alibi per rinunciare alla vita e per poter continuare a guardarsi indietro anziché guardare avanti.

Nell’albergo di Youth tutti sono oppressi da quello che è stato. C’è il giovane divo Jimmy Tree che non riesce a liberarsi dal ruolo di robot in un blockbuster e diventa amico di Fred. C’è l’ex gloria del calcio (un Maradona estremizzato interpretato da un attore) che ricorda le partite e il suo corpo giovane mentre trascina i chili che lo hanno deformato (tra l’altro, a un certo punto mentre guarda fuori dalla finestra, questo Maradona di Sorrentino dice quasi la stessa battuta che chiude Mia madre di Nanni Moretti).

Di fronte al peso del passato, la reazione comune di tutti i personaggi di Sorrentino è l’apatia, l’indifferenza superficiale alla vita. Era apatico Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore, era apatico Il Divo, Cheyenne, Jep Gambardella. È apatico Fred Ballinger ed è l’unico ad ammetterlo come proprio limite. Accanto a loro si muovono sempre personaggi vitali (il fratello delle Conseguenze, la moglie di Cheyenne) o ancora attaccati a un ottimismo a tratti anche ottuso (Verdone in La grande bellezza). Il contraltare di Fred è Mick che non accetta la vecchiaia e continua a lavorare al suo ultimo film, venerato dalla corte di giovani sceneggiatori e schiaffeggiato nella coscienza e nell’orgoglio dalla diva che aveva creato più di cinquant’anni prima (una Jane Fonda breve e memorabile).

L’unico modo per spezzare l’apatia è il redde rationem con il passato che ingombra, con quella Venezia in cui Fred non torna con dei fiori da più di dieci anni, con i figli che se sono un disastro è colpa dei padri, con l’Orrore che si vuole continuare a raccontare quando invece è arrivato il momento di parlare del Desiderio.

Esiliato nell’albergo, Fred può continuare a sentirsi vecchio e quindi autorizzato a non fare niente se non aspettare la fine. La giovinezza del titolo non è tanto un dato anagrafico a cui guardare con nostalgia quanto piuttosto una condizione sempre possibile da recuperare nell’intenzione.

Chiamato forse alla prova più difficile dopo la definitiva consacrazione internazionale del fenomeno La grande bellezza, Paolo Sorrentino ha continuato a fare il suo cinema senza badare troppo alla pressione e alle attese. «La leggerezza è una tentazione irresistibile. E una perversione» fa dire a Fred in una delle prime battute, e per la prima volta i dialoghi di Sorrentino si aprono a un’ironia che dà a Youth una sfumatura da commedia nera, amara, esistenzialista per usare una parolaccia. La leggerezza, però, manca. Quello che è sempre stato una delle caratteristiche chiave del cinema di Sorrentino qui a tratti scivola in difetto. Parliamo della cura della scrittura che qui finisce per diventare eccesso di letterarietà, con l’attenzione che si rivolge molto più ai dialoghi che alla narrazione filmica, al detto rispetto al mostrato. In Youth le cose non succedono: vengono riferite, raccontate dopo che sono già successe (salvo rare eccezioni). Esasperando la struttura a episodi discontinui già propria di La grande bellezza, Sorrentino confeziona una serie di scene, di dialoghi isolati tra loro da stacchi che si ripetono alternando i momenti kitsch degli spettacoli musicali del resort alle gallerie di corpi che ricordano la decadenza di Lucien Freud. Questa chiusura in una forma quasi esclusivamente dialogica rallenta la visione, la chiude a possibilità ulteriori. Una massaggiatrice dice a Fred che gli uomini dovrebbero toccarsi e smettere di parlare, perché si capisce molto di più dai corpi che dalle parole. Dovrebbe capirlo anche Sorrentino: quando i suoi personaggi non parlano e viene lasciata la potenza delle immagini al suo pieno svolgimento, Youth diventa grande. Ci sono tre momenti, senza dialoghi, che segnano la differenza: il sogno con Miss Universo e Venezia allagata; il concerto per natura e mucche; la collina che si riempie di tutti i personaggi femminili che Mick ha diretto nella sua carriera. Peccato che finiscano per essere soffocati dal troppo parlare.

Ci sarebbe da dire ancora qualcosa su Michael Caine e Harvey Keitel, rispettivamente Fred e Mick. Useremo una parola sola: straordinari.

(Youth – La giovinezza, di Paolo Sorrentino, 2015, drammatico, 118’)

“Se mi cerchi non ci sono”
di Marina Mizzau

Buio in scena. Il bagliore di una bara è tutto quello che rimane; il cielo e il fondale strizzano il mezzo come un boccone di nuvole. E dietro al feticcio di legno, il corteo dei superstiti, che sciama di buon grado con in spalla il dolore d’occasione. Il tipico strazio del “sano e salvo”. Perché se riesci a guardarla quella scatola muta, vuol dire che non sei dentro. Almeno stavolta.

Come in Mi riconosci di Andrea Bajani, sono delle esequie la mossa di apertura del romanzo di Marina Mizzau Se mi cerchi non ci sono (Manni, 2015), tra i dodici finalisti del Premio Strega di quest’anno.

Leonardo, il defunto, come spesso avviene, è un nodo di rapporti. Un punto di raccordo in cui si congiungono e si giustappongono una sfilata di nomi e di volti. Tutti scoperchiati da questa sepoltura.

Leonardo era/è (perché il tempo degli affetti, forse, è un eterno presente) doppiamente marito di Antonia ed Elisabetta, variamente padre, fratello di Marta e Maria Teresa, zio, mentore, amico, amante.

Una figura su più livelli, un professore, un uomo di studi e di osservazioni acute. Lo si evince dai ricordi dei vivi, dall’arcipelago di inezie denominate “vita”. Tutti concorrono all’opera immane di ricostruzione.

E il risultato in fieri è un pavimento dissestato, il mosaico sbavato di chi crede di sapere più dell’altro, di preservare il brandello più autentico, il cimelio di verità defluito in un aneddoto.

Ognuno vorrebbe proclamarsi il tesoriere di Leonardo, dei suoi gusti, dei suoi fastidi, dello spettro dei suoi umori. La ragione è di nessuno e ovviamente di tutti, perché a ognuno Leonardo ha dispensato uno spiraglio di se stesso, tanto da indirizzare a ciascuno una lettera, un testamento emotivo in cui ricapitola il sapore del loro legame, l’angolazione inaspettata della loro immagine, il taglio obliquo di uno sguardo scomodo e infilzante. Perché in queste mail lo specchio si rovescia ed è proprio lui il forziere, l’occhio e il cuore in grado di risvegliare fratture e sussulti dei loro incontri.

Gli amori falliti e quelli mancati delle sue sorelle, la paternità coraggiosa di Elettra e quella acquisita di Alessandra, le amicizie tradite, tutti dettagli sciorinati in più di sessant’anni che all’improvviso diventano larghi meno di un pugno.

È lì Leonardo, nel moto oscillante di quelle chiacchiere, nel cibo inframmezzato di polemiche, nella scelta di un ristorante dopo la tumulazione. E tutti lo evocano, lo cercano con foga, insistendo in quel tiro alla fune di frantumi pescati, ritrovandovi lo scheletro del proprio accento. Perché la storia continua sulla fine di un’altra. E spesso, accorgersi di qualcuno, vuol dire solo confermarne la scomparsa.

Se mi cerchi non ci sono,  come sospira il titolo, mutuato da un classico esempio della crittografia: un trittico di C che in realtà non sono lettere, ma appunto semicerchi. Cercare implica sempre un altrove insospettato, enigmistico, un attraversamento della maschera gentile.

Non arrestarsi mai alla prima forma e nel fosso dell’assenza rinvenire l’istinto della memoria, come motore unico della conservazione. Come principio di ogni racconto.

L’autrice restituisce la delicatezza vitrea dei rapporti umani, senza concedere neanche un rigo di eccesso, con un linguaggio essenziale, stringato, spesso ironico, sagomato abilmente per sottrazione, che riscontra il suo momento migliore nei messaggi di Leonardo ai suoi cari, in particolare alla sua seconda moglie: «Che cosa avevo, ti ho dato? La mia saggia solidità in cambio della tua giovane e incantata provvisorietà. Nella quale forse tu e tua figlia sareste state più felici. Ho capito tardi che avrei potuto darti di più, se ti avessi permesso di chiedermelo, di farmi capire che lo volevi. Adesso vorrei dire le parole che non sono state dette, riempire i silenzi, quelli che sanno di rimprovero, o di sfida o di paura o sospesi nell’inerzia. Silenzi che restano, che segnano il tempo di una sera, o di un viaggio».

Il punto di vista, la cauta e sottile voce narrante, è quella di una studentessa, un’allieva di Leonardo impigliata nel suo fascino, continuamente presente eppure sempre al margine, che gli regalerà il piacere di quel rebus, tanto in rima col senso del destino.

Al di là della vertigine profetica, pensando a Se mi cerchi non ci sono, è difficile immaginarlo sul podio dello Strega. Potrei sbagliare e comunque sarà un bene, ma il suo posto non ha clamore intorno.

Ha lo stesso ritmo del respiro, quieto, inevitabile, sincero come l’aria che sposta. La quotidiana durezza di quello che ci impatta. E che ci trascende non appena ci appartiene.

 

(Marina Mizzau, Se mi cerchi non ci sono, Manni, 2015, pp. 204, euro 17)