“Giuda” di Amos Oz

«In ogni lingua che conosco, e anche in quelle che non conosco, il nome di Giuda è diventato sinonimo di traditore. E forse anche sinonimo di ebreo. Per milioni di cristiani ogni ebreo porta in sé il marchio infamante del tradimento».

Non sempre una storia per essere considerata d’impatto deve rispondere all’ovvietà di formule prestabilite che definiscono ogni questione lasciata aperta durante la narrazione; partendo da questo punto di vista Amos Oz mette insieme un libro che esiste e si completa nell’irrisolto, che non vuole fornire risposte ma tende a concentrarsi sul passato e sulle possibili variabili di un seguito rimasto scoperto.

Nello specifico si concentra sulla complessa figura di Giuda Iscariota suggerendo un’analisi insolita, e volutamente non risolutiva, sul suo presunto tradimento nei confronti di Gesù; Oz infatti definisce le azioni di Giuda come il più grande atto di fede e di amore verso un uomo che non crede in se stesso, che vacilla mentre cerca di compiere il suo destino. In fin dei conti dunque è stato Giuda a “creare” il figlio di Dio, il primo a credere nell’immortalità di Gesù tanto da favorirne la morte per dimostrarlo.

«Chi è pronto al cambiamento […] chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento, e hanno una paura da morire del cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento».

A esercitare un perfetto contrasto con questo concetto saranno i protagonisti del romanzo, cristallizzati in uno spazio-tempo inaccessibile e a tratti irreale.

In Giuda (Feltrinelli, 2014), infatti, fin da subito si avverte una forte sensazione di estraneità: del lettore che non riesce fino in fondo a immergersi ed empatizzare con i caratteri asciutti dei personaggi e degli stessi personaggi che conducono una statica esistenza periferica, come se fossero avvolti da uno spesso strato di tacita arrendevolezza.

Primo fra tutti il protagonista Shemuel Asch che rinuncia agli studi – e in particolare alla sua tesi Gesù visto dagli ebrei giunta ormai a un punto morto – a causa dell’improvviso dissesto economico della sua famiglia e della parallela separazione con la sua ragazza Yardena, deciso ad andarsene da Gerusalemme senza avere una meta o una prospettiva ben precisi.

Sarà un insolito annuncio affisso nella bacheca dell’Università a incuriosire Shemuel e trattenerlo in città: alloggio gratis e una paga ragionevole in cambio di alcune ore serali di conversazione con un colto settantenne invalido ma generalmente capace di badare a se stesso.

Shemuel quindi si ritrova a vivere in vicolo Rav Albaz 17 nella casa dell’intellettuale Gershom Wald e dell’enigmatica e affascinante Atalia Abrabanel, ma chi siano e cosa facciano queste due misteriose figure inizialmente non ci è dato saperlo e anche dopo aver disposto tutte le carte in tavola e aver delineato i loro profili resteranno impenetrabili.

Quel che si sa per certo è che Shemuel, nella claustrofobica mansarda di Rav Albaz, dovrà fare i conti con altri traditori o presunti traditori del passato, con un amore non corrisposto, con le controversie del cristianesimo e degli ebrei, con un anziano attaccato alle parole più che ai ricordi e con la propria solitudine che trascinerà con sé anche quando sarà inevitabilmente lontano.

«Tu presto te ne andrai per la tua strada e sentirò un po’ la tua mancanza qui, soprattutto nelle nostre ore, quando la luce cala in fretta e la sera penetra nelle ossa. Io vivo qui da un addio all’altro».

Non è sicuramente un libro dalle soluzioni facili, ogni argomento toccato tende a sfumare tra le pagine invece di essere sviluppato e la trama è tutt’altro che definita; eppure questo romanzo apertamente irrisolto contiene qualcosa di estremamente più importante: la possibilità di una via di fuga.

 

(Amos Oz, Giuda, tra. di Elena Loewenthal, Feltrinelli, 2014, pp. 329, euro 18)

Edda @ Init, 8 Maggio 2015

Quando mi è stato detto di andare a vedere Edda, ho detto di si ma non sapevo bene chi fosse. O meglio, sapevo chi fosse per via dei Ritmo Tribale, band di alternative rock dei primissimi anni Novanta che ha ispirato e dato linfa a gruppi come Afterhours, Negrita e in parte anche Verdena e Marlene Kuntz. Così, dopo i successi di brani come “Sogna”,“Amara” e “Uomini”, con quasi venti anni di ritardo ho scoperto che nel 1996 EDDA decise di lasciare la band nel bel mezzo di un tour, per via di una crisi di identità che lo aveva colpito.

Il ritorno sulle scena avviene nel 2009 con l’album Semper biot, dove appunto Stefano Rampoldi si mette a nudo con tutte le sue debolezze e i suoi paradigmi. A seguito di questo successo forse anche inaspettato, nel 2012 esce Odio i vivi, un lavoro meno complesso dal punto di vista emotivo ma che gli permette di arrivare tra i finalisti dell’ambito Premio Tenco, anche grazie alle numerose collaborazioni. Lo scorso inverno è stato il turno di Stavolta come mi ammazzerai?, il terzo e per il momento ultimo album da solista di Edda.

E proprio quest’ultimo lavoro è stato presentato lo scorso venerdì 8 Maggio presso l’INIT di Roma, all’interno della rassegna MArteMagazine Reloaded per il ritorno della webmagazine MarteLive. La serata inizia piacevolmente, in apertura i Suntiago scaldano il pubblico con il loro frizzante pop-rock, melodie costruite alla perfezione e testi in italiano(!). Davvero un inizio di livello, tra ritmi africani e pop britannico. Sono ormai passate le 23 quando Edda ed il resto della band salgono sul palco. La loro esibizione è un vero concentrato di alt-rock, accompagnato da qualche elemento di elettronica, un mix di energia e resistenza che colpisce  per la vitalità senza mai nascondere la sofferenza ed il realismo, i fili conduttori di questa nuova carriera. In sostanza viene suonato tutto il nuovo album, lavoro incentrato sul ruolo della famiglia, sui conflitti interni e sulle dinamiche più intime che si manifestano in questo contesto.

“Pater” e “Mater” parlano proprio di questo, della morte e di Dio. Ciò che ha reso famoso Edda sono anche i suoi testi così espliciti: stiamo parlando di “Puttana da un euro”, “Ragazza porno” e “HIV”, poche allusioni e tanto disagio, tra violenza, droga, malattie e sesso.

Chi canta non sta millantando, ha davvero vissuto sulla propria pelle questo tipo di esperienze/dipendenze: un altro esempio è “Stellina”, tra suoni distorti e grida di disperazione. Unica piacevole eccezione risulta essere “L’innamorato”, puro cantautorato dai tratti sognanti. Per il resto, si passa da brani più intimisti (“Organza”) a quelli un po’ più ironici come “Peppa Pig” e “Ragazza meridionale” e non manca anche un classico che qualche anno fa era stato cantato con Manuel Agnelli, ovvero “Milano” città natale del Nostro. Il concerto dura circa novanta minuti, tra qualcuno che dal pubblico gli ricorda simpaticamente di non essere più un giovincello e altri che chiedono qualche pezzo del passato.

Edda regala ai circa centocinquanta presenti un live carico di suggestioni, rock italiano come non se ne vedeva da tempo, preludio di una carriera che sembra appena iniziata per questo vecchio leone e per i suoi ruggiti.

“Le scimmie”
di José Revueltas

Il primo libro della nuova collana little SUR ci trasporta in un universo violento, il carcere di massima sicurezza di Lecumberri, in Messico. Con Le scimmie di José Revueltas (Edizioni Sur, 2015) scopriamo un ambiente claustrofobico in cui tre reclusi, Albino, Polonio e un menomato detto il Coglione, stanno cercando di portare a termine una missione quasi impossibile: farsi recapitare della droga. Per farlo, dovranno eludere la sorveglianza delle scimmie che danno il titolo al libro, ovvero i secondini del carcere, e contare sull’aiuto della madre del Coglione e delle compagne di Albino e Polonio. La prima, in considerazione della sua non più verde età, ha la quasi certezza di scampare alle ispezioni corporali di routine e può rivelarsi un ottimo corriere, mentre le due ragazze, giovani e attraenti, sono quasi una garanzia di successo, la perfetta distrazione per gli occhi (e le mani) degli agenti.

Con quest’opera che unisce in sé il racconto e il romanzo, e grazie alla completa assenza di capitoli, interruzioni, paragrafi o indentazioni, Revueltas ci trasmette l’affanno dei prigionieri, il loro sentimento di asfissia e la loro apprensione nei confronti della riuscita del loro folle piano. Leggendo, diventa lampante la nostra impossibilità di distinguere chi si trova effettivamente dietro le sbarre, se i tre detenuti o i loro carcerieri, a loro volta costretti a una reclusione nell’ambiente volgare e violento del carcere e a controllare, giorno dopo giorno, visitatori e visitati, novelli reclusi, carcerati fra i carcerati.

Con il suo scritto, Revueltas ricrea un universo che ha vissuto in prima persona durante il suo arresto, nel 1968, e riesce con grande abilità nell’intento di entrare nella mente di un prigioniero e di trasportare in carcere anche noi lettori grazie alla completa assenza di censure a coprire, per esempio, gli insulti di Albino e Polonio al Coglione o gli apprezzamenti fortemente maschilisti per le compagne dei due detenuti. In questa panoramica a 360 gradi dell’ambiente carcerario non mancano riferimenti a quelli che potremmo considerare gli abusi di potere degli agenti o alle loro violenze verbali nei confronti di carcerati e visitatori, a loro volta “vittime” del carcere, a loro volta ingrigiti dall’ambiente che si vedono costretti a visitare una o più volte a settimana, percorrendo un cammino a senso unico verso la più cupa rassegnazione: da strenui difensori dei propri familiari e amici, si trasformano in semplici comparse su uno sfondo grigio, altre scimmie pronte a riempire le gabbie di un’esposizione umana senza dubbio molto particolare.

(José Revueltas, Le scimmie, trad. di Alessandra Riccio, Edizioni SUR, 2015, pp. 59, euro 7,00)

“Nessuno muore”
di Luca De Bei

Si dice che il mondo sia piccolo e che a dividerci dal presidente degli Stati Uniti ci siano solo sei gradi di separazione. Luca De Bei deve essersi ispirato a questa teoria nel disegnare il piccolo mondo tragico all’interno del quale otto personaggi continuano a incontrarsi a coppie, percorrendo sentieri che si intrecciano strettamente e inesorabilmente.

C’è un ragazzo, convinto di essere in contatto con gli alieni, che è fidanzato con una ragazza seria e onesta il cui padre ha abusato della sorella la quale ora si droga e si prostituisce per pochi soldi nel parco, come quella notte in cui incontra un uomo inquietante, “il mostro” per la giovane editor di una casa di produzione televisiva e capo di un tormentato scrittore che è fidanzato con un poliziotto che una notte incontra per caso la terapista del ragazzo che è convinto di essere in contatto con gli alieni.

Ed è solo un modo per raccontare Nessuno muore, perché questa storia, tonda come una palla, potrebbe essere iniziata da qualunque altro punto, e riletta di nuovo, da capo, d’un fiato. È una bella storia, vera e grigia come le giornate d’inverno che iniziano male e finiscono peggio, quelle in cui il cielo è sporco e la luce sempre al neon.

Con una scenografia essenziale, ma ricca ed efficace, Nessuno muore è uno spettacolo originale e valido, sorretto dalla bravura del cast. Anselmi e Augenti, tra tutti, spiccano per la capacità eccellente di tratteggiare i personaggi loro assegnati. Il primo riesce a incarnare, pacato e realissimo, la mostruosa ultraviolenza che, in questo nostro presente freddo e impersonale, si incarna ora in fatti ora in parole non meno bestiali dei fatti. La seconda non avrebbe quasi bisogno di parlare per dare consistenza a un personaggio di disincantata forza e bellezza a cui è capace di offrire, oltre che la voce, anche la pelle, le ossa e i muscoli.

Nonostante ciò a Nessuno muore non si possono perdonare due difetti: da un lato, l’impalcatura scenica costituita da un susseguirsi di incontri intervallati dal buio che rendono l’opera poco scorrevole, evocatrice di atmosfere più televisive o cinematografiche che teatrali. Dall’altro, il finale che non rende giustizia all’impegno profuso per costruire una narrazione che rimane intensa e credibile fino alla fine. Fino al primo sbuffo di fumo dal retropalco.


Nessuno muore
Testo e regia di Luca De Bei
Con Andreapietro Anselmi, Maria Vittoria Argenti, Chiara Augenti, Michele Balducci, Federica Bern, Giulio Forges Davanzati, Alessandro Marverti, Arianna Mattioli

Roma – Teatro della Cometa dal 5 al 24 maggio

“Lettere alla vicina” di Marcel Proust

Jean-Ives Tadié, biografo e studioso di Marcel Proust ne parla in termini persino più appassionati che calorosi. Nell’introduzione a queste Lettere alla vicina sottolinea come risulti evidente la grandezza dello scrivente: si dà il caso sia uno scrittore grande come pochi.

La sorpresa della recente scoperta e rapida pubblicazione delle lettere a una tale signora Williams, si accompagna alla rivelazione di una qualità delle stesse tutt’altro che inconciliabile con l’opera – vecchio pregiudizio, ricorda Tadié, di lettori frettolosi. Sarà che qui la compatibilità sembra affare proprio dei soggetti implicati nel carteggio – che carteggio propriamente non è mancando le lettere della signora in questione: persona, come lui, solitaria, umbratile, malaticcia, amante della musica. Due tipi sì singolari da scriversi invece di frequentarsi o almeno parlarsi di tanto in tanto pur vivendo una al piano superiore dell’altro, in un palazzo di boulevard Haussmann. Spaventato – il secondo -, infastidito, angosciato (facile immaginarselo) dai rumori che da lì provenivano. Rumori di ristrutturazione dell’appartamento e rumori di opere quotidiane: quelle del marito dentista, classico terzo incomodo che nessun ruolo può giocare nella decadente sensiblerie dei due. Tuttavia, un paio fra la ventina di lettere comprese nel volumetto tradotto da Francesco Bergamasco per Archinto sono dirette proprio al signore in questione. Appaiono involontariamente umoristiche per l’eccesso di galanteria che contrasta con la richiesta di non rompergli le scatole; si scusa lui, infatti, per fargli «subire così spesso il contraccolpo dei miei problemi mandandole a chiedere, quando le mie crisi d’asma sono troppo forti, di procurarmi un po’ di silenzio». Non ancora convinto, gli chiede di accettare i suoi fagiani!

L’ineffabile Marcel sa che a ognuno va dato il suo. La donna ha un temperamento artistico e a lei Proust parla di fiori, di musica, ne elogia la stile. Che l’apprezzi sinceramente lo dimostra il fatto che le illustra un paio di cosette fondamentali per intendere nel miglior modo possibile la Recherche. Uomo malato in maniera si potrebbe dire proverbiale («A me sembra normale essere ammalato») mostra il suo dispiacere per le condizioni della donna, ben più giovane di lei. Del resto lui ha le sue grane: rischia la bancarotta, teme di sottoporsi all’esame per l’arruolamento militare e il suo «povero segretario è annegato precipitando in mare con l’aereo» (i lettori veri di questo gigante assoluto che oggi ne conta pochissimi -per manifesta inferiorità del destinatario – sanno il peso che ebbe Agostinelli nella costruzione della Recherche). Vorrebbe regalare qualcosa al figlio della donna, ma non ha mai visto nemmeno lui dunque non ha la più pallida idea di come cavarsela. Ma poi il lettore s’imbatte nella missiva successiva e resta a occhi aperti, folgorato dalla visione del genio messo alla prova dalle seccantissime incombenze del quotidiano: «Signora, avevo ordinato per lei questi fiori e sono disperato perché le arrivano in un giorno in cui, contro ogni mia previsione, sto così male che vorrei chiederle un po’ di silenzio per domani, sabato. Ora, questa mia preghiera non aveva nessuna relazione con i fiori, e fa perdere loro tutto il profumo di omaggio disinteressato disseminandoli di sgradevoli spine, cosicché preferisco non chiederle nessun silenzio». Povero, meraviglioso Marcel.

(Marcel Proust, Lettere alla vicina, Traduzione di Francesco Bergamasco, Archinto, pag 77, euro 14,00)

“Mad Max – Fury Road” di George Miller

Sono passati quarantacinque anni dalla fine della civiltà. Il mondo è ridotto a un cumulo di macerie radioattive in cui bande di uomini sempre meno umani si contendono le poche risorse che sono rimaste. Max Rockatansky prima era un poliziotto. Ha perso tutto quello che aveva ed è perseguitato dai fantasmi delle persone che amava e che è convinto di non essere stato in grado di proteggere. Adesso vaga per le Terre Desolate sulla sua Interceptor in una solitudine totale. Quando viene rapito da un gruppo di predoni tinti di bianco diventa una riserva umana di sangue per i Figli della Guerra di Immortan Joe, signore della Cittadella che custodisce un’immensa riserva d’acqua, il bene più prezioso dell’umanità. Uno dei luogotenenti di Joe, però, l’Imperatrice Furiosa, sta preparando un piano per portargli via tutto quello che il signore ha di più caro: le sue giovani e bellissime mogli. Nella fuga di Furiosa e delle ragazze finisce coinvolto anche Max che si ritrova a doverle aiutare a raggiungere il remoto Luogo Verde in cui sperano di essere al sicuro da Joe e di poter avviare una nuova società.

Sono passati trent’anni dall’uscita nelle sale di Mad Max – Oltre la sfera del tuono, terzo capitolo – e fino a quel momento ultimo – della saga ideata dall’australiano George Miller nel 1979 e inaugurata con il suo esordio Interceptor. La trilogia di Mad Max ha avuto un impatto nell’immaginario degli ultimi trentacinque anni di fondamentale importanza. Praticamente, il cinema post-apocalittico per come lo concepiamo oggi è nato con l’intuizione di Miller, con l’invenzione del futuro medievale, della riduzione dell’umanità in tribù, delle lotte spietate e continue per le riserve di carburante. In questi trent’anni tra l’ultimo film e Mad Max – Fury Road sono successe tante cose, fuori dallo schermo. George Miller si è lasciato un po’ conquistare da Hollywood e ha fatto film ben diversi come Le streghe di Eastwick Babe va in città. Nel 2006 ha vinto il suo primo e unico Oscar: per il cartone Happy Feet.

Il ritorno a Mad Max, però, continuava a ronzargli in testa e dopo un paio di tentativi andati male (nel 2001 per problemi economici, nel 2007 logistici), Miller è riuscito a raccogliere centocinquanta milioni di dollari (il primo film era costato in tutto più o meno duecentomila dollari) e a lanciarsi sulla strada del ritorno.

Mad Max – Fury Road non è un seguito della saga, non è un rifacimento, è quello che oggi si chiama re-boot. Praticamente la storia riparte da capo e si svolge in maniera diversa. Mad Max non è più quel Mel Gibson che aveva contribuito a rendere il personaggio immortale. Adesso tocca a Tom Hardy dare una fisicità e una fragilità maggiore al tormentato Rockatansky. È diverso da Gibson, è bravo come sempre, ma la recitazione è secondaria. Mad Max – Fury Road è due ore di pura e continua azione. C’è una prima mezz’ora in cui non c’è un attimo di pace tra auto lanciate a tutta velocità e inseguimenti polverosi.

Per il  suo ritorno al cinema action, Miller ha deciso di puntare tutto sulla spettacolarità e c’è riuscito in pieno. Questo Fury Road è un capolavoro, un succedersi continuo di momenti frenetici, di velocità e rumore. C’è sempre il rumore a invadere il suono: il rombo dei motori, la musica metal che suonano i Figli della guerra di Immortan Joe per caricarsi, le esplosioni e i tamburi. E c’è sempre il movimento, sempre la corsa, la fuga da qualcosa e verso qualcosa. Se si sommano i dialoghi di tutti i centoventi minuti di film verranno fuori sì e no venticinque minuti, ma il copione è di importanza secondaria. Fissata la trama, fissato lo stile della narrazione attraverso una quantità imprecisata di storyboard che Miller consegnava a tutti i membri del cast e della troupe per preparare le scene, bastano poche parole tipo «Nella Terra Desolata sfuggo i vivi e i morti» o «Qui tutto fa soffrire» per costruire i dettagli dei personaggi.

Il settantenne Miller è riuscito a realizzare il miglior film d’azione degli ultimi anni affidandosi a tutto il mestiere dell’età e tornando a quell’artigianalità degli esordi. Gli effetti digitali sono ridotti al minimo, si dice che l’ottanta per cento degli effetti speciali – inseguimenti a tutta velocità, lanciafiamme, esplosioni – che si vedono siano reali. Certo, rispetto a Interceptor i mezzi sono molto più grandi, sono state realizzati più di duecento veicoli capaci di andare oltre i duecento all’ora con le loro carrozzerie modificate e gli stunt fanno delle acrobazie incredibili.

Dietro al piano del puro spettacolo, comunque, si muovono alcuni elementi ulteriori di livello più alto. Più che Max, la vera protagonista di Fury Road è Furiosa, interpretata da Charlize Theron. Nel mondo maschilista e spietato di Immortan Joe è lei a guidare la riscossa delle donne sottomesse, è lei a cercare di tornare a quella tribù di sole donne guerriere in cui era cresciuta prima di essere portata via. C’è una considerazione sul ruolo della donna nella società, il rifiuto dell’oggettivizzazione e della sessualizzazione, nonché sul fanatismo e sulla vocazione al martirio per la gloria.

Con tutti i rischi che poteva correre, George Miller ha deciso di prendersi il suo tempo per tornare alla saga che gli aveva dato la celebrità. In trent’anni c’è stato tanto cinema debitore di Mad MaxAdesso, Fury Road arriva a fissare un altro punto di riferimento per il cinema d’azione.

(Mad Max – Fury Road, di George Miller, 2015, azione, 114’)

“Guida per catturare le lucciole in tempo di guerra”
di Klaus Cabitza

Guida per catturare le lucciole in tempo di guerra_Klaus Cabitza_flaneri.com

 

Sono passati esattamente vent’anni dalla morte di Klaus Cabitza – avvenuta la notte del 19 maggio 1995, in circostanze tragiche, ancora da chiarire– eppure il ricordo di chi l’ha conosciuto di persona, ma anche quello dei suoi famelici lettori, è vivo come la ferita per una scomparsa, la sua, tanto prematura quanto, ahinoi, annunciata. Poeta selvaggio, fine narratore, pianista magnifico, pittore eccelso. In una parola: genio.

Per i pochi che non lo conoscessero, Klaus Cabitza era nato il 25 agosto del 1951 nel piccolo paese di Vila do Porto, capoluogo dell’isola di Santa Maria, arcipelago della Azzorre, da padre sardo e madre livornese. A tredici anni si era poi trasferito con la famiglia a Livorno, dove aveva intrapreso gli studi presso il celebre Istituto di musica Pietro Mascagni.

Studi che però aveva abbandonato dopo soli due anni per dedicarsi interamente alla scrittura, la sua vera passione. Prima come poeta – ciò che disse Ungaretti di Santi nascosti (Ciampi, 1968), la sua prima silloge, è cosa nota a tutti; e chi non ricorda alcuni dei suoi versi più celebri: «Dov’è la Vita? / Dove la Luce? / Non più voce né lacrime / usciranno dal mio ventre / affinché il mio corpo possa essere / un’ara spoglia e senza fiori» –, poi come sublime prosatore – il suo capolavoro è, senza dubbio, Seduto su lapidi tagliate dal vento (Garzanti, 1981) –, infine come acuto osservatore di «un tempo che tarda a finire» – Saggi insani (Imprimitatur, 1999) è il titolo della raccolta postuma di tutti i suoi articoli apparsi sull’Avanti! tra il 1982 e il 1986.

E proprio in occasione del ventennale della morte di Cabitza, la casa editrice toscana Federico Calafuri Editore porta nuovamente in libreria il suo romanzo d’esordio, Guida per catturare le lucciole in tempo di guerra, pubblicato per la prima volta nel 1975, a spese dell’autore presso la piccola tipografia Arcimboldo di Piombino. Una manciata di pagine – poco più di centoventi –, di una bellezza che genera aritmie, racchiudono la storia di Nedo, giovane pescatore dell’isola di Capraia, che una notte di settembre si trova a dover fronteggiare, insieme a un gruppetto di pastori sardi, l’avanzata di un distaccamento di nazi-fascisti, sbarcati dal mare per conquistare una dopo l’altra, le piccole isole dell’Arcipelago Toscano. La storia si svolge nell’arco di una nottata; la natura, incomoda spettatrice della brutalità umana, è descritta con un lirismo preso in prestito dalla poesia e si capisce sin dalle prime pagine quanto abbia contato, per questo autore, essere stato prima di tutto un grande poeta – sono numerosi del resto gli scrittori nati poeti, da Roberto Bolaño a Luigi Ippolitini, a Rogerio Vagner, a Jorge Luis Borges, per citarne solo alcuni.

Centoventi pagine circa, dicevamo, in cui sono raccolti, quasi si trattasse di un grappolo di pregiata uva passerina, tutti i temi cruciali che saranno sviluppati nella prosa successiva di Cabitza: dal senso di smarrimento perenne all’esibizionismo sfrenato e compulsivo, dal difficile rapporto con alcol e droga, alla perdita definitiva dell’istinto di sopravvivenza.

Molto si è detto in questi anni e molto si dirà ancora di questo scrittore – tralasciando, per quanto possibile, l’episodio della sua morte –, l’unico forse della sua generazione in grado di rimanere un apolide fino alla fine, pagando con la vita la propria ostinata vitalità – sorte simile forse è toccata all’amico Pier Paolo Pasolini.

Personalmente, ogni volta che penso a lui, mi limito a ripetere, nemmeno troppo a bassa voce, il suo celebre motto: «Poesia, poesia, nient’altro che poesia!», quasi si trattasse di un monito idrofobo contro gli ignavi e i codardi, o, meglio ancora, di un incitamento rabbioso e divampante per le generazioni a venire, in cui Cabitza tanto credeva.

“Un paese ci vuole” dei DiMartino

Dopo l’album d’esordio Cara maestra abbiamo perso (2010), il successo di Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile (2012) e l’elettronico Non vengo più mamma (2013), ecco la quarta fatica dei Dimartino, gruppo ormai sempre più cantautorale formato dal palermitano Antonio Di Martino, ex voce dei Famelika e bassista degli Omosumo; ad accompagnarlo c’è sempre Giusto Correnti alla batteria, percussioni e cori (anche lui ex Famelika) e Angelo Trabace al pianoforte e al synth.

Se in Cara maestra abbiamo perso il cantautore esplorava la tematica della sconfitta generazionale, mentre in Non vengo più mamma era il turno dell’eutanasia, in Un paese ci vuole ci parla dell’attaccamento alle origini: «gente che è andata via con il freddo negli occhi, e i figli della nuova Europa, scappati dopo la maturità, ritornano per le vacanze. E non vanno più via».

Il tema cardine di Un paese ci vuole, questa idea di dover (ri)partire dalle origini, dal Paese, si insinua in Di Martino durante un suo viaggio nello stato di Oaxaca, in Messico, paese in cui il cantautore ha ritrovato il calore e la triste felicità della sua Sicilia. Da qui la voglia e la necessità di riappropriarsi del proprio paese e della sua storia e, con la complicità dei racconti del nonno, uno dei quali compare nell’undicesimo brano, “A passo d’uomo”, è nato questo concept album.

Il titolo, invece, è un omaggio ad un passaggio del romanzo La Luna e i Falò, di Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Le sonorità sono ricche, ma rispetto ai lavori precedenti sono più orientate ad una dimensione cantautorale, dove si percepisce meno il “gruppo”, cosa che invece accadeva volutamente in Sarebbe bello non lasciarsi mai (…), dando più spazio, appunto, al cantautore, con qualche sfaccettatura a tratti gospel. C’è un uso maggiore del pianoforte, con ingressi strategici di fiati, archi e synth, chitarre elettro-acustiche, che mantengono quasi sempre un’atmosfera di rilassata consapevolezza, rassicurante; tempi medi che si alternano a ballate appassionate, verso il finale troviamo una minore varietà di arrangiamenti, ma senza sfociare in ripetitività. Le melodie sono pregevoli, spensierate, ma non banali. Le liriche colme di minuziose descrizioni atte a dipingere al meglio l’attaccamento a questa benefica realtà di paese.

Registrato interamente in un casolare nella campagna siciliana, nei pressi di Misilmeri, con la collaborazione di Francesco Vitaliti, l’album è poi stato prodotto e mixato a Milano da Antonio “Cooper” Cupertino e Fabio Rizzo.

Se già nei precedenti album comparivano collaborazioni di un certo spessore (Le Luci della Centrale Elettrica, Cesare Basile, Giovanni Gulino, per citarne alcuni), in questa quarta fatica Di Martino ha due ospiti d’eccezione; Francesco Bianconi (Baustelle), con cui ha scritto a quattro mani il bellissimo brano “Una storia del mare”, e Cristina Donà ne “I calendari”, traccia conclusiva.

Il primo brano “Come una guerra la primavera”, singolo di lancio dell’album, ci porta in volo sopra e dentro il Paese, raccontando particolari e dipingendo piccole fotografie di vita paesana, sopra il continuo saliscendi del pianoforte di Trabace: «due ragazzi su una panchina, scivolati da una cometa, dai mattoni di una provincia costruiscono un’altra vita. C’è tuo figlio che sta correndo, come un dito sul mappamondo, in un cortile di sogni belli, sotto una pioggia senza gli ombrelli. Semplicemente arriva qualcosa che prima non c’era. Come una guerra arriva la primavera».

La bella “Niente da dichiarare”, con i suoi archi che le sue tastiere, “La vita nuova”, piano e chitarra, e “Da cielo a cielo” raccontano di gente che
prova a scappare o se ne è andata, che ha visto il mondo, ma che non riesce a non tornare.

La delicata “Una storia al mare”, scritta e cantata con Francesco Bianconi dei Baustelle, racconta di un amore estivo che dura il tempo di una vacanza, tra descrizioni surreali e senza tempo («case a strapiombo sull’acqua, frammenti di vetro, coralli e conchiglie, sul molo c’è un cane che abbaia ad Ulisse e a quello che resta della civiltà»), e una melodia che inizia piano, con una tastiera, presto arricchita dagli archi, per poi dare spazio anche a chitarra e batteria, crescendo, ma mantenendosi calma. «C’è una ragazza di Roma che arriva ogni anno, porta un cappello di paglia, si fida di me, ma poi l’inverno la porta lontano».

“La foresta” è un brano strumentale, unico ad allontanarsi dall’atmosfera soft dell’album, misterioso come lo sono le “Case Stregate” («stregate da storie d’amore violente»), altro pezzo con descrizioni a tratti surreali e un arrangiamento a dire il vero non troppo originale, o vario.

Ne “L’isola che c’è”, uno dei brani meglio riusciti dell’album, sopra una rete di chitarre acustiche cui si aggiungono archi, fiati e tastiere, Di Martino cuce una tela di ritagli di vita di paese. Ne nasce una tenue esaltazione della nostalgica felicità della vita di Paese e della sua complementare semplicità. «Nei pensieri di una balena che si è persa cercando un po’ di felicità, lontano dalla città, sembrava davvero incredibile e invece era così facile».

Una condizione di felicità che porta quindi a quegli stati di beatitudine di cui parla in “Stati di grazia”, che ci prendono all’improvviso, come «un vento nelle strade tra i palazzi».

Il decimo brano è la struggente ballata “Le montagne”, in cui il cantautore parla dei ragazzi che si allontanano dalle protettive montagne per andare in città, ma conservandone la nostalgia, che puntualmente ritorna. «Le montagne ti seguiranno, sui piatti bianchi di una cena, o nei rumori di una metropolitana. Lidia ascoltale mentre lavori, o mentre fai l’amore, e parli con qualcuno di me, e dici la solita frase: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene».

L’album si chiude in coppia con Cristina Donà con la malinconica “I calendari”, altra ballata con sonorità delicate che parla di addii e partenze, ma con il sapore del ritorno: «e sembra che non finisca mai settembre».

Al loro quarto lavoro, forse più un tentativo di transizione verso una carriera maggiormente orientata al cantautorato, i DiMartino ci consegnano un concept album di tutto rispetto in cui la ricchezza delle sonorità fa da contorno alle liriche elegiache e rassicuranti di chi ha riscoperto e riaffermato le proprie origini.

“Biografia di un albero”
di Hernán Ronsino

«Come si fa, allora, a raccontare un albero?»

Lo si può fare disegnandone il tronco, due linee parallele, e la morbida fronda a forma di nuvola in dissolvenza sul vetro di un finestrino appannato mentre trascorre il paesaggio sullo sfondo.

Come si fa, allora, a scriverne la biografia?

Lo si fa partendo dalle radici. Da un luogo. Chivilcoy, cittadina della pampa argentina in provincia di Buenos Aires.

Il giovane scrittore argentino Hernán Ronsino è qui che torna nel suo quarto lavoro, Biografia di un albero (Gran-vía, 2015), dopo la raccolta di racconti Te vomitaré de mi boca (2003) e i romanzi La descomposición (2007) e Glaxo (Meridiano Zero, 2013).

Ricostruire le proprie radici è quello che tenta di fare l’autore aggirandosi nei luoghi della sua infanzia, trascorrendo nello spazio e nel tempo in un gioco vorticoso e lucido di rimandi fra passato e presente, fra memoria collettiva e memoria individuale, fra storia e mitologia.

I ricordi si profilano fervidi nei brevi e istantanei lampi della memoria, un piede davanti l’altro, persino a volte a ritroso. La città in cui visse un tempo, chi era allora, le vie percorse in su e in giù ritornano come la brina mattutina su cui batte la luce del sole, un sole «che cade a picco bruciando i campi, scaldando i tetti di zinco, facendo ribollire le condutture dell’acqua».

«Ogni pezzo di muro di questa città si porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia».

Questa frase, ascoltata in un documentario, si imprime, come il calco di un fossile su una roccia viva, nella mente del narratore, Federico Souzá, uno sceneggiatore di 53 anni, tornato per tre giorni, dal 2 al 4 marzo 2002, a Chivilcoy a causa della morte improvvisa e violenta di un amico di famiglia, Fernando Lernù, detto ‘Pajarito’, ‘uccellino’. Il padre di Federico, detto il Vecchio, come un’ombra fatta della consistenza dei silenzi e dei non detti, guida il figlio in questo suo nostos che è anche una ricerca del significato da dare alla curiosa eredità lasciata da Pajarito, una mucca.

 

Federico riscopre così un microcosmo in desolante disfacimento, specchio di un’intera nazione. Le sue carcasse sono come laiche rovine, reliquie di un passato che fu. La vegetazione incolta avanza selvaggia divorando e coprendo ogni traccia di antico splendore.

Storia e memoria, sebbene a volte confuse, sono due cose da tenere ben distinte, ma inevitabilmente episodi apparentemente insignificanti rimandano ai piccoli momenti fondativi della storia locale, alimentati da miti e leggende.

E le leggende, sebbene talvolta contengano qualche verità, più spesso sfiorano la menzogna e deformano la realtà.

Così una ricorrenza letta su un giornale, l’omicidio il 3 marzo del 1910 del poeta modernista Carlos Ortiz, fa riapparire le figure della professoressa Ravignani e del bidello Elvio Mangusi. E a questo ricordo personale segue la ricostruzione della genesi del film La sombra del pasado, girato da Ignacio Tankel con attori locali lì a Chivilcoy nel 1946 e incentrato sull’assassinio del poeta sodale di Rubén Darío e Leopoldo Lugones. Coautore del film, insieme a Tankel, fu Julio Cortázar, nel romanzo Julio Denis, in un intreccio di rimandi letterari dissimulati.

Paesaggi perduti, case perdute, persone perdute (Pajarito, Areco, il ciclista Carlos Luna e il suo singolare record, etc.) nutrono un sentimento di nostalgia di un sé altrettanto perduto. Provocano smarrimento e un senso di estraneità dal proprio io di oggi: «Non c’è bisogno che mi presenti. Sono lì, in un vecchio televisore fissato sulla porta principale di La Perla a parlare di me, di quello che faccio. Sono abituato a vedermi nella fissità di una foto, nel riflesso, breve, di uno specchio. Perciò mi colpisce vedere il mio volto in movimento; la bocca che si storce in modo strano, un modo normale per chi mi vede tutti i giorni, Hélène per esempio. Perché questa serie di gesti, che tutti vedono, che è parte di me, mi rende estraneo, diverso».

«Voglio raccontare la biografia di un albero», dice la fidanzata di Federico, una fotografa, una cacciatrice, anche lei come Ronsino, di istantanee.

«Come si fa, allora, a raccontare un albero?»

Lo si fa ricordando perché «ricordare è costruire un sentiero che, a forza di insistere, rimane, impresso nella terra».

Lo si fa come ha fatto Ronsino scoprendosi, in questo suo romanzo dal forte lirismo creato da piccoli periodi significanti capaci di dischiudere immagini nella mente e dare ritmo all’intera struttura, esorcista dell’oblio per il tramite della scrittura.

(Hernán Ronsino, Biografia di un albero, trad. di Stefania Marinoni, gran vía, 2015, pp. 280, euro 16)

“Il racconto dei racconti”
di Matteo Garrone

In un mondo diverso, tre regni e tre famiglie reali sono sconvolte dalle loro ossessioni. Nel regno di Selvascura la regina è disperata perché non riesce ad avere un figlio. Su suggerimento di un mago, il re affronta un drago marino per strappargli il cuore da dare in pasto alla moglie. Muore nella battaglia, ma la donna ha il cuore e con esso il figlio tanto atteso. Ma il neonato non è solo: ha un gemello da madre diversa a cui è legato da un legame più forte di quello che lo stringe alla madre. Nel regno di Roccaforte, il re è abituato a qualsiasi tipo di piacere sessuale. Un giorno sente una donna cantare nei vicoli del villaggio e subito se ne innamora. Ignora che si tratti di una vecchia che, con l’aiuto della sorella, riesce a ingannarlo e ad andare a letto con lui. Scoperto l’inganno, il re la fa gettare dalla finestra e la vecchia rinasce come una bellissima giovane. Nel regno di Altomonte, il sovrano alleva una pulce fino a farla diventare grande come un maiale. Quando l’animale muore decide di dare in sposa la propria figlia a chiunque sarà in grado di indovinare a chi appartenga l’enorme pelle che ha fatto asportare dall’insetto.

Ha avuto un coraggio enorme Matteo Garrone a lanciarsi in un’impresa come Il racconto dei racconti. I suoi due film precedenti, Gomorra Reality, gli avevano garantito un certo credito internazionale (per entrambi era arrivato il Gran Premio della giuria a Cannes, oltre a una raffica di altri premi) ma allo stesso tempo avevano contribuito a definire un’idea precisa del suo cinema, legata a un’adesione alla realtà che si limitava a contaminarsi di elementi fuori registro, tra la fiaba e il grottesco. C’erano degli elementi favolistici già in L’imbalsamatore, c’è un’ossessione per i corpi “speciali” che attraversa il cinema di Garrone, un’attenzione alle magrezze (Primo amore) o al grasso o a qualsiasi deviazione dalla normalità, ma sono sempre rimasti in secondo piano. Con il suo nuovo film ha deciso per lo strappo netto e totale rispetto al suo cinema abituale e ha deciso di lanciarsi in un esperimento che in Italia sa quasi di follia. 

Prima di tutto, è andato a recuperare un testo del ’600, Il racconto dei racconti di Giambattista Basile, anzi, Lo cunto de li Cunti, visto che la sua versione originale è in dialetto napoletano (o lingua). È un testo amato da pensatori importanti come Croce e Calvino, che ha lasciato un’impronta molto più profonda nell’immaginario fiabesco mondiale di quello che la tradizione gli riconosca in maniera esplicita (anche i Grimm hanno preso da Basile), ma che ai più è praticamente sconosciuto. Eppure ha deciso di partire da lì, da tre delle cinquanta novelle che compongono questo Pentamerone, e soprattutto ha deciso che a interpretarle sarebbe stato un cast internazionale e che il film sarebbe stato in lingua inglese.

Attori internazionali (Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly, Stacy Martin, ma anche Alba Rohrwacher e a sorpresa Massimo Ceccherini), ma cast tecnico italiano, che è un’altra scelta coraggiosa. Perché a parte Peter Suschitzky, già direttore della fotografia per Cronenberg, e il premio Oscar Alexandre Desplat, che aveva già realizzato la colonna sonore di Reality, che fanno un lavoro enorme, l’apparato scenico è affidato ai costumi di Massimo Cantini Perrini, alle scenografie di Dimitri Capuani, agli effetti speciali guidati da Leonardo Cruciano, che insieme hanno creato un mondo fantastico sorprendente, aiutato dalle location scoperte o riscoperte su e giù per l’Italia. In qualche modo, Garrone e i suoi hanno fatto col nostro paese quello che aveva fatto Peter Jackson con la Nuova Zelanda, offrendola nuova ed evocativa alla telecamera.

Il coraggio più grande, però, Garrone lo ha dimostrato scegliendo di misurarsi con un film di genere, e per di più di un genere che a oggi in Italia sembra irrealizzabile come il fantasy. Come è ovvio, Il racconto dei racconti non ha tutti gli stilemi del moderno cinema fantastico, manca la dimensione dell’eroe, del duello, l’azione e via discorrendo. Del resto, a Garrone non interessava infilarsi del tutto in un genere ma realizzare il suo film con la sua precisa idea di cinema, come è giusto per il grande autore che continua a dimostrare di essere, ma rimane comunque il confronto con tutto quello che il genere impone. Il regista ha dichiarato più volte che Il trono di spade ha costituito un modello ideale. Si vede, in alcuni momenti, ma si vede anche l’esperienza di pittore di Garrone, l’influenza dei Capricci di Goya e di quello di fantastico che il cinema italiano ha saputo offrire negli anni: Fellini, Pasolini, il Pinocchio di Comencini, ma anche l’orrore di Mario Bava.

Il racconto dei racconti è il momento filmico in cui si esplicita pienamente il fascino che la fiaba ha sempre esercitato su Garrone. Sublimato in elementi simbolici nei suoi film precedenti, qui il fiabesco si esprime in tutta la sua evidenza. Dietro ai racconti si muovono gli archetipi della narrazione allegorica. Il racconto dei racconti si sofferma su tre momenti diversi dell’essere donna e sulle relative ossessioni: quella della maternità per la regina di Selvascura, quella del matrimonio per la principessa di Altomonte, quella della giovinezza per la vecchia di Roccaforte. Davanti ci sono orchi, maghi, streghe, gemelli albini, pipistrelli giganti, draghi marini, funamboli e mangiatori di fuoco. Garrone, con una maestria che si può tranquillamente definire artigiana per il coraggio, ancora, di mantenere il suo film a un livello materiale, preferendo l’effetto empirico alla post produzione digitale, riesce a muovere insieme i due livelli e a fare un grande spettacolo.

(Il racconto dei racconti, di Matteo Garrone, 2015, fantastico, 128’)

“In altre parole”
di Jhumpa Lahiri

Se ci si aspettava un prodotto letterario della stessa disinvoltura dei suoi romanzi precedenti, leggendo In altre parole (Guanda, 2015) le impressioni non corrisponderanno alle attese. L’ultimo lavoro di Jhumpa Lahiri è una ricerca meticolosa, sofferta, un lavoro che in alcuni punti ha un che di militaresco. Raccogliendo in un volume una serie di post usciti su Internazionale, la scrittrice anglofona ha voluto raccontare il suo rapporto con l’italiano, una lingua imparata coscienziosamente, da adulta, con la determinazione che si riserva alle scelte personali prese per il desiderio di oltrepassare un proprio limite. Scegliendo di allontanarsi dall’inglese, la lingua di espressione più spontanea e conosciuta, Jhumpa Lahiri fa un salto rischioso, e ne illustra le ragioni ai lettori con una logica che si dipana progressivamente, capitolo dopo capitolo, convincendoci che l’adozione di un nuovo mezzo di espressione fosse una necessità ineluttabile.

Nel suo manuale d’amore per l’italiano l’autrice racconta i suoi sentimenti di persona deterritorializzata, alla quale mancano una lingua, un luogo in cui identificarsi: «I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. […] Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio».

Il bengalese, simbolo della prima infanzia, è la lingua degli affetti, dell’espressione orale, che rimane circoscritta allo spazio domestico e al rapporto con i genitori, talvolta con i figli. L’inglese, che padroneggia perfettamente e sul quale ha costruito la sua fama di scrittrice, è l’altra lingua della sua vita: quella con cui scrivere, quella per pensare. Tuttavia, il rapporto con entrambe è reso problematico dalla coscienza che l’inglese e il bengalese sono lingue imposte, legate al passato e al presente della sua storia familiare.

In questo conflitto si colloca l’italiano, una zona franca per questa romanziera apolide: uno spazio in cui dare forma ai suoi pensieri con il supporto di una struttura linguistica unica, che sente sua proprio perché, sebbene culturalmente e genealogicamente distante, rappresenta una scelta ponderata. Se inglese e bengalese sono metafora di naufragio, l’italiano è un approdo rassicurante perché ben calcolato. La relazione con questa nuova lingua non è facile: Jhumpa Lahiri deve dosare, addomesticare le parole con regole grammaticali e sintattiche che ha bisogno di imparare una per una, che perentorie rallentano il suo percorso di stesura di pensieri. Eppure non demorde. Sbaglia, si informa tra gli amici italofoni, legge libri sulla morfologia dell’italiano per poi scoprire che certe regole non vengono rispettate neppure in letteratura, rilegge i testi con varie persone, ognuna delle quali ha un consiglio su come migliorare un aggettivo, alleggerire un periodo, dare più spontaneità ai brani.

Eppure, il risultato è riuscitissimo. Una riflessione sulla lingua che coinvolge la sfera emozionale, sentimentale e appassionata come poche, una confessione intima che si serve dell’italiano con educazione, con la manualità accorta che si riserva alle cose preziose. Jhumpa Lahiri riesce a rendere l’italiano estremamente suo, ne fa un mezzo espressivo personale per raccontarsi e gli conferisce una peculiarità che porta ad apprezzare la scelta di ogni termine, dietro il quale è evidente l’attento lavoro di selezione. Servendosi di una lingua che è andata a cercare, che non le è mai appartenuta, l’autrice stabilisce un livello di intimità con i lettori che con l’inglese non sarebbe stato possibile: scrivendo in italiano, infatti, la sua consapevolezza idiomatica non sarà mai totale, e in quella dose di incoscienza risiede la delicatezza del testo, scritto con netta disciplina ma a cuore aperto. Il suo italiano sincero fa trasparire le sue fragilità di artista, e l’antologia, così come è concepita, racconta la sua persona molto meglio di quanto possa fare un romanzo, che permette di mimetizzarsi dietro e dentro i personaggi, evitando un confronto diretto con il pubblico.

 

(Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, 2015, pp. 156, euro 14)

Leggi anche l’intervista a Jhumpa Lahiri

“Leviathan”
di Andrej Zvjagincev

In una piccola città vicino al mare di Barents, nella regione nord-occidentale della Russia, vive il meccanico Kolya con la sua seconda moglie Lilya e il figlio del primo matrimonio Roma. La famiglia di Kolya vive lì da sempre, in una casa-bottega che si affaccia sul mare, ma l’equilibrio domestico è minacciato dalle pretese del sindaco Vadim che vuole per sé la terra su cui sorge la casa. C’è stato un contenzioso finito per vie legali e la corte d’appello ha riconosciuto il diritto del sindaco di prendere la terra dietro il pagamento di un corrispettivo molto basso, 350mila rubli (più o meno diecimila euro). Aiutato dall’amico Dimitri, conosciuto sotto le armi e nel frattempo diventato un importante avvocato a Mosca, Kolya cerca di ottenere ragione al di fuori della legge, ricattando Vadim con una serie di documenti che dimostrano la sua corruzione. Solo che il ricatto non va come Kolya sperava.

È un regista molto amato dai festival internazionali, Andrej Zvjagincev. Nel 2003, con il suo film d’esordio Il ritorno ha vinto il Leone d’oro a Venezia. Nel 2007 Izgnanie, il suo secondo film, ha portato il premio per il migliore attore di Cannes al protagonista Konstantin Lavronenko. Nel 2011 Elena si è aggiudicato il premio speciale della giuria della sezione Un Certain Regard di Cannes. Con Leviathan, il suo ultimo lavoro presentato ancora a Cannes nella passata edizione, è arrivato il premio per la miglior sceneggiatura della Croisette, il Golden Globe per il miglior film straniero e una nomination all’Oscar per il miglior film straniero.

Non ha avuto vita facile in patria, Leviathan. In un primo momento è stato bloccato dalla censura russa perché ritenuto apertamente anti-Putin. L’uscita delle sale è arrivata solo in un secondo momento. Zvjagincev si è ispirato alla storia vera di un saldatore del Colorado che si è visto portare via la terra dagli interessi industriali intorno a lui, ma è chiaro che tutto, ogni cosa, in Leviathan ha un forte valore simbolico, sin dal titolo. Nella tradizione biblica, il Leviatano è un mostro marino nato per volontà di Dio. Nel Libro di Giobbe viene definito «il re su tutte le bestie più superbe», e proprio il libro di Giobbe è una ispirazione costante che attraversa tutto Leviathan, spogliata da ogni connotazione religiosa, ma solo come racconto del dolore dell’innocente, di Kolya nuovo Giobbe chiamato a sopportare ogni tipo di abuso. Il Leviatano, però, è anche il titolo dell’opera del giusnaturalista Thomas Hobbes dedicata al potere dello stato che deve essere assoluto sopra ogni cosa, e come simbolo per rappresentarlo Hobbes aveva scelto proprio il mostro biblico.

Il film di Zvjagincev è senza dubbio un film sul potere. Un film contro il potere che strappa libertà e dignità agli uomini semplici. È chiaro, nel momento storico-politico della Russia di oggi (o piuttosto degli ultimi quindici, vent’anni) un simile discorso va a colpire direttamente chi il potere lo incarna, l’uomo con l’autorità più alta, e quindi Putin. Zvjagincev non fa niente per nascondere il suo obiettivo. Lascia che i suoi personaggi si esercitino con il tiro a segno contro i ritratti dei vecchi uomini di stato russi, lascia anche che si lamentino che non ci sia niente di più recente da colpire. Vadim, che incarna tutta la corruzione immaginabile per un uomo di stato, ha il ritratto di Putin alle sue spalle in ufficio, a indicargli la direzione. Il potere del singolo perde completamente di vista l’altro per essere espressione dell’interesse personale più crudo.

Il Leviatano è simbolo duplice ma unico. Non è solo il mostro marino, esterno al mondo degli uomini ma capace di distruggerlo, o il sovrano assoluto, che invece il mondo degli uomini deve reggerlo, non è l’uno o l’altro a intermittenza, è entrambi in ogni momento. Il potere devasta, non costruisce, toglie, non dà. Dio non è da nessuna parte, non c’è nessuna autorità al di sopra degli uomini. Negli spazi immensi del mare di Barents il dolore di Kolya e della sua famiglia viene lasciato galleggiare nelle pozze di acqua stagnante, tra scheletri immensi di balena e relitti di barche. La chiesa è vicina al potere, lo consiglia e si sottrae per non sapere al di fuori del vincolo della confessione. È un paesaggio di desolata solitudine umana.

La casa di Kolya è una piccola isola di speranza in mezzo a tutto questo. Zvjagincev la accarezza con la telecamera, ce la fa conoscere in ogni centimetro, ce la fa sentire come nostra. Annegato nei litri di vodka che manda giù, Kolya vede la sua piccola vita strappata un pezzo alla volta da Vadim e lo spettatore sta lì con lui. A Giobbe alla fine Dio rende tutto quello che ha tolto. A Kolya non va altrettanto. bene.

(Leviathan, Andrej Zvjagincev, 2014, drammatico, 140’)