“Edipo Re”
della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

La compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa è nata dall’incontro di Marco Isidori con l’attrice-docente Maria Luisa Abate nel 1983, a Torino, ed è stata ufficialmente fondata nel 1984 da Marco Isidori, Daniela Dal Cin, Maria Luisa Abate e Sabina Abate, a cui successivamente si aggiungono Lauretta Dal Cin e Ferdinando D’Agata. Dopo quattro anni di assenza dai palcoscenici capitolini torna a Roma per presentare un sorprendente Edipo Re, realizzato in coproduzione con la Fondazione del Teatro Stabile di Torino.

Nella traduzione del regista Marco Isidori le suggestioni della scrittura sofoclea vengono ibridate e disciplinate, così come nella trasposizione scenica, a quelle hölderliniane dell’Edipo il Tiranno. Dichiara, infatti, Isidori: «Hölderlin, insieme naturalmente con la profonda maestria sofoclea, è il mentore della versione marcidoriana della tragedia in questione: non ci siamo serviti direttamente della traduzione che Hölderlin fece del capolavoro sofocleo, però, anche se assai discosta da questa, la nostra “riscrittura” dell’Edipo è stata spiritualmente influenzata dall’esito del gigantesco lavoro di sonda che il poeta tedesco ha dedicato all’originale dettato greco». E ancora: «Abbiamo sottoposto il testo a una sorta di aratura tragediografica che ne riducesse l’apparato mitologico e permettesse la germinazione spontanea di una struttura verbal/letteraria iperaccentuata su un versante di sbilanciamenti continui e intenzionalmente provocati, pervenendo così ad un amalgama sonoro vorticante, che soprattutto andrà ad interessare la parte corale dell’esperimento in atto, servendo in questa maniera la nostra concezione fortemente fonematica del processo di comunicazione teatrale».

Protagonista la scenografia di Daniela Dal Cin che è valsa a questa produzione la candidatura al Premio Ubu 2012. Una sorta di ziqqurat attrezzato con passaggi segreti, botole, piattaforme e troni semoventi, che si fondono con geometrica perfezione con le coreografie curate al millimetro che gli attori eseguono rendendo viva la scena e fondendosi, viceversa, con essa. La peste tebana sembra contagiare anche lo spettatore attraverso l’impressione virulenta che fa la pittura primitiva che ricopre le pareti della macchina teatrale, la morte e il deserto dell’anima garriscono al vento fin dall’inizio nella rappresentazione degli animali morti esposti come bandiere attorno alla piattaforma, e bastano pochi oggetti per far emergere dal coro Tiresia, Creonte, il Servo e il Messaggero, rispettando la tradizione che vuole il corpo sociale greco inserito di diritto nelle vicende mitico-politiche della città stato.

Nel giudizio sull’operazione dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa non c’è via di mezzo: o la si odia o la si ama. Perfettamente coerente con le promesse registiche, la messa in scena improntata allo studio fonetico del testo, lascia all’inizio spiazzati e costringe a un doppio livello di ascolto, per gustare la musicalità del verso e per ricavarne il senso, presupponendo, quindi, la conoscenza della vicenda sofoclea da parte di un pubblico che si vuole colto e avvezzo alle intemperanze del teatro non convenzionale. Lo spettatore non partecipa emotivamente al dramma del sovrano inviso agli dei, piuttosto, nella condizione della Giocasta ingabbiata in pesanti e metalliche ali di farfalla, non è posto nella condizione di elevarsi al di sopra dell’ingombrante significante.

 

 

Edipo Re
Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
Drammaturgia e regia: Marco Isidori
Scenario e costumi: Daniela Dal Cin
Con Marco Isidori, Lauretta Dal Cin, Maria Luisa Abate, Paolo Oricco, Stefano Re, Valentina Battistone, Virginia Mossi

“Academy Street”
di Mary Costello

Siamo tentati spesso a credere che la finzione racchiuda l’impossibile.

Gli spasmi urticanti di lotte epocali, lo straordinario in scatola. Pensiamo che il verosimile ci riscatti dal vero, che rifonda i nostri sbadigli, che elettrizzi la barba delle nostre pantofole.

Ma più leggiamo, più dobbiamo smentirci. Sfatare l’azzardo, l’impropria pretesa di enormità. Perché la letteratura è solo un imbuto, dove a colare non sono soltanto i supereroi, i pugni fotonici o i prodigi del crimine. La bottiglia straripa di ossa comuni. E sono quelle ossa a vibrare per noi, spalmate dell’eco dei nostri scheletri. Sono loro che ci confermano al centro, quello tronfio e minuscolo degli esseri umani.

Qualcuno la chiama la “narrativa dei mediocri”, ma da Gončarov a Musil, da Svevo a Futabatei, ci vuole poco a capire che trafiggere la carne dei banali non è certo scontato.

A dimostrarcelo, se ancora ce ne fosse bisogno, c’è il romanzo d’esordio di Mary Costello.

In Academy Street (Bollati Boringhieri, 2015) non si susseguono omicidi criptati. Lì ci vive Tess, protagonista inconfutabile della sua medietà. A sette anni è già orfana, sua madre s’impolvera nel letto, sequestrata da una tosse maligna che la porta lontano. Oltre le colline, oltre il bianco del cielo macchiato. E la sua vita s’incurva. Verso il silenzio di una casa tombale, dove anche la radio è rumore proibito. Ci sono troppi fratelli e troppe poche favole per ciascuno di loro. A Tess non resta che espatriare, fuori da Easterfield, dai frassini, dal vento, da quel gomitolo d’Irlanda che non sa più accarezzarla.

A New York diventa infermiera come sua madre e s’innamora in fretta, così tanto da farsi scalfire, da lasciare scoperto un grembo indifeso. Perfetto per riempirsi di un figlio. Il padre non è niente, la sua pelle è lunga solo una notte e Tess è sola con le sue gambe ingrossate, il fiato che striscia, col destino cucito sulla sua ombra. Sola con Theo. Non è una madre eroica, non riscuote il suo pegno di gratitudine eterna. Continua ad essere grigia, marginale, ignorata, anche dall’unico frutto che ha saputo concedersi.

Il palco non fa per lei. «In tutta la vita non aveva mai mostrato nemmeno un grammo di coraggio. Si era sempre accontentata di un tacito consenso per tutte le cose che aveva fatto, come se fosse stata priva di determinazione, come se il padre, la madre o addirittura Dio in persona si fossero permanentemente installati dietro alle sue spalle per guidare i suoi pensieri e le sue azioni. E quando non otteneva l’approvazione che desiderava, o aveva la sensazione che non venisse esternata adeguatamente, si ritirava in una posizione di quieta passività. Più di tutto, il terrore le annebbiava i sensi, in una totale paralisi dell’anima». Il suo personaggio è tutto impugnato in questa manciata. Tess è una pavida fedele alle sconfitte, perché le somigliano, perché sono il cibo con cui è stata svezzata e Mary Costello intreccia abilmente elementi familiari a frange d’invenzione, per restituire il senso imperante di una continua impotenza, di una fragilità calpestata a cui nessuno chiede perdono.

Ed è questo il merito maggiore di Academy Street, tracciare un perimetro d’aria e di luce per gli sciami indistinti di creature di cera, per tutti quelli che non possono permettersi neanche il lusso del fango.

Per l’esercito molle dei non pervenuti. Per quelli che non scalciano negli abissi, che non hanno in sorte turbinose avventure di miseria o poesia. Per tutti quelli che si sbracciano nel mezzo.

Tess non è il proletario Stavro di Kyra Kyralina, o lo scrittore dilaniato dal digiuno di Fame. Tess è un soffio sull’asfalto, non meriterebbe fari puntati, nessuno si accorge di lei, la famiglia muore o la dimentica e l’unica parola più soffice sgorga dalle labbra della sua vicina di Academy Street, un’afroamericana acclive al sudore, alla fatica già scritta accanto al suo nome. Tess è una comparsa lieve, un’abitudine anonima contrappuntata dal lutto e compatibile con ogni tipo di rinuncia, soprattutto all’amore, a tutto quello che può staccarla dallo sfondo.

A farlo però ci pensa la grazia assoluta di questa scrittura: bisbigliata, discreta e puntuale.

Un occhio acuto sull’ovvietà di questa esistenza che si staglia per sterminate altre. Molti hanno comparato Academy Street a Stoner di John Williams, clamoroso caso di riscoperta editoriale e di passa parola.

Anche il suo protagonista è un perfetto mediocre, un ministro dell’insulso, uno scialbo professore meravigliosamente “antinarrativo”. Eppure, come nel caso di Mary Costello, è l’autore a tracciare il solco, a disseppellire quella bellezza muta, insospettabile. E a regalarle la ribalta. Lei, a differenza del sontuoso spessore di Williams, lo fa con un tocco obliquo, con una delicatezza che è dono e risposta solo di una certa femminilità. Non aspettatevi di cadere della sedia mentre leggete. Ma di apprezzare ogni istante in cui resterete lì.

(Mary Costello, Academy Street, trad. di Maya Guidieri Berner, Bollati Boringhieri, 2015, pp. 184, euro 16)

“I dirimpettai”
di Fabio Viola

I dirimpettai sono «esseri privi di difetti fisici che si muovono tra stanze invisibili arredate con gusto». Sembrano «appena partoriti da un dio pagano». Sono cinici e bellissimi, non mangiano carboidrati, solo verdure crude, bevono estratti e tracannano alcol ogni volta che possono, ma con stile. Hanno un enorme televisore su cui guardano i programmi di Real Time per prendere in giro gli obesi che provano a dimagrire. Hanno una palestra personale per essere in forma sempre, e una cameriera che sopporta tutto e che continuano a schiavizzare.

I dirimpettai sono due, sono omosessuali, uno è più anziano, più maschio, è un pezzo grosso della Rai, anche se non si capisce mai cosa fa. È stato sposato, ha un figlio che vede poco e che ama in maniera esclusiva, una sorella cretina vittima di ogni nuova moda new age con marito gretto e figlia cresciuta male. L’altro dirimpettaio è giovane, più gay nell’aspetto e nei modi, è stato preso come protetto dall’anziano, viene trattato male, non sa bene cosa fare della propria vita. Aggiorna Facebook e Twitter in continuazione. Si propone come autore di programmi ma viene preso in giro. Il compagno minaccia di mandarlo a La7, che è come minacciare di morte.

Dei dirimpettai noi lettori sappiamo tutto, solo che non sappiamo chi sia, il dirimpettaio, quello dall’altra parte, quella mano che si vede appoggiata alla balaustra nella copertina del nuovo romanzo di Fabio Viola pubblicato da Baldini & Castoldi, entrato nella selezione dei ventisei titoli candidati al Premio Strega 2015. È un osservatore invisibile quello che racconta la storia dei due dirimpettai – chiamati sempre così, i dirimpettai – un occhio sempre presente che si insinua oltre le finestre, che sente tutto, che arriva in ogni stanza.

L’appartamento dei dirimpettai è un po’ il Panopticon di Bentham, sempre spiato in ogni angolo da uno spettatore/guardiano invisibile, un po’ il set di una sit-com che non va in onda su nessun canale. Del resto, c’è un set fisso formato da pochi ambienti che ritornano, senza esterni, se non i balconi, proprio come in televisione, ci sono le battute fulminanti e anche i personaggi sono gestiti e costruiti come se fossero i protagonisti di uno spettacolo tv: c’è il cast fisso – la coppia –, i recurring characters – la sorella e la sua famiglia, le due domestiche – e le guest star, personaggi reali e celebri che “interpretano” una versione simbolica di loro stessi, un’estremizzazione dei caratteri pubblici dei personaggi della post-realtà, «quasi veri, condensatori di fantasmi», come li definisce Viola in apertura riprendendo Walter Siti. Così, c’è l’ex sindaco Gianni, depresso dopo la sconfitta alle elezioni contro uno che sembra «un prete cinese». C’è il giornalista Corrado Augias che va avanti a citazioni e confonde Gramsci con Mussolini.

La Roma che si intuisce al di fuori del lussuoso appartamento è una Roma Nord necessaria come luogo simbolo del potere, non solo televisivo. Perché Fabio Viola con la sua sit-com letteraria riflette attraverso la lente della satira aggressiva sulle possibilità della manipolazione del reale a opera del potere, sulla costruzione di realtà consolatorie che la televisione opera ogni giorno per mascherare il vuoto delle vite (anche di chi la fa, la televisione, come i due dirimpettai), piena di programmi inutili fatti apposta per far sentire migliori gli spettatori che non hanno niente di cui parlare tra di loro e preferiscono «compatire quegli storpi perché non essendo deformi come loro ci sentiamo privilegiati e ci viene voglia di comprare cose».

La secolare dialettica tra essere e apparire ha trovato ormai da anni un nuovo elemento di confronto nell’ostentazione, resa sempre più semplice e diffusa dalle nuove frontiere della comunicazione digitale. I pranzi fotografati per Instagram, le serate in discoteca che finiscono su Facebook, i check-in virtuali non appena si entra in un locale, le opinioni esposte a ogni ora su Twitter sono sguardi costanti gettati sulle vite degli altri. Lo spettatore invisibile di Viola osserva la vita dei dirimpettai come se il loro appartamento fosse la bacheca del loro perenne social network, li spia con voyeuristica determinazione non solo come se si trattasse di personaggi di una sit-com ma come se fossero suoi amici virtuali, contatti in un elenco di contatti.

Con ironia feroce, Fabio Viola spia la vita dei dirimpettai come se fossero i protagonisti di una sit-com o di un reality show, come se il loro appartamento fosse un unico set o palcoscenico virtuale su cui ostentare il nulla. E il lettore gli va dietro, come lo spettatore che manda giù compulsivo le puntate di uno show, una dietro l’altra.

(Fabio Viola, I dirimpettai, Baldini & Castoldi, 2015, pp. 191, euro 16)

“The Gunman”
di Pierre Morel

Congo, 2006. Il paese è dilaniato dagli scontri tribali esasperati dagli interessi minerari internazionali. Jim Terrier fa parte di una squadra che si occupa di garantire la sicurezza delle organizzazioni non governative attive nell’assistenza alla popolazione locale. Non è il suo unico compito. Jim e i suoi colleghi sono anche degli assassini pagati dai grandi gruppi minerari. Jim è stanco di questa doppia vita, vuole cambiare con Annie, la sua ragazza che serve come medico volontario in una ONG. L’ultimo incarico di Jim, però, lo costringe a lasciare l’Africa e ad abbandonare Annie senza dirle niente. Otto anni più tardi, Jim ha cambiato vita, cerca il riscatto scavando pozzi in Congo. Un giorno tre sicari cercano di ucciderlo e capisce che il suo passato è tornato a cercarlo.

The Gunman avrebbe in sé una serie di elementi per essere un film di fortissimo impatto sul pubblico. C’è un romanzo importante a fornire il soggetto, Posizione di tiro (Einaudi), del padre del noir alla francese, che già era diventato un film con Alain Delon e Catherine Deneuve nel 1982 (titolo Il bersaglio). C’è una casa di produzione, la Silver Pictures, famosa per aver contribuito a creare alcune tra le più famose e celebrate saghe di azione degli ultimi anni, roba tipo Arma LetaleDie Hard Matrix. C’è un regista, Pierre Morel, che dopo l’esordio del 2004, diventato in fretta oggetto di culto, con Banlieu 13 ha diretto uno dei più grandi e inattesi successi degli ultimi anni, quel Taken con Liam Neeson che in Italia è stato distribuito come Io vi troverò. C’è un cast che vanta gente come Javier Bardem, Idris Elba, Ray Winstone, l’italiana Jasmine Trinca e soprattutto Sean Penn, con i suoi due Oscar e tutta la reputazione di grande attore a garantire la qualità del progetto.

Eppure, The Gunman non funziona e forse la colpa, o il limite, più grande sta proprio in Sean Penn, che non si accontenta di recitare ma partecipa alla sceneggiatura e soprattutto produce. È probabilmente per questo suo triplo ruolo che il film assume da subito una chiara connotazione politica contro le multinazionali che sfruttano le infinite risorse africane e fomentano le guerre per mantenere il caos tribale. Del resto, Sean Penn è noto da sempre per le sue idee vicine all’area più liberal dello scacchiere politico statunitense, e il messaggio che vuole mandare è semplice: sono peggio gli assassini in giacca e cravatta di quelli col fucile in mano. Terrier, tormentato dall’ultima missione che lo ha portato via dal Congo e da Annie (e che non a caso aveva il nome in codice “Calvario”), è in perenne ricerca di riscatto morale ed espia la colpa dedicandosi davvero alla cooperazione allo sviluppo. È stato lui a premere materialmente il grilletto e questo lo tormenta. Il suo passato lo perseguita a tal punto da essere diventato una malattia, letteralmente, che gli causa delle crisi neuronali. I suoi mandanti, invece, hanno indossato i completi eleganti, hanno messo su uffici lussuosi e sono andati avanti, senza nessuno scrupolo.

Quindi, Jim è buono, anche se di fatto è un assassino, gli altri sono cattivi. Posta questa tesi semplice semplice, The Gunman fatica a costruire una struttura narrativa unitaria e tesa e si complica in viaggi e complotti, si contraddice e dimentica i suoi stessi passaggi. Per dire, la malattia di Jim appare quando fa più comodo per creare – anzi, per provare a creare – tensione e suspence.

Per la parte di pura e semplice azione, Morel fa il suo, ci sono un paio di combattimenti che si fanno apprezzare, ma con Sean Penn non è riuscita quell’operazione che ha consacrato Liam Neeson come nuova stella del cinema action degli ultimi anni. Questo Terrier tormentato non ha l’ironia necessaria per essere memorabile. Nel suo primo ruolo da duro armi in mano, Penn fa il minimo indispensabile, nonostante sia un progetto che come detto lo coinvolge a più livelli. Più che Neeson o Bruce Willis, per fare un altro esempio classico, sembra lo Stallone dei Mercenari, con le sue vene esplose e il bicipite sempre in mostra (anche il fatto che sia praticamente sempre senza maglietta è abbastanza ridicola come cosa). Javier Bardem, che tante volte ha già interpretato cattivi e personaggi ambigui, qui si limita alla macchietta dell’alcolizzato con tanto di barcollamenti e frasi sbiascicate. Jasmine Trinca è stata fortemente voluta da Sean Penn che l’aveva vista e apprezzata in Miele di Valeria Golino. Alla sua prima prova in lingua inglese, contesa da Penn e Bardem che se la litigano, se la cava abbastanza.

(The Gunman, di Pierre Morel, 2015, azione, 115’)

“La meccanica dei ruoli”
di Alice Malerba

Ada e Cosmo sono i protagonisti de La meccanica dei ruoli (CartaCanta, 2014), primo romanzo della giovane scrittrice Alice Malerba, già finalista al premio Carver 2013 con la sua raccolta di racconti Mea culpa (CartaCarta, 2011).

Ada e Cosmo sono gemelli, eppure non potrebbero essere più diversi. Sia fisicamente: lei unica e morbida testimonianza dei tratti somatici del padre mai conosciuto, lui versione al maschile della candida bellezza della madre. Sia caratterialmente: lei fragile, insicura, costretta e affezionata a un modello di vita legato a valori tradizionali, lui energico e ribelle, alla ricerca di un posto nel mondo che possa sentire veramente suo. Ada poi vive da sola a Torino e ogni giorno fa visita alla madre nella casa di cura in cui è ricoverata; Cosmo invece si è trasferito negli Stati Uniti, dall’altra parte del mondo, più per fuggire da una realtà troppo stretta che per il buon lavoro che comunque ha trovato.

Seppur così distanti come individui, Ada e Cosmo, cresciuti insieme a Torino dalla severissima nonna siciliana, che aveva in cura loro e la figlia affetta da disturbi psichici, hanno dovuto imparare a essere una coppia indistruttibile: si sono sempre bastati e completati compensando vicendevoli mancanze ed eccessi. O almeno così è sempre stato, prima che la loro strada comune si biforcasse. La pressoché simultanea decisone infatti di Cosmo di trasferirsi in America, della nonna di tornare al suo lontano paese natale in Sicilia e della madre di accettare il ricovero in clinica, rompe il collaudato equilibrio familiare e fa emergere in Ada una soffice e nuova sensazione di vuoto, soffice come un puntaspilli e nuova come un segreto smascherato.

Il romanzo racconta il tentativo di Ada di ripristinare, o meglio, di costruire un nuovo equilibrio con le nuove condizioni; il tutto si svolge nel tempo di un viaggio in macchina da Torino a Noto e ritorno per andare a celebrare il funerale della nonna. Ada costringe il fratello ad affrontare tale impresa per indagare le ragioni più profonde della sua fuga all’estero, per ottenere risposte ai dubbi assillanti, per provare sollievo nella conferma della tenacia del loro rapporto. E alla fine del viaggio alcune verità taciute verranno svelate e come ghiaccio al sole si scioglieranno i sentimenti che i due fratelli faticano a liberare a causa di quel silenzioso conflitto che serve a tenerli legati nonostante tutto. Il terzo protagonista del romanzo è proprio questo conflitto muto eppur così rumoroso che si gonfia e si ritrae continuamente a seconda degli umori di Ada e Cosmo. La forza de La meccanica dei ruoli, titolo davvero brillante, sta proprio nella percezione così chiara di una voce muta. Il romanzo infatti è scritto astutamente in seconda persona: è Ada che parla, che si rivolge al fratello, che spiega così ogni suo gesto, ogni sua parola o grido e ogni suo lucido o disperato silenzio. In questo modo il lettore può sentire l’energia del conflitto in atto e Ada se ne può liberare nel suo viaggio verso la serenità.

(Alice Malerba, La meccanica dei ruoli, CartaCanta editore, 2014, pp. 174, 13 euro)

“Citizenfour” di Laura Poitras

Nel gennaio del 2013 la documentarista statunitense Laura Poitras riceve una mail criptata da un mittente sconosciuto. L’anonimo si firma Citizenfour e sostiene di essere in possesso di informazioni esclusive sulle intercettazioni illegali ai danni di cittadini comuni compiute dalla National Security Agency (NSA) per conto del governo degli Stati Uniti. Poitras e Citizenfour si scambiano un po’ di mail, poi si accordano per incontrarsi all’hotel Mira di Hong Kong, dove Citizenfour è rifugiato in un esilio volontario e di sicurezza. Agli incontri prende parte anche Glenn Greenwald, giornalista investigativo del Guardian che era già stato contattato da Citizenfour nel 2011, e il reporter esperto in materia di intelligence Ewan MacAskill.

Citizenfour è Edward Snowden, l’addetto informatico che ha sconvolto gli Stati Uniti e il mondo intero rivelando le pratiche illegali dell’NSA, e dei governi conniventi, per raccogliere informazioni sul più ampio numero possibile di cittadini americani e del mondo attraverso un sistema di controllo delle telefonate, delle comunicazioni mail, delle ricerche internet. Nel 2013 Snowden aveva ventinove anni, lavorava come addetto ai sistemi per la Booze Allen Hamilton, una società di tecnologie digitali collegata all’NSA, nella loro sede alle Hawaii. In precedenza aveva già ricoperto incarichi informatici per la CIA. Snowden svolgeva il suo lavoro venendo in contatto ogni giorno con una mole di informazioni al di là della classificazione top secret del governo degli Stati Uniti. Aveva accesso privilegiato a tutte le risorse che voleva per fare il suo lavoro. È proprio per questo, per l’aver avuto ogni giorno davanti agli occhi gigabyte su gigabyte di informazioni esclusive dell’NSA che Snowden a un certo punto ha capito che non poteva più fare quello che stava facendo. Non si trattava di sorvegliare potenziali minacce alla popolazione statunitense: lo scopo dell’agenzia era diventato quello di monitorare tutti i flussi di comunicazione sul territorio americano. Così, un giorno che la sua fidanzata era fuori, ha preso tutto quello che poteva raccogliere, ha lasciato un biglietto in cui diceva solo che doveva partire per lavoro, ed è sparito dalla circolazione. Dalla Booze Allen Hamilton era riuscito a ottenere un congedo per malattia. In qualche modo è riuscito ad arrivare a Hong Kong e da lì è entrato in contatto con Laura Poitras.

Citizenfour non è la ricostruzione per il cinema della storia di Snowden:  è la storia di Snowden. Tutto quello che viene mostrato, le rivelazioni, le interviste, i dialoghi, stanno accadendo in quel momento. L’identità di Edward Snowden si rivela per la prima volta sullo schermo, noi vediamo Snowden nella sua camera di albergo mentre prepara la videointervista che consegnerà la sua immagine di bravo ragazzo (faccia pulita, occhiali, aria timida) al mondo. Noi vediamo Snowden guardare sé stesso in televisione, guardare i telegiornali che parlano di lui. Più che un documentario, Citizenfour è un documento, la prova di un momento incredibile e inquietante della storia della sicurezza della più grande potenza del mondo e del suo rapporto con gli altri governi e le loro popolazioni. Perché l’NSAgate, come poi è stato chiamato, coinvolge anche il Brasile, il Regno Unito, ha portato a un’indagine diretta da parte del Parlamento europeo, ha smosso il governo tedesco. Insomma, è una rete che coinvolge tutto il mondo.

Laura Poitras è stata scelta da Edward Snowden per i suoi lavori precedenti. Citizenfour arriva come momento conclusivo di una trilogia ideale sulle paranoie e le ossessioni per la sicurezza negli Stati Uniti nel dopo undici settembre che era iniziata con My Country My Country del 2006 e proseguita con The Oath nel 2010. Proprio per questi due lavori, Poitras era già tenuta sotto controllo dalle autorità statunitensi al punto da essere stata inserita nella lista degli osservati speciali del dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti dopo aver completato My Country My country. Con Citizenfour, Poitras è riuscita ad andare oltre la forma pura e semplice del documentario e a impreziosire la narrazione cinematografica con elementi di fiction, presi dal thriller e dallo spionaggio, inseriti con intelligenza nel montaggio delle immagini. C’è tensione quando Snowden stacca il telefono della stanza del Mira e spiega ai giornalisti che potrebbero essere intercettati via cavo, che si può fare con i telefoni moderni, e subito dopo l’allarme antincendio comincia a suonare. C’è un’ironia rassegnata in Snowden, uomo semplice che ha deciso di parlare rischiando la vita, distruggendosi la vita, perché era stanco di vedere scorrere sul suo monitor le immagini dei droni statunitensi che spiano vite qualunque, quando si prepara a uscire dall’albergo per la prima volta in quasi dieci giorni.

Fa riflettere tanto, Citizenfour, e fa arrabbiare. «Quelle che un tempo chiamavamo autonomia e libertà sono diventate “diritto alla privacy”, e comunque vengono calpestate ogni giorno», lo dice Jacob Applebaum, un hacker coinvolto anche nell’altra grande rivelazione di documenti riservati, Wikileaks.

Oggi Edward Snowden ha ottenuto asilo a Mosca, dopo aver dovuto lasciare Hong Kong per una richiesta di estradizione da parte di Washington. Negli Stati Uniti c’è un mandato di cattura ad attenderlo. Nella parte finale di Citizenfour, Poitras e Greenwald vanno a trovarlo in Russia. Sono loro adesso a dargli informazioni su quello che ha reso possibile, sono loro, adesso a comunicare con lui solo per scritto, su pezzi di carta che poi vengono strappati, anche se sono lì, uno di fronte all’altro. Adesso è Snowden a non credere a quello che gli dicono, a guardargli stupito, ad alzare lo sguardo e a guardare in camera come a chiedere una conferma allo spettatore, a tutti noi.

(Citizenfour, di Laura Poitras, 2014, documentario, 112’)

Bellezza che è meraviglia più terrore

Riemergo in questi giorni da una lettura intensiva di Amelia Rosselli e come dopo ogni volta con un grande poeta, attraversato con un pezzetto di maturità in più, mi trovo in mano questa specie di cubo di Rubik irrisolvibile, l’enigma che ogni poeta è, e che Amelia sembra essere all’ennesima potenza: la sua esperienza biografica irripetibile, la condizione di estrema mobilità, gli incontri e le frequentazioni (Pasolini, il cugino Moravia, Bazlen) il labirinto delle lingue, la presenza ossessiva di un passato per lei privato e per tutti gli altri collettivo, dato che come noto il padre e lo zio furono assassinati nel 1937 in Francia per mano di sicari fascisti.

Ciò che rimane naturalmente è l’opera: assillo, ossessione, ma anche leggerezza e libera azione nei confronti della realtà. Stupiscono per pudore le molte (alcune bellissime) poesie d’amore, che descrivono un idillio sempre incrinato, praticamente impossibile, un amore infelice che è tale per autodeterminazione, sembrerebbe, una scrittura in cui prima arriva forte l’emozione, e dopo le parole organizzano un balbettio per spiegare-interpretare, tornando fatalmente a se stesse:

Se per l’ansia che avevo di te perdevo il portafogli
ad ogni angolo della strada; se per il male che mi ero
procacciata da me dalle tue braccia invisibile ad ogni
angolo della strada mi ero procacciata da me l’infelicità
di saperti lontano da me; se per la mia scontentezza e
generosità fallita io stendevo nella notte lunghi fili
di ragno alla tua porta (portone chiuso senza speranza
salvo per una trovata che non poteva sorgere dal mio cervello)
se per il tuo pudore e per la mia impazienza perdevo tutti
i rulli del controllo; se per le mie incertezze nel mezzo
di una ironia dolce e racchiusa io cercavo te anche nella
notte degli altri: era per meglio riconoscerti nel turbamento
degli altri: cavalli sospesi in aria su della strada che
non continua.
[da Variazioni belliche]

La ripetizione di versi e formule interne ipnotizzano la mente costruendo geometrie ed evocando geografie impossibili, metà simbolo e metà sogno, tutte insieme realtà. Soprattutto l’arco dei tre libri maggiori (Variazioni belliche 1964, Serie ospedaliera 1969, Documento 1976) portano attraverso un’evoluzione oltre la maturità, a partire dallo strabordare di parole e forme enigmatiche del primo libro, che mettevano in imbarazzo buona parte dell’intelligenza letteraria coeva, quando cioè Vittorini e Bertolucci, dai due lati del Novecento, non sapendo decifrare l’ironia-angoscia-spasmo di quei versi usciti fuori dal nulla, chiedevano chiarificazioni ulteriori o cedevano alla tentazione di ricollegarla comunque e un po’ sommariamente alla nostra tradizione.

Amelia Rosselli è stata uno splendido enigma anche e soprattutto per chi l’ha vista comparire sulla ribalta poetica degli anni Sessanta a sballare a maggior ragione ogni residuo valore. È a immaginarla in quei suoi anni che viene voglia di leggerla oggi come l’Omero ironico e inquietante della nostra storia recente. Ironia e inquietudine, appunto. Una delle cose che colpiscono di più quando si viene a prendere aria dopo l’apnea rosselliana è l’assoluta incertezza di quale luogo si sia attraversato per lunghe pagine spesso schizzate dalle linee di tre o quattro versi: se il gioco di un’autentica inventrice di pastiches iperintellettuali, sentenze contraddittorie e fulminanti, o la testimonianza di qualcosa d’altro. E anche laddove si possa arrivare alla conclusione di aver assistito (meglio, partecipato) all’una e all’altra cosa insieme, non si può mai determinare dove fosse il confine, quale rapporto intrattenessero queste due grandi sfere. In alcuni dei suoi luoghi più nitidi, Rosselli è poetessa delle perturbazioni lucide, addirittura liete.

La stessa tensione si sente anche in quelle che io considero (non provocatoriamente) fra le pagine più appassionanti della nostra letteratura, ovvero il terribile “Storia di una malattia”, racconto, confessione, richiesta di aiuto, sospeso in maniera vertiginosa e irrisolta (irrisolvibile) tra finzione e realtà interiore, narrazione intesa nel senso di affabulazione necessaria alla riuscita della comunicazione, documento di un’oggettività che forse è riduttivo attribuire seccamente alla «circostanzialità paranoide». Si tratta, in poche parole, di un resoconto agghiacciante in cui l’autrice denuncia le vessazioni e le persecuzioni che le sono rivolte dalla Cia e dai servizi segreti italiani, in un crescendo di tensione che coinvolge il degenerare della sua salute. Il testo uscì su Nuovi Argomenti nel 1977.

«Da dove partano certi attacchi a volte resta un mistero, o un mezzo mistero; ne seguono ipotesi a dozzine, alcune probabili altre scartabili. Ma in questo caso (di cui intendo dare descrizione) fu un medico ad avere il coraggio d’accusare e specificare l’“origine del male”. Questo nel 1975; le “noie” duravano dal 1969, il male si fece specifico nel 1971, “la malattia” si fece acuta nel 1974 e peggiorarono le condizioni nel 1976-77. Poi vi fu un brusco calo della febbre.
La malattia era la Cia, il suo corrosivo o punto d’attacco il Sid o l’Ufficio Politico o ambedue. La cura fu lunga e costosa, e vi sono ricadute […]».

Impossibile definire precisamente cosa ci troviamo di fronte, e soprattutto impossibile sapere quale sia lo statuto narrativo delle pagine in questione, quanto cioè i modi della fiction, favoriscano questa disperata, paradossale, grottesca, allarmante non-fiction. Resta tuttavia il fatto che se decidiamo di leggere queste poche pagine a monte della vicenda biografica dell’autrice, ci troveremo davanti un racconto che rappresenta un unicum, se non un monstrum, bellezza che è meraviglia più terrore.

A quasi vent’anni dalla sua scomparsa (si suicidò nel 1996) le poesie di Amelia Rosselli, anche a scapito della notevole intelligenza e produzione critica che si è esercitata sul caso, rimangono una testimonianza aperta, un nodo concettuale e verbale che sicuramente assolve ancora all’esigenza di una lettura vergine, preconcetta, libera da ogni forma di eruditismo. E le molte poesie che hanno al centro la lingua, quelle che si potrebbero stralciare dallo strabordante Documento, che parlano dei versi in sé, sono forse la testimonianza estrema e più significativa della vita stessa come poesia.

La passione mi divorò giustamente
la passione mi divise fortemente
la passione mi ricondusse saggiamente
io saggiamente mi ricondussi

alla passione saggistica, principiante
nell’oscuro bosco d’un noioso
dovere, e la passione che bruciava

nel sedere a tavola con i grandi
senza passione o volendola dimenticare

io che bruciavo di passione
estinta la passione nel bruciare

io che bruciavo di dolore, nel
vedere la passione così estinta.
Estinguere la passione bramosa!
Distinguere la passione dal

verbo bramare la passione estinta
estinguere tutto quel che è

estinguere tutto ciò che rima
con è: estinguere me, la passione

la passione fortemente bruciante
che si estinse da sé.

Estinguere la passione del sé!
Estinguere il verso che rima
da sé estinguere perfino me

estinguere tutte le rime in
“e”: forse vinse la passione
estinguendo la rima in “e”.
[da Documento]

 

amelia-rosselli-flaneri.com

“Tutti gli altri” di Francesca Matteoni

Leggere Tutti gli altri (Tunué, 2014), esordio di Francesca Matteoni, non è cosa semplice. Sembra infatti che l’autrice abbia impegnato le proprie forze arzigogolando immagini e periodi che obbligano il lettore a leggere il testo più e più volte, prima di abbandonare le righe che ormai avrà imparato a memoria e procedere col resto, convincendosi che forse nemmeno la stessa Matteoni fosse consapevole del messaggio da comunicare. Ma procediamo con ordine e capiamo che cosa sia Tutti gli altri.

Sicuramente un oggetto narrativo non identificato – ma non rientra nella New Italian Epic dei Wu Ming! – al confine tra racconto e romanzo: è un testo che accorpa cronologicamente più racconti che hanno per protagonista una stessa persona, prima bambina e poi ragazza. Se non ci fosse costei, che organizza sentiti funerali ad animali ritrovati morti davanti a sé, che si innamora di tossicodipendenti, che litiga con le ex fidanzate dei suoi compagni, che va in giro per l’Europa da Pistoia a Londra passando per la Finlandia, potremmo dire di avere davanti una raccolta di racconti, complici anche i titoli dei capitoli. I racconti sono tutti legati, frammenti di memoria che afferiscono a un grande mosaico che è la vita della protagonista. Si può dunque parlare di romanzo? Forse sì, come suggerisce anche il nome della collana che lo ospita.

Tutti gli altri è il tentativo di una donna di ripercorrere le tappe della propria esistenza, quasi a volerne fare un bilancio. Tutto viene proiettato in una dimensione fiabesca, in cui ci si trova sempre sulla soglia, in uno stato liminare, in cui il sogno si confonde con la realtà e la realtà si fa ricordo, a tratti nitido, a tratti sfuggente. Ciò che muove tutti gli altri è la morte, grande burattinaia che detta inesorabilmente le leggi del cosmo, cui tutti sottostanno, volenti – come Daniele, suicida che ha pianificato la sua fine in ogni minimo dettaglio – o nolenti – come Angela, la pazza che ospitava i gatti randagi in casa propria.

Il motore che permette la prosecuzione della narrazione è il viaggio, che conduce la protagonista da una città all’altra, da un bosco all’altro: dovendo descrivere questo romanzo come un colore, il verde gli starebbe a pennello (perfetta da questo punto di vista la copertina!), perché spesso gli ambienti in cui personaggi e avvenimenti prendono forma sono prati, pinete, boschi, che evidenziano la necessità di fuga dall’ordinario alla ricerca di una realtà incontaminata in cui riflettere.

Ogni scena è caratterizzata da lunghe pause narrative, in cui il senso non procede e si aprono lunghe digressioni. In cui si annidano complicate elucubrazioni. Qualche esempio: «Ti scrivo da quest’ultimo mese, in cui ci si raccoglie. Si accoglie il freddo, si strizzano gli occhi nel sole di ghiaccio: il vento taglia le bocche, indurito contro il pensiero». È bene riflettere sul significato dell’ultima frase. Fa freddo, il vento è gelido e «taglia» (nel senso che ferisce) le bocche. E fin qui non ci sarebbero dubbi. Ma quell’«indurito contro il pensiero» cosa cela? Il vento è gelido e tagliente non per il freddo ma per i pensieri della gente? Oppure si fa duro, come una corazza, per non accogliere i pensieri?

Ancora: «Se potessimo rivoltare questi luoghi come si fa con l’animale ucciso, privandolo della pelle dopo che il sangue è stato raccolto e buttato, sapremmo il niente di queste montagne, l’interno dove non c’è spreco di parole, tumefatte, impietrite e tutt’al più rantolate in qualche bestia tumulata, sapremmo l’orrore di essere deserti, disertati da tutto ciò che ci ostiniamo a trattenere». Aldilà dell’immagine che per qualcuno potrebbe essere raccapricciante, si capisce che metaforicamente le montagne sono fatte di niente, nemmeno di voce, per non sprecarla. Il complemento di luogo figurato, poi, che funzione semantica ha? Le parole vengono «rantolate» nella carcassa di un animale? Oppure muoiono come l’animale tumulato?

Tuttavia vanno riconosciuti alla Matteoni una vivace fantasia e un buon vocabolario.

(Francesca Matteoni, Tutti gli altri, Tunué, 2014, pp. 103, euro 9,90)

“Le streghe son tornate”
di Álex De La Iglesia

Strano rapporto quello tra Álex De La Iglesia, regista basco con vent’anni di carriera alle spalle e una serie di titoli diventati veri e propri oggetti di culto, e il pubblico italiano. Nel 2010 Ballata dell’odio e dell’amore si aggiudicò il Leone d’argento per la regia, nell’anno della discussa vittoria di Somewhere di Sofia Coppola con la giuria presieduta dall’ex Quentin Tarantino, ma nelle sale italiano venne distribuito solo alla fine del 2012, con in mezzo due edizioni della Mostra di Venezia ad annacquare la memoria dello spettatore. Nel 2013 Marco Muller volle De La Iglesia a tutti i costi per il Festival Internazionale del Film di Roma. Venne organizzata una masterclass e la presentazione in anteprima fuori concorso del suo ultimo film, Las Brujas de Zugarramurdi. Quel film arriva nelle sale solo oggi, di nuovo a distanza di quasi due anni, con il titolo Le streghe son tornate.

Eppure lo stile eccessivo e grottesco di De La Iglesia, la sua capacità di contaminare generi con ironia, hanno portato più volte ad accostarlo, per quelle semplificazioni critiche e distributive che dovrebbero aiutare il pubblico nelle scelte, a registi di assoluto culto come Robert Rodriguez o il già menzionato Tarantino. Non è mai bastato per ottenere il giusto spazio nell’attenzione del pubblico italiano.

Le streghe son tornate parla effettivamente di streghe, ma ovviamente parla di tutt’altro. C’è una rapina, a inizio film, nella centralissima Puerta del Sol di Madrid. L’obiettivo è un Compro Oro che richiama clienti in continuazione. I rapinatori sono gli artisti di strada della piazza, le statue viventi, l‘uomo invisibile, un soldatino, Spongebob, Minnie. A guidarli un Gesù Cristo d’argento armato di fucile a pompa. Gesù in verità si chiama José e ha portato con sé il figlio di dieci anni perché da quando ha divorziato dalla moglie dispotica non riesce a vederlo quanto vorrebbe e non rinuncia al giorno insieme per la rapina. Il colpo non va del tutto bene, riescono a scappare solo Gesù/José, il figlio e il soldatino. Scappano in taxi, perché la macchina della banda è stata portata via dalla fidanzata del soldatino, hanno un bottino di venticinquemila fedi d’oro e la Francia come obiettivo. Per evitare le grandi strade devono passare per il paesino navarro di Zugarramurdi, la città delle streghe nel folklore locale. Sono inseguiti da due poliziotti non proprio svegli e dalla moglie di José che vuole recuperare il bambino. Ma il vero problema diventa quello che trovano ad aspettarli a Zugarramurdi.

Zugarramurdi è un paese che esiste davvero. Ha 233 abitanti, stando alla pagina Wikipedia, e un museo delle streghe. Nel medioevo vi si tenne uno dei più grossi processi della prima inquisizione spagnola che portò alla condanna alla tortura e a morte di una trentina di donne accusate di stregoneria. Il film di De La Iglesia non ha niente a che fare con quel processo. Le streghe son tornate parla di una stregoneria allegorica, una forma estremizzata di femminismo come rivendicazione del ruolo principale della donna in un mondo dominato dal mito maschile (per una volta la scelta del titolo italiano ci sta bene, ricollegandosi agli slogan delle marce femministe nelle piazze italiane degli anni Settanta).

Al centro c’è la contrapposizione tra mondo maschile e mondo femminile, con gli uomini mai cresciuti e deboli vittime che riescono a trovare la forza della ribellione alla dittatura femminile (solo domestica) coalizzandosi ed esaltandosi a vicenda, con il tassista rapito da José e soci che si unisce alla banda perché le donne gli hanno rovinato la vita e vuole scappare anche lui lontano. Dall’altro lato, le ultrafemministe diventate streghe eleggono Cosmopolitan (la rivista, non De Lillo) a loro testo sacro e il maschio a nemico di tutto ciò che è giusto, attendendo un Messia che sappia distruggere il mondo degli uomini.

De La Iglesia ha ritrovato in sceneggiatura Jorge Guerricaechevarría, già suo collaboratore in alcuni dei suoi film più riusciti (dall’esordio datato 1993 Azione Mutante alle due commedie grottesche di maggior successo, Crimen Perfecto La Comunidad). Le streghe son tornate ricorda quei film in cui l’incredibile si incrocia con la normalità e a prevalere è un’ironia grottesca che sovrasta i momenti di orrore o azione e dà una patina unica di incredibile sarcasmo. Vengono in mente due titoli: Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter e Dal tramonto all’alba di Rodriguez. De La Iglesia riesce nello stesso modo a far incontrare il magico alle persone meno adatte che riescono comunque a cavarsela con lo stesso pragmatismo distaccato con cui affrontano la vita.

A differenza di George Clooney o Kurt Russel nei due film citati, i protagonisti di Le streghe son tornate, i due rapinatori e il tassista, sono antieroi per eccellenza, senza alcuna virtù né malizia da uomo d’azione, pronti anzi alla fuga o a cadere in qualsiasi inganno del nemico femminile, eppure se la cavano sempre, di fronte a qualsiasi cosa, e di cose ce ne sono tante: mani e occhi che escono dai gabinetti, sabba con streghe transessuali, cannibalismi alla Hansel e Gretel, dentiere di ferro e giovani fattucchiere che si dissetano languide bevendo sangue umano direttamente da cuori strappati.

Nel 2014 Le streghe son tornate si è aggiudicato otto premi Goya, gli “Oscar” del cinema spagnolo. Sono arrivati soprattutto in categorie tecniche (trucco, costumi, effetti speciali), e non c’è da stupirsi: la Spagna è probabilmente l’unico paese europeo in grado oggi di fare cinema di genere (genere horror soprattutto) che sappia competere con i modelli statunitensi o giapponese e De La Iglesia è senza dubbio il regista che più di tutti gli altri sa come andare oltre il singolo genere per creare un linguaggio unico e d’impatto.

(Le streghe son tornate, di Álex De La Iglesia, 2013, commedia, 112’)

Frankie Chavez @Teatro Quirinetta,
16 APRILE 2015

Non importa in che epoca e in che luogo ci si trovi: rock e blues riescono sempre a toccare le corde primordiali dell’animo, a riportarne a galla le sensazioni più basilari e al tempo spesso più forti. Una chitarra fa vibrare parole di nostalgia, fuga, amore. Una batteria amplifica e dà la carica a ogni mood, scandendo l’incalzare inesorabile di un ritmo sempre più scatenato. La tradizione e il piacere semplice e puro della musica sono gli ingredienti che il portoghese Frankie Chavez mette nei suoi pezzi e che ha portato sul palco del Teatro Qurinetta, a Roma, nel live dello scorso 16 aprile. Una maratona non solo coinvolgente ma anche ben pensata dall’artista, che per spezzare la possibile ripetitività del genere ha ben alternato sul palco pezzi strumentali e intensi, dalle venature quasi psichedeliche, con altri più carichi di adrenalina, passando anche per alcuni grandi classici come “Dust My Broom” e “Sweet Home Chicago”, il tutto condito da un bell’intervento dell’artista italiano Roberto Angelini.

L’inizio del concerto è molto raccolto: Frankie abbraccia la chitarra classica e comincia a catturare l’attenzione con un assolo, ma il tempo per rimanere lì assorti dura poco. Viene subito raggiunto dalla batteria di Joao Correia e parte con due pezzi tra i più accattivanti e vivaci della sua discografia recente come “Psycothic Lover” e “Time Machine”. Poi un tuffo nelle radici con l’album del 2011 Family Tree, in particolare con la cover del già citato classico blues di Robert Johnson. E se il live prosegue con le suggestioni di evasione di “I don’t belong”, il viaggio musicale si concede presto una pausa distensiva nel folk e soprattutto nella celebrazione delle origini tanto artistiche quanto geografiche del cantante, con suggestiva chitarra portoghese sotto braccio.

Con “Nazaré”, pezzo dedicato all’omonima cittadina del Pase iberico, le sonorità di Chavez compiono un balzo rocambolesco riportandoci da immaginarie highways dell’entroterra USA alle coste del mediterraneo, con corde pizzicate quasi per ricordare la grazia e la bellezza di quella musica popolare comune anche al nostro background. “Sweet Life”, in compenso, è country allo stato puro e arriva a predisporre gli animi per la parte forse più onirica dello spettacolo. È a questo punto, infatti, che Fankie chiama sul palco Roberto Angelini, che di corde sa come farne vibrare, aggiungendo alla già malinconica “Truth can break a bone” sfumature ancora più avvolgenti e ipnotiche. Ma non disegna neppure un salto nella Storia del blues più divertente e divertito, con quell’ode alla città di Chicago che funziona sempre davvero in tutte le salse.

Sarebbe bello vederli duettare ancora un po’ ma non c’è tempo, perché dopo la parentesi con Angelini, Chavez spinge di nuovo sull’acceleratore per una vera e propria rincorsa di note, dalle sonorità più hard di “I’m Leaving” fino ad approdare in chiusura a due dei pezzi più ruggenti dell’album Heart & Spine, cioè la title track e l’infuocata “Fight”, il cui nome è tutto un programma.

Un saluto con l’argento vivo addosso, insomma, che lascia con la voglia di altro power rock & blues e l’impressione di aver ascoltato un artista forse non rivoluzionario, ma che sa come rendere giustizia a un genere sempre degno di venerazione.

La scaletta completa del concerto:

• Unknown Friends

• Psycothic Lover

• Time Machine

• I believe I’ll dust my broom

• Long Gone

• I don’t belong

• Old Habits

• Nazarè

• The Search

• Sweet Life

• Truth can break a bone

• Sweet Home Chicago

• I’m leaving

• December 21st 2012

• Dreams of a rebel

• Heart & Spine

• Fight

“Ballata per mia madre”
di Julián Hebert

Ballata per mia madre di Julián Herbert (gran vía, 2014) si presenta come un’autobiografia dell’autore, che al suo interno narra della morte della madre, stroncata dalla leucemia, delle fallimentari cure mediche ricevute dalla donna durante l’infruttuosa terapia per curarla, e della propria vita durante questo complesso e doloroso periodo. Attraverso flashback e ritorni al presente narrativo, l’autore ci fa conoscere la sua difficile infanzia: la madre che si prostituiva per mantenere i suoi numerosi figli, avuti da uomini differenti, la vita nelle zone più malfamate delle varie città in cui ha abitato e la vicinanza al mondo della criminalità e della droga.

Seguendo queste tematiche, Herbert si allontana dal filone della narrativa familiare degli ultimi anni, in cui la morte di un genitore diventa il fattore scatenante della stesura di un libro che disseziona meticolosamente il rapporto dell’autore con quel genitore, traendo le somme di una relazione conflittuale. Così facendo, al contempo, il libro sembra voler trattare di temi troppo diversi tra loro, al punto che non tutti gli episodi narrati appaiono relazionati con la storia principale e che la malattia della madre a tratti viene posta talmente in secondo piano da far domandare al lettore se tra una parte e l’altra del romanzo ci siano dei collegamenti, o se quello che si ha in mano sia piuttosto un’antologia di racconti quasi a sé stanti. In realtà, i continui cambiamenti di scena, di personaggi e di ambientazione del libro sembrano suggerire che, per quanto uno si allontani dalla propria casa e dalla propria famiglia (per ampio che possa essere il concetto di famiglia in questo libro), i legami di sangue e il sentimento di appartenenza avranno sempre la meglio.

Con la sua narrazione schietta e diretta e l’ampia varietà di registri che ci propone, il romanzo lancia forti critiche al Paese natio di Herbert, il Messico, come sempre fonte inesauribile di ispirazione per gli scrittori che, con i propri libri, intendono denunciare uno stato di cose impossibile da immaginare per chi vive al di fuori di un Paese che ci viene descritto in tutta la sua violenza, schiavo delle proprie contraddizioni. Con Ballata per mia madre, l’autore cerca di metterlo a nudo creando un parallelo con l’esperienza dell’agonia e della morte della madre che rispecchia piuttosto efficacemente il suo complesso rapporto con il Messico stesso: rancore e un sentimento molto vicino all’odio si uniscono in queste pagine a una dolcezza che non è smielata, ma molto realistica e intrisa di dolore e sofferenza.

(Julián Herbert, Ballata per mia madre, trad. di Maria Cristina Secci, gran vía, 2014, pp. 218, euro 14,50)

“L’ambasciata di Cambogia” di Zadie Smith

Verrebbe da pensare che L’ambasciata di Cambogia (Mondadori, 2015) sia un libro incompleto, in qualche modo. Lo spessore è sottile, quasi un opuscolo, e la storia della protagonista viene raccontata da una prospettiva che galleggia in superficie, senza troppo affondare, lasciando nel lettore curiosità irrisolte. Un po’ come osservare la realtà da una fessura: il campo visivo è limitato, parziale, e ruotando la propria posizione si arriva a cogliere un nuovo spicchio di spazio perdendo di vista l’angolo precedente.

Eppure, in quest’opera volutamente impalpabile, sfiorare le vicende senza davvero addentrarcisi è un atto di delineamento realistico per un romanzo sulla metropoli contemporanea. Vite che passano davanti, istantanee di quotidianità colte da una finestra aperta su un autobus in corsa, rumore di passi dei vicini al piano di sopra delle cui esistenze non intuiamo che dettagli slegati.

La storia di Fatou ci sfiora come quella di un passeggero che osserviamo di fronte a noi in metro: ascoltando una sua conversazione telefonica, concentrandoci sui particolari del suo viso, indovinandone altri sulla sua persona, non arriviamo comunque ad averne un’idea completa, e le incognite sulle possibili evoluzioni del suo destino aleggiano sul sedile vuoto dopo il suo congedo dall’umanità stipata dentro il vagone.

Zadie Smith distilla questa sensazione di ineffabilità in una metafora delicatissima: la traiettoria del volano del badminton osservabile al di sopra del muro di cinta dell’ambasciata di Cambogia. Ogni lunedì la giovane Fatou, domestica al servizio della famiglia Derawal, prima di sfruttare gli ingressi omaggio per la piscina dei propri datori di lavoro si incanta a osservare il movimento altalenante al di là della recinzione dell’ambasciata, situata per chissà quale ragione nel quartiere periferico londinese di Willesden, tra abitazioni modeste della periferia. Chi stia impugnando le racchette rimane un mistero, così come gli altri elementi dello spazio recintato, e resta solo il volano in sospensione a suggerire cosa avvenga oltre la parete.

Allo stesso modo su Fatou qualcosa sappiamo, ma non tutto. Sappiamo quello che pensa, quando si chiede se la sua condizione di lavoro sia eticamente accettabile, sappiamo che ama nuotare nella penombra e avere lunghe conversazioni con il suo amico Andrew, ma altri particolari ci sfuggono, minuzie necessarie a completare il suo personaggio, rendercelo familiare. Passato e futuro della protagonista, all’inizio come alla fine di questo romanzo, restano indefiniti. Eppure, nonostante la fugacità, l’incontro con Fatou lascia un gusto ottimista nel lettore, e lo convince a fare il tifo per una ragazza che incrocia per qualche ora, ma resta distante, e presto sparisce rituffandosi nella folla urbana.

 

(Zadie Smith, L’ambasciata di Cambogia, trad. di S. Pareschi, Mondadori, 2015, pp. 70, euro 10)